Un viaggio indimenticabile al Catrimani


Una storia di cinquant’anni fa. Il protagonista, sedicenne, è catapultato nella missione del Catrimani, in piena foresta amazzonica, con uno dei missionari pionieri tra gli Yanomami. Da lui impara l’amore per quel popolo e il segreto dell’obbedienza.

È la fine del 1974. Abito a Bra, in provincia di Cuneo, nella stessa cittadina in cui è nato padre Giovanni Saffirio, missionario della Consolata in Amazzonia. Ho sedici anni e desidero tanto una moto da 125 cc, però i miei genitori non vogliono. Allo stesso tempo Luciana, la sorella di padre Saffirio, da tempo sta cercando un compagno o compagna di viaggio per andare in Brasile, dove Giovanni, nel 1972, ha salvato da morte certa una bambina yanomami alla Missão Catrimani sul rio Catrimani nel territorio federale di Roraima.

La bimba indesiderata

La bambina è figlia di una ragazza yanomami e di un indigeno arrivato dal Rio Orinoco, in Venezuela. L’uomo aveva fatto più di 900 km a piedi nella giungla amazzonica, ed era uno xapuri, cioè uno sciamano, ma con una brutta fama. Pertanto, la comunità yanomami non voleva che la ragazza lo sposasse. Di conseguenza, la neonata, essendo non «regolare» né accettata ufficialmente nella maloca, sarebbe morta di stenti.

Padre Giovanni, dopo estenuanti trattative, è riuscito a convincere tutti a lasciare la piccola, una volta nata, a sua sorella, che anni prima era andata a trovarlo in missione.

Arrivato il momento del parto, la ragazza era corsa nella giungla tutta sola, come abitudine del suo popolo. Padre Giovanni se ne era accorto e l’aveva seguita da lontano. Avvenuto il parto, si era fatto consegnare la bimba, e poi, di corsa, era andato nella baracca della Missão Catrimani per chiamare via radio il piccolo aereo che faceva la spola con Boa Vista. Così, già nei primi giorni di vita, Yana, questo il nome della neonata, ha avuto il battesimo dell’aria.

Tramite una delle prime donne yanomami aiutate da padre Giovanni a diventare infermiera, Abrelina, aveva organizzato dove ospitarla e crescerla a Boa Vista per il tempo che sarebbe servito a sua sorella per fare tutte le pratiche e portarla in Italia come figlia adottiva.

Un viaggio indimenticabile

Venuto a conoscenza di tutte queste vicissitudini, ricatto i miei genitori: o la moto o il viaggio con Luciana, che conosco perché frequentiamo la stessa parrocchia.

Così nei primi mesi del 1975 dico a Luciana che andrò io con lei. All’inizio non fa certo salti di gioia vista la mia età (16 anni), ma, fortuna per me, non c’è nessun altro disposto ad accompagnarla. I mesi passano velocemente e si giunge all’estate. Prepariamo i documenti, facciamo le dovute vaccinazioni e i bagagli. Luciana è contenta che io abbia pochi chili di bagaglio, perché i rimanenti li sfruttiamo per portare materiale per la missione. Per risparmiare sui costi del viaggio, andiamo da Bra al Lussemburgo in treno, poi da là in aereo fino a Trinidad e poi a Georgetown in Guyana.

All’aeroporto di Lussemburgo si unisce a noi il vescovo di Boa Vista, monsignor Servilio Conti, e affrontiamo insieme i disguidi e disagi di tre lunghi giorni di viaggio. In questo tempo Luciana ha modo di aggiornarmi sulle difficoltà dell’adozione del cui esito non è ancora certa.

Giunti a Georgetown, abbiamo ancora un volo per andare a Lethem, città sul confine tra la Guyana e lo stato federale di Roraima in Brasile. L’ultimo aereo è un catorcio, un Dakota residuato della Seconda guerra mondiale con sedili in tela sul quale io non risulto prenotato. Dopo discussioni varie, chi comanda ordina di spostare parte del carico per inserire un sedile in più. Oltre i bagagli, nella cabina c’è di tutto, anche mucche squartate.

