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Guerre con il silenziatore

Centosettanta conflitti armati (quasi) sconosciuti

Un mondo di conflitti

Sipri Yearbook 2024 (Screenshot)

Risolvere le contese a suon di armi

Sono 170 i conflitti armati sulla terra: coinvolgono Stati, gruppi non statali, civili. Hanno ucciso 170mila persone in modo diretto nel solo 2023, con un impatto economico di 19mila miliardi di dollari: il 13,5% della ricchezza mondiale. La guerra non esce (ancora) dall’orizzonte.

Le statistiche internazionali evidenziano un mondo colpito da circa 170-176 conflitti armati (a seconda delle fonti). Le stime più basse parlano di 54 conflitti che coinvolgono almeno uno Stato, 76 non statali, 40 caratterizzati dalla violenza unilaterale di un attore statale o non statale contro la popolazione civile.

Secondo l’Yearbook 2024, l’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), in Svezia, nel 2023, i conflitti nel mondo che coinvolgevano almeno uno Stato erano, invece, 52: ventotto a bassa intensità (con meno di mille morti in un anno), venti ad alta intensità (tra mille e 9.999 morti) e quattro ad altissima (più di 10mila morti). Questi ultimi erano (e sono tutt’oggi) i conflitti in Myanmar, Sudan, Israele-Hamas e Russia-Ucraina. Cinquantadue guerre che hanno provocato oltre 170mila morti dirette in un solo anno.

Secondo l’ottavo rapporto di Caritas italiana sui conflitti dimenticati, «Il ritorno delle armi», pubblicato a fine 2024, a distanza di tre anni dal precedente, il livello di gravità e diffusione delle guerre nel 2023 appare abbastanza costante rispetto a tre anni prima. Il numero di conflitti e di Paesi coinvolti, infatti, varia di poche unità.

Almeno nove guerre ad alta intensità già in atto nel 2020, lo erano ancora nel 2023: Azerbaigian, Burkina Faso, Ciad, Kenya, Mali, Nigeria, Congo Rd, Somalia e Sud Sudan.

Sono diversi i centri internazionali che si occupano di studiare i conflitti nel mondo, dal già citato Sipri, all’Università di Heidelberg, in Germania, con il suo Conflict Barometer, all’Università di Uppsala, in Svezia (Conflict data program), allo statunitense Armed conflict location and event data project (Acled), all’Institute for economics and peace di Sydney, Australia con il Global peace index .

Scorrendo i dati a disposizione, l’Africa emerge come il continente con il numero più elevato di conflitti ad alta intensità, mentre il record del conflitto più longevo appartiene a quello israelo- palestinese, che può essere fatto risalire al 1917 (firma della cosiddetta Dichiarazione Balfour).

Guerre tradizionali, nuove prospettive

Rispetto alle previsioni di scenario avanzate nel corso dell’ultimo decennio, gli studi sui conflitti evidenziano alcuni mutamenti di rotta.

Innanzi tutto, non si è avverata la prospettiva di una guerra avanzata, ipertecnologica, attuata mediante l’utilizzo di apparati dotati di capacità chirurgica di offensiva.

La guerra in Ucraina, e in altre parti del mondo, dimostra la persistenza di errori umani, il ritorno a modalità belliche tradizionali, la ricomparsa del fante, della guerra di logoramento in trincea.

Una seconda previsione che non si è avverata riguarda, invece, la teoria secondo la quale la guerra sarebbe divenuta nel prossimo futuro un fenomeno residuale, relegato alle periferie del pianeta, che avrebbe compromesso le sacche meno avanzate della civiltà umana.

Una serie di recenti conflitti nel cuore dell’Europa, che hanno coinvolto le grandi potenze occidentali, dimostrano, invece, che le guerre sono un rischio trasversale che si affaccia anche alle nostre finestre, nei nostri cortili.

Nel corso degli anni i conflitti armati si sono trasformati in alcuni dei loro aspetti rilevanti. Uno di essi riguarda le diverse forme che assumono. La tradizionale distinzione tra guerre civili e guerre tra Stati, ad esempio, è stata sostituita un po’ per volta da una prospettiva interpretativa più analitica, che vede non due, ma tre tipologie: la prima è quella denominata «State-based violence» che riguarda i conflitti in cui si fronteggiano due soggetti armati, dei quali almeno uno è uno Stato; la seconda è quella del «Non-state conflict», nel quale si fronteggiano ribelli, organizzazioni criminali, milizie armate su base etnica religiosa, ecc., cioè gruppi che le principali istituzioni internazionali non riconoscono come Stati sovrani; la terza tipologia è quella chiamata «One-side violence» (violenza unilaterale), cioè quelle situazioni nelle quali un soggetto statale, parastatale, o non statale usa violenza indiscriminata sulla popolazione civile.

Rispetto a questa classificazione, come abbiamo già osservato, nel 2023 la tipologia più frequente è stata quella dei conflitti non statali, seguita dalle guerre State-based e dalle One-side violence.

Rientrano nella tipologia delle guerre statali conflitti come quello tra l’Azerbaigian e la repubblica separatista del Nagorno-Karabakh, e quello tra l’Ucraina e i separatisti filorussi, poi sfociato nell’invasione russa del febbraio 2022.

