

Ombre cinesi sull’America Latina
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Mentre gli Usa di Trump sono impegnati nelle loro guerre commerciali, la Cina di Xi prosegue la propria espansione. Lo scorso 13 maggio il presidente cinese ha incontrato a Pechino i principali leader sudamericani per consolidare le relazioni economiche.
Se, nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’America Latina è un campo di battaglia prioritario, l’avanzata nel subcontinente del colosso asiatico appare inarrestabile.
Che Washington voglia riaffermare il suo dominio sulla regione lo ha messo in chiaro, senza prendersi neppure la briga di sfumare il concetto. Il segretario della Difesa Usa Pete Hegseth, in un’intervista a Fox News a metà aprile, ha affermato che il governo Trump «si sta riprendendo il suo cortile di casa». Per frenare l’incontenibile espansione cinese in America Latina, non basteranno, tuttavia, al di là di alcuni effimeri risultati raggiunti, le minacce e le pressioni messe in campo dal tycoon. Per esempio, quelle nei confronti di Panama, il cui governo, peraltro da sempre fedelissimo a Washington, è stato obbligato a congelare le sue relazioni economiche con Pechino.
Tra l’aggressivo protezionismo di Trump e l’offerta cinese sotto forma di nuovi crediti e investimenti, non è difficile – infatti – prevedere da che lato penderà la bilancia. Non è un caso se il flusso commerciale tra Paesi latinoamericani e Cina è aumentato di oltre 35 volte negli ultimi due decenni, superando per la prima volta nel 2024 i 500 miliardi di dollari (dagli appena 12 miliardi del 2000) e consolidando la potenza asiatica come il secondo maggiore partner commerciale della regione ma il primo per Brasile, Cile, Perù e Uruguay (si veda il grafico a pag. 54).
Un’avanzata, quella della Cina, che ha avuto inizio negli anni 2000, quando, approfittando della distrazione degli Stati Uniti (troppo impegnati nella loro «guerra contro il terrorismo» in Afghanistan e in Iraq), la potenza orientale si è rivolta all’America Latina. Il suo obiettivo era di assicurarsi un accesso alle materie prime e ai minerali strategici, dal litio della Bolivia al rame del Perù, ampliando man mano i suoi investimenti nel campo delle infrastrutture, dell’agricoltura, dell’energia, del settore minerario, delle telecomunicazioni, dell’innovazione tecnologica.
Non può non richiamare l’attenzione il fatto che la principale fabbrica di automobili elettriche cinesi in Brasile, la Byd, sia localizzata in un edificio precedentemente appartenuto alla Ford. E che i fabbricanti cinesi controllino addirittura l’86% del mercato latinoamericano dei veicoli elettrici.
Fondamentale, al riguardo, il lancio della Belt and road initiative (Bri), la nuova e controversa Via della seta a cui hanno aderito oltre 20 dei 33 Paesi latinoamericani: un’enorme rete di infrastrutture destinata a facilitare l’accesso alle materie prime della regione. Oltre 200 i progetti già realizzati, di cui alcuni di enor-me portata, come, per esempio, quello del gigantesco porto di Chancay in Perù, il più importante del Sudamerica (tre volte più grande del maggiore porto d’Europa, quello di Rotterdam). Inaugurato a novembre del 2024, è destinato a diventare un decisivo snodo logistico per il commercio tra Asia e Sud America: un nuovo corridoio per l’agribusiness e l’estrazione mineraria con un elevato impatto sociale e ambientale sulle comunità locali.
Ancora più decisivo, tale snodo, sarebbe se dovesse concretizzarsi il megaprogetto di costruzione di una nuova linea ferroviaria in Brasile per trasportare al porto di Chancay le materie prime brasiliane. Un progetto, quello della cosiddetta «ferrovia biocêanica», che, secondo gli esperti, interesserà inevitabilmente aree naturali protette e riserve territoriali indigene tanto in Perù quanto in Brasile.