Il viaggio è terribile per vuoti d’aria, sobbalzi e due scali fuori programma. Al secondo scalo salto giù dalla disperazione per vomitare. Alla fine arriviamo a Lethem. Lì incontriamo padre Giovanni che è venuto a prenderci.

Non è una passeggiata

A fare da confine tra Guyana e Brasile è il fiume Takutu, che attraversiamo con le barche perché non esiste un ponte. Dopo tre giorni senza lavarmi e, soprattutto, dopo gli effetti dell’ultimo volo, mi sembra bello mettere le mani nell’acqua e rinfrescarmi un po’, benché sia di colore marrone. Ma padre Giovanni mi riprende subito: non è il caso di farlo in quanto potrei toccare dei pesci con aghi avvelenati sul dorso. Comincio ad avere la certezza che non sarà una passeggiata o un viaggio di piacere.

Quando arriviamo a un altro fiume, il Rio Branco, questo è in piena: a mala pena vediamo l’altra riva. Prendiamo un traghetto. Sull’altra sponda c’è la città. Mentre attraversiamo il fiume, vengo a conoscenza del fatto che qualche tempo prima un operaio del traghetto era stato ucciso da un uomo per aver sistemato il suo autoveicolo in un modo che non gli era piaciuto. Ingenuamente chiedo che fine abbia fatto l’assassino. Padre Giovanni mi spiega che è libero perché nessuno è andato a denunciare o ha protestato.

Yana

Arrivati a Boa Vista, salutato il vescovo, andiamo in periferia insieme ad Abrelina, così conosciamo la famiglia che, per due anni, ha cresciuto Yana.

La bimba ha vissuto in una cascina con mucche e maiali. Qualche mese fa ha avuto uno scontro con un maiale e si è rotta la clavicola, ma ormai è guarita e vuole sempre andare in giro per la campagna.

Io e Luciana, per alcuni giorni, rimaniamo ospiti in quella famiglia. Per noi hanno comprato dei materassi di gomma piuma, un lusso, perché loro dormono nelle amache. Così entriamo nella vita di Yana che, piano piano, si abitua a noi. Quando la prendo in braccio e la porto in giro, anche se non sa parlare, fa capire benissimo dove vuole andare… a suon di schiaffoni.

In uno di questi giri vediamo un cobra che attacca una mucca. Torniamo subito alla fattoria dove ci dicono che i serpenti sono un po’ nervosi forse perché sta per cambiare il tempo. Con nostra sorpresa ci accorgiamo che per tutte quelle notti abbiamo dormito proprio vicino a un serpente, ma questo non è velenoso: prende i topi.

Padre Giovanni, sfrutta questi giorni nella capitale per capire dove si è bloccata la pratica di adozione iniziata due anni fa.

Verso il Catrimani

Una sera viene alla fattoria per dirci che domani io e lui partiremo per la Missão Catrimani, mentre Abrelina, Luciana e Yana verranno il giorno dopo con un fuoristrada. Così noi partiamo con un vecchio camion ricevuto in dono da benefattori. Non ne ho mai visto uno che abbia come freno motore il restringimento manuale del tubo di scarico dei fumi.

Così attraversiamo la savana e tramite la transamazzonica (una strada oggi dismessa, ndr) arriviamo alla Missão Catrimani che è già notte.