Tra i Non-state conflict vi sono varie situazioni di violenza diffusa, come, ad esempio, gli scontri armati tra i cartelli della droga messicani, quelli tra organizzazioni criminali in Brasile e quelli tra etnie e gruppi religiosi in diversi Paesi dell’Africa.

Infine, tra le situazioni di violenza unilaterale attuata da governi e/o milizie di vario tipo nei confronti dei civili come obiettivo privilegiato, possiamo fare l’esempio delle brutalità commesse dai Talebani in Afghanistan, o delle uccisioni in Iran di centinaia di manifestanti scesi in piazza per diversi mesi per protestare in seguito alla morte di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre 2022.

In una prospettiva storica, il confronto su una finestra temporale di venti anni (2002-2023) evidenzia la sostanziale stabilità delle guerre State-based, l’aumento delle violenze tra gruppi non statali (10 punti percentuali in più) e la diminuzione della violenza unilaterale mirata verso le popolazioni civili (13 punti percentuali in meno).

CAR refugees in Southern Chad

Sempre più armati

Secondo il Global peace index, l’impatto economico dei conflitti armati nel mondo nel 2023 è stato di 19mila miliardi di dollari, il 13,5% del Pil mondiale, circa 2.380 dollari a persona.

I dati disponibili evidenziano le contraddizioni del nostro tempo: a fronte di una conflittualità persistente, aumenta la spesa militare complessiva, in particolare in alcuni Stati che impegnano a tale scopo quote sempre più ampie della propria ricchezza disponibile.

È un fenomeno che riguarda tutti gli Stati, non solamente le superpotenze planetarie come gli Usa, la Cina e la Russia.

Ad esempio, con 83,6 miliardi di dollari, l’India si è collocata al quarto posto per livello di spese militari: nel 2023, il budget militare indiano è aumentato del 4,2% rispetto al 2022 e, addirittura, del 44% rispetto al 2014.

Secondo i dati del Sipri, i primi cinque Paesi della classifica (Usa, Cina, Russia, India, Arabia saudita) rappresentano il 61% delle spese militari globali.

Sulle teste dei bambini

Le conseguenze dei conflitti armati sono molte e sempre devastanti sulle popolazioni come sull’ambiente, sia nei Paesi direttamente coinvolti che su quelli vicini e, spesso, anche lontani.

Uno sguardo particolare va dedicato all’impatto sulle vite dei minori.

Secondo i dati diffusi dall’ultimo rapporto del Segretario generale per i bambini e i conflitti armati dell’Onu, pubblicato a giugno 2024, sono state registrate nel mondo 32.990 gravi violazioni contro i bambini in venticinque conflitti nazionali e in un conflitto regionale (quello del bacino del lago Ciad). È il numero più alto mai registrato dall’inizio delle attività di monitoraggio nel 2005.

Le violazioni includono sei categorie di fenomeni: uccisioni e menomazioni; reclutamento e utilizzo dei minori in gruppi e forze armate; violenza sessuale; rapimenti; attacchi a scuole e ospedali; negazione dell’accesso agli aiuti umanitari.

«Nel 2023 – si legge nel rapporto Onu -, 22.557 bambini (15.847 maschi; 6.252 femmine; 458 di sesso sconosciuto) sono stati vittime di almeno una delle seguenti quattro violazioni: reclutamento e sfruttamento; uccisioni e mutilazioni; stupro e altre forme di violenza sessuale; rapimento. Le situazioni con il numero più elevato di bambini colpiti si sono verificate in Israele e nei Territori palestinesi occupati, nella Repubblica democratica del Congo, in Myanmar, in Somalia, in Nigeria e in Sudan».

Per il primo dei sei punti (uccisioni e menomazioni), nel 2023 è stato registrato un aumento dei casi pari al 35%: da 8.647 bambini uccisi o mutilati nel 2022 a 11.649 nel 2023.

Per quanto riguarda i minori reclutati e impiegati in gruppi e forze armate, nel 2023 sono stati 8.655. I bambini rapiti, invece, 4.356: una cifra cresciuta per il terzo anno consecutivo.

Soltanto in Ucraina, nel febbraio 2022, sono stati riportati 1.682 attacchi alla salute dei minorenni, a danno di operatori sanitari, forniture, strutture, magazzini, e ambulanze, e oltre 3mila attacchi a strutture educative, che hanno lasciato circa 5,3 milioni di bambini ucraini senza un accesso sicuro all’educazione.

© European Union, 2021 (photographer: Olympia de Maismont) – Des élèves arrivent à l’école Gondologo B à Ouahigouya, Burkina Faso, le 20 janvier 2021.

Milioni di persone vulnerabili

L’ingente quantità di persone che si trovano in condizioni di vulnerabilità determinate dai conflitti armati, fa emergere un fabbisogno umanitario enorme, che non trova una risposta adeguata nelle attuali politiche: quasi 300 milioni di individui nel mondo sono bisognosi di aiuto e dipendenti da esso. Non hanno, infatti, alcuno strumento per soddisfare in modo autonomo i propri bisogni primari. È un numero che equivale quasi al 70% della popolazione dell’Unione europea. In Africa orientale e meridionale sono 74,1 milioni coloro che dipendono dall’assistenza umanitaria.