Un Dragone per amico
Quanto grandi siano le prospettive di un aumento degli scambi commerciali tra Cina e America Latina lo ha mostrato anche la quarta riunione ministeriale del Forum delle Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi (Celac) e Cina, svoltasi il 13 maggio scorso a Pechino, a dieci anni dalla creazione dell’organismo.
Inaugurando la riunione, il presidente Xi Jinping ha promesso di rafforzare la presenza della Cina in America Latina e nei Caraibi con una nuova linea di credito di 9 miliardi di dollari e con nuovi investimenti nell’ambito della Bri, centrati in particolare su infrastrutture, catene produttive, intelligenza artificiale e rete 5G. E ponendo un forte accento sul multilateralismo, il presidente cinese ha adottato toni sconosciuti al governo Usa, difendendo il diritto dei Paesi della Celac a uno sviluppo sovrano e indipendente: «Chi trova un amico, trova un tesoro. La Cina sarà sempre una buona amica e una partner affidabile dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Insieme scriveremo un nuovo capitolo della nostra comunità con un futuro condiviso».
Accenti, questi, ribaditi anche nella «Dichiarazione di Pechino», il documento politico conclusivo del vertice, mirato a consolidare un modello di cooperazione basato sui principi del rispetto mutuo, dello sviluppo «sostenibile», dell’autodeterminazione e di un multilateralismo inclusivo, in una congiuntura globale segnata da conflitti militari, dispute commerciali e rivalità geopolitiche. Una carta di (ottime) intenzioni, che spazia dall’impegno a favore dei diritti umani alla protezione dei popoli indigeni, dei gruppi afrodiscendenti e delle popolazioni più vulnerabili, dall’accento sull’agenda climatica e sulla transizione energetica alla promozione degli scambi culturali.
E se, tra il dire e il fare, c’è molto più dell’Oceano Pacifico che separa le due regioni, in Brasile c’è chi ha comunque salutato la Dichiarazione di Pechino come il simbolo della nascita di un nuovo mondo e il definitivo affossamento del cosiddetto «Consenso di Washington» (come è stata eufemisticamente chiamata l’imposizione del modello neoliberista al continente americano e al mondo intero).

L’astuzia di Pechino, gli errori di Washington
È una combinazione di «audacia economica e astuzia geopolitica», secondo le parole dell’economista argentino Claudio Katz, quella che ha reso possibile l’espansione della Cina, la quale si è concentrata esclusivamente sulla sfera economica, evitando qualsiasi scontro sul piano geopolitico e guardandosi bene dall’accompagnare i suoi investimenti con basi militari o esercizi militari congiunti. E – oltretutto -conquistandosi la riconoscenza di diversi Paesi latinoamericani quando, durante la pandemia, a fronte del disinteresse più completo mostrato dalla prima amministrazione Trump, Pechino aveva messo a disposizione più di 300 milioni di dosi di vaccini e 40 milioni di articoli sanitari.
È per questo che quella sorta di ultimatum lanciato da Trump in un’intervista a Fox News il 15 aprile, quando ha dichiarato che i Paesi latinoamericani dovranno scegliere tra Cina e Stati Uniti, appare decisamente come un’arma spuntata.
Dopo aver ricoperto «l’America di miserie in nome della libertà», come profetizzava nel 1829 il libertador Simón Bolívar, gli Stati Uniti non hanno alcuna credibilità nel mettere in guardia la regione dalle mire espansioniste cinesi.
Succede così che, durante una sua visita in Argentina a metà aprile, il segretario del Tesoro Usa Scott Bessent abbia accusato la Cina di realizzare investimenti predatori nei Paesi del Sud globale e particolarmente in America Latina, affermando che Pechino starebbe assumendo il controllo sulle risorse minerarie del subcontinente attraverso l’arma di debiti insostenibili. La risposta del portavoce del ministero degli Esteri cinese Lin Jian non si è fatta attendere: «Le vene aperte dell’America Latina sono state causate dal saccheggio e dalla dominazione storica degli Stati Uniti, i quali non hanno l’autorità morale per criticare la cooperazione» tra le due regioni.
Una dichiarazione, questa, che esprime al meglio il ruolo con cui la potenza asiatica vuole presentarsi al Sud globale: con il riferimento alla celebre opera dell’intellettuale uruguayano Eduardo Galeano, un pilastro nella memoria storica latinoamericana, la Cina prova a opporre all’imperialismo a stelle e strisce mascherato da difesa della democrazia un’offerta di investimenti in infrastrutture, tecnologie ed energia basata su una retorica win-win. Senza interferire, senza minacciare e senza invadere. Unica condizione: la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan e il sostegno al principio di «una sola Cina».

