

I dazi dell’impero
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Un tempo dominava la globalizzazione. Oggi sono tornati di moda nazionalismo e protezionismo. Cerchiamo di comprendere come l’economia mondiale è arrivata a questo punto e cosa può riservarci il futuro.
Qualcuno ha spiegato le scelte protezionistiche di Donald Trump come una strategia finalizzata ad aumentare gli introiti governativi senza aumentare le tasse ai più ricchi. In effetti, i dazi sono forme mascherate di tasse indirette che gravano su tutti i consumatori alla stregua dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto.
Tasse trasversali che non distinguono fra chi ha e chi non ha e, proprio per questo, maggiormente pagate dai poveri, perché questi ultimi consumano tutto ciò che guadagnano, i ricchi solo una parte.
A convalidare la tesi dei dazi accresciuti per fare cassa alle spalle dei poveri c’è anche la scelta di spazzare via l’Usaid, l’Agenzia statunitense di cooperazione internazionale, e di ritirarsi dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di cui gli Stati Uniti erano il primo finanziatore. Tuttavia, per quanto il risultato fiscale a costo zero per i più ricchi sia uno dei piccioni che Trump intende prendere, esso non può essere considerato il motivo principale, anche perché la strategia non è priva di rischi. Molti analisti, infatti, hanno fatto notare che l’aumento di prezzo dei beni importati è destinato a provocare inevitabilmente inflazione, ossia aumento generalizzato dei prezzi, soprattutto se a essere colpiti sono beni di consumo di massa o semilavorati che entrano nella filiera produttiva di molti prodotti. Una prospettiva, quella dell’inflazione, che i governanti vivono con apprensione perché è motivo di malcontento per tutta la popolazione. Anche Trump teme l’inflazione ma, se ha deciso di correre il rischio, è per qualche ragione di ordine superiore.
Il disegno di Trump

Nel suo primo discorso da nuovo Presidente, tenuto il 4 marzo davanti al Congresso americano, Trump ha affermato: «Ci sono paesi che da decenni usano i dazi contro di noi. Ora tocca a noi usarli contro di loro. Mediamente, l’Unione europea, la Cina, il Brasile, l’India, il Messico, il Canada e innumerevoli altre nazioni applicano nei nostri confronti tariffe molto più alte di quelle che noi applichiamo a loro. I dazi cinesi sono il doppio dei nostri e quelli della Corea del Sud addirittura il quadruplo, nonostante l’aiuto militare che le abbiamo fornito».
È difficile dire se le affermazioni di Trump rispondano al vero, ma poco importa. Ciò che conta sono le conclusioni a cui giunge: «L’aumento dei dazi ci farà incassare migliaia di miliardi di dollari e creerà un gran numero di posti di lavoro».
Ecco svelato il vero obiettivo di Trump: creare così tanti ostacoli all’ingresso di merci negli Stati Uniti, da spingere chi vuole entrare nel loro mercato a trasferirvi la produzione.
In altre parole, il vero obiettivo è il richiamo delle attività produttive come strategia per rafforzare l’economia statunitense e ottenere, a cascata, altri risultati. Non solo cioè la crescita dell’occupazione, ma anche delle entrate fiscali per avere di che pagare l’enorme debito pubblico accumulato dal Paese. E già si vedono dei segnali di successo di questa strategia.
Valga, come esempio, l’annuncio della multinazionale taiwanese Tsmc di volere investire almeno cento miliardi di dollari negli Stati Uniti per produrre semiconduttori, o le intenzioni di investimento oltre oceano espresse da colossi europei come Stellantis, Bmw, Volkswagen, Pirelli.
Vincitori e perdenti della globalizzazione
Protezionismo e richiamo della produzione in patria sono tutto il contrario della globalizzazione, il progetto perseguito da alcuni decenni che ha per obiettivo la costruzione di un mercato mondiale con piena libertà di movimento per merci e produzioni. Un progetto sostenuto da tutti i centri di potere, ed è sbalorditivo che, a voltargli le spalle, sia proprio un uomo come Trump che appartiene al mondo degli affari. Ma Trump è anche un nazionalista e questo cambia tutto.