Da sola, la guerra in Sudan ha generato nel 2023 bisogni umanitari per 15,8 milioni di persone, stimate a 30 milioni per il 2024. Di queste, 3,5 milioni sono bambini. Un dato che fa del Sudan il Paese con il più alto numero di minori sfollati.

Povertà e conflitti

Un’altra caratteristica importante dei conflitti armati odierni è la loro correlazione con la povertà.

Se mettiamo in relazione tra loro i dati sui conflitti armati con la classifica dei Paesi in base all’Indice di sviluppo umano (Isu) stilata dall’Undp (United nations development programme), si apprende che l’incidenza di Paesi in guerra è molto più alta tra quelli a basso valore di sviluppo umano rispetto a quanto accade tra i Paesi più ricchi. In altre parole, i Paesi in maggiore difficoltà si trovano più spesso coinvolti in conflitti violenti.

Tradotto in cifre: è coinvolto in situazioni di conflitto armato il 27,3% dei Paesi con basso Isu, mentre solo il 4,3% di quelli con Isu molto elevato. Un mancato coinvolgimento diretto di questi ultimi in azioni di guerra, però, non significa che le potenze economiche non siano coinvolte nei conflitti: sono numerose, infatti, in diverse parti del mondo, le cosiddette «guerre per procura», giocate per interposta persona da eserciti, gruppi e milizie di Paesi terzi, pesantemente equipaggiati in violazione di sanzioni ed embarghi di armi. Due esempi su tutti: il sostegno del Rwanda alle milizie M-23 nella confinante regione del Kivu in Repubblica democratica del Congo; l’appoggio degli Emirati arabi uniti alla Rapid reaction force nella guerra civile sudanese.

Walter Nanni

Bairi Ram, a local resident, stands next to his house damaged by overnight Pakistani artillery shelling in Kotmaira village near the Line of Control (LoC) in India’s Jammu region on May 11, 2025. India and Pakistan traded accusations of ceasefire violations early on May 11, hours after US President Donald Trump announced that the nuclear-armed neighbours had stepped back from the brink of full-blown war. (Photo by Money SHARMA / AFP)

Conflitti in numeri

  • 300 milioni di persone al mondo dipendono da aiuti umanitari; di cui 74,1 milioni in Africa orientale e meridionale.
  • 52 Stati vivono situazioni di conflitto armato.
  • 20 guerre ad alta intensità (1.000-9.999 morti).
  • 4 guerre ad altissima intensità (più di 10mila morti nell’anno): Myanmar e Sudan, Israele-Hamas e Russia-Ucraina.
  • 170.700 morti dirette in azioni di guerra.
  • 32.990 gravi violazioni contro i bambini in 25 conflitti nazionali e un conflitto regionale in Ciad (11.649 uccisi o menomati; 8.655 reclutati in gruppi armati; 4.356 rapiti).
  • 63 operazioni multilaterali di pace. Un terzo delle operazioni è coordinato dall’Onu.
  • 100.568 operatori (civili e militari) impegnati in operazioni di pace.
  • 2.443 miliardi di dollari: spesa militare mondiale (massimo storico). Equivalente al 2,3% del Pil globale, 306 dollari a persona, di cui 820 miliardi di dollari di spesa militare USA; 296 miliardi: Cina; 109 miliardi: Russia;
  • 19mila miliardi di dollari: impatto economico dei conflitti armati nel mondo: il 13,5% del Pil mondiale, circa 2.380 dollari a persona.

W.N.

Il ritorno delle armi. Rapporto della Caritas

Il volume «Il ritorno delle armi» costituisce l’ottava tappa di un percorso di studio sui conflitti dimenticati, avviato da Caritas italiana nel 2002, e che ha dato luogo ad altrettante pubblicazioni editoriali.
Frutto di un lungo lavoro di studio portato avanti a cura di un gruppo ristretto di studiosi ed enti accreditati, il rapporto si concentra sul peso mediatico delle guerre nell’agenda informativa italiana, con particolare interesse agli aspetti umanitari e al legame tra guerra, ambiente e mercato delle armi.
Il rapporto è diviso in tre parti. La prima è di taglio descrittivo analitico, e offre uno spaccato dei fenomeni e delle tendenze di guerra in atto, con particolare riferimento allo scenario geopolitico dello scacchiere internazionale.
La seconda parte riporta una serie di ricerche sul campo condotte ad hoc per il rapporto, sulla presenza dei conflitti nell’agenda mediatica, e sulla loro percezione da parte dell’opinione pubblica.
La terza parte del volume è, invece, di taglio propositivo, e ha lo scopo di delineare alcune possibili prospettive di lavoro e di impegno, anche a partire da esperienze concrete, nell’ambito civile ed ecclesiale, con particolare riferimento al ruolo della Chiesa universale e alla specifica realtà Caritas.

W.N.

Non solo Ucraina e Israele

Il ruolo dei media nella percezione pubblica dei conflitti

Solo una persona su quattro in Italia sa elencare almeno tre guerre attuali. Il 29% non ne conosce nemmeno una. Il resto quasi solo Ucraina o Israele. L’assenza dei media su questo tema è vistosa, nonostante le persone vogliano essere informate.

