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A nome di tutto il popolo castelfranchese e di tutte le Missionarie della Consolata segnaliamo alla redazione di Missioni Consolata che la suora ritratta nella foto (a pag. 43 del numero di giugno) non è semplicemente «una missionaria», bensì suor Anania Tabellini, morta giovanissima in fama di santità, offrendo la vita per la vocazione del fratello Ernesto, diventato poi prete di Bologna, morto centenario alcuni anni fa e che ne ha curato la pubblicazione degli scritti, riuscendo a far traslare il corpo di sr. Anania nella chiesa parrocchiale di Piumazzo (frazione di Castelfranco Emilia).
Un lettore
23/06/2025, Castelfranco Emilia (Mo)

«Suor Anania, al secolo Anna Tabellini, è la secondogenita di cinque figli. Emilio il padre, Maria Finelli la madre, Ettore ed Ernesto i fratelli, Marcellina ed Evelina le sorelle. Nasce a Piumazzo (Modena) in località Fossa Vecchia il 9 luglio 1904». Lì, in una terra di contadini, Anna cresce, frequenta la scuola e – come era normale allora per le bambine del tempo – le suore per imparare ricamo e cucito. «È iscritta all’Azione Cattolica e si distingue come «socia esemplare”, […] è molto attratta dalle letture missionarie e ben presto manifesta la vocazione religiosa».
«Ancora giovanissima entra nella famiglia religiosa delle Visitandine di Bologna […] poi, quasi improvvisamente, lascia questa per entrare nelle Missionarie della Consolata di Torino. Vuole fermamente andare in missione in Africa. Questa scelta non piace alla famiglia e soprattutto al padre che dice: “Suora sì…missionaria no”».
«Ma il Signore l’ha già totalmente conquistata e non bastano le parole, le suppliche e le lacrime a trattenerla».
Suor Anania lascia Bologna per Torino nel giugno del 1925 e, dopo due anni di noviziato, parte per il Mozambico il 3 luglio del 1927 con il primo gruppo di sei Missionarie della Consolata e arriva a Miruru il 18 settembre.
Miruru è nel profondo interno del Mozambico, quasi nel punto dove si incontrano i confini con Zambia e Zimbabwe. Per le prime missionarie la vita è davvero molto dura. Le suore rimangono a Miruru fino al 1930, quando devono poi spostarsi (a piedi) verso l’Oceano Indiano, nell’isola di Ibo a Cabo Delgado, a quasi 1500 km di distanza.
«Dopo solo sette anni di grandi disagi e rinunce in terra africana, lontana da tutto e da tutti, va incontro a undici mesi di totale infermità, come premio per l’offerta generosa della sua vita: si ammala di tubercolosi e lentamente, serenamente e coscientemente aspetta l’incontro «vero” con il suo amato Signore».
Scrive suor Edvige, che l’assiste nella malattia: «Ieri mattina alle 6, come il solito ricevette la santa Comunione e dopo mezz’ora mi disse: “Non posso più ricevere un’altra volta l’Estrema Unzione, pazienza, sento aumentare molto le mie sofferenze, temo di non sopportarle bene”. “Vedo che soffre tanto, le dissi, ma coraggio sr. Anania, sono le ultime gemme preziose che mette alla sua corona”. Essa sorrise e poi soggiunse: “Venga qui proprio vicina, non sento più, le mie orecchie vanno chiudendosi ai discorsi degli uomini, per aprirsi lo spero per sempre alla voce del mio Signore…”. E colle lacrime agli occhi baciò il suo Crocifisso».
Il 4 maggio 1934, alle ore 14.30, a trent’anni, suor Anania si unisce al suo Signore. Sepolta a Porto Amelia (oggi Pemba, Cabo Delgado), nel 1975 i suoi resti vengono tumulati nel cimitero del suo paese di origine, fino al 2004, quando nel centenario della sua nascita, il fratello don Ernesto (divenuto sacerdote dopo la morte della sorella quasi a raccoglierne l’eredità) ottiene tutti i permessi per tumularne il corpo nella chiesa di san Giacomo di Piumazzo, dove oggi riposa.
