

I minerali della guerra
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I gruppi armati controllano le miniere. E con esse si finanziano. L’estrazione dei minerali avviene senza regole. E la vendita passa dal Rwanda. La certificazione dà scarsi risultati. Mentre l’Ue chiude entrambi gli occhi.
A maggio 2024, il Movimento del 23 marzo (M23) – al momento, il gruppo armato più violento e brutale tra gli oltre cento attivi nelle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc) – ha preso il controllo delle miniere di tantalio di Rubaya, nel Nord Kivu. Si tratta di un’area cruciale, dalla quale si calcola provenga circa il 15% di tutto il tantalio globalmente commerciato nel mondo.
Qualche mese dopo, nel dicembre 2024, un report delle Nazioni Unite ha evidenziato che, preso il controllo di Rubaya, l’M23 aveva iniziato a contrabbandare in Rwanda circa 150 tonnellate di tantalio ogni mese, oltre ad aver imposto tasse sull’estrazione, tali da generare 800mila dollari mensili.
In questo modo, l’M23 si assicurava (e continua a farlo nel momento in cui scriviamo) risorse economiche essenziali per sostenere le proprie operazioni militari. Infatti, grazie ai guadagni derivanti dal commercio minerario e dalle tasse sull’estrazione, il movimento può acquistare armi, munizioni, equipaggiamento e derrate alimentari (che si aggiungono al già considerevole supporto fornito dal Rwanda, principale finanziatore del gruppo).
I minerali di conflitto
Non stupisce, quindi, che il tantalio sia annoverato tra i cosiddetti «conflict minerals» (letteralmente, «minerali di conflitto»). A darne una definizione precisa è stata l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse, un organismo per la promozione della cooperazione economica).
Nel rapporto «Due diligence guidance for responsible supply chains of minerals from conflict-affected and high-risk areas: third edition» (Guida per la verifica della catena di approvvigionamento di minerali provenienti da zone di conflitto, ndr), gli esperti dell’Ocse scrivono: «I minerali di conflitto sono tutte quelle materie prime minerarie provenienti da aree geografiche in guerra o ad alto rischio e dove i processi di estrazione e commercio, oltre a contribuire al perdurare della violenza armata, avvengono in condizioni di abusi e violazioni dei diritti umani».

Ieri e oggi
Non a caso, il termine «minerali di conflitto» iniziò a essere utilizzato nei primi anni Duemila, quando ci fu un’esplosione senza precedenti della domanda di tantalio, un minerale sempre più richiesto dall’industria elettronica e digitale e al centro della transizione ecologica globale. All’epoca, grandi quantità di questo minerale (circa il 50% di quello commerciato nel mondo) erano estratte nelle province orientali della Rdc, dove era scoppiata la Seconda guerra del Congo (1998-2003).
Fu proprio l’evidente intrecciarsi della crescente domanda internazionale di questo minerale con il suo provenire da un’area dove operavano centinaia di gruppi armati (nati per motivi differenti) a svelare il profondo legame tra risorse minerarie, conflitti e finanziamento degli attori armati.
In realtà, nelle province orientali congolesi, il concetto di minerali di conflitto è attuale ancora oggi. A distanza di venticinque anni, infatti, gli scontri proseguono. In un alternarsi di fasi più o meno violente, dal 1996 (anno di inizio della Prima guerra del Congo) a oggi, si contano almeno sei milioni di morti e decine di milioni di sfollati (attualmente, quelli interni sono 6,5 milioni). Mentre le risorse naturali restano cruciali per finanziare le attività militari.
Estrazione e diritti
Sebbene i minerali di conflitto possano provenire da diverse aree del mondo (come Colombia, Afghanistan e Myanmar), la Rdc è senza dubbio la regione che ne produce la quantità maggiore.
Oltre al tantalio, al centro delle reti di finanziamento degli attori armati congolesi ci sono anche stagno, tungsteno e oro. Risorse estratte in buona parte da minatori artigianali, localmente chiamati creuseurs e stimati tra le 200mila e le 550mila persone. Questi minatori non utilizzano particolari attrezzature, tecnologie o mezzi meccanici per l’estrazione.
Infatti, in un contesto dove gli investimenti delle multinazionali latitano (a causa della situazione di insicurezza perenne, dell’assenza di istituzioni statali solide e della scarsità di infrastrutture commerciali), l’estrazione artigianale è, per molti, l’unica modalità per assicurarsi il reddito necessario alla sopravvivenza quotidiana.

