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Karibuni Kenya

Un Safari con lo zio monsignore

Parte della famiglia Pante viaggia per quindici giorni nel Samburu. La visita allo «zio missionario», vescovo emerito di Maralal, è l’occasione per conoscere alcuni dei luoghi nei quali i Missionari della Consolata hanno lavorato e lavorano al servizio del Vangelo e delle popolazioni locali.

La prima cosa cosa che vediamo all’aeroporto di Nairobi è la scritta «karibuni», «benvenuti» in swahili. È l’inizio di febbraio. Siamo venuti per visitare monsignor Virgilio Pante, vescovo emerito di Maralal, nel Samburu. Il nostro zio missionario.

Eravamo stati in Kenya 23 anni fa: allora zio Virgilio era appena stato consacrato vescovo. Ora è in pensione. Si fa per dire.

La seconda cosa, è il sorriso dello zio. Non sono molti a poterlo chiamare così: i più gli si rivolgono con il titolo di «monsignore», in Italia, o , in Kenya, di «bishop» o «askofu» in swahili. A Mararal, la sua città, è chiamato anche «baba», cioè «papà».

Ci fermeremo con lui quindici giorni. Siamo un pezzo della sua famiglia: suo fratello Remigio con la sua sposa, due figlie, un figlio e la nuora.

Nel traffico di Nairobi

I saluti di benvenuto sono rapidi e danno un’idea piuttosto precisa di come saranno i nostri spostamenti: veloci e puntuali, o per lo meno ci proveremo. Il traffico di Nairobi, infatti, ha altri piani. Per le strade di questa città, caotica e molto più affollata di ventitré anni fa, vediamo di tutto: da pulmini agghindati come carri di Carnevale a motociclisti senza casco, o biker che, pur avendolo, trasportano altre due o tre persone; da auto appena uscite dalla concessionaria a camion che sembrano residuati bellici del secondo conflitto mondiale.

Il nostro mezzo non è da meno: la «Bufala», com’è amorevolmente soprannominata da Virgilio, è una vecchia Toyota già usata come ambulanza e riadattata al trasporto di parenti in visita. Un piccolo foro circolare sullo sportello del guidatore è il ricordo di un proiettile che, alcuni anni fa, ha rotto il femore (e l’arteria femorale) di uno dei suoi vecchi conducenti.

A questo punto capiamo che, per sopravvivere a un viaggio che promette una sorpresa dopo l’altra, è indispensabile avere un certo gusto per l’avventura, del quale tutto il nostro bel gruppo è provvidenzialmente dotato.

Il clima che ci accoglie nella capitale è abbastanza temperato ed è per noi un sollievo avendo lasciato in Europa l’inverno.

Siamo accolti nella casa dei
Missionari della Consolata di Westlands a Nairobi. Qui l’atmosfera è familiare, rilassata e si respira un forte senso di comunità. Oggi è sabato e i missionari celebrano la messa prefestiva in italiano per i nostri connazionali residenti a Nairobi. Hanno preso l’abitudine di fermarsi dopo la celebrazione per un momento di convivialità e ricordo di un’Italia che, per alcuni di loro, i quali non parlano italiano come prima lingua, è una «casa» mai vista, essendo nati all’estero.

Verso Maralal

Dopo aver salutato i nostri ospiti, la Bufala è nuovamente su strada per arrivare a Maralal.

Oltre 380 km per quasi dieci ore rappresentano un viaggio lungo per un’ambulanza in pensione carica di persone e bagagli. Perciò una tappa a Nanyuki è doverosa, se non altro per una foto sotto il cartello che marca il punto esatto del passaggio dell’Equatore e meravigliarsi di come gli aghi immersi in piccole bacinelle d’acqua ruotino in un senso anziché nell’altro a seconda dell’emisfero in cui si trovano.

L’arrivo a Maralal avviene a tarda sera. Ad aspettarci c’è una calda zuppa di verdure. Per noi, stremati dalla traversata e dal caldo che comincia ad aumentare, è il benvenuto migliore.

Il giorno dopo scopriamo subito che sono molti gli abitanti di Maralal impazienti di conoscere finalmente la famiglia di Bishop bike, il loro amato vescovo «scaduto», diventato un’icona in sella alla sua moto (famigliarmente bike), uno che ha aiutato molti e ancora continua a fare tanto.

