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Venuti dal mare

Salvare le cultura garifuna
I Garifuna sono un popolo meticcio. Sembrano nati per caso. Ma hanno una loro identità e non la vogliono perdere. C’è chi insegna la lingua e chi diffonde la cultura.Cercano il riconoscimento dello Stato. Reportage dalla città caraibica del Guatemala.

Livingston. Dipartimento di Izabal. È notte nell’unica città caraibica del Guatemala, cuore pulsante della cultura afro-indigena garifuna. All’improvviso si sente in lontananza un suono di trombe, accompagnate dal ritmo ipnotico di tamburi. In una strada buia, illuminata appena dalla luce fioca di un lampione, appare un gruppo di donne che cammina in due file ordinate. La musica si fa più intensa e proprio in quel momento le donne iniziano a ballare, facendo ondeggiare le ampie gonne colorate tipiche del popolo Ch’orti’, uno dei ventidue gruppi etnici riconosciuti a oggi come diretti discendenti dei Maya.

Ma loro non sono Maya: sono Garifuna, o Garinagu, nella loro lingua ancestrale. Ballano al ritmo del pororó, una danza che fonde elementi maya e cattolici e rallegra le strade di Livingston ogni anno, il giorno della Vergine di Guadalupe.

Piano piano l’allegra comitiva si dirige verso una sala comunale dove la festa proseguirà fino all’alba.

«Speriamo non salti la corrente», dice una donna, riferendosi ai frequenti blackout che lasciano la città al buio quasi ogni giorno, sintomo di uno storico oblio in cui questo piccolo angolo del Guatemala è stato destinato dal suo governo centrale. Si esprime in garifuna, una lingua che non si sente quasi più parlare, nemmeno a Livingston – La Buga, come la chiamano i locali -, la città guatemalteca del dipartimento di Izabal dove ancora oggi vive la maggior parte della popolazione garinagu del Paese.

Mujeres garífunas bailan el Pororó por las calles durante la Fiesta de la Virgen de Guadalupe, una danza que forma parte de un ritual sincrético en el que las participantes celebran una festividad católica vistiendo, en su mayoría, trajes tradicionales maya Q’eqchi’, Livingston, Guatemala, 11.12.24

Chi sono i Garifuna

Livingston è un crocevia culturale dove convivono le popolazioni maya Ch’orti’, ladine, indù e garifuna. Questi ultimi rappresentano appena lo 0,1% della popolazione guatemalteca, per un totale di circa 17mila persone, pari, ad esempio, a un paese di medie dimensioni in Italia.

Secondo la versione più accreditata, i Garifuna discendono da un gruppo di persone dell’Africa occidentale sopravvissute al naufragio di una nave schiavista nel XVII secolo, al largo della costa caraibica. Dopo l’approdo sull’isola di Saint Vincent, si mescolarono con gli Arawak, la popolazione indigena locale. Alla fine del Settecento, in seguito al conflitto coloniale tra francesi e britannici, furono deportati lungo la costa caraibica dell’America Centrale. Si stabilirono soprattutto in Honduras e Belize, e in misura minore in Guatemala e Nicaragua. Oggi si stima che esistano circa 300mila Garifuna nel mondo. Un popolo con un’identità complessa e cosmopolita che si riflette perfettamente anche nella lingua che è un mix di idiomi africani, arawak ed europei, riconosciuta dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. «La verità è che solo il 5% dei Garifuna parla ancora la lingua», racconta Rogelio Lino Franzua, scrittore e attivista culturale nato e residente a Livingston da oltre 50 anni. «La trasmissione intergenerazionale si è interrotta a causa del razzismo e della discriminazione che abbiamo subito per secoli, almeno fino agli accordi di pace del 1996».