Mangiamo nello spazio comune e rassettiamo la cucina, poi ci mettiamo in fila indiana per raggiungere la baracca dove dormiremo sulle amache, naturalmente tutto al buio, solo con l’aiuto di qualche pila. Io sono il penultimo e padre Giovanni l’ultimo della fila, con la torcia in mano. Siamo appena entrati nella baracca dormitorio quando sento un grido: «Elio, stai fermo. Non muoverti». A una spanna dal mio piede c’è un serpente tutto colorato ad anelli, detto dei «7 passi», se ti morde hai il tempo di fare sette passi e sei morto. Si era infilato tra un asse e l’altro. Padre Giovanni gli punta il fascio di luce negli occhi e il serpente si gira ed esce da dove è entrato. Fuori lo uccidiamo con una scopa: un’azione pericolosa. Allora chiedo a padre Giovanni perché abbiamo rischiato così per ucciderlo. Lui mi risponde che gli indigeni normalmente escono di notte a fare i loro bisogni ed era probabile che il serpente ne avrebbe morso qualcuno. Noi invece visto che abbiamo il bagno «in casa» siamo considerati un po’ come degli sporcaccioni.

Nei giorni seguenti padre Giovanni mi insegna moltissimo. La prima cosa che imparo è ubbidire.

La liberazione

Un giorno vedo padre Giovanni arrabbiato. A un certo punto mi dice: «Vieni con me». Prendiamo il famoso camion. Salgono sul cassone alcuni indigeni e partiamo. Gli chiedo per dove. Mi dice che andiamo al campo degli uomini della Camargo Corea, la ditta che sta facendo una bretella della transamazzonica.

Coloro che lavorano a queste opere, per le condizioni ambientali proibitive, non sono proprio degli stinchi di santi. Se sei in prigione e ti offri per andare a lavorare lì, ti scontano la pena.

Vengo a scoprire che una ragazza indigena è stata presa e viene tenuta con la forza nel campo come prostituta per tutto l’accampamento.

Quando raggiungiamo il luogo, padre Giovanni chiede dove si trovi la ragazza e dice che la vuole portare via. In pochi minuti veniamo circondati. Il meno armato ha il macete. Si discute animatamente. A un certo punto padre Giovanni mi dice: «Elio vai al camion, metti in moto e tieniti pronto». Sono momenti di tensione, io controllo dagli specchietti. Gli Yanomami venuti con noi saltano sul camion. Poi anche padre Giovanni con la ragazza si butta in cabina. «Veloce, parti», mi dice. Schiaccio a tavoletta l’acceleratore e per alcuni minuti non bado alle buche della strada che prendo a tutta velocità, fino a quando padre Giovanni mi dice: «Elio guidi peggio di un caboclo» (meticcio nato da madre indigena e padre bianco, ndr). Capisco che siamo fuori pericolo e torno a guidare normalmente.

Nella foresta

Altro consiglio utile di padre Giovanni è quello di stare attento a fare le foto agli Yanomami perché essi pensano che con quell’apparecchio stai rubando loro l’anima e, per reazione, potrebbero tirarti una freccia avvelenata con il curaro.

Al Catrimani in questo periodo sono arrivati dei medici e antropologi. Un giorno chiedono a padre Giovanni di accompagnarli ad una maloca «vicina» perché c’è un’epidemia di morbillo e influenza. Perciò ci organizziamo con il camion e partiamo. Arrivati a un certo punto, scendiamo tutti dal camion e procediamo nella giungla con una guida verso la maloca.

Dicono che gli indigeni vedono i sentieri tracciati nella foresta, come aveva fatto il padre di Yana, che dall’Orinoco era arrivato sino al Catrimani. Provo ad addentrarmi nella boscaglia da solo, ma dopo pochi metri non riconosco neppure il punto da dove sono partito. Invece, la guida ci indica la posizione del sentiero senza difficoltà. Arriviamo a un torrente che dobbiamo attraversare. Padre Giovanni e la guida osservano l’acqua sporca in cerca di segnali. Vogliono capire se ci sono dei piranha o altri pericoli nel torrente. Ci immergiamo e lo attraversiamo. Io porto sulle spalle uno zaino con diversi medicinali e padre Giovanni mi dice di non cadere per non bagnare le medicine. Finalmente arriviamo alla maloca e ci mettiamo a servizio dei medici.

