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Il vignaiolo, la vite e i tralci (Gv 15)

Con il procedere del Vangelo, i discorsi di Gesù aumentano in numero e tensione. In particolare, quasi quattro capitoli raccolgono moltissime sue parole pronunciate durante l’ultima Cena.
Ad attirare ancora di più l’attenzione su un momento che tutti i credenti sanno già essere denso, è un stratagemma letterario interessante, utilizzabile solo da uno scrittore che non abbia paura di sembrare incapace.

Alziamo il livello

Il capitolo 14 del Vangelo di Giovanni si chiudeva in modo chiaro, con l’apparente uscita di Gesù e dei discepoli dal cenacolo: «Alzatevi, andiamo via di qui» (Gv 14,31). Dopo di che, però, inizia un lunghissimo discorso del Maestro nel quale, tra l’altro, fatichiamo a cogliere un legame unitario. Ovviamente non sono mancati i commentatori che hanno visto in questo passaggio poco elegante il segno di un intervento sul testo, posteriore alla sua stesura iniziale, con l’aggiunta di un pezzo. Però, tanti altri, anche predicatori antichi, hanno fatto notare che questi testi sono talmente fuori contesto che neanche un bambino ai suoi primi temi li avrebbe lasciati. Dovremmo piuttosto pensare che Giovanni, tutt’altro che sprovveduto, lo abbia fatto apposta affinché noi lettori ci domandassimo per quale motivo il testo è proprio così.

Le risposte a questa domanda, nella storia sono state molte. La maggior parte di esse hanno senso e potrebbero offrirci almeno una parte di verità. Ne scegliamo però solo una delle più convincenti: è probabile che chi ha composto il Vangelo (non ci importa se il primo autore o altri) abbia voluto dirci: «Il discorso di Gesù avrebbe potuto anche finire qui, perché è compiuto, non gli manca niente. Se lo riprendiamo, è perché vogliamo approfondirlo per sottolineare meglio alcune cose, anche con una certa apparente incoerenza. Ma siccome questa aggiunta è voluta, e non ci è semplicemente sfuggita, provate a cogliere il filo rosso che lega tutto».

Un linguaggio da innamorato

L’incoerenza che troviamo nel testo di Giovanni, appare simile a quella dei nostri discorsi, quando trattiamo ciò che ci appassiona. Se, infatti, vogliamo spiegare a qualcuno una cosa da fare o un concetto difficile, o vogliamo convincerlo, quello che facciamo di solito è provare a mettere in ordine preciso e chiaro i vari passaggi da fare, uno dopo l’altro. Se poi iniziamo a parlare di qualcuno o qualcosa che amiamo, che ci appassiona, allora il discorso si fa poetico, intricato, ripetitivo, sognante, procede più per accumulo e a spirale che in ordine logico. Perché un teorema posso chiarirlo, ma il mio amore non sento mai di averlo spiegato abbastanza.

Il linguaggio che Giovanni mette in bocca a Gesù è da amante. Ed è una scelta opportuna, perché il Signore non si limita a chiarire la propria autorità, o temi di dottrina, ma vuole mostrare definitivamente chi è il Padre e chi sono i discepoli. Non parla di teorie, ma di relazioni, e le relazioni più autentiche sono vissute nell’amore.

Mentre leggiamo i densissimi capitoli dal 15 al 17 del Vangelo di Giovanni, dovremmo ricordarci che non siamo di fronte soltanto a un’argomentazione teologica, ma a una poesia d’amore.

La vite autentica (15,1-9)

Il capitolo 15 inizia con un’immagine ben nota, limpida e toccante. «Io sono la vite autentica, il Padre mio il vignaiolo, voi i tralci» (15,1).

Anche se molti di noi non hanno mai potato o vendemmiato, il quadro è talmente nitido che siamo tentati di aggiungerci elementi, di completare l’allegoria.

Gesù è la vite, quella con le radici ben piantate per terra, quel ceppo che pare piccolo rispetto all’intero filare, ma senza il quale la vigna non è vigna. Se si guarda lo splendore dei grappoli si potrebbe anche non capire dove si trovi di preciso la vite madre, ma sappiamo bene che c’è e che senza di essa tutto sarebbe morto.

Sono i tralci che portano i frutti, non la vite, ma senza la vite i tralci non hanno linfa. È Gesù ad andare al cuore delle cose e a distribuire spirito di vita.

Egli è la vite «autentica», vera. Possiamo pensare di poter attingere spirito di vita da tante fonti, molte delle quali si presentano attraenti e generose, e alcune ci possono dare l’impressione, per un certo tempo, di nutrirci abbastanza, ma è Gesù l’unica autentica. Senza di lui, ossia senza il suo stile di rapporto con gli altri e con ciò che lo trascende (il Padre), senza il suo modo di essere uomo, non si vive bene, non si resta nell’autenticità.

Lui è lì, però, perché un contadino lo ha piantato e curato. Chi spiasse una vigna, per la maggior parte del tempo, non vedrebbe il contadino che la accudisce, ma il suo lavoro, che rischiamo di dimenticare, è indispensabile. Non è però un lavoro egocentrico: come il contadino non ha bisogno di sentirsi dire che lavora bene, ma gode nel vedere molti grappoli pieni e sani, così il Padre non cerca la propria gloria, ma che la vigna produca uva.

Con una sola immagine Gesù ha suggerito la propria centralità, la rilevanza assoluta dei tralci che portano frutto (cioè noi), e l’opera umile e discretissima del Padre, che a tutto ha dato origine. Addirittura, lascia intuire che anche ciò che può essere vissuto come una sofferenza e un impoverimento, la potatura, è finalizzata a portare un frutto più abbondante e più buono.