Mujeres garífunas bailan el Pororó por las calles durante la Fiesta de la Virgen de Guadalupe, una danza que forma parte de un ritual sincrético en el que las participantes celebran una festividad católica vistiendo, en su mayoría, trajes tradicionales maya Q’eqchi’, Livingston, Guatemala, 11.12.24

La lingua perduta

Tra il 1960 e il 1996, il Guatemala ha vissuto un lungo conflitto armato interno, che ha visto opporsi lo Stato, governato da regimi militari, e studenti, intellettuali, organizzazioni della società civile e popoli indigeni che rivendicavano una società più inclusiva, ma anche pace e dignità. I 36 anni di guerra interna sono stati caratterizzati da gravi violazioni dei diritti umani ed episodi di violenza sproporzionata nei confronti della popolazione indigena.

In quegli anni, parlare pubblicamente una lingua originaria era spesso causa di sospetto, emarginazione o repressione. Solo con la firma degli accordi di pace e, in particolare, dell’Accordo sull’identità e i diritti dei popoli indigeni, lo Stato ha iniziato a riconoscere ufficialmente le culture native.

«Ma il pregiudizio è rimasto – aggiunge Franzua -. Parlare garifuna, maya o xinka è stato a lungo sinonimo di arretratezza e vergogna. È così che abbiamo cominciato a perdere la nostra lingua».

Oggi, il 60% della popolazione guatemalteca si riconosce come indigena, suddivisa in oltre ventidue popoli maya oltre alla comunità garifuna e xinka. Ma in molte aree, preservare l’uso della lingua è una lotta quotidiana.

«Io parlo solamente in garifuna con mia figlia di tre anni – racconta Clarion José García González, 28 anni, fondatore del progetto turistico Dibasei -. Molti genitori non lo fanno perché temono che i loro figli vengano bullizzati dai compagni di scuola, dove si parla solamente spagnolo, ma per me tramandare il garifuna è un atto di resistenza contro l’omologazione culturale».

Playa la Capitania, Livingston, Guatemala, 10.12.24

L’accademia

A portare avanti questa resistenza linguistica c’è anche Libio Centino, 58 anni, linguista e fondatore dell’Asociación nacional de garinagu docentes, o garinagu dundei, come si dice nella sua lingua.

Dal 2010 lavora per formalizzare l’insegnamento e la scrittura del garifuna. Ispirandosi all’esperienza storica della riconosciuta Accademia delle lingue maya che nel tempo ha portato alla creazione di numerose università in cui si insegna unicamente in lingua nativa, Centino ha proposto la creazione di una accademia della lingua garifuna. «Siamo in attesa di una prima validazione del metodo da parte dell’Accademia delle lingue maya – spiega lo studioso -. Superato questo passo presenteremo al Parlamento la richiesta ufficiale di creazione di questa istituzione».

Se la proposta verrà accettata, il passo successivo sarà costruire di fatto l’accademia e stampare libri di grammatica garifuna che al momento sono in quantità ridotta e prodotti per iniziativa privata.

«Per ora, i nostri libri sono le nostre canzoni – dice con un sorriso -. È solo nella musica che possiamo cogliere tutte le sfumature della nostra lingua che si fa poesia».

Soraida Aime Enríquez Bermúdez, de 39 años, prepara a sus hijas Brihana, de 8 años, y Brittaney, de 11, para la celebración de la Virgen de Guadalupe en Livingston, Guatemala, 12.12.24

Cantare la parranda

Tra i generi musicali garifuna più conosciuti nel mondo, rientrano la parranda e la punta che, andando oltre la pura espressione musicale, sono veri e propri archivi linguistici.  «La lingua è l’espressione dell’essere delle persone, per cui quando dovesse morire, scompariremo anche noi», conclude Centino. «E questo non possiamo permetterlo». In assenza di una accademia ufficiale, c’è chi insegna garifuna dal salotto di casa. È il caso di Soraida Aimé Enríquez Bermúdez, 39 anni, autonominatasi maestra di scuola interculturale. Dopo la partenza del marito, migrato in Spagna, ha cresciuto da sola le figlie Briana, 8 anni, e Britaney, 11. Ogni sabato, nonostante i mille impegni tipici di una madre single, apre gratuitamente le porte della sua casa per insegnare ai bambini del quartiere a parlare e scrivere in garifuna.