Le strade costruite nella giungla sono il miglior sistema per eliminare la popolazione indigena. Essendo rialzate dal piano della foresta, senza sufficienti tubi o ponti per lasciar scorrere l’acqua, generano moltissime zone di ristagno dove si moltiplicano le zanzare portatrici di malaria. In più, il contatto degli operai con gli indigeni porta le nostre malattie, letali per loro che non hanno tutti i nostri anticorpi.

A proposito dei piranha

Padre Giovanni deve dar da mangiare a parecchia gente che lavora nella missione e per questo va a pescare e cacciare selvaggina, così un giorno mi invita ad andare con lui. Partiamo la mattina insieme a un cacciatore e raggiungiamo un punto del fiume Catrimani. Fatto scendere il cacciatore dal camion, ci dedichiamo alla pesca. Prima prendiamo dei pesci piccoli, li tagliamo e li mettiamo come esche su alcuni ami molto grossi legati con filo di ferro doppio a una robusta corda di plastica. Lanciamo il tutto nell’acqua. Nel caso in cui ci siano dei piranha, al secondo morso mangerebbero tutto. Perciò al primo segnale devi tirare la lenza e se l’amo ha agganciato un piranha bisogna portarlo contro la canoa e con il macete fracassargli la testa, altrimenti si rischia di finire come quello yanomami, di cui mi racconta padre Giovanni, che aveva perso un polpaccio a causa del morso di un piranha tirato fuori dall’acqua senza prima ammazzarlo.

Un giorno, sempre mentre siamo in barca sul rio Catrimani vediamo una nuvola di piums (insetti molto piccoli). Padre Giovanni mi spiega che ve ne sono di diversi tipi, anche pericolosi. Nel prosieguo della giornata soleggiata e molto calda, con qualche nuvoletta bianca qua e là, a un certo punto padre Giovanni mi dice: «Elio, metti tutto dentro il sacco impermeabile». Mi passa per la testa il pensiero che abbia un colpo di sole o che sia sotto l’effetto dei morsi dei piums, però, memore degli episodi precedenti, ubbidisco subito. Non faccio in tempo a raccogliere le macchine fotografiche e i contenitori con il pranzo al sacco, che in un minuto la barca si sta riempiendo di pioggia. Padre Giovanni che è alla sua guida, mi passa una ciotola e mi dice: «Butta fuori l’acqua dalla barca». Riusciamo a trovare riparo sotto un grande albero e aspettiamo che finisca il temporale.

Saffirio padre Giovanni

Rientro

Dopo tante peripezie riusciamo a portare a termine la parte burocratica dell’adozione e finalmente possiamo portare Yana in Italia.

Di questa esperienza mi rimarrà il ricordo molto forte di un momento di sconforto di padre Giovanni il quale si vergogna di appartenere al mondo occidentale per tutte le malefatte e i dolori provocati agli Yanomami, e per la distruzione della natura.

Passati alcuni anni, nel periodo in cui padre Giovanni sta negli Stati Uniti, ogni tanto torna dai suoi a Bra e mi racconta dei suoi studi e delle sue ricerche.

Un giorno mi dice che sono fortunato, e questo mi colpisce. Mi rendo conto in questo momento di quanti doni gratuiti ho, e do per scontati.

Ringrazio Dio per questo

Elio Operti




Rimettiamo i loro debiti


In apertura del 27° Giubileo indetto dalla Chiesa cattolica, papa Francesco è tornato su un tema già oggetto di una campagna internazionale in occasione del precedente Giubileo dell’anno 2000.

Il tema è quello del «debito del Sud del mondo» o – meglio – delle somme che le nazioni a reddito medio basso (Cina inclusa) devono ad altre nazioni.

