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Negli ultimi ultimi anni il tema delle cosiddette «baby gang» ha acquisito un rilievo crescente nel dibattito politico mediatico. Nel 2022 sono stati ben 1.909 gli articoli pubblicati sulla stampa italiana contenenti le parole «baby gang» o «gang giovanili». Lo studio Le gang giovanili in Italia, realizzato nel 2022 da Transcrime e Università cattolica per conto dei ministeri dell’Interno e della Giustizia, è un primo tentativo di mappatura del fenomeno.
Esso descrive le manifestazioni di devianza minorile come in costante aumento (soprattutto dal tempo della pandemia da Covid-19) e come una realtà diffusa su tutto il territorio nazionale, con una leggera prevalenza al Nord. Milano, Torino e Genova sarebbero le città più «calde» a causa della presenza di bande giovanili multietniche. Ma è veramente così, come vorrebbero farci pensare alcuni media e la politica?
Le gang giovanili – si legge nel rapporto – «sono principalmente composte da meno di 10 individui, in prevalenza maschi e con un’età compresa fra i 15 e i 17 anni. Nella maggior parte dei casi i membri delle gang sono italiani, mentre gruppi formati in maggioranza da stranieri o senza una nazionalità prevalente sono meno frequenti». Una composizione, questa, confermata anche nel successivo Criminalità minorile e gang giovanili dell’aprile 2024.
Eppure, le «seconde generazioni» (cfr. Glossario) si ritrovano, loro malgrado, ciclicamente tirate in ballo in associazione a problemi quali le difficoltà di integrazione e la ghettizzazione che, secondo una certa lettura, sarebbero i fattori che spingono giovani con background migratorio ad aderire alle bande.
A causa di questa interpretazione distorta è stato breve il passo che ha portato l’opinione pubblica a identificare i figli di cittadini stranieri residenti in Italia con le baby gang. Ed è stato facile per alcuni esponenti del populismo politico (e penale1) ottenere consenso popolare proponendo risposte repressive contro «ragazzi nati in Italia, ma che non si sentono parte di questo Paese», come affermato dal ministro Matteo Salvini (la Stampa, 27 novembre 2024), per affrontare «un’emergenza nazionale» che genera paura nei cittadini.

A queste affermazioni, ha risposto il sociologo Stefano Allievi in un articolo – Seconde generazioni, tra baby gang e integrazione – pubblicato sul proprio sito: «Le chiamiamo seconde generazioni. Ma non sono immigrati. Sono le prime generazioni di neo-autoctoni […]: figli di immigrati, nati in Italia, ma per lo più non cittadini italiani […]. Portatori di problematiche sociali? Sì. Certo che c’è (anche) la delinquenza, da affrontare e risolvere. Ma lontano dall’allarme sistematicamente costruito da intere trasmissioni televisive, impacchettate con il preciso scopo di mettere paura alle generazioni più anziane […]. Si sente il rumore dell’albero che cade, non quello della foresta che cresce: la grandissima maggioranza di giovani che non delinquono e che non meritano di essere infilati a forza in una categoria che non li descrive. Anche se la lingua che parlano […], la musica che ascoltano, quella che producono (alcuni con grande successo), è la stessa dei loro compagni autoctoni, qualcosa evidentemente non funziona se solo nel 40% dei casi si sentono italiani […]: lo pensano loro o è l’immagine che gli restituiamo noi? E quanto questa immagine incide sulla percezione di essere fuori anziché dentro la società, outsider e non insider?».
Sentendosi outsider, le seconde generazioni sono – dunque – alla ricerca di punti di riferimento e modelli in cui riconoscersi per costruire la propria identità. Identità che, viste le attuali spinte repulsive della politica e di una parte della società, rischia di rimanere incerta e indefinita ancora a lungo.
Nell’immaginario collettivo le «baby gang» sono associate alla musica trap e ai cosiddetti «maranza»(cfr. Glossario), ragazzi di seconda generazione o minori stranieri non accompagnati, ma anche giovani autoctoni. Questi abitano le periferie urbane, adottano un comune modo di atteggiarsi e abbigliarsi e, per passare il tempo, si ritrovano nei parchi, nei centri commerciali o nelle vie dello shopping. Si riconoscono per il cappellino Gucci e il borsello a tracolla, il «completo griffato tarocco, e la faccia made in Marocco», come canta Zaccaria Mouhib, alias «Baby Gang», uno dei più noti esponenti di questo genere musicale.