«Baba askofu»

Tutti quelli che incontriamo ricordano bene come Virgilio sia stata una figura centrale per la formazione scolastica, come un vero baba, un buon padre di famiglia, tanto da essere orgogliosi di potersi presentare a noi come i suoi figli adottivi. E se loro sono la famiglia di Virgilio, allora anche il resto dei Pante è parte della loro famiglia. Gli incontri sono solenni e carichi di riconoscenza, tanto è forte il desiderio di raccontarci come lo zio Virgilio sia uno dei protagonisti della loro storia. Arriviamo a comprendere quanto sia importante per loro un uomo che per noi forse è «solo» uno parente lontano, ma che per la gente di Maralal è stato una roccia in mezzo alla tempesta, qualcuno che ha dato la possibilità di costruire un futuro su basi solide e durature. Priscilla, Agatha e Silas, che ci hanno accolto, sono stati solo alcuni dei molti che hanno beneficiato dell’aiuto della missione: il lavoro di zio Virgilio continua attraverso la scuola per i bambini adottati a distanza, perché il futuro si crea permettendo un accesso facile a un’istruzione di qualità.

Wamba

La Consolata in questo è maestra: a Wamba, il villaggio in cui Virgilio è approdato, con moto e doppietta, nel lontano 1972, ha sede un liceo femminile, che si piazza da un paio di anni al secondo posto a livello nazionale per i migliori risultati all’esame di maturità. Un fiore all’occhiello per un villaggio perso nella savana, che è stato la nostra prima doccia di realtà.

Siamo arrivati a Wamba dopo più di un’ora di strada attraverso monti e savane. Anche qui nessuno dimentica baba Virgilio, uno che ha lavorato e combattuto per mantenere vivo ed efficiente quello che, operativo, è uno degli ospedali più all’avanguardia nella regione settentrionale del Kenya.

Pertanto, se la scuola secondaria per ragazze è un fiore all’occhiello, questo ospedale è una vera «rosa del deserto», che, grazie all’aiuto di numerosi medici italiani volontari e alla sua posizione strategica, ha salvato tantissime vite.

Sereolipi, la nuova chiesa

Dopo Wamba è la volta di Sereolipi. Il nome di questo villaggio significa «fiume sterile» e non ci mettiamo molto a capire il perché. Il caldo torrido del luogo e la scarsità di alberi fanno da sfondo alla messa per l’inaugurazione della grande chiesa voluta dal compianto padre Egidio Pedenzini (+2022), una grande festa per una comunità cristiana cresciuta molto e troppo velocemente per la piccola chiesetta con il tetto di lamiera degli inizi.

Oltre alla benedizione della nuova struttura, il vescovo emerito concelebra con monsignor Hieronimus Joya, suo successore, la funzione per l’apertura della porta giubilare e il 25° di matrimonio di una coppia di Salorno (Bolzano), Edoardo e Liliana Martinelli, grandi amici e sostenitori della missione da quando erano fidanzati e poi sposati a South Horr per mano di padre Egidio.

Verso South Horr

La partenza dopo la celebrazione sembra l’inizio dello storico safari rally keniano. La nostra tappa è il villaggio di South Horr, «la fonte meridionale». Nemmeno questo si trova dietro l’angolo, ma il nome ci fa ben sperare: sepolto tra frondosi alberi di mango, il villaggio è fresco, ameno e pieno di fiori e la comunità che lo anima è giovane, unita e vitale, costruita attorno alla piccola missione consolidata da padre Egidio Pedenzini che l’ha abitata per molti anni senza fronzoli, ma lasciando anche qui la sua indelebile impronta.

Il compianto sacerdote era anche un grande amante degli animali che accoglieva e accudiva: gatti, manguste, testuggini e struzzi. Dentro le mura della missione di South Horr gironzola sereno un pulcino di struzzo. Il «piccolino», con i suoi due metri di altezza e le movenze di un velociraptor, ama la compagnia e non solo sa perfettamente dove si trovi la finestra della sala da pranzo per elemosinare qualche boccone, ma adora sbucare a sorpresa da dietro angoli e cespugli quando sente il chiacchiericcio degli ospiti.

