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Gesù, rivelazione del volto del Padre (Gv 12)

Gesù è ormai a Gerusalemme. Giovanni ha alluso diverse volte al fatto che le autorità religiose vogliono la sua morte, e lui ora è proprio lì, nel luogo dove il loro potere è più forte. Se ne fosse rimasto lontano, con buona probabilità, avrebbe evitato ogni problema, invece è andato a infilarsi nella città santa proprio in occasione di una festa significativa come la Pasqua che portava a Gerusalemme molti pellegrini. Cosa che poteva essere letta come una provocazione. Tommaso aveva già tratto le conseguenze definitive: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (Gv 11,16).

In questo contesto, Gesù con i suoi discepoli si prepara alla cena di Pasqua. Qui arrivano finalmente a piena chiarezza alcune sue considerazioni riguardo il suo rapporto con il Padre.

Il racconto

Il capitolo 12 del Vangelo di Giovanni è pieno di gesti e dialoghi e, se non tutti sono utili per la nostra indagine su come Gesù mostri il volto del Padre, sono però significativi per impostare lo sfondo.

«Sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1) Gesù si presenta a tavola a Betania, da Lazzaro e dalle sue sorelle. Una di loro, Marta, gli unge di olio i piedi, causando la protesta di diversi presenti. Non solo per lo spreco di denaro, ma anche, e soprattutto, perché il nardo purissimo con cui lei gli unge i piedi evoca le cure che si prestano ai cadaveri.

Poche righe più avanti, Giovanni parla della folla di giudei che accorreva da Gesù anche grazie alla presenza di Lazzaro, che Gesù aveva resuscitato dai morti, e lega questa descrizione con l’affermazione che i capi dei sacerdoti, «allora decisero di uccidere anche Lazzaro», oltre a Gesù.

Tutto, in queste righe, è segnato dall’incombere della morte.

Questo vale anche per due episodi seguenti, apparentemente scollegati tra di loro. Nel primo Gesù viene proclamato come il messia che viene: il grido di «Osanna» da parte della folla, nel suo entrare a dorso di un asinello e i rami di palma con cui è salutato, richiamano le attese messianiche. Un passaggio di gloria, di esaltazione, quindi. Ma, immediatamente dopo, Giovanni ricorda di nuovo i suoi nemici e la loro sensazione di dover agire presto.

Di seguito, l’evangelista racconta della richiesta di alcuni «greci» di voler conoscere Gesù, e di come Gesù stesso legga la loro richiesta come segno dell’arrivo della sua «ora», del momento decisivo in cui essere glorificato, che, nelle parole di Gesù, rimanda subito alla morte.

Neppure il lettore più distratto o che non sappia già quale sia stata la sorte di Gesù, può sfuggire a un senso di angoscia per ciò che potrebbe accadere. E il confronto con la morte non è mai qualcosa di banale, comporta sempre un’attenzione e una profondità speciali.

È a questo punto, e su questo sfondo, che Gesù torna a parlare del Padre.

La gloria del Figlio (Gv 12,23-28)

Se riuscissimo a leggere il Vangelo da ignari, senza sapere già dove va a finire, è probabile che resteremmo fortemente stupiti dalla logica del discorso di Gesù.

Egli viene cercato dei «greci», con tutta probabilità ebrei di lingua greca, arrivati a Gerusalemme in pellegrinaggio per Pasqua. È però vero che la formula, volutamente ambigua, potrebbe quasi lasciarci pensare che Gesù inizi a essere cercato anche da coloro che non fanno parte del suo popolo, il che avrebbe anche una valenza religiosa. In ogni caso, è facile pensare che la fama di Gesù inizi ad allargarsi oltre le sue frequentazioni. È logico, comprensibile, persino ovvio, che di lui si parli sempre di più in giro. E potrebbe sembrarci ovvio che, da questa constatazione, Gesù ricavi la spinta per muovere qualche sfida nuova, per porre un gesto simbolico, fare qualche passo ulteriore e allargare il proprio cerchio d’influenza.

E, invece, inizia a parlare della propria morte. Dice, ad esempio, che il chicco di grano deve morire, altrimenti non può donare la vita: un passaggio che pare illogico, a meno che non cogliamo che Gesù, parlando della propria morte, non la presenta come un’eventualità o una minaccia inevitabile, ma, nella prospettiva del dopo, come di un’opportunità. Il seme muore, ma morendo produce nuova vita (v.24). Il contrario di chi vuole conservare la propria vita e, così facendo, la perde (v. 24), come chi custodisce la propria vita per il mondo a venire, perdendola in questo (v. 25). Lo sguardo è propositivo, ottimista, rivolto al futuro: quella morte serve per avere altra vita.

Ma non sarà solo un’illusione? Qual è il fondamento di questa serenità? È solo lo sforzo morale di un martire convinto di essere nel giusto, e che confida in un domani nel quale ci si ricorderà del suo sacrificio e lo si saprà valorizzare? Ha un semplice valore di esempio?

Se così fosse, nulla costringerebbe Gesù a restare a Gerusalemme: potrebbe continuare a predicare in Galilea dove i farisei potrebbero, al massimo, impegnarlo in qualche discussione teologica. Oppure potrebbe anche lasciarsi incontrare da quei «greci» che forse gli organizzerebbero qualche tournée all’estero. Perché andarsi ad infilare nella tana del lupo?