In tutto, si tratta di 135 paesi, genericamente definiti «Sud globale». Nel 2023, questi paesi avevano un debito complessivo verso l’estero pari a 8.800 miliardi di dollari, per il 57% a carico dei governi e il 43% a carico di soggetti privati, principalmente imprese. Due entità giuridicamente ben distinte fra loro, ma economicamente connesse perché entrambe attingono alla stessa fonte per pagare i propri debiti esteri. Il bacino comune si chiama introiti da esportazione, il principale canale di ingresso di dollari, euro e altre valute forti che i creditori esteri pretendono come forma di pagamento. Se il sistema paese non dovesse avere abbastanza valuta estera per tutti i pagamenti, toccherebbe al governo trovarne aprendo nuovo debito.

I numeri del debito

Nel primo scorcio di questo secolo il debito estero del Sud ha conosciuto un andamento a singhiozzo. Mentre dal 2000 al 2007 è rimasto abbastanza stabile passando da 2.000 a 3.100 miliardi di dollari, nei 15 anni successivi è praticamente triplicato, sfiorando, nel 2023, i 9.000 miliardi di dollari.

Secondo i dati forniti dall’Unctad, agenzia delle Nazioni Unite, se nel 2010 il debito este-ro rappresentava mediamente il 19% del prodotto lordo dei paesi del Sud, nel 2022 era salito al 28%. Debito che, messo a confronto con gli introiti da esportazioni, nel 2010 rappresentava il 71%, nel 2022 il 92% dell’importo incassato. Situazione ancora peggiore per il gruppo dei 45 paesi più poveri del mondo (per la maggior parte africani) il cui debito estero rappresenta il 54% del Pil e il 250% delle loro esportazioni.

Borse e speculatori

L’ultimo evento che ha fatto crescere il debito dei 45 paesi più poveri, quelli che l’Unctad definisce «paesi meno sviluppati», è stato l’aumento del prezzo dei cereali.

Spiegato ufficialmente come un effetto della guerra in Ucraina, in realtà la variazione è stata il prodotto della speculazione finanziaria sempre pronta a trasformare le sciagure in occasioni di arricchimento. In effetti non c’è stata proporzionalità fra la quantità di grano che la guerra aveva fatto mancare e l’aumento dei prezzi che, in poche settimane, erano cresciuti del 50%.

Il fatto è che il prezzo delle risorse commercializzate a livello mondiale si forma nelle borse merci, luoghi popolati più da soggetti che usano i prezzi come strumenti di scommessa che da imprese interessate a comprare realmente le materie prime trattate. Peccato, però, che le puntate degli scommettitori si ripercuotano sui prezzi reali produ-

cendo sconquassi a tutti i livelli, ivi compresa la fame, la recessione e l’indebitamento dei governi.

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, il mondo stava appena uscendo da un altro periodo difficile, questa volta prodotto da un virus, il Covid-19 che, oltre ad avere provocato ovunque una battuta d’arresto delle attività produttive, aveva costretto tutti i governi del mondo ad accrescere le proprie spese sanitarie. Le due emergenze messe assieme avevano fatto crescere il debito pubblico che, a livello mondiale, è passato da 75mila miliardi di dollari, nel 2019, a 97mila nel 2023. E benché più dell’80% del nuovo debito pubblico sia stato generato dai governi dei paesi ricchi, i problemi più seri li stanno incontrando quelli poveri.

Nel 2023 il debito pubblico complessivo del Sud del mondo ammontava a 29mila miliardi di dollari, con conseguenze poco gravi per paesi con economie in crescita come Cina, Indonesia o India, ma un vero flagello per quelli stagnanti come sono la maggior parte dei paesi collocati nell’Africa subsahariana.

Anche perché i paesi con minori capacità finanziarie finiscono per pagare di più.

La spesa per interessi

Debito estero e Giubileo 2025. Foto PublicDomainPictures – Pixabay.

È la legge del mercato. L’argomentazione è che il prestito comporta un rischio per il creditore. Questo rischio va compensato, e poiché il povero ha più probabilità del ricco di non riuscire a restituire le somme ricevute, deve accettare di pagare interessi più alti. Teoria confermata dai fatti.