Sul sito della parrocchia si trova molto materiale scritto da don Ernesto sulla sorella e anche la presentazione di alcuni libri da lui scritti in sua memoria.
La foto che abbiamo già pubblicato nel numero di giugno, ritrare suor Amelia mentre visita un anziano lebbroso, ma non abbiamo idea se sia stata fatta nella zona di Miruru o in quella di Cabo Delgado.
[Caro Paolo,]
Molto ben fatto! Ti sei informato bene e hai rispettato le fonti. Oggi non è facile fare un articolo su un Paese o un popolo. È come fotografare un’auto in corsa. E in una foto non puoi metterci tutto. Ma dai, va bene come hai fatto. Continua il buon lavoro
Gian Paolo Lamberto,
missionario Imc in Corea, 14/07/2025
Ho letto con interesse il tuo dossier sulla Corea. Mi sembra bello e ben fatto. Nessuna critica, né dura né severa. L’unico appunto è di carattere tecnico: il candidato che ha perso le ultime elezioni del presidente si chiama Kim Moon-soo e non il nome che tu hai messo. Caro Paolo, ti auguro di continuare bene il tuo impegno di giornalista in giro per il mondo!
Diego Cazzolato,
missionario Imc in Corea, 25/07/2025
Il fatto
Abbiamo ricevuto una mail che ha bisogno di una piccola introduzione per essere compresa:
il 2 agosto 2025 a Villadossola moriva il giovane Pashtrik Krasniqi, 21 anni, per un incidente sul lavoro.
«Pashtrik stava smontando il ponteggio insieme agli altri operai quando ha sfiorato con la gamba un cavo dell’Enel. La scossa è stata fortissima, pochi attimi e il suo corpo si è accasciato sulle lamiere a sei metri di altezza. Sono stati i colleghi a chiamare i soccorsi, ma per lui non c’è stato niente da fare.
Pashtrik Krasniqi, 21 anni, originario del Kosovo e residente nel Verbano-cusio-ossola. Ennesima vittima sul lavoro in Piemonte».
(Marco Procopio – Rai News.it).
L’email ricevuta
Mi presento: sono Yuleisy Cruz Lezcano, poetessa, scrittrice e attivista. Scrivo con il corpo, con la memoria, con le ferite che non sono solo mie ma collettive. Scrivo per restituire voce a chi non può più parlare, per tendere parole come ponti tra il dolore e il senso, tra la perdita e la giustizia.
La poesia che ho scritto per Pashtrik Krasniqi nasce così, da un bisogno profondo di non lasciare che un’altra morte sul lavoro cada nel vuoto.
Aveva ventun anni. Era su una piattaforma, a sei metri d’altezza, stava smontando un ponteggio. È bastato un istante, un cavo scoperto, e la folgore lo ha portato via. Una vita spezzata sul lavoro, ancora. Un nome tra i tanti, troppo spesso dimenticati. Pashtrik non può restare una statistica, una riga su un giornale.
La poesia per lui è un atto di cura, un gesto che tenta di accompagnare chi resta, una madre, un padre, gli amici, i colleghi, le persone che lo hanno amato.
È anche un grido: un modo per dire che non possiamo più voltare lo sguardo. Ogni caduta, ogni folgorazione, ogni cantiere che diventa luogo di morte, è una sconfitta sociale, morale, civile.
Per questo ho scritto Sei metri d’eternità. Perché quei sei metri non siano l’ultimo tratto della vita di un ragazzo, ma il primo passo della nostra coscienza verso un cambiamento necessario.
La poesia per Pashtrik Krasniqi, 21 anni
Una scintilla,
e il cielo ha piegato il collo.
La piazza tace,
sfiata l’ombra in silenzio.
Sotto la croce del sole,
un nome si dissolve:
Pashtrik, luce straniera
sulla pelle d’Italia.
Sei metri più in alto
dell’orologio del paese,
le mani smontavano il tempo,
trave dopo trave.
Ma un filo nero, nudo, infame
gli ha detto:
«Torna a casa,
senza scendere».