Onorato dal Padre (Gv 12,29-36)

Proprio il modo con cui Gesù prosegue il discorso, però, ci aiuta a capire la sua logica: dopo l’accenno al chicco caduto in terra e alla custodia della vita per il mondo che verrà, invita i suoi servi ad andare là dove va lui (se ne deduce: offrendo la vita come lui) e, quindi, aggiunge che in quel modo il Padre li onorerà. Nel senso che il Padre non dimenticherà il loro sacrificio? Non solo.

Gesù va ancora avanti chiedendo al Padre di dare gloria al suo nome. E questo appello giunge come reazione all’ipotesi, che Gesù respinge, di chiedere di essere salvato da quell’ora. È a quel punto che arriva dal cielo una voce («non per me, ma per voi»: v. 30) che conferma che il Padre ha glorificato il proprio nome e ancora lo farà.

Proviamo a mettere ordine. Per noi «glorificare qualcuno» può significare esaltarlo, lodarlo, incensarlo. Per il mondo biblico è qualcosa di un po’ diverso: significa valorizzare qualcuno per ciò che davvero è, per le sue qualità autentiche, per le sue imprese effettive. Glorificare un atleta non significherebbe affermare che è il più forte del mondo, ma raccontare le sue gesta sportive.

Come può allora la morte di Gesù entrare nella glorificazione del Padre? Solo se quel dono della propria vita, cui Gesù invita anche i suoi discepoli, evita di essere un sacrificio in solitaria, di mostrare solo la propria forza morale. Solo se, invece, mostra il volto del Padre, la sua gloria, allora, non è l’esaltazione dell’«essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra», bensì del Dio che dona la vita creando, e continuando a donare la propria vita nel Figlio.

Quello che Dio sembra chiedere ad Abramo nel libro della Genesi, il dono del suo figlio, «il tuo unico figlio, che ami» (Gen 22,2), ossia non il sacrificio di se stessi, ma di una persona amata, il Padre non lo pretende dall’uomo, ma lo offre lui per primo.

Il dono di sé di Gesù è, allora, lo svelamento più autentico del volto del Padre, la sua gloria: il Padre non cerca la vita propria, ma quella degli esseri umani.

Ecco il motivo del grido di Gesù: «Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12,27). È chiaro il turbamento di fronte alla propria morte, ma nello stesso tempo è altrettanto chiaro che Gesù mostra appieno il volto del Padre e compie così la sua più autentica missione.

Giudizio del mondo

Anche noi continuiamo a pensare a Dio innanzi tutto come a colui che, alla fine, giudicherà il mondo. E c’è sicuramente un aspetto autentico in questa immagine che risale addirittura a prima della Bibbia: colui che è all’origine del mondo, lo ricondurrà a sé, premiando i buoni e punendo i cattivi.

Quest’immagine di un Dio giudice severo che abbiamo in testa da prima che Dio stesso inizi a raccontarsi agli uomini, va composta con quello che poi il Padre svela di sé nella Scrittura e in Gesù.

Nel Vangelo di Giovanni (12,31), il Figlio afferma che un giudizio ci sarà, e sarà contro «questo mondo», ma questo non vuol dire che l’intero mondo è malvagio e che Dio lo sterminerà. Sarebbe del tutto incoerente con troppa parte della Bibbia, e ancor più dei Vangeli. Tanto più con la volontà, espressa da Gesù, di donare la propria vita per l’umanità. Incoerente anche con l’immediata conseguenza  che, «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».

A cosa di riferisce allora Gesù quando parla del giudizio? In che modo Gesù e il Padre giudicheranno il mondo?

Intanto, dobbiamo ricordarci che per l’evangelista Giovanni la parola «mondo» rappresenta simbolicamente tutti coloro che rifiutano il messaggio divino: non tanto una descrizione, quanto un’etichetta. Peraltro, in Gv 12,48, Gesù precisa di non essere venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo.

Dobbiamo allora sforzarci di entrare nella logica dell’evangelista, che non ama darci tutte le conclusioni preconfezionate, ma preferisce lasciare che ci arriviamo noi, con le indicazioni che ci suggerisce.

In Gesù noi vediamo il volto del Padre. E ciò che vediamo è un Dio che si dona all’umanità, che vuole la vita delle sue creature, che davanti al rifiuto e all’ostilità del mondo manda suo Figlio, con l’intenzione di fare pace con esso. Il Padre è perfettamente consapevole di correre un grosso rischio: il Figlio potrebbe essere ucciso. Per entrare in comunione con gli esseri umani, il Padre di Gesù non risparmia niente.

A questo punto, chiunque voglia entrare nella logica divina non potrà che pensare come Gesù: vivere donando la propria vita per gli altri come ha fatto lui, consapevole che, se ha ragione Gesù, se il Padre è quello che lui mostra, donarsi agli altri significherà farci come Dio, come Gesù, vivendo la sua stessa sorte, che sarà di vita nuova.

Rifiutare questa logica, continuando a concentrarci su di noi, vivendo il rapporto con gli altri come se fossero nemici, accaparrandoci ogni vantaggio possibile, vorrà dire avvelenarci la vita e, in ultimo, allontanarsi dalla logica della vita che è quella divina. Sarà un giudizio, perché comporterà il rinunciare alla vita vera. Ma non sarà il decreto di un giudice severo che soppeserà dall’esterno le nostre azioni, saremo noi stessi a rinunciare alla vita vera (Gv 12,48-49).

Perché la parola del Padre, trasparente nella vita di Gesù, è solo parola di vita eterna (v. 50).

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 14 – continua)

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