Secondo i dati riferiti dall’Unctad, il tasso medio pagato sui titoli del debito pubblico fra il 2020 e il 2024, è stato dello 0,85% per la Germania, del 2,5%  per gli Stati Uniti, del 5,35% per i paesi asiatici e del 9,8% per quelli africani.

Il risultato è che nel 2023 la spesa per interessi dell’insieme dei paesi del Sud ha raggiunto gli 847 miliardi di dollari, il 26% in più rispetto al 2021. Con ricadute pesanti sulle popolazioni di molti paesi dove la spesa sanitaria o per istruzione è inferiore a quella per ripagare gli interessi del debito. Ad esempio, in Asia (Cina esclusa), nel periodo 2020-2022, la spesa per interessi è stata mediamente di 84 dollari pro capite, quella per la sanità di 62 dollari. Quanto all’Africa, è stata di 70 dollari la spesa per interessi, di 39 dollari quella per la sanità.

La conclusione è che 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per interessi sul debito che per sanità o istruzione, mentre nei paesi ricchi la situazione è all’inverso.

Valga, come confronto, l’Italia che, pur avendo un debito pubblico di 3mila miliardi di euro, nel 2023 ha registrato una spesa pubblica pro capite per la sanità pari a 3.400 euro contro 1.300 per interessi.

La raccolta fiscale

Il punto è che i paesi del Sud hanno una scarsa capacità di raccolta fiscale, per cui basta un minimo aumento di spesa imposta dall’esterno per peggiorare i già fragili bilanci. Basti dire che, mentre nell’Unione europea la raccolta fiscale rappresenta mediamente il 40% del Pil, nei paesi del Sud si attesta su una media del 29%. Percentuale che scende addirittura al 12% nei 45 paesi più poveri.

Un fenomeno dovuto a una varietà di fattori fra cui una pubblica amministrazione debole e male organizzata, un’alta percentuale di economia informale, una massiccia evasione fiscale (anche da parte di grandi complessi multinazionali).

Purtroppo, quella per interessi non è l’unica voce di spesa del debito. Agli interessi vanno aggiunte le quote di capitale da restituire annualmente. Queste ultime più gli interessi sono definite «servizio del debito». Nel caso del Sud del mondo una parte importante del servizio del debito è verso l’estero. Nel 2022 è stato di circa 1.400 miliardi di dollari, dei quali 406 per interessi.

Messo a confronto con le entrate governative, si scopre che nel 2023 il servizio del debito estero nel Sud del mondo ha assorbito mediamente il 17% delle entrate pubbliche con punte che hanno raggiunto il 65% in Angola, il 52% in Laos, il 43% in Pakistan ed Egitto.

Il tutto mentre povertà e cambiamenti climatici pongono sfide finanziarie enormi.

Rinunciare a 353 miliardi

Secondo lo studio condotto nel 2023 da un gruppo di esperti per conto del G20, da qui al 2030, al Sud del mondo (Cina esclusa) servirebbero ogni anno 5.400 miliardi di dollari, di cui 2.400 per affrontare la crisi climatica e 3.000 per combattere la miseria.  Ciò nonostante nel 2023 i governi del Sud hanno speso per il servizio del debito 12 volte e mezzo in più di quanto non abbiano speso per difendersi dai cambiamenti climatici.

Lo sostiene un rapporto della Misereor tedesca secondo il quale mediamente i governi del Sud destinano al totale del servizio del debito il 33% delle risorse pubbliche mentre ai cambiamenti climatici solo il 2,5%.

Considerato che una quota rilevante del servizio del debito del Sud è verso creditori esteri, la parte più sensibile della nostra società insiste affinché vengano annullati almeno i crediti vantati verso i paesi più poveri. In tutto 45 nazioni che ospitano il 13% della popolazione mondiale con un reddito pro capite inferiore ai mille dollari all’anno e bassissimi livelli di sviluppo umano.