Quante sono le persone che in Italia sono informate sui conflitti che ogni giorno fanno vittime in tutto il mondo e che causano spesso conseguenze concrete anche alla loro vita (dall’immigrazione, all’aumento dei prezzi di alcuni prodotti, ai cambiamenti climatici)?

Il «cuore» del rapporto di Caritas italiana sui conflitti dimenticati affronta questo interrogativo. La seconda sezione del volume, infatti, descrive i risultati di una serie di ricerche sul campo condotte ad hoc dall’Istituto Demopolis.

L’attenzione si concentra non solo sui media tradizionali (tv, radio, carta stampata), ma anche sul web e sull’ambiente dei social media, in particolare di Instagram, uno dei più diffusi, soprattutto in ambito giovanile.

La rilevazione online sulla piattaforma ha consentito di rispondere a tre interrogativi: come si parla di guerra su Instagram? Come si parla dei conflitti dimenticati? Chi parla dei conflitti dimenticati?

Un capitolo di questa sezione del rapporto è poi quella curata dall’Osservatorio di Pavia (un istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media), che ha studiato la presenza dei conflitti dimenticati nei contenuti trasmessi dai principali Tg italiani negli anni 2022 e 2023. L’Osservatorio ha inoltre approfondito i fattori che favoriscono la copertura telegiornalistica dei conflitti, e quanto le notizie hanno messo in rilievo un tema, particolarmente importante per i diritti umani e l’ambiente, come quello dell’acqua.

Un altro capitolo analizza circa 180 video, disegni, fotografie e componimenti inviati da studenti italiani, dalla scuola dell’infanzia fino alle superiori, che hanno dato una propria lettura e interpretazione al tema del conflitto nell’ambito di un concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e del merito e da Caritas italiana.

Haitian police officers deploy in Port-au-Prince as they exchange gunfire with alleged gang members on November 11, 2024. (Photo by Clarens SIFFROY / AFP)

Conoscenza molto bassa, ma in crescita

Il sondaggio demoscopico, realizzato dall’Istituto Demopolis su un campione rappresentativo di italiani, si sofferma innanzitutto sulla conoscenza delle guerre.

Rispetto alla precedente ricerca risalente al 2021, appare molto forte in quella del 2024 l’incremento tra gli italiani di conoscenze sui conflitti: il 71% degli intervistati è in grado di citare almeno una guerra degli ultimi cinque anni, conclusa o ancora in corso (nel 2021 erano il 53%).

Il conflitto più citato è stato quello russo-ucraino (47%); 3 su 10 hanno ricordato il fronte israelo-palestinese; il 16% ha citato la Siria. Il 26% giunge a individuare tre conflitti.

L’attenzione degli italiani è legata innanzitutto alla dimensione locale (il 65%). Nonostante questo, però, il livello di conoscenza circa i conflitti che avvengono nel mondo è aumentato.

La guerra si può evitare

Un aspetto importante della ricerca si riferisce all’atteggiamento valoriale e culturale delle persone intervistate riguardo alla natura della guerra: l’80% degli italiani considera le guerre come «avvenimenti evitabili» e non legati in modo indissolubile alla natura profonda dell’uomo (erano il 75% nel 2021). Così come si rileva una buona fiducia nei confronti della comunità internazionale come strumento di prevenzione delle guerre o di mediazione tra le parti. Il 74% degli italiani, di fronte allo scoppio di un conflitto, richiederebbe alla comunità internazionale di agire con la mediazione politica, senza l’uso della forza, con un incremento di 4 punti rispetto al 2021. Oggi, solo il 13% appoggerebbe un intervento immediato, anche con la forza, per fermare un conflitto.

Se dal dato teorico si sposta l’attenzione degli intervistati sul ruolo ipotizzabile per l’Italia, la tendenza al pacifismo si conferma, ma con sfumature significative. Per il 56% degli italiani, il nostro Paese non dovrebbe mai, in alcun caso, intervenire militarmente in situazioni di guerra e conflitto internazionale. Il 41% non esclude invece forme di intervento militare, ma solamente all’interno di un’azione coordinata dalle Nazioni Unite o dall’Unione europea.

Nigeria 2018. Nel nord-est della Nigeria, epicentro della crisi del Lago Ciad, infuria il conflitto tra lo Stato e il gruppo armato Boko Haram. Continuano gli attacchi e gli sfollamenti. Dall’ottobre 2017 sono state sfollate più di 140.000 persone. © Unione Europea 2018 (foto di Samuel Ochai)

I conflitti nella Tv

Sul tema della presenza dei conflitti nella comunicazione televisiva, l’Osservatorio di Pavia ha realizzato uno studio sui sette principali Tg nazionali trasmessi in fascia serale (Tg1; Tg2; Tg3; Tg4; Tg5; Studio aperto; TgLa7) dal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2023, allo scopo di rilevare la «copertura» dei Paesi interessati da conflitti di estrema o alta gravità.