Il punto è che tutte le politiche creano vincitori e perdenti. I vincitori della globalizzazione sono sempre state le imprese più votate alle vendite che alla produzione. O meglio, imprese che trattano merci dalla produzione flessibile, spezzettabile, collocabile un pezzo qua, un pezzo là, dove conviene di più. Se commercializzi vestiario o computer, la globalizzazione è perfetta, perché puoi usare il mondo intero non solo come mercato, ma anche come villaggio produttivo: ogni fase viene svolta nel Paese dove produrre costa meno, spesso senza dover neanche possedere gli stabilimenti produttivi perché puoi sempre rivolgerti a dei terzisti. Tuttavia, se produci e vendi acciaio è tutta un’altra storia perché l’impiantistica costringe a produzioni centralizzate. Tant’è che l’industria pesante – sia quella europea, che statunitense – non ha mai salutato la globalizzazione con grande favore. Al contrario, l’ha vissuta come una minaccia per l’intensificarsi della concorrenza dovuta all’arrivo di prodotti provenienti da Paesi come la Cina o l’India che riescono a produrre acciaio e alluminio a prezzi molto più bassi.
Una sensazione di minaccia vissuta anche da altri settori, ad esempio dalle imprese agricole, le quali, essendo legate alla terra, sono per definizione stanziali e, quindi, esposte alla concorrenza dei prodotti provenienti da Paesi con costi più bassi e regole ambientali più blande.

Grandi e piccoli
In ogni caso, il fronte degli imprenditori pro o contro la globalizzazione non è determinato solo dall’attività economica, ma anche dalla dimensione d’impresa. In linea di massima, i grandi operatori sono a favore, i piccoli contro.
In Occidente, molte piccole imprese sono nate come terzisti al servizio dei grandi complessi industriali dell’automobile, dell’abbigliamento, della meccanica, della chimica, delle concerie, del mobile, e quando si sono accorti che i loro committenti preferivano passare le commesse a terzisti asiatici piuttosto che a loro, ci sono rimasti parecchio male.
Alla fine, dovevano scegliere se chiudere o trasferirsi loro stessi all’estero, dove produrre costa meno. Questa, ad esempio, è stata la scelta fatta da molti padroncini del Nordest italiano che hanno preferito spostarsi in Serbia, Albania o addirittura in India, piuttosto che chiudere. Altri, invece, sono rimasti a casa loro e, in nome del nazionalismo, hanno chiesto alle forze politiche di proteggerli dai processi di internazionalizzazione a partire da quello europeo. Istanza recepita soprattutto dalla Lega che, non a caso, è il partito più antieuropeista.
Fra grandi e piccoli, anche negli Stati Uniti gli scontenti della globalizzazione sono tanti e Trump li rappresenta tutti con politiche che puntano a proteggere la produzione interna anche a costo di contravvenire alle regole classiche del libero mercato. Del resto, da un po’ di anni, la destra si contraddistingue ovunque per la sua capacità di trasgredire l’ortodossia di mercato, mentre la sinistra si presenta come il suo più strenuo difensore, facendo rimanere in campo due sole parti politiche: quella dei reazionari e quella dei conservatori.
