

Il futuro non sarà dell’auto
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L’auto dà lavoro a milioni di persone, ma il suo è un settore maturo, oltre che inquinante. Si sostiene che la soluzione sia l’auto elettrica. La realtà è però diversa. Per un futuro giusto e sostenibile sono altre le strade.
Il 2025 si è aperto decisamente male per l’industria automobilistica. Almeno per quella europea. Non certo un fulmine a ciel sereno se si considera che, già nel 2018, si ebbe una prima riduzione di vendite a livello globale. Riduzione che è continuata anche negli anni successivi per raggiungere il suo punto più elevato nel 2020, in piena pandemia da Covid.
Successivamente, è iniziata la risalita per raggiungere i 74,6 milioni di vendite a livello mondiale nel 2024, ma ancora 5 milioni in meno rispetto al 2017 (dati Acea).
L’anno è stato altalenante: qualche mese di più, qualche mese di meno, per chiudersi complessivamente con un più 2,5% rispetto al 2023. La lieve crescita ha riguardato soprattutto Cina e Stati Uniti, mentre il mercato europeo non ha registrato variazioni di rilievo. Intanto, nel primo trimestre 2025, l’Europa ha registrato una riduzione di vendite dello 0,2% rispetto allo stesso periodo di un anno prima (meno 1,6 in Italia). Le industrie che ne hanno risentito di più sono state proprio i maggiori attori del mercato europeo: Volkswagen (che include Audi, Seat, Cupra, Škoda, Bentley, Lamborghini e Porsche) e Stellantis (con i marchi italiani: Fiat, Abarth, Alfa Romeo, Lancia, Maserati).
Gli analisti imputano lo scarso dinamismo del mercato dell’auto a guerre, economia rallentata, alti prezzi e alti tassi di interesse che scoraggiano gli acquisti a rate.
Un miliardo e mezzo di auto
In realtà, quello dell’auto è un settore ormai saturo in molte aree del mondo. A livello globale, i mezzi circolanti sono un miliardo e mezzo, con incidenze altissime in alcuni continenti: quasi un’auto a testa in Nord America e una ogni due persone in Europa. Oltre che saturo, il settore è anche inquinante dato che contribuisce a circa il 12% delle emissioni mondiali di anidride carbonica.
Nell’Unione europea le auto contribuiscono addirittura al 16% del totale emesso entro i suoi confini. È proprio questa sua alta capacità inquinante che sta generando problemi economici alle case automobilistiche, soprattutto nell’Unione europea che è all’avanguardia nella lotta ai cambiamenti climatici.
Fra le misure adottate dalla Commissione europea c’è anche quella di imporre alle case automobilistiche la produzione di auto che – gradualmente – riducano le emissioni di anidride carbonica, fino ad arrivare allo zero nel 2035.
Più in specifico i limiti sono di 93,6 grammi a chilometro per il periodo 2025-2029 e di 49,5 grammi per gli anni 2030-2034. Subito si sono levate le grida di allarme dei produttori che, temendo di non riuscire a rispettare i nuovi standard, hanno paventato multe miliardarie. Una botta, a loro dire, che rischierebbe di metterli al tappeto in un momento in cui devono già investire un sacco di soldi nella trasformazione industriale che, in pochi anni, li possa portare a produrre solo auto elettriche. E, alla fine, il lavoro per indurre le autorità europee ad ammorbidire le regole sulle emissioni di CO2 sembrerebbe aver avuto i suoi frutti: nel marzo 2025, infatti, la Commissione europea ha annunciato l’intenzione di voler modificare il regolamento in questione in modo da dare più respiro alle case automobilistiche.

La transizione e l’auto elettrica
Su un punto sembrano essere tutti d’accordo: l’auto va prodotta, ma deve essere pulita, ossia elettrica. Un ulteriore caso di transizione ecologica in salsa capitalista che insegue il mito della crescita infinita, illudendosi che possa conciliarsi con la capacità di tenuta del pianeta attuando un semplice cambio di tecnologia. Ma di produzioni a impatto zero non ne esistono, considerato che perfino l’invio di un messaggio di posta elettronica richiede consumo di energia e, quindi, di materia.