Nel 2023, i Tg italiani hanno dedicato ai conflitti nel mondo 3.808 notizie, pari all’8,9% del totale di tutte le notizie trasmesse. Dal 2022 al 2023, l’attenzione dei Tg è diminuita: le notizie sulla guerra nel 2022 erano state 4.695, con un valore di incidenza superiore, pari all’11,7%.

Il 50,1% delle notizie sulle guerre nel 2023 ha riguardato il conflitto israelo-palestinese e il 46,5% quello in Ucraina, che ha ricevuto un’attenzione media quotidiana rilevante, sebbene più che dimezzata rispetto all’anno precedente, il 2022, l’anno nel quale la Russia ha invaso il Paese confinante. Il restante 3,4% delle notizie si è distribuito su quindici Paesi: Afghanistan, Brasile, Colombia, Filippine, Haiti, India, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Repubblica democratica del Congo, Siria, Somalia, Sudan, Venezuela, Yemen.

I conflitti in Bangladesh, Burkina Faso, Camerun, Etiopia, Giamaica, Guatemala, Honduras, Iraq, Kenya, Mali, Messico, Trinidad e Tobago non hanno ricevuto nessuna copertura.

Anche le notizie indirettamente pertinenti i conflitti analizzati risultano in diminuzione nel 2023 rispetto al 2022: da 4.636 a 2.089, in termini di incidenza dall’11% al 4,9%, di cui il 72,3% sulla guerra in Ucraina, il 26,5% sul conflitto israelo-palestinese, il restante 1,2% distribuito fra Filippine, Rd Congo, Venezuela e Yemen.

Le cornici narrative prevalenti di questo tipo di notizie sono state la diplomazia, la politica italiana, gli appelli di pace e diplomazia della Chiesa.

Sui 30 Paesi campione coinvolti in conflitti, le notizie che non trattavano la dimensione conflittuale sono state 575, pari all’1,3% del totale. Hanno riguardato prevalentemente la Siria, colpita da un grave terremoto a febbraio del 2023, ampiamente coperto dai Tg, e l’India, dove a settembre si è svolto un summit del G20, anche questo riportato da tutte le testate giornalistiche.

In sintesi, nell’arco di questi due anni, solo due conflitti hanno ricevuto un’ampia attenzione nei Tg nazionali: la guerra in Ucraina, che nel 2022 ha ottenuto una copertura media di 13 notizie al giorno, e di cinque nel 2023. Il secondo è il conflitto israelo-palestinese che, a partire dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ha ricevuto una copertura media quotidiana di 22 notizie.

Tutti gli altri Paesi interessati da conflitti di estrema o alta gravità, in proporzione hanno avuto una visibilità ridottissima, in molti casi addirittura nulla.

Guerre «notiziabili»

L’Osservatorio di Pavia ha studiato anche la correlazione fra alcuni fattori di notiziabilità dei conflitti e la loro copertura nell’informazione dei Tg italiani del 2022 e 2023. È risaputo tra chi studia l’informazione che non tutti i fatti che accadono nel mondo diventano notizia.

Tale possibilità dipende da una serie di caratteristiche, denominate «fattori di notiziabilità», tra cui il tipo di evento, qual è lo strumento di comunicazione, la competizione tra le testate giornalistiche, l’interesse del pubblico, ecc.

Basandosi sui risultati di precedenti ricerche, sono stati presi in considerazione sei fattori misurabili statisticamente: la vicinanza geografica tra l’Italia e il Paese interessato dal conflitto; la gravità del conflitto, in termini sia di eventi politici violenti, sia di eventi con danni diretti alla popolazione; la potenza economica del Paese interessato dal conflitto, e gli scambi commerciali con l’Italia, in termini sia di import che di export.

I risultati dell’analisi statistica dimostrano che, fra tutti i fattori sopra indicati, la copertura dei conflitti nei Tg italiani è correlata soprattutto alla gravità del conflitto e alla vicinanza geografica con l’Italia. Non per nulla, questi due fattori sono fortemente presenti sia nella guerra in Ucraina che nel conflitto israelo-palestinese, non ascrivibili infatti nel novero dei conflitti dimenticati.

I conflitti per i giovani

«Voci silenziose», opera dell’Itt Rondani di Parma per il concorso «Spezziamo la violenza» indetto dalla Caritas nel 2023.

Un altro capitolo del rapporto Caritas si sofferma sulle modalità con le quali i giovani vedono il tema del conflitto.

Per poter esaminare questo aspetto si è deciso di utilizzare i lavori prodotti da bambini e giovani, nell’ambito di un Concorso nazionale indetto da Caritas italiana in collaborazione con il ministero dell’Istruzione e del merito.

Gli studenti erano stati invitati a produrre dei lavori di vario tipo sul tema del conflitto (non necessariamente di tipo bellico). Da tutta Italia sono pervenuti 177 elaborati che sono stati prodotti con diverse tecniche. Attraverso 103 disegni e fotografie, 40 video e 34 testi scritti, i ragazzi e le ragazze di tutte le regioni hanno raccontato il loro personale sguardo sul tema dei conflitti, in risposta a una domanda che di tale concetto proponeva una definizione volutamente ampia, proprio per accogliere le diverse visioni dei giovani.