Eppure, non ci sono solo esotici animali da compagnia a stupirci: il cielo notturno che avvolge la vetta del sacro monte Ng’iro è nero e fatto di un silenzio quasi totale; le stelle cadenti che lo attraversano ci invitano ad affidare loro i nostri desideri.

Tuttavia, ancor più del cielo, ci stupisce la piccola ma energica comunità di suore che vive vicino alla missione. Esse gestiscono un immacolato dispensario dove curano le patologie più frequenti e assistono le donne del villaggio e quelle della popolazione samburu limitrofe nell’educazione prenatale e puerperale.

Ci uniamo a loro dopo la coloratissima messa domenicale per un caffè, un giro di accordi di chitarra dai sapori latini e un bicchierino di tequila, che una delle sorelle ci offre facendo onore alle sue origini messicane. Un intermezzo allegro, ideale prima di rimetterci in viaggio attraverso i deserti, quello sabbioso prima, e quello di rocce poi, che ci separano dalla piccola città di Loiyangalani, nella contea di Marsabit, sulle rive del Lago Turkana, il grande specchio d’acqua che il Kenya condivide con l’Etiopia.

Kamote, villaggio e chiesa allagati

Loyangalani

Le verdi fronde delle acacie si diradano mano a mano che avanziamo verso Nord e le greggi di capre si trasformano in mandrie di romedari nascoste tra le nere rocce vulcaniche.

Fa molto caldo. Alla partenza credevamo di poterci adattare facilmente alle temperature dell’Africa equatoriale, ma ci sbagliavamo. Qui, sulle rive del lago salato, si possono raggiungere anche i 58 gradi. E noi cerchiamo di integrare i liquidi con bustine di sali minerali e tuffi in una delle sorgenti termali presenti nell’oasi del villaggio, la cui acqua a circa 38 gradi sembra comunque provenire da una fonte alpina tanto dà refrigerio.

Gli alberi che possono offrire ombra non sono molti e tutti concentrati dove l’acqua dolce spacca il terreno sassoso.

L’orizzonte, quasi bianco da quanto è accecante il sole, è rotto solo dai fusti snelli delle pale eoliche piantate vicino al lago. Con le sue 365 turbine, il vento, che di notte sembra voler scoperchiare i tetti delle nostre casupole, alimenta dal 15 al 20% della rete elettrica nazionale.

Gli edifici della cittadina si mescolano e amalgamano alla perfezione con le capanne di frasche rotondeggianti del popolo Turkana, simili, eppure differenti, da quelle quasi rettangolari dei vicini Samburu. Due popoli che vivono una convivenza non sempre felice visto che le incursioni di una tribù nei territori dell’altra non sono rare, così come lo scoppio di quelle che sono più di semplici scaramucce.

Kamote, villaggio e chiesa allagati

Gli «El Molo»

Oltre a Turkana e Samburu, le rive dell’ex Lago Rodolfo sono la terra della piccola tribù El Molo. Si tratta di pastori di capre e mandriani di cammelli. Il loro loro introito principale è quello derivante dalla pesca del tilapia e del persico del Nilo, catturati cavalcando minuscole zattere costruite legando assieme due o tre tronchi ben levigati dal sale e dal sole. Considerando che, al nostro arrivo, un sacerdote dal sorriso buono, padre Francis Otieno, ci rassicura sul fatto di non dover temere punture di scorpione o morsi di serpenti, dato «in frigo abbiamo tutti gli antidoti», i coccodrilli non sono proprio in cima alla nostra lista di preoccupazioni.

Quando c’è da scegliere il mezzo con cui arrivare all’isola sulla quale sorge il villaggio degli El Molo, la scelta cade unanime su un barchino in vetroresina. Nell’isola uno sparuto gruppetto di persone ci accoglie, ci vende pesce fresco e, incredibilmente, riconosce Remigio. Uno degli anziani ricorda, infatti, di aver conosciuto nel 2002 quel bianco alto e secco, fratello dell’allora neo vescovo Pante. A quei tempi l’isola era raggiungibile a piedi e sulla riva del lago c’era una grande spiaggia su cui era stata costruita una bella chiesetta e una scuola che oggi invece sono allagate dalle acque del lago che continuano a salire.

La missione di Loiyangalani fu fondata da Padre Michele Stallone, ucciso da predoni nel 1965 a poca distanza dalla missione, e considerato da molti uno dei primi martiri del Kenya. Essa comprende un dispensario molto curato e una scuola primaria, dove si tengono anche corsi di aggiornamento e formazione per adulti.