La connessione tra queste forme di aggregazione giovanile e la trap deriva dall’importante ruolo che in esse gioca il fattore identitario. Molti ragazzi tendono a definire «gang» il proprio gruppo di amici, accomunati dall’adozione degli stessi codici di condotta e simboli esteriori e dalla stessa passione per la trap. I risultati di una ricerca etnografica di Cosimo Sidoti (2022), dedicata alla cultura trap, evidenziano come gli stessi artisti trapper italiani definiscano «gang» il «gruppo di amici con cui hanno iniziato a produrre musica».
Secondo questo studio, il legame tra trapper italiani e universo delle bande criminali esisterebbe solo sul piano simbolico: anche se nei videoclip alcuni di loro esibiscono armi o mostrano di saltare sulle auto della polizia, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratterebbe di un’emulazione dei gangsta rapper d’oltreoceano che, tra gli anni Ottanta e Novanta, si sono appropriati dell’immaginario criminale trasponendolo in quello musicale. Odio nei confronti della polizia, rabbia verso le fasce privilegiate della società, esaltazione dell’esperienza del carcere e della vita di strada, sono alcuni temi e cliché che hanno accompagnato l’evoluzione di questo genere negli Usa.
In definitiva, la devianza sarebbe dunque solo «spettacolarizzata» (Roberto de Angelis, 2021) in quanto l’esibizione di simboli e oggetti di scena specifici (tra cui auto e accessori di lusso, banconote, fino alle armi da fuoco giocattolo) e l’uso di un linguaggio violento ricalcherebbero il repertorio stilistico appartenente alla trap americana. In Italia, questo genere presenta però anche alcune caratteristiche specifiche. Tra i suoi esponenti principali figurano, infatti, molti artisti di seconda generazione che nella trap hanno trovato una modalità di espressione delle proprie storie di immigrazione e dei vissuti, spesso difficili, nel contesto d’approdo.
Per i giovani cresciuti nelle periferie urbane da cui molti di essi provengono, il trapper incarna allora il fra’ (o bro’, abbreviazione dell’inglese brother, «fratello», usati nel linguaggio giovanile nel senso estensivo di «amico/compagno») ovvero un pari che, grazie alla musica, ce l’ha fatta, riscattandosi da condizioni di partenza estremamente svantaggiate. «We came from nothing to something» (veniamo dal nulla per [avere] qualcosa) è un tema ricorrente nella trap.
Carlo (nome di fantasia) è nato negli anni Novanta a Milano Giambellino da genitori provenienti dal Sud Italia e negli anni dell’adolescenza faceva parte di un’aggregazione giovanile di questo storico quartiere della periferia Ovest del capoluogo lombardo, dove ancora abita e dove lo abbiamo incontrato. Gli abbiamo chiesto cosa significasse in quegli anni far parte di una «banda».
«Per noi il gruppo era un modo per rivendicare l’appartenenza a uno stesso territorio, tutelare i nostri spazi, la nostra comunità, garantire, in assenza delle istituzioni, il rispetto di alcune regole, quali la difesa dei più deboli», ci racconta interloquendo con Renato [nome di fantasia], un amico coetaneo che faceva parte dello stesso gruppo. «Oggi è diverso: al tempo a unirci era la condivisione di alcuni valori, anche se a volte capitava di fare risse con gruppi che venivano da altre zone e non rispettavano le regole. I ragazzi adesso non si fermano davanti a niente e a nessuno, anzi i loro bersagli preferiti sono proprio i più indifesi: donne, anziani… Ma di certo con questo la trap non c’entra niente».

È altrettanto vero però che alcuni trapper hanno effettivamente commesso dei reati, entrando, qualcuno ancora minorenne, nel circuito penale e rientrandoci anche dopo aver raggiunto il successo. Alcuni hanno conosciuto la musica in carcere e, una volta fuori, ne hanno fatto uno strumento di riscatto. Un caso tra tutti è quello di Baby Gang-Zaccaria Mouhib che, proprio durante una detenzione al Beccaria, ha iniziato a comporre i suoi primi pezzi grazie al sostegno di don Claudio Burgio, cappellano dell’istituto penale minorile (spesso teatro di episodi violenti) e fondatore della comunità «Kayros» da cui sono passati altri futuri trapper come Zaccaria2.
Nato a Lecco nel 2001 da genitori maghrebini, Zaccaria Mouhib ha adottato, in modo provocatorio, come nome d’arte l’etichetta che gli è stata cucita addosso3.