Analizzando i lavori, si apprende che il 76% degli elaborati visivi dei ragazzi (foto e disegni), si riferiva alla dimensione internazionale, con precisi riferimenti alla guerra in Ucraina e nel Medio oriente. Particolarmente emblematica a riguardo è la fotografia «Legami», prodotta da una classe terza dell’Istituto tecnico tecnologico Rondani di Parma, specchio di tante immagini violente che scorrono sui media e raggiungono anche i giovani.

Il 14,4% degli elaborati aveva invece come oggetto una dimensione nazionale, più vicina alla quotidianità dei ragazzi e delle ragazze. In questi casi il conflitto assumeva altre identità, tra cui la criminalità organizzata, il bullismo e la violenza sulle donne. Diversi lavori grafici e video sono testimonianza di dinamiche difficili, ma anche di soluzioni concrete per provare a contrastare questi fenomeni.

Interessante notare come in alcune immagini i ragazzi abbiano riprodotto dei fili che reggono burattini e marionette (ne è un esempio la fotografia denominata «Voci silenziose»).

L’idea è che spezzare la violenza di ogni genere significa tagliare le corde della manipolazione che impediscono un movimento libero.

Walter Nanni

«Legami», opera degli studenti dell’Itt Rondani di Parma

Le guerre di Instagram

I conflitti dimenticati negli spazi social

I social network sono ambienti di comunicazione e informazione. Le contese geopolitiche e i diritti umani non mancano, ma – anche su social come Instagram – alcuni conflitti sono più assenti di altri. E il rischio della superficialità è grande.

Dalle rivoluzioni delle Primavere arabe fino ai recenti conflitti globali, i social network hanno dimostrato la capacità di mobilitare e informare un vasto pubblico in tempo reale.

A tale riguardo una specifica indagine condotta da Federica Arenare dell’Università di Bologna ha tentato di dare una risposta ad alcuni interrogativi: quali, tra i profili social di testate giornalistiche, di giornali nati online e di giornalisti freelance, parlano maggiormente di conflitti?
Su quali guerre si pone più attenzione e, soprattutto, come se ne parla?

L’indagine, che compare all’interno del rapporto Caritas, analizza post condivisi tra giugno 2023 e maggio 2024, ed esplora le modalità di Instagram nel veicolare informazioni sui conflitti dimenticati, in riferimento alle guerre segnalate dall’Heidelberg institute for international conflict research (Hiicr), ovvero quelle di Burkina Faso, Camerun, Ciad, Repubblica centrafricana, Rd Congo, Etiopia (Tigray e Oromia), Haiti, Kenya, Mali, Myanmar, Nigeria (Boko Haram), Somalia (al-Shabaab), Sud Sudan, Sudan (Darfur), Uganda.

I risultati evidenziano un’ampia disparità di attenzione dedicata ai vari contesti di guerra: il Sudan, teatro di una guerra civile devastante dal 2023, è quello che viene maggiormente coperto; mentre Paesi come la Repubblica centrafricana e il Ciad ricevono una copertura marginale.

L’analisi ha coinvolto oltre 30mila post, rilevando che solo pochi attori, come Ong e giornalisti freelance, riescono a far emergere queste tematiche.

I profili coinvolti nell’indagine comprendono testate tradizionali come «la Repubblica» e «Corriere della sera», testate native digitali come «il Post» e «Tpi», e realtà nate sui social come «Will» e «Torcha». Secondo i risultati della ricerca, Sudan, Repubblica democratica del Congo e Nigeria sono i Paesi di cui si è più parlato su Instagram nel periodo preso in considerazione, mentre i conflitti maggiormente dimenticati sono – partendo dall’ultimo in classifica – Repubblica centrafricana, Myanmar e Ciad.

C’è anche da mettere in evidenza che lo scarto esistente tra il primo Paese in classifica e quello che si trova all’ultimo posto è molto ampio: 4.161 nomine per «Sudan» e «Darfur» (15,1% del totale), rispetto alle sole 49 citazioni di «Repubblica centrafricana» (0,2%): un disequilibrio informativo non indifferente.

L’attenzione verso il Sudan è probabilmente giustificata dallo scoppio della guerra civile nell’aprile del 2023 che sta causando una carestia di massa e, secondo Medici senza frontiere, lo sfollamento di oltre 8,4 milioni di persone.

Rispetto ad altri conflitti e nonostante gli allarmi umanitari, il Sudan rimane comunque quasi assente nelle agende internazionali e nel dibattito pubblico globale.

“Vivevamo bene, nella prosperità, finché non sono arrivati loro”, riflette Tetiana sul periodo precedente alla guerra.
Tra le mani tiene i frammenti delle granate che hanno danneggiato la sua casa un anno fa e spera che il sostegno internazionale per il popolo ucraino continui.
© Unione Europea, 2023 (fotografo: Oleksandr Ratushniak).

Nel rumore di fondo della piattaforma

Informazioni interessanti derivano anche dal confronto tra le modalità narrative che distinguono le diverse tipologie di pagine Instagram.

Nello specifico, dalle analisi di confronto tra le diverse testate (tradizionali vs digitali) emerge che quelle nate sui social riescono a sfruttare meglio le potenzialità del canale, offrendo contenuti che, sebbene poco approfonditi, riescono a coprire più tematiche. Le prime cinque testate che citano maggiormente i Paesi in cui sono in corso conflitti sono tutte native digitali.