I Paesi verso i quali Trump ha annunciato punizioni doganali sono essenzialmente cinque: Messico, Canada, Unione europea, Vietnam e Cina. Collettivamente sono accusati di essere i principali «invasori» del mercato americano, ma singolarmente ognuno di loro è perseguito anche per colpe particolari. L’Unione europea, ad esempio, è accusata di accanimento verso le imprese americane che operano sul suo territorio. Come esempio sono citate le multe milionarie applicate nei loro confronti per avere violato le regole europee in ambito fiscale e commerciale. Già nell’agosto 2024, la US Chamber of commerce, la più grande organizzazione imprenditoriale del mondo, aveva inviato una lettera aperta alla Commissione europea per protestare contro le multe a dodici zeri inflitte a Apple, Amazon, Google, Meta, Microsoft e altre imprese americane. Così, per mostrare riconoscenza a Trump che aveva annunciato battaglia all’Ue, nel novembre 2024 sia Bezos che Zuckerberg – l’uno patron di Amazon, l’altro di Meta – si sono affrettati a versare un milione di dollari ciascuno per sostenere le spese di festeggiamento in occasione dell’insediamento del nuovo Presidente.
La questione cinese
Più complessa appare la partita con la Cina, contro la quale, già durante il precedente mandato, Trump aveva ingaggiato un duro braccio di ferro. Fra tutti, la Cina è l’avversario più temuto, non solo per la sua capacità di competere all’interno del mercato americano, ma anche per lo spazio commerciale che ha conquistato a livello mondiale. Spazio che, se è occupato da Pechino, non può essere utilizzato dalle imprese statunitensi.
Va ricordato che l’aspirazione di ogni impresa capitalista è di impedire ai prodotti altrui di entrare in casa propria, ma di poter collocare i propri nei mercati degli altri. Per le imprese capitaliste l’allargamento dei mercati è una questione strategica ed esse hanno due possibilità per vincere la partita.
La prima, quella politically correct, è data dalla concorrenza, giocata sul piano dell’innovazione tecnologica e dell’abbattimento dei costi: la prima serve per sedurre i consumatori con nuovi prodotti, il secondo per sedurli sul piano dei prezzi. Tuttavia, la via della concorrenza non sempre è di facile percorribilità. Allora il capitalismo è tentato di passare alle maniere forti, al tentativo cioè di sopraffare i concorrenti con sanzioni economiche, con sbarramento delle vie commerciali, con intimidazioni militari.
Per questo tutte le grandi potenze economiche hanno sempre cercato di assicurarsi una forza militare capace di mettere paura agli avversari. Anche perché lo sbocco di mercato non è la sola sfida posta alle imprese capitaliste.
La sfida per i minerali
Altrettanto importante, e forse ancora più determinante, è la possibilità di disporre delle materie prime utili a produrre ciò che si intende vendere. E se, ai fini della conquista dei mercati, la forza militare è sempre stata usata in maniera velata, al contrario per il controllo delle materie prime è sempre stata usata in maniera manifesta. L’avventura coloniale ne è una dimostrazione (e oggi c’è il timore che quest’era possa riaprirsi, ammesso che si sia mai conclusa). Per la conquista delle ricchezze del sottosuolo tutt’oggi si combatte in Rd Congo e, in una certa misura, anche a Gaza e in Ucraina.
Non è un caso che, come prezzo per la pace, gli Stati Uniti abbiano imposto a Kiev la cessione dei suoi siti minerari.
In futuro, la guerra per le materie prime potrebbe coinvolgere perfino il Circolo polare artico. Lo ha paventato Trump a più riprese, sostenendo di non escludere l’uso della forza militare per annettere la Groenlandia, la più grande isola non continentale che, nel proprio sottosuolo, custodisce grandi quantità di risorse naturali.
Non solo petrolio e gas, ma anche numerosi minerali di importanza strategica per l’era che si sta delineando, dominata dall’informatica, dalle telecomunicazioni, dall’aerospaziale, dalle energie rinnovabili, dalla mobilità elettrica. Il problema è che i minerali utili allo sviluppo delle tecnologie moderne sono scarsi. Così, come succede ogni volta che si sente ostacolato dalla scarsità, il capitalismo ripiega verso l’imperialismo, la conquista dell’egemonia economica manu militari.

Dal welfare al warfare
Ai nostri giorni, la chiamata alle armi risuona ovunque. Perfino l’Unione europea sta virando dal «welfare» al «warfare», ossia dalla spesa sociale alle spese di guerra (si veda articolo a pagina 19).
