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Usa. Chi protesta e chi se ne va

Trump alza la tensione negli Stati Uniti

Mentre Donald Trump rilancia la retorica della «crisi migratoria» e minaccia deportazioni di massa, una parte del Paese si ribella. Dallo scorso venerdì 6 giugno, Los Angeles è diventata l’epicentro del malcontento contro la narrativa anti migrante del presidente, trasformandosi in teatro di manifestazioni che durano ormai da giorni. Oltre mille persone sono scese in piazza per protestare contro le nuove retate dell’Ice, l’agenzia federale per l’immigrazione, che ha preso di mira il distretto tessile della città, portando all’arresto proprio venerdì scorso di 44 migranti presi durante un raid condotto con spray urticanti e accerchiamenti della polizia federale.
Le proteste si sono rapidamente estese a San Francisco, Paramount e diverse città della California. La risposta di Trump è stata immediata: ha schierato 4mila soldati della Guardia nazionale e, per la prima volta da decenni, anche 700 marines in assetto antisommossa. Il tutto senza il consenso del governatore della California, Gavin Newsom, quando in genere questo tipo di dispiegamento della Guardia nazionale avviene solo con l’autorizzazione dello Stato interessato.
Di fatti, Newsom ha condannato duramente la decisione di Trump, definendola una violazione del diritto che ha portato a un’escalation di violenza ingiustificata che non fa altro che alimentare il caos nelle strade. Il governatore ha ricordato che le manifestazioni erano iniziate in modo pacifico per cui, dal suo punto di vista, non era necessario l’intervento militare.
Infatti, dopo l’entrata in scena della Guardia nazionale, la tensione è esplosa: sono state arrestate almeno 150 persone, descritte dallo stesso presidente come colpevoli di promuovere «anarchia» o «violenza generalizzata».

Perché l’esercito
Trump giustifica il dispiegamento come una misura necessaria per ristabilire «l’ordine e la sicurezza nazionale». Per Trump, la «crisi» è diventata un vero marchio di fabbrica, un brand funzionale a concentrare nelle sue mani un potere sempre più autoritario. E infatti, se la crisi non c’è, la crea. Dietro la sua retorica emergenziale si nasconde la volontà di concentrare poteri straordinari e agire in modo autoritario, come se il Paese fosse in guerra. Anche se gli Stati Uniti non stanno vivendo un conflitto armato nei i propri confini, Trump costruisce le base di una guerra interna contro i migranti, chi li sostiene e le istituzioni democratiche degli Stati federati. In questo caso, il bersaglio è la California, il cui governatore ha denunciato l’intervento come una provocazione e un abuso di potere. Il fatto che Trump abbia mobilitato la Guardia nazionale senza l’assenso dello Stato di California ne è una prova evidente. Questo attacco appare anche come una sfida aperta alla California e alle sue «città santuario».

Le «città santuario»
Le «città santuario» sono le città, contee o Stati le cui amministrazioni limitano intenzionalmente la propria cooperazione con le autorità federali in materia di immigrazione. In pratica, le forze dell’ordine locali non trasmettono informazioni sullo status migratorio dei residenti e, in alcuni casi, non detengono persone solo perché prive di documenti. È una forma di resistenza istituzionale delle città e giurisdizioni democratice, che però si scontra frontalmente con la linea dura dell’amministrazione Trump. Da anni molte città della California sono considerate città santuario, così come ad esempio Los Angeles.
Il governatore Newsom ha definito lo schieramento militare come un attacco diretto ai governi locali democratici, accusando la Casa Bianca di voler trasformare la questione migratoria in una guerra politica.

Le autordeportazioni
Negli ultimi mesi si sta diffondendo un fenomeno meno visibile ma in crescita: quello delle autodeportazioni. Sempre più migranti, spaventati dal rischio di arresto o separazione familiare, scelgono di lasciare volontariamente – e spesso in tutta fretta – gli Stati Uniti. Alcuni fanno ritorno nei loro Paesi di origine, altri cercano rifugio in Canada o Messico.
Le retate non servono solo ad aumentare gli arresti: hanno l’effetto collaterale, forse voluto, di instillare paura. Una vera strategia del terrore che spinge molti a partire prima di essere presi, detenuti e deportati con la forza.
Trump, da parte sua, ha introdotto incentivi economici per chi sceglie di andarsene spontaneamente, offrendo tra i 600 e i mille dollari.
«Molti arrivano volontariamente in Guatemala, pagandosi il biglietto – spiega una fonte dell’Istituto di migrazione guatemalteco – perché richiedere il contributo significa essere identificati, e questo è rischioso perché temono di essere arrestati, anche se di fatto intendono lasciare il Paese di propria iniziativa».

Simona Carnino

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