La folgore
lo ha vestito d’aurora,
in un abito che la madre
non saprà toccare.
Un corpo si fa lampo,
si fa grido nel metallo,
e la voce si rompe in petali.
Villadossola ha pianto,
ma a capo chino,
come un padre
che non sa chiedere perdono.
Il ponteggio,
costole di una gabbia,
ora è vuoto,
e canta col vento
il suo lutto.
Nessun angelo
ha interrotto il circuito.
Nessuna legge
lo ha trattenuto dal volo.
Il casco è rimasto appeso
a un chiodo d’aria,
frutto che la morte non ha colto.
Le mani di Pashtrik
odoravano di calce, di pioggia
e di futuro ancora intonacato.
Il cavo era
più rapido del sogno,
più svelto della vita
che saliva piano.
Ora, a terra, l’asfalto
conserva il suo nome,
inciso tra le dita di strato
pendono decisioni.
Il cerchio si chiude,
ma non la domanda:
chi protegge chi costruisce il mondo?
Yuleisy Cruz Lezcano
03/08/2025

In continuità con l’ispirazione tematica del FdM22 «Vivere perdono», alla luce del Giubileo 2025 «Pellegrini di speranza» proposto da Papa Francesco e facendo tesoro delle «Piste tematiche» suggerite dalla Commissione scientifica per il FdM25 – che si tiene a Torino dal 9 al 12 ottobre -, la Direzione generale e la Direzione artistica hanno scelto come tema del prossimo FdM25 «il VoltoProssimo».

A chi mi faccio prossimo? Difficile definire cosa si intenda per missione. L’interrogativo, posto dallo stesso Gesù a ogni donna
e uomo del suo e di tutti i tempi, indica, però, l’orizzonte ai discepoli missionari. La domanda assume drammatica urgenza nel presente spezzato dai muri, ferito dalla Terza guerra mondiale a pezzi, minacciato dal riscaldamento globale.
Prossimo deriva dal superlativo del termine latino «prope», il più vicino. A chi mi faccio più vicino, dunque? Ma prossimo indica anche l’estrema affinità, l’identità di sostanza fra le creature, le quali racchiudono un frammento del Creatore. Tutti, in questo senso, siamo prossimi. Una consapevolezza che, però, si acquisisce nel movimento di «farsi più vicini» a quanti sarebbero da tenere a distanza, geografica ed esistenziale. Proprio come al sacerdote e al levita, le «buone» ragioni non mancano per discriminare gli esseri umani in base a categorie di censo, passaporto, genere, condizione esistenziale. Il Samaritano, però, le ribalta con il più semplice e il più missionario dei gesti: l’approssimarsi a chi trova per la strada. Un volto tumefatto nelle cui fattezze sfigurate riesce a scorgere il Volto.
Volto è una parola densa, in cui l’accento relazionale dell’ebraico «panim», si fonde con i singolari «facies», latino, e «prosopon», greco, che sottolineano l’essenza della persona. Il volto è la soglia prima ed estrema tra interiorità e realtà esterna, luogo per antonomasia di svelamento del se e di incontro con l’altro. «Il cristianesimo è incrocio di sguardi, religione dei volti: volto di Cristo sfigurato e trasfigurato, volto del discepolo che può vedere perché è stato visto, volto del povero, sacramento di Dio, volto di ogni essere umano, creato a immagine di Dio…» (Bruno Chenu).
L’articolo «il» è minuscolo per mettere l’accento su «Volto» e «Prossimo»: due sostantivi «legati» in un’unica parola con il filo che cuce insieme le creature tutte. Il filo del gomitolo che ogni giorno dipanano nel mondo i missionari e le missionarie, quanti, cioè, si fanno prossimi.

A simboleggiare il Festival c’è il logo: un gomitolo la cui forma sferica ricorda il mondo. I suoi fili colorati si srotolano dal basso, facendo partire i nostri sguardi dal Sud.
A definire questo mondo non sono i contorni delle nazioni, ma i colori, perché il mondo reale di oggi supera decisamente i confini politici territoriali in cui popoli si riconoscono ed è essenzialmente interconnesso e interdipendente.