Mentre la società lo addita come un cattivo esempio ed è sempre pronta a puntargli il dito contro, per i milioni di ragazzi che lo ascoltano, questo trapper rappresenta un punto di riferimento per molti giovani, che con lui condividono comuni origini e analoghi vissuti.
Sicuramente lo è per tutti quei minori che, come i protagonisti della scena finale del videoclip «Casablanca» – spaccato della vita nelle bidonville della città dove Baby stesso ha trascorso parte della propria infanzia – partono da soli dall’altra sponda del Mediterraneo verso l’Europa alla ricerca di una vita migliore.
Chi invece in Italia è nato o vi è arrivato in tenera età, tra le rime di Baby Gang ritrova elementi della propria storia: l’infanzia passata in periferia, in alloggi di edilizia popolare, senza adeguati spazi in cui giocare, spesso in condizioni di privazione economica.
Nel brano Karma, l’autore evoca l’immagine di una cameretta mai avuta, di una ninna nanna mai ascoltata. «Non mi apriva la porta di casa mia madre / Dormivo lì sopra il tetto di un Aler [Azienda lombarda di edilizia residenziale, nda] / Non ho mai avuto da piccolo una stanza / Non sono un cocco di mamma / Mi mancavano i ninna na-na-nanna».
L’allontanamento precoce dalla famiglia è un elemento comune a tanti ragazzi che abbiamo incontrato nel nostro lavoro finalizzato al reinserimento socioeducativo nell’ambito di un progetto realizzato in collaborazione con l’Ussm (Ufficio servizio sociale per i minorenni) di Torino. Ad esempio, Omar (nome di fantasia), anche lui di origini marocchine, al tempo in Map («messa alla prova», vedi glossario), trascorreva le notti dormendo sui treni. Nei contatti sporadici con i genitori rimasti al Paese, raccontava un’altra storia: «Koulchi zine», gli diceva, va tutto bene.
«Da bambino te lo giuro Baby dormiva sui treni / Non tornava a casa / perché portava problemi/mentre mamma mi chiamava mi diceva “Vieni”/ Ero dentro un vagone con cinque stranieri / A te svegliava mamma, a me invece i carabinieri / Sbattuto fuori con / La pioggia dal bus/non avevo in tasca i fluss [«soldi», nda]. Ero un marocchino / Mangia cous cous / Ora un marocchino / Coi milioni di views / Voglio portare a mamma / Un milione di fluss / Perché qua in Italia / Vivi solo coi fluss», canta Baby Gang in uno dei suoi brani più rappresentativi, «Treni».

«Ninna Nanna» è anche il titolo della prima canzone trap di Ghali, noto trapper italo tunisino: «Figlio di una bidella / papà in una cella / Sono uscito dalla melma / Da una stalla a una stella / non è per soldi, walla / Compro una villa alla mamma», punto di riferimento di Ghali durante i difficili anni dell’infanzia e prima adolescenza.
Nei testi a sfondo autobiografico delle canzoni dei trapper di origine nordafricana, spesso carichi di sofferenza, rabbia e desiderio di rivalsa, la figura materna emerge come presenza costante e confortante. Madri meritevoli di essere ripagate dei loro sacrifici e sempre in pena per la sorte dei figli esposti ai rischi della strada.
«Nessuna donna c’era quando era mal tempo / Solamente quella che mi ha tenuto nel grembo / Le darò il mondo, diamo solo tempo al tempo/», canta il trapper Sacky, metà marocchino metà egiziano, appartenente al collettivo musicale del quartiere San Siro.
Come la Bibbia, anche il Corano (nelle sura Al Isra e An-Nisa) sottolinea l’importanza di onorare il padre e la madre. Se ci si prende cura dei genitori, si riceve da loro la benedizione (chiamata r’da)5. In particolare, nella società tradizionale islamica la madre viene vista come colei che si sacrifica di più per garantire la crescita dei figli. Nella migrazione, questo concetto si rafforza ulteriormente perché la madre è la sola a cui potersi aggrappare in un contesto di difficoltà e devianza.
Se il figlio riconosce la fatica della madre, Dio gli aprirà le strade per non soffrire perché riceverà la r’da. Se – invece – non sarà ricompensata per i suoi sacrifici, riceverà solo sakht, disgrazie.
Molti ragazzi descrivono, infatti, il proprio malessere, ma anche l’arresto e il carcere come una manifestazione della maledizione della madre, per non averle restituito niente di buono.