I piccoli alunni, incuriositi più che infastiditi dal nostro arrivo proprio durante l’ora del pranzo, ci tengono a dimostrare al vescovo emerito i loro progressi nella lingua inglese e a fare qualche piccolo scherzo a noialtri che ritorniamo bambini prendendo in mano i gessi per scrivere i nostri nomi sulle lavagne.

Bambini allegri e numerosi, per fortuna. Il compromesso con i genitori è che i figli frequentino la scuola in cambio di almeno un pasto al giorno: riso e fagioli, un piatto completo che riesce ad arginare almeno in parte la malnutrizione così comune sulle rive del Lago Turkana, dove si vive principalmente di pesce e latte di capra. Qui anche l’acqua potabile è un bene di lusso, perché il lago è salatissimo e troppo ricco di fluoruro. Solo le tribù residenti da generazioni osano berne l’acqua, pur non essendo immuni da conseguenze.

Padre Francis Otieno ci fa da guida e la sera ci fa godere un tramonto mozzafiato. Ci conduce nei pressi di un piccolo villaggio di capanne e poi lungo un sentierino sassoso fino all’acqua, che già diventa scura. Lì prepariamo dei tronchi bianchi su cui sederci e raccogliamo sassolini e denti di persico mentre aspettiamo il momento in cui il sole scivolerà rapido dietro alle montagne sull’altra sponda. È facile, spontaneo, il canto che intoniamo e la sensazione è proprio quella che il Signore sia con noi.

Sulla strada del ritorno

Quando, il giorno dopo, ci lasciamo il lago alle spalle, lo facciamo con la poesia della serata precedente nel cuore, e la Bufala carica di bottigliette d’acqua. La nostra meta è nuovamente la casa della diocesi a Maralal, ma questa volta passeremo per Barsaloi, nei territori in cui è vissuta Corinne Hofmann, la Masai Bianca.

Pensare a lei ci fa riflettere sulla realtà delle donne in Kenya, dove non sono rare le figure eroiche: ne abbiamo conosciute parecchie con il fuoco negli occhi e i figli sulle spalle, che conquistano le loro vite un pezzetto alla volta in un Paese dove la mutilazione genitale femminile, pur essendo vietata dalla legge, è ancora una pratica diffusa. La missione di baba Virgilio Pante è arrivata anche a loro, in luoghi dove lo Stato non sempre riesce a essere una presenza rassicurante, per dare sostegno e conforto attraverso l’educazione, gli ospedali e le persone.

La vita del Bishop bike non ha la presunzione di raccontare solo storie a lieto fine; ma la mano della Consolata è stata tesa a molti, anche grazie all’aiuto del nostro paese, Lamon, che ha donato al Kenya un uomo «poderoso» e anche tanti aiuti per il cambiamento.

Una scuola di vita

Che bilancio possiamo quindi trarre dal nostro safari?

Non abbiamo trovato riposo, questo è poco ma sicuro!

Siamo stati scioccati, sconvolti, da una realtà così distante dalla nostra quotidianità, dai resort blasonati e dai safari lodge pubblicizzati nelle agenzie.

Abbiamo trovato una strana mescolanza tra la cultura tribale e quella occidentale, con la seconda che vorrebbe dominare la prima che, per fortuna, è troppo tenace per tramontare.

Ci siamo disconnessi dal mondo e dalle sue notizie, dai parenti lasciati a casa e dalle amicizie virtuali.

Abbiamo imparato a viaggiare leggeri, quando siamo stati costretti a scegliere quali oggetti personali portare, perché lo spazio per i bagagli era occupato dallo spazio per le persone; abbiamo di conseguenza imparato a dare ai nostri beni il giusto valore, che va oltre quello economico e affettivo.

Siamo stati spinti a provare, ad assaggiare, a cantare, a metterci in gioco e a non avere paura dell’ignoto.

Ci siamo rigenerati, tornando certamente stanchi, ma con qualche semino di consapevolezza in più su noi stessi e il nostro posto nel mondo.

Francesca Pante,
con Remigio e Daniele Pante, Noemi Angeli, Antonella Bazzocco e Allison De Bacco

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