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di Mirco Elena
L’energia è indispensabile nelle società umane, che la usano in diverse forme: bruciando combustibili tradizionali, usando fonti rinnovabili (come quella idrica, il fotovoltaico, l’eolico, il geotermico) o sfruttando la scissione del nucleo atomico (ancora oggi uno dei massimi trionfi delle capacità scientifiche ed ingegneristiche umane). Tutte le diverse tecnologie energetiche presentano però sia vantaggi che svantaggi, e sta alla politica valutare le scelte migliori per ciascun Paese.
Da poco, il governo italiano ha deciso di tornare a puntare sui reattori nucleari per approvvigionare la nazione di elettricità, sebbene la popolazione, nei referendum del 1987 e del 2011, si fosse espressa in modo contrario, sull’onda della paura provocata dalle catastrofi di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011). Oggi si ripropone il nucleare dicendo che è assolutamente necessario e che saranno utilizzati nuovi «piccoli reattori modulari» (Small modular reactors, Smr). Il ministro Gilberto Pichetto Fratin e il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ottimisticamente sostengono che il nucleare abbasserà il costo delle bollette, eviterà i blackout, renderà il paese indipendente dall’estero e – infine – sarà pure «sostenibile».
Queste affermazioni, però, convincono poco. Al momento, gli Smr sono solo progetti, e nessuno ne produce. Pertanto, non si sa neppure quanto costerebbero. In mancanza di esemplari funzionanti, non si ha nemmeno idea di quanto sarebbero affidabili, cioè capaci di fornire elettricità con continuità. Da questi parametri dipende molto anche il costo dei chilowattora prodotti. Le speranze negli Smr ricordano parecchio l’entusiasmo con cui – vari decenni fa – si preconizzava l’adozione su vasta scala di un innovativo reattore nucleare «autofertilizzante», incarnato, in particolare, dall’impianto francese «Superphénix» (vedi riquadro a pagina 12).
Resta quindi il fatto che, se i nostri ministri vogliono ridare l’energia nucleare all’Italia, bisognerà puntare ai tipi di reattori già esistenti, in particolare ai grandi impianti, come quello appena realizzato dai francesi a Flamanville (nella bassa Normandia), capace di soddisfare le necessità elettriche di una regione di media grandezza. Esaminando i dati di quel progetto, però se ne scoprono le pecche: il costo del reattore è lievitato di quasi quattro volte, dai 3,3 miliardi di euro previsti ad oltre 13 a fine lavori. Questi si sono conclusi in ritardo di dodici anni, ben oltre i cinque stimati inizialmente. Se questo è capitato ai francesi, che hanno grande tradizione e competenza nel nucleare, viene da domandarsi come riuscirà il governo italiano a fare meglio.

Prima di realizzare centrali nucleari, l’Italia deve – comunque -valutare aspetti tecnici, finanziari, sociali, ambientali, geopolitici, che raramente sono oggetto di dibattito pubblico. Iniziamo dal rischio di disastro atomico, generalmente ai vertici delle preoccupazioni del cittadino medio. Al mondo ci sono oltre 400 reattori, funzionanti senza troppi problemi da vari decenni. L’unico incidente gravissimo è stato quello di Chernobyl, derivante da manovre irresponsabili degli operatori. Fukushima, invece, è derivato da un maremoto che ha oltrepassato il muraglione di protezione, progettato di altezza insufficiente.
Il rischio è accettabile oppure no? Ci sembrano sagge le parole di Tatsujiro Suzuki, già vicepresidente della Commissione giapponese per l’energia atomica, secondo le quali una nazione, prima di optare per la fonte energetica nucleare, dovrebbe essere disposta ad accollarsi le gravissime conseguenze umane ed economiche del peggior incidente teoricamente immaginabile. Una situazione cui le nostre società non sono preparate a far fronte: un evento rarissimo, poco probabile, ma dagli effetti straordinariamente pesanti.
Altro punto da considerare è l’alto costo dei reattori, che deve essere pagato molti anni prima di poter vendere l’elettricità prodotta. I rischi finanziari sono notevoli, specie nel caso di forti variazioni dei tassi di interesse. Questo è il motivo per cui i pochi reattori realizzati negli ultimi decenni hanno sempre avuto necessità di un forte sostegno pubblico. E noi sappiamo che, in Italia, ogni governo dispone di scarse possibilità di investimento.