Secondo il sociologo Franco Prina, autore del volume Gang giovanili (2019), «la stessa espressione “baby gang” che, ormai da tempo, i media adottano per riferirsi a qualunque gruppo che compie reati è fuorviante, non trattandosi quasi mai di “bambini” né tantomeno di “gang”. Sono piuttosto gruppi che si formano per poi sciogliersi e ricomporsi senza dar vita a quelle strutture rigide, gerarchiche, stabili nel tempo che hanno caratterizzato la nascita e la crescita delle gang giovanili in altri Paesi».
Le bande, inoltre – come abbiano evidenziato all’inizio -, non sono immediatamente collegabili a giovani con background migratorio, essendo spesso composte da italiani, appartenenti sia a fasce di popolazione svantaggiata che a fasce benestanti. Dietro le loro azioni ci sarebbe soprattutto la noia e il vuoto educativo e valoriale del mondo adulto.
Le aggregazioni giovanili si modificano, inoltre, nel tempo e a seconda della provenienza dei membri che le compongono. Le aggregazioni nate negli anni Novanta nei quartieri periferici come Giambellino, composte soprattutto da giovani autoctoni, trovavano nel senso di appartenenza a uno specifico territorio e nella condivisione di alcuni valori interni al gruppo un fattore di autoaffermazione. Invece, i gruppi caratterizzati dalla presenza di giovani di periferia con background migratorio esprimono, attraverso un genere musicale capace di amplificare le loro istanze – in assenza di qualsiasi forma di rappresentanza politica – la ricerca di un’identità propria in un Paese che ancora non li riconosce pienamente come cittadini.
Se l’immigrazione è il «terreno simbolico su cui – ha scritto Rollingstone (15 dicembre 2024) – si gioca la partita globale dei prossimi anni» per la costruzione di una società a venire aperta, accogliente e polifonica, Baby Gang e gli altri trappers di seconda generazione «parlano la lingua del futuro. La politica quella del passato e della paura».
Silvia Zaccaria
(fine prima parte – continua)
(1) Secondo il giurista Luigi Ferrajoli, con l’espressione «populismo penale» si intende la strategia diretta a ottenere consenso popolare rispondendo in senso repressivo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità di strada.
(2) Tra questi Simba La Rue e Sacky, che a Kayros ha dedicato anche un brano in cui canta insieme ai ragazzi della sua vecchia comunità.
(3) In una delle sue prime interviste dichiarava: «Baby è stato un soprannome che mi hanno dato fin da piccolo, anche prima che cantavo. Quando facevo danni, i giornali pensavano che era una baby gang, invece ero solo io».
(4) Titolo da un commento apposto al videoclip di Karma, dove qualcuno ha scritto, riferendosi a Baby Gang: «Sei l’infanzia di tutti [noi]».
(5) L. Aalla e M. Gecele, Sakht e r’da. Contesto socio culturale della devianza giovanile maghrebina a Torino, in «Diritto Immigrazione e Cittadinanza», n.1/2000.

Seconde generazioni e cittadinanza – In senso stretto, con il termine «seconda generazione» ci si riferisce a ragazze e ragazzi nati nel paese d’immigrazione. Tuttavia, diversi autori estendono la definizione anche a chi, pur essendo nato nel paese d’origine dei genitori, è arrivato comunque in Italia prima dei 18 anni.
Secondo l’ultimo censimento Istat del 2021, i minori di seconda generazione (stranieri o italiani per acquisizione) erano stimabili in 1.048.000, di cui il 77% nato in Italia, ma per il 79% senza cittadinanza italiana. Per quanto riguarda la fascia 18-34 anni erano stimati in 40mila unità. L’Italia ha la legge sulla cittadinanza tra le più restrittive in Europa visti i requisiti stringenti per ottenerla: dieci anni di residenza continuativa, conoscenza della lingua italiana, dimostrare di avere avuto redditi sufficienti al sostentamento per almeno tre anni, assenza di precedenti penali e non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza dello Stato.
Musica trap – La trap, letteralmente «trappola» in inglese, dalle «trap houses» dei ghetti neri di Atlanta dove si producevano e vendevano sostanze stupefacenti, è un genere musicale nato negli Stati Uniti negli anni Novanta.
Maranza – Derivato dallo slang giovanile milanese, è un incrocio tra «marocchino» (o Marrakesh) e «zanza», qualcuno che cerca di ottenere qualcosa senza troppi scrupoli, ma senza malizia. Negli anni Novanta indicava il «tamarro», legato al mondo della musica dance e dei locali notturni.
Messa alla prova (Map) – Strumento della giustizia minorile che permette di sospendere il processo penale e intraprendere un percorso di recupero sociale. (Si.Za.)