Si comincia dalle basi: parole semplici come Wadimalu, che significa Guatemala. «È la mia lotta personale per salvare la lingua», spiega. E per raggiungere questo scopo, Soraida usa libri illustrati, stampati grazie alle rimesse inviate dai migranti garifuna negli Stati Uniti. «È il loro modo per restare legati alla cultura d’origine, anche se ormai parlano quasi solo inglese».

Playa la Capitania, Livingston, Guatemala, 10.12.24

Migrare è perdere la cultura?

«La mia parola preferita in garifuna è Ondarúnei, unione – confessa Clarion José -. Ma la migrazione ci sta dividendo. Stiamo perdendo la lingua proprio perché la gente se ne va e la maggior parte non ritorna più neppure per le vacanze estive».

Basta camminare per Livingston per capirlo: molte delle tipiche case caraibiche in legno sono abbandonate, con finestre inchiodate dietro una croce di legno e giardini invasi dalle erbacce. Sono le case edificate con le rimesse dai migranti, che hanno mandato i soldi per costruirle per poi tornarci a vivere, ma alla fine non sono mai tornati.

«Più che la gente, stiamo perdendo la terra, che viene abbandonata e quindi occupata dai guatemaltechi di altre etnie che vengono qui per lavorare. Un esempio sono le persone ladine o maya ch’orti’», osserva Juan Carlos Sánchez Álvarez, 58 anni, guida spirituale (ounaguilei) della comunità garifuna di Livingston. Lui oggi vive tra Guatemala e Stati Uniti, dove offre consulenze spirituali private online. «Tuttavia, io credo che la nostra cultura e la nostra lingua non si perderanno. Ci sarà sempre chi, come me, si dedicherà a custodirle e che, quindi, tornerà in questo territorio. È qui che conserviamo la nostra spiritualità. Durante le grandi cerimonie collettive di maggio, per esempio, io sono sempre a Livingston, non posso certo farle dagli Stati Uniti. Il popolo garifuna non scomparirà mai», conclude, interrompendosi per rispondere a una chiamata proveniente dal Paese Nordamericano. Nel 2024, le rimesse inviate dai migranti – soprattutto dagli Stati Uniti – continuano a rappresentare una delle principali fonti di reddito per l’America Centrale. «La migrazione ha un impatto positivo sulle nostre comunità», dice Libio Centino. «Ma esiste anche il rischio che la cultura statunitense, portata da chi rientra nella nostra comunità dopo tanti anni al Nord, finisca per sovrapporsi alla nostra».

Retrato de Juan Carlos Sánchez Álvarez, de 58 años, mensajero espiritual y experto en medicina ancestral de la comunidad garífuna. Promotor de la expresión espiritual garífuna en Guatemala y en el extranjero. Livingston, 12 de diciembre de 2024.

Un timore fondato in quanto l’appiattimento culturale e la perdita delle tradizioni e delle lingue locali è una realtà in tanti luoghi del mondo.

Eppure, questa notte, mentre a Livingston si danza al ritmo del pororó, la scomparsa della cultura garifuna sembra davvero impensabile.

Nella sala municipale, gruppetti di donne, euforiche per aver bevuto due birre di troppo e accaldate dal ballo sfrenato, si abbracciano ridendo, felici e spensierate. A un certo punto però le luci si spengono all’improvviso, lasciando tutti al buio. I musicisti smettono di suonare e la gente si riversa fuori dal locale sotto la pioggia battente.

«Un altro blackout. Ogni giorno è così», dice una donna in garifuna, riparandosi sotto un piccolo gazebo dove vendono panini perfetti per la fame notturna indotta dall’alcol.

A quel punto la festa si dissolve nel silenzio, e per le strade di Livingston rimane solo il suono incessante della pioggia tropicale.

Simona Carnino

Gli ultimi reportage di simona carnino
Clairon José García González posa en su proyecto de ecoturismo y promoción de la cultura garífuna en Livingston, Guatemala, 12.12.2024.
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