Non è tutto oro
Che poi a vincere non siano tanto i Paesi latinoamericani, quanto Pechino, è fuori di dubbio. Man mano che viene meno la tradizionale sottomissione dei governi latinoamericani ai dettami di Washington, infatti, cresce anche la loro dipendenza e subordinazione economica dalla potenza asiatica, con conseguente rafforzamento del «modello estrattivista», nel significato più ampio che questo ha assunto in America Latina a da qui in tutto il Sud globale e oltre. È un processo che non comprende solo l’industria estrattiva di idrocarburi e minerali preziosi, ma anche le monocolture – di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto – che avanzano in maniera inarrestabile a scapito di foreste e di comunità indigene e contadine, e comprende – infine – le grandi infrastrutture necessarie all’esportazione delle materie prime.
Non a caso, per ammissione dello stesso presidente Lula, la Cina «è un grande motore dell’agribusiness del Brasile», responsabile, secondo il noto climatologo Carlos Nobre, di circa il 75% delle emissioni di gas climalteranti. Mentre grandi polemiche ha suscitato in Argentina l’incremento della produzione su larga scala di carne di maiale destinata al gigante asiatico.
La lista degli esempi sarebbe, però, lunghissima. Basti pensare alle proteste delle organizzazioni della società civile e delle associazioni ambientaliste in Bolivia contro i contratti di sfruttamento del litio nel Salar di Uyuni stipulati con la multinazionale cinese Hong Kong Cbc (e con quella russa Uranium One Group). Tra le tante obiezioni, la più rilevante è il fatto che, come in tutto il cosiddetto «triangolo del litio» (tra Cile, Bolivia e Argentina), dove è concentrato quasi il 65% delle riserve mondiali, l’estrazione del nuovo «oro bianco» avviene tramite l’evaporazione della salamoia, un processo ad altissimo consumo idrico che rischia di prosciugare corsi fluviali e zone umide.

O basti considerare la lotta delle comunità mapuche pewenche contro la costruzione della centrale idroelettrica Rucalhue sul fiume Biobío, in Cile, in uno spazio di profondo valore spirituale e culturale per le comunità, da parte della China international water & electric, una filiale della China three gorges corporation.
Quando una delegazione mapuche è andata a Santiago per esigere l’immediata sospensione dei lavori, l’ambasciata cinese – ha denunciato il leader indigeno Segundo Suárez Marihuan – «le ha sbattuto la porta in faccia», mostrando tutto il carattere illusorio della presunta strategia win-win.
Agli scambi con la Cina, tuttavia, guardano con speranza anche alcuni movimenti popolari. Come, per esempio, il movimento dei Sem terra del Brasile, che, nel momento stesso in cui porta avanti la sua lotta contro l’agribusiness, che con la Cina fa affari d’oro, collabora con il colosso asiatico in progetti di produzione di fertilizzanti organici (cinque gli impianti già previsti), di generazione di energia solare e di fabbricazione di piccoli trattori adeguati al modello di agroecologia promosso dal movimento.
Claudia Fanti*
- CLAUDIA FANTI, giornalista, scrive da più di trent’anni sul settimanale «Adista». Collabora con «il Manifesto», «MicroMega» e altre testate. Esperta di movimenti ecclesiali, sociali ed ecologici dell’America Latina e di ecoteologia, tiene corsi di educazione ambientale e sui rapporti tra scienza e spiritualità ecologica. È cocuratrice della serie «Oltre le religioni» della Gabrielli editori e autrice del libro «A casa nel cosmo», Gabrielli 2025.