Si confronti questa situazione con le energie rinnovabili, in particolare eolico e fotovoltaico, i cui singoli impianti costano poco, sono alla portata degli investitori privati, si installano in tempi brevi e quindi iniziano presto a ripagarsi. Essi, inoltre, non presentano vulnerabilità strategiche e non possono causare nessun disastro ambientale.
Per comparare l’economicità delle varie tecnologie energetiche, torna comodo il «costo livellato del chilowattora», in sigla Lcoe. Utilizzando i dati forniti dall’azienda di consulenza e gestione finanziaria Lazard (grafico di pag.12) possiamo constatare che l’elettricità da nucleare costa circa tre volte più di quella derivante dal solare fotovoltaico e dall’eolico. Qualche decennio addietro, una differenza di prezzo così elevata avrebbe bocciato quella fonte energetica; oggi pare che i criteri della presidente Meloni, del ministro Pichetto e colleghi siano cambiati. È pure curioso il fatto che venga sottolineato di rado uno dei fondamentali vantaggi delle energie rinnovabili: esse garantiscono un rifornimento di energia molto elevato sia nel tempo (milioni di anni) che in quantità (circa diecimila volte gli attuali consumi dell’umanità). Senza trascurare che queste fonti hanno il difetto di essere soggette a fluttuazioni nella produzione a seconda della disponibilità di sole e vento. Ciò obbliga a realizzare sistemi di accumulo o a tenere pronte centrali di rimpiazzo, ad esempio quelle a gas.
L’Europa del 2025 dà segnali di preparazione alla guerra, ma sembra non aver imparato una lezione dal conflitto ucraino. La presenza di impianti nucleari sul territorio (come a Zaporizhzhia) rappresenta una debolezza strategica importante, in quanto un nemico potrebbe danneggiare volutamente un reattore, per spargere nel territorio avversario sostanze radioattive e causare il panico nella popolazione. Il paese attaccato dovrebbe gestire una difficile emergenza, dedicandole risorse umane e materiali, forse arrivando a sfollare intere città. È certo un quadro pessimista, ma non irrealistico, visto ciò che sta succedendo nel mondo. Chi propone il nucleare per l’Italia ci ha mai pensato?

Restando su questioni belliche, c’è da considerare che, se uno Stato dispone dei materiali, delle conoscenze e delle tecnologie necessari per le centrali nucleari, ha davanti a sé la possibilità di intraprendere un percorso di armamento atomico. Infatti, due fasi del cosiddetto ciclo del combustibile (l’arricchimento dell’uranio per aumentare la concentrazione dell’isotopo U-235 e il riprocessamento del combustibile, per recuperare l’uranio residuo e per separare il plutonio creatosi) consentono di ottenere i materiali necessari per produrre un ordigno nucleare. Questa è la strada che, nei decenni passati, hanno seguito vari paesi (India, Pakistan, Israele, Nord Corea e Sud Africa), i quali con la copertura di attività energetiche civili, sono riusciti a dotarsi della bomba.
Altro punto delicato è dato dal fatto che si può decidere di realizzare un impianto di arricchimento dell’uranio, per non dover dipendere da forniture straniere, sempre soggette ad embarghi o sanzioni. Una cosa poco nota è che, una volta raggiunta la concentrazione di circa il 4% di U-235 – richiesta dai reattori di tipo occidentale – si è già fatto metà del lavoro di arricchimento necessario per arrivare agli elevati livelli di purezza in uranio 235 richiesti per realizzare una bomba atomica. Quindi, un impianto giustificato inizialmente da esigenze energetiche civili può, a discrezione del governo in carica, venir impiegato per ottenere il materiale esplosivo costituente il cuore degli ordigni nucleari.
Alla fine della sua vita utile, il combustibile nucleare usato in un reattore non solo contiene materiali potenzialmente utili per realizzare bombe, ma è caratterizzato da una fortissima radioattività, che impone speciali cautele e protezioni. Tale radioattività persiste per tempi assai lunghi (molte migliaia di anni) e questo impone di trovare dei depositi capaci di assicurare che sostanze molto pericolose non vengano mai a contatto con la biosfera. Una delle soluzioni più promettenti appare l’isolamento in profondità nel terreno, all’interno di strutture geologiche particolarmente stabili. In realtà, il compito è più complicato di quanto sembri. Basti pensare che lo stesso atto di scavare tunnel e caverne crea punti deboli nelle rocce. E poi c’è la questione di come fare per avvisare del pericolo che si cela nella terra gli umani che vivranno lì tra decine di migliaia di anni.