Miniere e gruppi armati
Molti siti artigianali si trovano, però, sotto il controllo degli attori armati. Nel 2022, Global
witness (un’organizzazione che indaga la correlazione tra lo sfruttamento delle risorse naturali e le violazioni di diritti ambientali e umani) stimava che nel 40% dei giacimenti dell’Est della Rdc ci fosse interferenza di attori armati. Una percentuale già significativa che oggi, tuttavia alla luce della recente avanzata dell’M23, è chiaramente sottostimata.
Spesso, la presenza di gruppi armati all’interno di un giacimento non comporta solo sfruttamento dei minerali per l’autofinanziamento. Ha anche un forte impatto sul piano dei diritti umani. I turni di lavoro superano le 12 ore, i minatori non ricevono indumenti protettivi e spesso sono impiegati anche bambini (circa 40mila nelle sole miniere di tantalio).
Le certificazioni
Nel tentativo di evitare il più possibile che i minerali contenuti nei dispositivi al centro della transizione ecologica contribuiscano a conflitti armati o violazioni dei diritti umani, l’Occidente ha sviluppato dei meccanismi di certificazione. Finalizzati a tracciare il percorso dei minerali, dall’estrazione all’inserimento nel prodotto finito, questi strumenti sono sempre più diffusi e tentano di garantire una catena di approvvigionamento più trasparente.
In particolare, nella regione africana dei Grandi Laghi, è stata introdotta l’«Iniziativa internazionale della filiera dello stagno» (Itsci), applicata ai minerali di conflitto estratti nell’area: tantalio, stagno, tungsteno e oro. Il meccanismo è molto semplice. Se un’ispezione nella miniera esclude la presenza di attori armati e violazioni dei diritti umani, il giacimento è incluso tra quelli «conflict-free» (letteralmente, «liberi da conflitti») e ogni sacco prodotto nel sito viene etichettato e il suo percorso tracciato.
Le crepe del sistema
Di fronte a una richiesta sempre maggiore di minerali che non contribuiscano a conflitti armati e violazioni dei diritti umani, Itsci è di fatto diventata l’unica modalità legale per esportare al di fuori della Rdc.
Tuttavia, spesso, il sistema non funziona. A volte, i sacchi sono sigillati ed etichettati al di fuori dei giacimenti «certificati», facilitando l’inserimento di minerali illegali nella catena produttiva. Altre volte, gli ufficiali addetti all’apposizione dei tagliandi, essendo sottopagati, vendono le etichette sul mercato nero, dove sono acquistate dagli attori armati. In altri casi ancora, i minerali estratti in siti controllati dai movimenti armati sono trasferiti di notte in giacimenti certificati e inseriti nella filiera di Itsci.
Ma è soprattutto il contrabbando in Rwanda a mostrare quanto le crepe del sistema di certificazione siano profonde. Per i gruppi armati, commerciare i minerali oltre confine è molto conveniente. Sia perché permette loro di accedere al mercato internazionale, sfuggendo agli obblighi posti da Itsci, sia perché in Rwanda le tasse sull’esportazione sono minori (il 4% del valore del bene, mentre nella Rdc arrivano al 10%), e i prezzi di vendita maggiori (circa 40 dollari al chilo a inizio 2024).
Spesso i minerali superano il confine nascosti nei serbatoi delle motociclette o in scompartimenti segreti dei camion. In altri casi, i contrabbandieri presentano certificati falsi di tracciabilità, o ricevono un lasciapassare silenzioso in cambio di tangenti.
Una volta giunte in Rwanda, le risorse vengono inserite nella catena produttiva locale e vendute insieme a quelle realmente estratte nel Paese.
E così il Rwanda risulta essere sistematicamente uno dei maggiori produttori mondiali di tantalio. Nel 2024, ad esempio, secondo la Us geological survey (agenzia scientifica del governo statunitense), era preceduto solo da Rdc e Nigeria, pur avendo giacimenti molto più limitati (anche se mai quantificati con precisione). D’altronde, per Global witness, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda è realmente estratto nel Paese. Tutto il resto è frutto del contrabbando dalla Rdc (oltre che del saccheggio operato direttamente dai militari ruandesi, sempre più numerosi al fianco dell’M23).
L’Europa chiude gli occhi
Nonostante fosse consapevole di tutto ciò, a febbraio 2024, l’Unione europea (Ue) ha siglato un accordo da 941 milioni di euro con il Rwanda per lo sviluppo della sua catena produttiva di minerali critici (in particolare, tantalio, niobio, stagno, terre rare e litio). L’obiettivo ultimo dell’Ue era assicurarsi forniture costanti e durature di minerali essenziali per la transizione ecologica.
Ma, così facendo, le istituzioni europee sono finite nell’occhio del ciclone. D’altronde, i flussi illegali di minerali attraverso il confine congo-ruandese non sono una novità, così come l’accaparramento sistematico da parte dei militari di Kigali. E l’intesa non faceva altro che incentivare queste dinamiche.
Tuttavia, è stato solo con la recente avanzata dell’M23 che qualcosa si è mosso. Il Parlamento europeo ha chiesto a Commissione e Consiglio di sospendere immediatamente l’accordo. Ma per il momento è rimasto inascoltato: l’Ue continua a importare – consapevolmente – ampie quantità di minerali di conflitto.
Aurora Guainazzi

La Rdc denuncia Apple.
La catena produttiva è contaminata
A dicembre 2024, la Rdc ha presentato denuncia contro le sussidiarie di Apple in Francia e Belgio, accusandole di utilizzare minerali di conflitto.
Era da settembre 2023 che gli avvocati di Kinshasa indagavano sulla catena di approvvigionamento dell’azienda. Ad aprile 2024, avevano scritto una lettera al Ceo di Apple, Tim Cook, chiedendo maggiore trasparenza sulla provenienza dei minerali. A dicembre, la decisione di denunciare, dichiarando che «la catena produttiva di Apple è contaminata da minerali insanguinati» e che l’azienda ne è consapevole, tanto da «utilizzare pratiche commerciali ingannevoli per rassicurare i consumatori».
La multinazionale ha immediatamente smentito le accuse. Tuttavia, cresce il numero di Ong, tra cui Global witness, che denunciano la presenza di minerali di conflitto nella filiera di diverse imprese, come Apple, Samsung, Intel e Tesla. Global witness ha anche annunciato di aver avvertito le compagnie stesse della possibile contaminazione della loro catena di approvvigionamento. Non che fosse realmente necessario: per Alex Koop, rappresentante dell’Ong, «loro sono consapevoli del fatto che i minerali utilizzati provengono dalla Rdc e sono contrabbandati in Rwanda». Ma il profitto prima di tutto.
È probabile che la storia continuerà. Gli avvocati del governo di Kinshasa, infatti, si sono mostrati risoluti e intenzionati a procedere. Anche perché vogliono far valere il Regolamento 2017/821 (in vigore dal 2021) che impone alle aziende operanti nell’Ue di verificare la provenienza di stagno, tungsteno, tantalio e oro importati sul suolo europeo.
A.G.