

Sudan. Nessun luogo è sicuro
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Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una cruenta guerra civile di cui, al momento, non si vede la fine. È un conflitto dove l’uso della violenza sessuale come arma di guerra è ormai diventato la normalità, nonostante lo Statuto della Corte penale internazionale – in vigore dal 2002 – la annoveri tra i crimini di guerra e contro l’umanità.
Oggi, subire violenza sessuale in Sudan è talmente frequente che molti ne parlano come se fosse un fatto inevitabile. Soprattutto nella regione occidentale del Darfur, dove il conflitto, negli ultimi mesi, ha assunto connotati particolarmente violenti. È Medici senza frontiere (Msf) – organizzazione umanitaria operativa in diversi Paesi in guerra in tutto il mondo, tra cui anche il Sudan – a lanciare l’allarme con un comunicato sul suo sito: «Donne e ragazze in Darfur non sono al sicuro da nessuna parte».
Nessuna è al sicuro
Solo tra gennaio 2024 e marzo 2025, Msf ha dichiarato di aver assistito 659 persone sopravvissute a violenze sessuali nel Darfur meridionale. Il 94% erano donne, ragazze o bambine. Di queste, il 31% aveva meno di diciotto anni e il 7% non raggiungeva i dieci. Msf riporta anche un 3% con addirittura meno di cinque anni.
La violenza sessuale può assumere forme diverse. La più diffusa è lo stupro, spesso commesso in gruppo: ne è stato vittima l’86% delle sopravvissute assistite da Msf. Altre donne e ragazze invece hanno riportato diverse forme di violenza, tra cui offese verbali a sfondo sessuale, prostituzione forzata e schiavitù sessuale.
Ciò può accadere in qualsiasi momento. A volte, donne, ragazze e bambine sono violentate durante gli attacchi dell’esercito regolare e dei gruppi armati ai loro villaggi. In altri casi, sono colpite mentre fuggono verso luoghi considerati più sicuri. O quando cercano cibo, legna e acqua per sé stesse e la loro famiglia. Come denuncia Msf, ormai non si sentono – e non sono – al sicuro «da nessuna parte».
Mancano cure
Più della metà delle vittime di violenza, oltre alle ferite psicologiche, riporta anche lesioni fisiche. Ma, nonostante ciò, molte non si recano nei centri sanitari per ricevere cure mediche, protezione e supporto psicologico.
In alcuni casi, non lo fanno a causa della cronica mancanza di strutture nel Paese. In altri, perché i pochi centri presenti spesso si trovano a grandi distanze e percorrerle non è per niente sicuro in un Paese in guerra. Ma ci sono anche tante donne e ragazze che non chiedono aiuto perché temono lo stigma sociale: se le loro comunità di origine venissero a sapere che sono state vittime di violenza, rischierebbero di essere ostracizzate e marginalizzate.
Stupri di guerra
Il 56% delle sopravvissute curate da Msf ha identificato come aggressori i membri delle forze armate, della polizia o di gruppi armati non statali. Tutte le fazioni coinvolte nel conflitto sudanese, infatti, sono responsabili di atti di violenza – tra cui quella sessuale – nei confronti della popolazione locale.
D’altronde, la guerra che da oltre due anni travolge il Sudan è assai cruenta. Scatenata da una lotta per il potere, vede contrapporsi quelli che nel 2021, dopo un colpo di stato, erano diventati i due principali volti del governo di transizione. Da un lato, il comandante dell’esercito governativo, il generale Abdel Fattah al-Burhan (leader del Paese per la comunità internazionale). Dall’altro, Mohammed Hamdan Dagalo (detto Hemedti), leader delle Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare erede dei Janjaweed (la milizia responsabile del genocidio in Darfur tra il 2003 e il 2008).
Ma a pagare le maggiori conseguenze di questa lotta per il potere sono i civili. Attualmente, secondo le Nazioni Unite, 30 milioni di sudanesi (su una popolazione di 45 milioni) hanno bisogno di assistenza umanitaria. Quasi 25 milioni di persone si trovano in condizioni di insicurezza alimentare grave e lo stato di carestia è stato dichiarato in alcune aree del Darfur e delle montagne di Nuba.
Gli sfollati sono ormai 12,6 milioni. Di questi, 3,8 milioni hanno oltrepassato i confini sudanesi per rifugiarsi nei Paesi vicini, tra cui l’Egitto (1,5 milioni), il Sud Sudan (1 milione) e il Ciad (770mila). Proprio il Ciad è un’altra delle aree dove Msf lancia l’allarme: cresce sempre di più il numero di donne, ragazze e bambine che arrivano nei campi dell’organizzazione e raccontano di aver subito atti di violenza. Portando con sé un profondo carico di ferite fisiche e psicologiche difficili da curare.
Aurora Guainazzi