Il fatto che queste pagine siano nate sui social, non ha dirette correlazioni con le tematiche che affrontano, ma ha senz’altro a che fare con gli algoritmi che regolano in modo incontrovertibile, e in continua evoluzione, gli spazi su cui condividono i loro contenuti.

Da un lato, bisogna tenere sempre presente che redazioni come quelle di Repubblica, Corriere e Domani creano i loro contenuti soprattutto per i quotidiani cartacei e per il loro sito web. La principale ragione per cui sono presenti sui social network è la necessità di rimanere visibili al grande pubblico e di guadagnare dalle sponsorizzazioni che ospitano sui loro siti. Dall’altro lato, i contenuti di attualità delle testate nate con il cartaceo hanno però un vantaggio: essendo distribuiti su molte piattaforme, anche se attirano meno engagement e alimentano meno dibattito pubblico, possono comunque essere trattati su altri canali web, in quanto non direttamente legati alle prigioni algoritmiche dei social.

Un ulteriore focus di attenzione è il fatto che la narrazione sui conflitti dimenticati è spesso legata a eventi specifici che riescono a emergere dal rumore di fondo della piattaforma. E tali eventi non sono sempre di natura bellica.

Ad esempio, il Sudan ha ricevuto particolare attenzione grazie alla candidatura della sua nazionale di basket alle Olimpiadi di Parigi 2024, un evento che ha stimolato emozione e interesse anche fuori dalle cerchie di esperti di geopolitica. Ma in questo modo, all’interno di video e storie che parlavano della nazionale di basket, si è colta l’occasione per parlare anche della guerra vissuta da lunghi anni dal Paese africano.

Il messaggio sulle guerre riesce, quindi, a bucare la rete in modo indiretto, in quanto il contenuto è veicolato mediante altri tipi di narrative, che fungono da polo attrattivo dello spettatore digitale.

L’uso di accattivanti formati visuali consente alle testate più innovative di raggiungere un pubblico giovane e poco incline ai canali tradizionali.

Il potenziale informativo di Instagram si è rivelato molto interessante in ambiti come il giornalismo, dove l’uso di immagini, brevi video e grafiche facilita la comunicazione di temi complessi.

Tuttavia, questa semplicità comunicativa è anche un’arma a doppio taglio: il rischio della superficialità è grande, e la riduzione di profondità delle analisi può incentivare la condivisione di contenuti sensazionalistici o poco accurati.

Nonostante i suoi limiti strutturali, Instagram rappresenta un’opportunità per sensibilizzare su tematiche complesse come i conflitti dimenticati.

Un approccio critico e consapevole a questa piattaforma può favorire una maggiore comprensione delle dinamiche globali e promuovere una «dieta informativa» più equilibrata.

È fondamentale, tuttavia, educare gli utenti ai meccanismi che governano questi spazi, per distinguere tra contenuti di valore e quelli puramente orientati al coinvolgimento emotivo.

Walter Nanni

Pelstina 9marzo2024 – Foto di Emad El Byed su Unsplash

L’arbitrato internazionale

Se la prima parte dell’ottavo rapporto sui conflitti dimenticati di Caritas italiana propone una panoramica dei conflitti armati nel mondo, e la seconda approfondisce i motivi per i quali molti di essi sono invisibili per l’opinione pubblica, dimenticati, appunto, la terza e ultima parte è, invece, di taglio propositivo. I capitoli che la compongono hanno lo scopo di descrivere alcune strade praticabili già oggi, possibili prospettive di lavoro e di impegno da parte delle istituzioni internazionali, ma anche da parte delle istituzioni ecclesiali, con particolare riferimento alla Chiesa universale e alla specifica realtà Caritas, dei gruppi e dei singoli cristiani.
Il primo capitolo approfondisce il ruolo dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) nel mantenimento della pace, analizza gli strumenti a sua disposizione, e suggerisce possibili riforme che renderebbero l’azione dell’Onu più efficace.
Uno degli strumenti di prevenzione del conflitto approfonditi nel capitolo è la Corte permanente di arbitrato internazionale. Si tratta di un meccanismo globale per risolvere le controversie internazionali in modo pacifico: un elenco di persone designate dagli Stati firmatari della Corte stessa, dal quale le parti in conflitto possono scegliere un «arbitro» che emetta una sentenza (o lodo) per risolvere il dissidio. La decisione dell’arbitro è vincolante.
Questa istituzione non è un vero e proprio tribunale, come è il caso della Corte internazionale di giustizia che è una struttura precostituita.
In caso di conflitto, le parti in causa possono scegliere l’arbitrato, costituendolo in quel momento.
Il ricorso all’arbitrato potrebbe risolvere molti conflitti prima che sfocino nella violenza, soprattutto nel caso i contendenti siano unità statali riconosciute dalle Nazioni Unite.
Ciò non può invece avvenire quando le entità contrapposte non siano di carattere statale, come è il caso di gruppi armati rivoluzionari o forze paramilitari.
Purtroppo, il ricorso all’arbitrato non è così frequente come si potrebbe sperare, e il più delle volte è stato utilizzato per risolvere questioni di carattere commerciale.
Si possono tuttavia citare vari casi nei quali il ricorso all’arbitrato ha risolto dispute interstatali che sarebbero potute sfociare in situazioni di conflitto armato.
Uno di questi è la disputa tra Eritrea e Yemen che nel 1998-’99 si contendevano la sovranità su un gruppo di isole nel Mar Rosso. L’arbitrato contribuì a risolvere una disputa che aveva causato scontri armati tra le due nazioni. La decisione definitiva stabilì un confine e prevenne l’escalation del conflitto.
Un altro caso è quello che ha coinvolto nel 2014 Bangladesh e India per la delimitazione dei confini marittimi nella Baia del Bengala. L’arbitrato pose fine a una controversia di lunga data e prevenne tensioni che avrebbero potuto portare a un confronto militare. Entrambe le parti hanno accettato la decisione, migliorando le relazioni.