La realizzazione di un deposito geologico con elevate caratteristiche di sicurezza interessa anche il nostro Paese: per gestire i materiali risultanti da attività ospedaliere, industriali e pure da scarti e scorie radioattive risalenti ai programmi nucleari bloccati dal referendum popolare del 1987. Una ventina di anni fa, il governo dell’epoca sembrava aver scelto la località di Scanzano Jonico per procedere alla realizzazione del deposito nazionale, ma la rivolta della popolazione ha bloccato tutto, e nessuno ha più osato riproporre la questione. Peccato, perché attualmente queste sostanze pericolose sono stoccate in una sessantina di siti, nessuno dei quali del tutto soddisfacente nei confronti di possibili rischi da attività terroristiche o da disastri naturali. Uno studio ha permesso di individuare una cinquantina di siti potenzialmente adatti a realizzare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, e la scelta dovrebbe avvenire entro la fine di questo decennio, se il governo nazionale troverà la forza di imporsi ai vari comitati «Nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile) che rifiutano di accollarsi l’onere di ospitare una struttura di quel tipo. È necessario che tale decisione sia presa prima di intraprendere realizzazioni nucleari su larga scala.
Per tutti i motivi esposti sinora ci pare che ripartire con la realizzazione di impianti nucleari non sia la scelta migliore per l’Italia, soprattutto se vogliamo onorare nei tempi previsti gli impegni di decarbonizzazione che abbiamo preso a livello europeo. Velleitarie appaiono le promesse di Pichetto Fratin di avere Smr funzionanti per la fine di questo decennio o l’inizio del prossimo. Assai più praticabile e meno impegnativo sul piano economico è investire su fotovoltaico ed eolico e, allo stesso tempo, lavorare a sistemi di accumulo (batterie, bacini idroelettrici di pompaggio, gas compressi, volani, ecc.).
E ricordiamoci che l’energia migliore in assoluto è quella che non si usa. Ci sono spazi amplissimi per l’eliminazione di sprechi e inefficienze, che rappresentano il settore con il migliore rapporto costo-benefici e con i più brevi tempi di implementazione, oltre ad essere quello che produce maggiore occupazione.
Mirco Elena

Certi speciali nuclei atomici, detti «fissionabili», possono essere spaccati allo scopo di produrre grandiose quantità di energia (dimostrazione terribile della loro potenza fu la distruzione delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki). Le reazioni di «fissione» sono sfruttate anche nei reattori nucleari per la propulsione navale e per la produzione di elettricità. Già agli inizi degli anni Cinquanta, l’impianto statunitense Ebr-I dimostrò che era possibile realizzare reattori capaci di produrre non solo energia ma anche di generare più combustibile di quanto ne consumassero (da qui l’appellativo di «autofertilizzanti»), grazie ai cambiamenti indotti in speciali materiali posti nelle vicinanze del nocciolo del reattore, ove si svolge la «reazione a catena» che mantiene in funzione il reattore. Si sfrutta il flusso di neutroni proveniente dalle fissioni dei nuclei di combustibile per trasformare nuclei come quello dell’uranio 238 in plutonio 239, che può – a suo volta – fissionare e quindi essere impiegato per generare energia. Si trasforma così qualcosa di pressoché inutile in un prezioso combustibile, così aumentando di un centinaio di volte l’energia complessiva ottenibile dall’uranio.
Questa idea era talmente attraente che in diversi paesi si cercò di realizzare reattori nucleari basati su questo principio. In Francia si partì con il piccolo impianto Rapsodie per passare a un prototipo dimostrativo da 250 MW elettrici e arrivare, infine, al prototipo industriale Superphenix da ben 1.220 MW elettrici, in funzione dal 1985 al 1998. Vari incidenti ne interruppero a più riprese l’attività per lunghi periodi. Le proteste antinucleari e il calo del prezzo dell’uranio spinsero – infine – il governo francese a chiudere l’impianto, ultimo reattore autofertilizzante ad aver operato da allora in Europa. Si infranse così la prospettiva di un futuro nucleare autogenerantesi. Un esempio istruttivo di come le idee tecniche più esaltanti si scontrino spesso con la realtà economico-gestionale-politica.
(M.E.)
Mirco Elena è fisico. Divulgatore scientifico, è membro del consiglio scientifico dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid) e del consiglio direttivo della Scuola internazionale sul disarmo e la ricerca sui conflitti (Isodarco). È un collaboratore di MC.