Nel caso dell’auto elettrica l’uni-co obiettivo ambientale perseguito è la riduzione di anidride carbonica, ma se già esistono dubbi rispetto a questa finalità, ancora di più ne sorgono se allarghiamo la visuale ad altri aspetti. Per cominciare la vita di un’auto elettrica non comincia quando è su strada, ma quando i suoi materiali si trovano ancora nelle viscere della terra sotto forma di minerali grezzi.
Il passaggio dalle miniere ai saloni di vendita è un lungo processo di trasformazione che coinvolge decine di materiali, petrolio incluso, i quali, oltre a manomettere l’ambiente nei luoghi di estrazione e a richiedere il consumo di grandi quantità di acqua e di energia, comportano anche il rilascio di molti rifiuti, anidride carbonica compresa.
Secondo i calcoli della rivista on line earth.org, sono ben quattro le tonnellate di anidride carbonica emesse lungo il percorso produttivo di un auto elettrica. Ma queste quattro tonnellate sono che l’inizio. Il vero problema arriva quando si tratta di ricaricare le batterie. Se l’energia elettrica utilizzata proviene da centrali a combustibili fossili, non si fa altro che far rientrare dalla finestra la CO2 che si è espulsa dalla porta.
In termini di anidride carbonica, l’auto elettrica ha senso solo se il sistema energetico nazionale si regge sulle rinnovabili. Tuttavia, poiché è abbastanza difficile soddisfare la nostra voracità energetica solo con acqua, vento e sole, ormai tutti fanno un gran parlare di apertura al nucleare. Una tecnologia tutt’altro che priva di rischi.
Un’altra seria criticità dell’auto elettrica è la scarsità dei minerali necessari alla costruzione delle batterie: litio, cobalto, grafite e le terre rare. Probabilmente ce n’è abbastanza per garantire l’auto elettrica ai benestanti, ma non alla gente comune e, soprattutto, a quel miliardo di persone che non dispone ancora di energia elettrica.
Così il nostro superconsumo si trasforma in una dichiarazione di guerra contro i poveri.
La necessità di ridurre i consumi
In un documento intitolato «Sradicare la povertà oltre la crescita» (maggio 2024), Olivier De Schutter, relatore speciale alle Nazioni Unite per i diritti umani, mette in evidenza l’inconciliabilità fra il nostro consumismo e la dignità degli esseri umani a livello planetario. Il report Onu si conclude affermando che la lotta alla povertà esige, inevitabilmente, un ridimensionamento dei consumi da parte dei più ricchi. Che non significa ritorno alla candela, ma eliminazione del superfluo, e un altro modo di organizzare il soddisfacimento dei nostri bisogni.
Nell’ambito della mobilità, ad esempio, significa coprire a piedi i piccoli percorsi, usare la bici per i medi tragitti, utilizzare mezzi pubblici o condivisi sulle lunghe percorrenze, concepire il grande viaggio come un evento eccezionale della vita.
Molti stanno cominciando a capire che, per coniugare sostenibilità con equità, dobbiamo ritrovare il senso del limite. Ma una paura ci impedisce di staccarci dal consumismo: si chiama posto di lavoro. Nel settore auto, ad esempio, gli addetti sono quasi 14 milioni a livello europeo, il 6% di tutti gli occupati. Che faranno tutte quelle famiglie se la gente smette di comprare auto?
Il problema è serio e va affrontato con spirito di solidarietà, ma non può essere utilizzato come giustificazione per continuare nel solco del consumismo. Al contrario, bisogna ammettere che siamo cresciuti in una logica di malsviluppo che ha espanso settori nocivi, utili solo al mercato. Fra essi l’auto, la moda, l’arredamento, l’elettronica, la pubblicità, ma anche le armi e molto altro. Quei settori vanno fortemente ridimensionati, sapendo che potremo farlo senza eccessivi scossoni se sapremo battere quattro strade.
Le strade per l’alternativa
La prima è il soccorso alle persone colpite dalla riduzione del lavoro affinché possano continuare a provvedere a se stesse nonostante la perdita dell’impiego.
La seconda è la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per garantire l’inclusione lavorativa di tutti. Concetto semplice che rappresenta l’aspirazione di molti, ma che trova la resistenza dei proprietari d’azienda timorosi per le ricadute sui loro profitti.