Pur di permettere agli Stati membri di accrescere il proprio arsenale militare, nel marzo 2025 la Commissione europea ha accettato di contravvenire al principio di basso deficit, autorizzando nuovo debito per 800 miliardi di euro. Una scelta che i nostri figli pagheranno a caro prezzo in termini di riduzione di diritti sociali, di mancata tutela ambientale, di perdita di beni comuni.
Nel suo libro «Le monde confisqué», lo storico ed economista francese Arnaud Orain definisce il capitalismo nella morsa della scarsità con l’appellativo di «capitalismo della finitudine» (sostitutivo del «capitalismo concorrenziale»), riconoscibile per tre caratteristiche: controllo militare delle vie marittime; uso della forza in sostituzione di regole condivise; affermazione di monopoli in settori chiave dell’economia mondiale.
Tutti aspetti già ampiamente presenti, come testimonia la corsa al controllo del Mar Rosso, del canale di Panama, dell’Oceano Artico. O il crescere di colossi mondiali in settori chiave come quello dei trasporti, delle vie informatiche, delle attività satellitari, del commercio online. O l’uso dei dazi come strumento di guerra economica in aperta violazione delle regole scolpite nei trattati interni all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Un’organizzazione questa che, fin dalla sua nascita (era il 1995), ha imposto un’ordine economico e commerciale foriero di sconquassi sociali.
Guerre commerciali
Nel burrascoso incontro dello scorso 28 febbraio alla Casa Bianca, Trump ha accusato Zelensky di scherzare con la terza guerra mondiale, senza rendersi conto che il primo a scherzare con il fuoco è proprio lui comportandosi da prepotente. Perché le guerre commerciali si sa dove cominciano, mai dove finiscono. Tanto più che Trump è del tutto imprevedibile cambiando idea ogni minuto, non si sa se per calcolo strategico o per instabilità caratteriale.
Fatto sta che, dopo avere ordinato dazi a doppie cifre per decine di paesi, il 9 aprile si è velocemente corretto decretando la loro sospensione per 90 giorni. Formalmente, dice di averlo fatto per permettere l’avvio di trattative con ognuno di loro, nei fatti doveva calmare il nervosismo dei mercati che stava facendo crollare le borse di tutto il mondo. Il solo Paese escluso dal beneficio è stato la Cina, l’altro grande colosso mondiale, sui cui prodotti gli Stati Uniti applicano un dazio complessivo del 145%, nel momento in cui scriviamo. Una misura a cui la Cina ha risposto con controdazi del 125%, mettendo in apprensione il mondo intero, perché il passo dalla guerra commerciale a quella militare è breve.
A questo punto, la domanda da porci è: come possiamo uscire da questo gioco al massacro, sapendo che il capitalismo è intrinsecamente violento per la sua tendenza alla sopraffazione.
Progettare un altro sistema
La mia convinzione è che dovremmo agire in due direzioni. Da una parte, dovremmo cercare di abbassare il livello di aggressività sostituendo le politiche di riarmo con il multilate- ralismo. Ossia rafforzando le sedi internazionali deputate a dirimere i conflitti e a dare al mondo regole di convivenza economica basate sulla cooperazione, la solidarietà, il rispetto dei diritti umani, la salvaguardia del creato.
Dall’altra, dovremmo riconoscere che, vivendo su un pianeta dalle risorse finite, c’è l’obbligo di porre un limite alla nostra voracità. Un vecchio proverbio indiano dice che «quando il cavallo è morto, la cosa più intelligente da fare è scendere», per cui dovremmo metterci al lavoro per progettare un altro sistema economico, non più orientato alla crescita sotto il dominio del mercato, ma finalizzato al benvivere di tutti nel rispetto dell’equità e del creato. Progetto possibile purché si sappia ripensare il lavoro, ridimensionare il mercato e rafforzare l’economia della solidarietà collettiva.
Francesco Gesualdi