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Ecuador. Un omicidio all’ora

Era un paese tranquillo

La violenza sembra inarrestabile. Le cause sono note, le soluzioni difficili. Intanto, ad aprile, il giovane presidente Daniel Noboa – simbolo dell’uomo forte oggi di moda – è stato confermato nella carica.

Una domenica notte in un comune della provincia di Guayas, nel sud ovest del Paese. Alcuni sicari sparano contro un’auto. A bordo ci sono una coppia e una bambina di pochi mesi. Sono altri tre morti che si aggiungono a una lista lunghissima.

È soltanto un esempio tra i tanti, i troppi possibili. Secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, in Ecuador, a febbraio 2025, si sono contate 736 morti violente. Il 90 per cento in più rispetto all’anno precedente. Per dare un’idea ancora più chiara: un omicidio ogni ora. Dopo un 2024 caratterizzato da una riduzione del tasso di omicidi rispetto al 2023 (da 46,18 a 38,76 assassinati ogni centomila abitanti), i primi mesi del 2025 hanno, dunque, evidenziato una nuova recrudescenza.

Dopo le dimissioni di Guillermo Lasso (il presidente banchiere), dal novembre del 2023 il Paese andino è guidato dal giovane (37 anni) Daniel Noboa, erede di una potente dinastia d’imprenditori. Il suo operato è stato incentrato su decisioni forti, quelle che piacciono ai giorni nostri: dichiarazione dell’esistenza di un «conflitto armato non internazionale» (in sigla, «Cani»), lotta senza quartiere alla criminalità (tramite il cosiddetto «Plan Fénix»), utilizzo frequente dello stato d’emergenza («estado de excepción»). Fin dall’inizio, il modello preso a riferimento da Noboa è stato quello securitario di Nayib Bukele, presidente salvadoregno spesso elogiato da Donald Trump.

Pur con risultati contraddittori, la mano dura contro il crimine ha pagato in termini di popolarità, lanciando Noboa verso la sua riconferma a presidente nelle elezioni del 2025.

Luisa Gonzáles, candidata della sinistra, sconfitta da Noboa al ballottaggio del 13 aprile 2025. Foto Christian Medina – Asamblea Nacional.

Il bis di Noboa

Maglietta a maniche corte e fisico palestrato, il 13 aprile, giorno del ballottaggio, Noboa si è presentato al seggio elettorale accompagnato non soltanto dalla moglie Lavinia Valbonesi (di padre italiano), ma anche da Luisa, Alvaro e Furio, i suoi tre bambini.

Probabilmente, una scelta mediatica per mostrare ai cittadini ecuadoriani la propria famiglia, bella, serena, unita (e – se vogliamo dirla tutta – anche ricca e bianca).

Luisa González, candidata di Revolución ciudadana (il partito di sinistra fondato da Rafael Correa, presidente dal 2007 al 2017, da anni in esilio in Belgio), è stata battuta con uno scarto importante (56 per cento contro il 44), ben maggiore di quello delle precedenti elezioni del novembre 2023 (51,8 contro 48,1).

Dopo il pareggio al primo turno, la sconfitta della González è stata inaspettata, in quanto, per il ballottaggio, c’era stato un apparentamento con il movimento Pachakutik (in sigla, Mupp), il braccio politico della Conaie, la confederazione indigena («Confederación de nacionalidades indígenas del Ecuador») guidata da Leonidas Iza, il carismatico leader quichua-panzaleo.

Il risultato delle urne non è stato accettato dalla sfidante, che ha parlato di brogli evidenti. E ha protestato contro lo «stato d’eccezione» in sette province (sulle 24 totali) decretato il giorno prima delle elezioni.

Per parte sua, Donald Trump, sponsor di Noboa, si è congratulato con il vincitore definendolo un «grande leader». Il 20 gennaio il presidente ecuadoriano aveva presenziato all’investitura del tycoon. Mentre, a fine marzo, a pochi giorni dal secondo turno elettorale, aveva incontrato il presidente statunitense a Mar-a-Lago, in Florida, per chiedere aiuto economico, ma soprattutto militare.

Il leader indigeno Leonidas Iza non ha portato fortuna a Luisa Gonzáles. Foto Fernando Lagla – Asamblea Nacional.

I narcos

Un tempo Paese relativamente tranquillo, negli ultimi anni l’Ecuador si è trasformato nell’opposto, a causa dell’esplosione della criminalità organizzata.

Sul suo territorio oggi operano almeno ventidue bande, ma le principali sono due: Los Choneros e Los Lobos.

Il loro campo d’azione va dai sequestri alle estorsioni. Tuttavia, il business predominante è quello legato al traffico di droga, in particolare della cocaina proveniente dalla vicina Colombia.

Secondo l’organizzazione Insight crime, i gruppi ecuadoriani collaborano con narcos messicani, in particolare con il Cartello di Sinaloa e il Cartello Jalisco Nueva Generación. È stata, inoltre, accertata la presenza di trafficanti albanesi facenti capo al gruppo di Dritan Rexhepi (attualmente incarcerato a Tirana). Questa diffusa presenza criminale ha trasformato il piccolo Paese andino in un grande snodo per la cocaina che dal Sud America raggiunge l’Europa. La principale base di partenza è il porto di Guayaquil.