La terza strada, altrettanto semplice da intraprendere, ma più difficile da accettare perché si scontra con la nostra mentalità, riguarda la funzione del lavoro. Nella nostra società mercantile il lavoro serve solo a guadagnare un salario perché la nostra dipendenza dal denaro è diventata totale. Per qualsiasi bisogno ci venga in mente, la soluzione è sempre comprare. Ma per comprare ci vogliono i soldi e poiché non abbiamo altro modo di ottenerli se non vendendo il nostro tempo, siamo diventati tutti sostenitori del consumismo. Abbiamo ben chiaro, infatti, che le aziende assumono solo se vendono ciò che producono. Perciò, consideriamo il consumo una virtù che sostiene il lavoro. L’unico modo per uscire da questo circolo vizioso è recuperare la concezione originaria del lavoro. Quella del tempo in cui il lavoro sfuggiva al circuito del denaro perché era messo al servizio diretto dei bisogni che ciascuno avvertiva. Una modalità che, se ha il limite di potersi attuare solo in ambiti semplici, ha il vantaggio di rompere la dipendenza dai consumi degli altri. Ogni bisogno che riusciamo a soddisfare da soli è non solo conquista di autonomia, ma anche contributo dato alla sostenibilità e all’equità. Per questo il fai da te va espanso in tutti gli ambiti possibili ricordandoci che già oggi è presente fra noi.
Il già citato rapporto Schutter sostiene che nel mondo «circa 16,4 miliardi di ore sono dedicate quotidianamente alla cura dei bambini e dei familiari più anziani oltre che alle attività domestiche come quella di cucinare, pulire, riparare, procurarsi acqua e legna da ardere. Una quantità di tempo che corrisponde a otto ore al giorno di due miliardi di persone che provvedono alle proprie famiglie senza corrispettivo in denaro. Se questo lavoro venisse conteggiato secondo i parametri di un salario minimo, rappresenterebbe il 9% del prodotto lordo mondiale».
La quarta strada che dobbiamo battere è il potenziamento (e la trasformazione) dell’economia pubblica. Lo spazio e il ruolo da assegnare all’economia pubblica è da sempre oggetto di dibattito fino a contraddistinguere gli schieramenti politici.
L’opinione di chi scrive è che l’economia pubblica deve essere lo spazio della solidarietà collettiva. Una solidarietà organizzata non solo per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali riconosciuti come diritti, ma anche la tutela dei beni comuni e un livello minimo di occupazione per tutti. Con un’avvertenza.
Secondo la concezione dominante, l’economia pubblica è una sorta di vassallo, addirittura un parassita che vive di tasse, ossia di ricchezza generata nel mercato. Per cui se il mercato va bene, l’economia pubblica può fornire molti servizi, se invece va male, deve autolimitarsi. Una dipendenza che va spezzata perché impedisce all’economia pubblica di svolgere il ruolo di erogatore di servizi a tutela dei diritti e la funzione di datore di lavoro di ultima istanza, come invece dovrebbe essere.

Non soldi, ma tempo e competenze
La realtà lo dimostra: abbiamo un esercito di disoccupati e una quantità infinita di bisogni da soddisfare, ma non operiamo la connessione, semplicemente perché non ci sono i soldi per pagare gli stipendi. E se producessimo «un corto circuito»? Se invece di chiedere soldi ai cittadini, chiedessimo tempo e competenze, non risolveremmo il problema?
Tra comunità e cittadini, il patto potrebbe essere semplice. Ogni adulto mette a disposizione dieci giorni al mese, o quello che sia, e in cambio si aggiudica il diritto, dalla culla alla tomba, di accedere – gratis per sé e i propri familiari – a tutti i beni e i servizi che la comunità ha classificato come diritti: una quantità appropriata di acqua, cibo, vestiario, energia, oltre ad alloggio, sanità, istruzione, trasporti locali, comunicazioni. Un paracadute integrale che risolverebbe in forma ugualitaria qualsiasi altra esigenza di pensione e reddito di cittadinanza.
D’un colpo costruiremmo una grande casa capace di garantire a tutti una triplice area di sicurezza: la salvaguardia dei beni comuni, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali e un’occupazione minima.
Sogno impossibile? Forse. Ma perché non cominciamo con l’istituzione di un servizio civile obbligatorio per tutti?
Francesco Gesualdi