Gesù invita a non staccarsi da lui, ma anche a fidarsi dell’opera buona del Padre, ad avere pazienza. E ad amare, perché a legare il Padre, Gesù e i suoi discepoli è un rapporto di puro e profondo amore (v. 9), che non impone la sua presenza (chi vede la linfa scorrere?) ma è autentico.

Ubbidienti alla legge (15,10-17)

Se leggessimo in modo superficiale questo capitolo, potremmo pensare che dopo le belle parole, dopo la carota, arriva il bastone, l’invito a rispettare la legge.

Le cose, però, non stanno propriamente così: i discepoli devono ubbidire ai comandamenti di Gesù perché anche Gesù ha ubbidito ai comandamenti del Padre. E questi comandamenti, propriamente, sono uno solo, quello di amare. L’amore può essere una scelta (se ci liberiamo dalle semplificazioni romantiche per cui l’amore è soltanto trasporto e farfalle nello stomaco) ma non può essere un ordine. La logica dell’amore, infatti, è quella di volersi liberamente adeguare ai desideri dell’amato per farlo felice. In questo senso ci si può sentire «tenuti» a rispettare certi comportamenti, ma non si può parlare di obbligo di ubbidienza a una legge.

Nel momento in cui lo stesso Gesù si adegua ai comandamenti, cogliamo che non si tratta di ubbidire, ma di affidarsi con fiducia alla volontà di un padre buono. D’altronde, Giovanni insiste su questa dimensione: «Chi ama dà la vita per i suoi amici», «vi comando di amarvi», «non vi chiamo servi ma amici».

Nulla nella dinamica del capitolo o del Vangelo fa pensare che per essere dei buoni cristiani, per mantenersi in comunione con Gesù, sia necessario fare delle cose. Anzi, il gioco è proprio quello: «Vi chiedete che cosa dovete fare per restare in comunione con me? Il mio comandamento c’è, ed è chiaro, ed è semplicemente amare». Anzi, l’insistenza di Gesù non è neppure sull’amare Dio, ma sull’amarsi a vicenda come fratelli e sorelle: il frutto dei tralci (quello di cui si parla al v. 16) è esattamente l’amore reciproco che trae la propria linfa dalla vite che è Gesù.

E gli altri? (15,18-16,3)

L’ultimo passaggio del capitolo non può che far nascere la domanda su coloro che non hanno accolto Gesù e non fanno parte della comunità dei fratelli.

Di loro, del «mondo», come lo chiama l’evangelista, si parla in termini estremamente duri: odiano i discepoli perché odiano Gesù, e lo fanno perché non hanno conosciuto il Padre. Anzi, se non fosse arrivato Gesù, non avrebbero colpa, ma ora non hanno più scuse.

Ancora una volta, a una prima lettura ci sembrerebbe l’approccio di un integralista: noi siamo tutti buoni; gli altri, là fuori, tutti cattivi. Ma anche senza addentrarci in analisi esageratamente raffinate, non possiamo non accorgerci che questa interpretazione sarebbe incoerente con il Gesù dei vangeli, che accoglie chiunque vada a lui anche se non è perfetto, che dona la vita per gli esseri umani. Questo è molto chiaro anche anche nel quarto Vangelo: loda Natanaele che è molto perplesso su di lui, accoglie Nicodemo che lo incontra di notte per paura, compie miracoli anche per chi non crede ancora in lui, perdona l’adultera colta sul fatto, e così via.

Dobbiamo allora sforzarci di entrare nella logica poetica e amante di Giovanni.

Proviamo a pensare all’esempio dei nostri rapporti personali, soprattutto quelli più intensi e affettuosi. Di fronte a un’offerta di amore intenso, totale, pieno, non c’è la possibilità di rispondere a metà, di restare nella condizione di prima, di non esagerare. L’amore pieno si può solo accogliere o rifiutare, non sopporta di restare nello stato intermedio, come se nulla fosse stato detto e proposto.

Un Dio che si offre indifeso, mettendo a disposizione suo Figlio, pronto a dare la vita per l’umanità, non può tollerare una risposta interlocutoria, di chi fa qualcosa ma senza stravolgersi la vita.

E abbiamo esperienza di come proprio l’offerta di un amore così totale può respingere chi vorrebbe tenersi più in superficie, può causare durezza e intolleranza.

E allora, le parole di Gesù non vogliono tanto sostenere che coloro che sono fuori dalla comunità cristiana saranno odiati da Dio (mai si dice questo), quanto che chi non accoglie questa logica d’amore finirà per odiare quel Dio, per rimpiangerne uno severo e rigido, che punisca e resti adirato. E questa falsa immagine di Dio non potrà che spingere l’essere umano all’ira, all’odio. Prima di Gesù forse ci si poteva ancora sbagliare, ma ora, dice lui, non ci sono più scuse, il volto del Padre è chiaro.

Il Padre vuole solo essere amato. Quella è la sua legge, che si estende a tutti (i cristiani si amano e amano l’umanità perché si sentono amati da Dio). E siccome anche lui si muove secondo la legge dell’amore, desidererà essere ricambiato, ma non sarà capace di forzare la mano: l’amore non sopporta costrizioni, altrimenti diventa violenza. E anche il Padre, che ama, è disposto semmai a subire violenza, ma non a farne. Sempre di più quello che Gesù dice e fa ci parla soprattutto di colui che lo ha mandato, per amore dell’umanità.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 18 – continua)

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