La risposta del governo Noboa è stata ed è muscolare: militari nelle strade, operazioni nelle carceri (veri e propri centri di comando del crimine), ampia libertà d’azione per le forze di polizia in deroga a molti diritti fondamentali. Per questo, da più parti Noboa è stato accusato di autoritarismo.

Il report del 2025 di Human rights watch parla di istituzioni democratiche fragili (in particolare, per il sistema giudiziario), restrizioni della libertà d’espressione e una condizione molto difficile per i minori.

Alzabandiera sul palazzo del governo, a Quito. Foto Paolo Moiola.

Senza luce

Oltre al problema dell’insicurezza, l’Ecuador è afflitto da altre questioni verso le quali il governo Noboa, finora, ha mostrato una totale inadeguatezza.

Tra le tante, una pesante crisi energetica, causata da una siccità che ha privato le centrali idroelettriche dell’acqua. In conseguenza della mancata produzione, da aprile a dicembre 2024, nel Paese ci sono state innumerevoli interruzioni di corrente, anche fino a 14 ore al giorno.

Questa situazione ha aggravato anche i tassi di povertà che, a dicembre 2024, hanno riguardato il 28 per cento della popolazione (Instituto nacional de estadística y censos, Inec). In termini assoluti significa che, in Ecuador, almeno 5,2 milioni di persone (su un totale di 18) vivono in condizioni di povertà.

L’economia del Paese andino si fonda su alcuni prodotti d’esportazione: il cacao, le banane, il pesce e il petrolio. Tuttavia, la maggior parte della produzione di cacao e di banane è in mano a grandi compagnie private. In particolare, la produzione bananiera fa capo ad Álvaro Noboa, padre del presidente (la cui madre, Annabella Azín, è membro dell’Assemblea nazionale).

Quanto al petrolio, il suo sfruttamento sta producendo gravi danni ambientali (soprattutto nella regione amazzonica) e ha generato conflitti con le popolazioni indigene ecuadoriane.

Infine, il settore del turismo, voce economica importante per il Paese, ha pagato la condizione d’insicurezza con una drastica riduzione degli arrivi dall’estero.

Donne indigene sul fiume Napo. Foto Paolo Moiola.

Senza maggioranza

La nuova Assemblea nazionale – la cui prima seduta è stata lo scorso 14 maggio – è dominata da due partiti: il movimento Acción democrática nacional (Adn) del presidente Daniel Noboa e il partito Revolución ciudadana (Rc) di Luisa González (e dell’ex presidente Rafael Correa).

Nessuno dei due soggetti politici ha la maggioranza assoluta dei 151 eletti. L’ago della bilancia potrebbero diventare i nove legislatori del movimento Pachakutik.

Paolo Moiola

Due indigene sedute nella centrale plaza San Francisco a Quito, la capitale ecuadoriana. Foto Paolo Moiola.

Padre Américo Javir «A fianco degli indigeni e dei loro valori»

Américo Joáo Baptista Javir ha 37 anni. Proviene dal Mozambico, provincia di Nampula. È ordinato sacerdote a Cali, in Colombia, il 31 gennaio del 2021. Pochi mesi dopo, gli viene assegnata la sua prima destinazione: l’Ecuador, provincia di Sucumbíos, localizzata nel Nord del Paese.

Il padre Américo Javir, missionario della Consolata a Sucumbíos. Foto archivio padre Américo Javir.

«Sì – ci racconta -, mi trovo qui da quattro anni. Ho subito iniziato a lavorare nella pastorale indigena, un campo d’azione che i missionari della Consolata hanno assunto nel 2008». Padre Américo è membro di un’équipe. «Ne fanno parte quattro comunità religiose. Oltre al mio istituto, c’è un carmelitano, due fratelli maristi e due sorelle laurite».

Secondo i dati del censimento 2022, Sucumbíos ha una popolazione di 200mila persone. Una parte di esse – circa il 16 per cento (a livello nazionale, la percentuale è del 7,7 per cento) – appartiene a popoli indigeni: Kichwa, Cofan, Shuar, Secoya, Siona, Awá sono i gruppi principali.

«La pastorale indigena consiste nel fornire supporto religioso, sociale, comunitario e culturale alle nazioni indigene presenti sul territorio. Consiste in visite costanti alle comunità con la celebrazione dei sacramenti e laboratori di formazione a tutti i livelli. Formiamo i catechisti per servire al meglio le loro comunità, ma promuoviamo anche l’importanza di salvaguardare i valori culturali delle diverse comunità».

La provincia di Sucumbíos è ricca di petrolio, soprattutto attorno al Lago Agrio. Una ricchezza pagata a caro prezzo a livello ambientale e sociale, e non distribuita a chi ne avrebbe più diritto, come conferma padre Américo.

«Sebbene gran parte della produzione petrolifera nazionale sia concentrata qui, nell’Amazzonia ecuadoriana, la popolazione locale – spiega il missionario – non riceve dalle compagnie coinvolte i benefici che dovrebbe. Si dice che le imprese ingannino le comunità con promesse di sviluppo, una vita dignitosa e piani sanitari, e firmino contratti a lungo termine, ma che tutte queste promesse non si concretizzino».

Le elezioni presidenziali si sono chiuse con la riconferma di Noboa. Chiediamo a padre Américo cosa si aspetti per il futuro. «Cosa spero io? Che l’Ecuador sia un Paese sicuro, che i politici e le autorità lavorino per il bene comune».

Pa.Mo.

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