W.N.

A woman herding cattle looks up as a UN Plane lands in Baga Sola in Chad on May 11, 2022.

Laudato si’, vicinanza, progetti

Data la forte connessione tra guerra e ambiente, un capitolo della terza parte del rapporto Caritas studia ciò che ha detto il magistero pontificio sul tema, cruciale per i conflitti odierni, della «casa comune», con particolare attenzione all’enciclica firmata da papa Francesco nel 2015, la «Laudato si’».

La pubblicazione dell’enciclica ha indubbiamente esercitato sulla Chiesa stessa una grande influenza a diversi livelli. Nonostante il suo recepimento non sia stato – e non sia ancora – lineare e privo di ostacoli, la «Laudato si’» ha generato entusiasmo e attivismo, e una vasta gamma di iniziative ecclesiali che proprio al titolo dell’enciclica si richiamano.

Ma il messaggio del Papa ha avuto una eco forse ancora più ampia al di fuori della Chiesa cattolica: ha favorito il dialogo con altre Chiese cristiane e altre religioni, e ha suscitato un ampio dibattito civile, politico e istituzionale.

L’idea di fondo della «Laudato si’» è che la Parola di Dio e l’antropologia cristiana propongono una concezione della persona umana che parla (e offre una prospettiva di senso) alle donne e agli uomini del nostro tempo. Un’idea di persona umana che porta in sé, come centro costitutivo, la pace, a condizione che venga elaborata alla luce di quello che il nostro tempo ci dice; attraverso i dati della scienza e un dialogo aperto alle culture contemporanee.

Hasan Maqbol Afif, Yemeni displaced trader holds h…inside his shop in Tuban IDP camp, Lahj, Yemen.1 SAMI AL-ANSI

Chiesa italiana

Un altro capitolo del rapporto, curato dal Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Cei, presenta, invece, possibili percorsi di riconciliazione, alla luce dei quattro pilastri dell’enciclica «Pacem in terris» firmata nel 1963 da papa Giovanni XXIII – verità, giustizia, carità e libertà -, e a partire da esperienze sostenute dalla Chiesa italiana.

Questa, attraverso fondi che tanti contribuenti continuano a destinare all’8xmille, dal 1991 ha accompagnato in tutto il mondo più di 18mila progetti, con oltre 2,5 miliardi di euro.

Si tratta di gocce in un mare di bisogni, piccole luci che si accendono, anche nelle situazioni più difficili e spronano tutti a non cedere.

Il servizio, il camminare insieme, sono l’anima di una fraternità che edifica riconciliazione e la pace, anche dal basso.

La Caritas nei conflitti

Dal novembre 2018 al 31 ottobre 2024, la Cei, attraverso lo stesso Servizio, ha finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti ad alta o estrema gravità, per un finanziamento totale di 243,98 milioni di euro.

Sul totale dei 2.321 progetti complessivi finanziati in quegli anni, 2018-2024, quindi, oltre la metà (58,2%) ha riguardato Paesi in guerra (57,6% dei fondi erogati): 473 in Africa (con un finanziamento complessivo di 103,3 milioni di euro); 435 in Asia e Oceania (71,4); 417 in America (59,8); 23 in Medio Oriente (9); 3 in Europa (307mila euro).

W.N.

Hanno firmato il dossier

Walter Nanni
Sociologo, ricercatore, per anni consulente per enti locali e organizzazioni non profit in materia di ricerca, formazione e progettazione sociale, attualmente responsabile del Servizio studi e ricerche di Caritas italiana. Esperto sui temi della povertà e dell’esclusione sociale, è curatore del Rapporto annuale sulla povertà di Caritas italiana e dell’edizione italiana del Cares report di Caritas Europa. È curatore del Rapporto sui conflitti dimenticati sin dalla prima edizione del 2001.

Luca Lorusso (a cura di)
Giornalista, redattore di MC.

sitografia
Juliet ha solo 18 anni, ma si occupa già di quattro bambini, tra cui i suoi gemelli. È fuggita dalla guerra in Sud Sudan e ha trovato rifugio in Uganda, dove frequenta corsi sostenuti dai fondi umanitari dell’UE. Ha imparato a leggere e scrivere e continua a lavorare sodo per diventare infermiera in futuro. 13 marzo 2020 – EU Civil Protection and Humanitarian Aid_flickr

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