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Venezuela-Usa. Trump manda la marina

Si alza la tensione nel Mar dei Caraibi

Sulla testa di Nicolás Maduro pende una taglia da 50 milioni di dollari. L’enorme ricompensa che gli Stati Uniti hanno messo sul presidente del Venezuela è destinata a chiunque fornisca informazioni che portino alla cattura del leader latinoamericano, che secondo indiscrezioni, sarebbe nascosto in un bunker.
A pochi giorni da questo atto simbolico e politico, ne è seguito uno strettamente militare. Washington ha dispiegato tre cacciatorpediniere con base missilistica, aerei militari e sommergibili d’attacco nelle acque caraibiche di fronte al Venezuela. A completare il contingente, oltre 4mila marines, come parte della lotta al traffico di droga e in particolare allo spaccio di fentanyl. Questo, secondo gli Stati Uniti, partirebbe proprio dal Venezuela, quartier generale del Cartel Tren de Aragua, una delle sei organizzazioni criminali incluse dal governo di Trump nella lista dei «gruppi terroristici». Negli ultimi anni, l’aumento della domanda di fentanyl ha messo in ginocchio un’intera generazione negli Stati Uniti, dove il consumo di questo oppioide sintetico rappresenta la prima causa di morte per overdose.
In risposta, il presidente venezuelano ha mobilitato oltre 4 milioni di membri della Milizia nazionale, principalmente volontari e veterani che fanno parte del quinto componente della Forza armata nazionale bolivariana, fondata da Hugo Chávez nel 2007.

Conflitto militare nel mar dei Caraibi?
Nel mar dei Caraibi si respira aria di guerra. Ma cosa è successo davvero in queste ultime settimane?
Se da qualche tempo le relazioni bilaterali Usa-Venezuela parevano leggermente più distese, come dimostrato anche dal rinnovo della licenza all’impresa petrolifera Chevron, che sfrutta giacimenti petroliferi in Venezuela, e da un dialogo per l’intercambio di prigionieri, improvvisamente lo scenario è cambiato. All’inizio di agosto Trump ha firmato un decreto che permette l’intervento militare degli Stati Uniti in Paesi terzi per debellare la rete del narcotraffico e ha accusato Maduro di essere il leader e il finanziatore del Cartel de los Soles. Da lì, il dispiegamento di forze di fronte alle coste del Venezuela, senza nessun tipo di negoziazione con il governo di Caracas.

La reazione dei Paesi latinoamericani
La manovra statunitense apre scenari di conflitto che potrebbero degenerare in tempi molto brevi e coinvolgere il Venezuela e, indirettamente, anche i Paesi limitrofi come la Colombia, che rischia di vedere le proprie frontiere affollate da cittadini venezuelani in fuga e da membri dei diversi cartelli e bande criminali.
Di fronte a tale dispiegamento di forze, le reazioni di altri Paesi latinoamericani non si sono fatte attendere. Se Caracas ha definito l’operazione statunitense come pura dimostrazione di forza, una interpretazione non molto diversa arriva anche dal Messico. La presidenta Claudia Sheinbaum si è detta sgomenta di fronte a un decreto che autorizza l’intervento militare statunitense nella lotta al narcotraffico senza l’autorizzazione del Paese interessato. Un’azione come questa, più vicina all’invasione che a un’operazione di contrasto alla criminalità organizzata, rischia di destabilizzare gli equilibri politici in tutta l’America Latina.
Inoltre, il governo messicano mette in dubbio anche le accuse di narcotraffico che gli Stati Uniti hanno rivolto contro Maduro, in quanto non ci sarebbero prove concrete della sua collusione nel traffico di droga.

L’opposizione venezuelana
Intanto, gli unici ad applaudire l’azione statunitense sono gli oppositori del chavismo, che da sempre auspicano un intervento militare da parte degli Stati Uniti che spazzi via il regime. Tra di loro, ovviamente, la leader dell’opposizione María Corina Machado che, dal luogo segreto in cui si trova in esilio, ha espresso riconoscenza verso il presidente Trump.

E intanto la gente in Venezuela…
Mentre Maduro, dal suo bunker, e Trump, dalla Casa Bianca, decidono il futuro dello stato bolivariano, a pagarne le conseguenze è la popolazione venezuelana. Lo stipendio minimo nel paese è di 5 dollari, cifra che non basta neanche per l’acquisto di una scatola di ibuprofene o qualsiasi altra medicina di uso comune. La mancanza di liquidità ha portato circa 7,9 milioni di persone, il 28% di tutta la popolazione, a migrare nei vicini stati di Colombia, Perù, Brasile ed Ecuador. Si tratta di un esodo iniziato circa dieci anni fa che da dopo la pandemia si è orientato verso gli Stati Uniti. Tuttavia, a partire da gennaio 2025, con l’insediamento del secondo governo Trump, sono state cancellati i pochi programmi umanitari che permettevano ai cittadini venezuelani di entrare nel territorio statunitense in forma legale. Da quel momento, si osserva un flusso inverso e centinaia di migliaia di venezuelani stanno ritornando nel proprio Paese o in quelli limitrofi con il sogno americano spezzato, dopo anni trascorsi nel limbo dei Paesi di transito senza essere riusciti ad arrivare a destinazione né rientrare in patria.
Ad attenderli ci sarà un Paese sospeso tra corruzione di stato e povertà indotta dalle sanzioni statunitensi che al momento non ha nessuna prospettiva economica da offrire ai propri cittadini. Proprio in questi giorni, la Fao, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha annunciato il dimezzamento dei fondi umanitari dovuta alla chiusura di Usaid, agenzia di cooperazione governativa statunitense, voluta dalla stessa amministrazione Trump all’inizio del suo mandato.
Questo significa che i venezuelani potrebbero patire denutrizione e malnutrizione grave, in quanto già nel 2024, secondo i dati dell’Onu, oltre l’82% delle famiglie si trovava in situazione di povertà e il 53% di povertà estrema.

Simona Carnino

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