Basti dire che, nell’insieme di questi paesi (33 dei quali africani), vive la metà dei poveri assoluti del mondo, persone che campando con meno di due dollari al giorno, non si nutrono abbastanza, non hanno una casa degna di questo nome, muoiono di malattie banali come una bronchite o una dissenteria. Il 22% dei bambini di questi paesi non va a scuola, mentre il 44% della popolazione non dispone di corrente elettrica e il 63% non ha l’acqua corrente né adeguati servizi igienici.

L’Unctad ci informa che, complessivamente, i governi di questi 45 paesi detengono un debito verso l’estero di 353 miliardi di dollari, una cifra irrisoria per i nostri livelli economici, ma una vera e propria condanna a morte per loro che, messi tutti assieme, hanno introiti governativi di appena 160 miliardi di dollari.

Nel 2023 ne hanno dovuti accantonare una trentina per ripagare il loro debito verso le ricche istituzioni estere. Ne sono rimasti all’incirca 130 per soddisfare i bisogni sociali e sanitari di oltre un miliardo di persone, sen-

za contare tutte le altre spese che ogni governo del mondo normalmente sostiene.

«Chi deve a chi?»

Come termine di paragone il governo italiano utilizza più di 800 miliardi di euro all’anno per una popolazione che non raggiunge i 60 milioni. Insomma, 353 miliardi di dollari per paesi così malandati sono un’enormità, ma non altrettanto per i loro creditori.

Certo, spacchettando la somma, si scopre che uno dei principali creditori è la Cina che vanta all’incirca 50 miliardi di crediti, il 14% del debito totale dei 45 paesi più poveri. Il resto, però, fa capo ad altri governi per lo più del Nord (21%), alla Banca mondiale e ad altre istituzioni finanziarie multilaterali (42%), a banche commerciali e ad altri soggetti privati (23%). Anche l’Italia compare fra i creditori con 1,2 miliardi di dollari. Paesi che non andrebbero falliti se depennassero i crediti vantati verso i «dannati della terra».

Invece, succede che sei dei 45 paesi più poveri hanno già conosciuto momenti di bancarotta, mentre altri quindici ne sono sull’orlo.

La richiesta di annullamento del debito è sostenuta anche dal fatto che, analizzando bene le cose, si scopre che non è il Sud  povero, bensì il Nord ricco, a essere in debito. Un debito formato nel corso dei secoli da politiche di oppressione e mal sviluppo che hanno provocato danni sociali e ambientali così alti al Sud del mondo, da gettarlo nello stato di fragilità economica che oggi lo costringe ad indebitarsi.

Un rapporto pubblicato recentemente da Action Aid, dal titolo emblematico Who owes who? (Chi deve a chi?), sostiene che fra danni ambientali, danni da colonialismo, danni da scambio ineguale e danni da esportazione illecita di capitali, il Sud dovrebbe ricevere un indennizzo pari a un milione di miliardi di dollari, cifra che corrisponde a dieci volte il prodotto lordo mondiale.

L’appello di Francesco

Un quadro ben chiaro a papa Francesco che, nel suo discorso tenuto il 1° gennaio 2025, in occasione della 58a giornata dedicata alla pace, ha dichiarato: «Debito estero e debito ecologico sono due facce della stessa medaglia, figli della stessa logica di sfruttamento che ha portato alla crisi del debito. Nello spirito di questo Anno giubilare, sollecito la comunità internazionale a lavorare per l’annullamento del debito estero come riconoscimento del debito ecologico esistente fra Nord e Sud del mondo. Un appello di solidarietà che è prima di tutto un’esigenza di giustizia».

Appello accolto dalla Caritas internazionale che, in apertura dell’Anno giubilare, ha lanciato la campagna «Trasformare il debito in speranza», ricordando che, negli ultimi dodici anni, le nazioni ricche hanno speso per sovvenzioni ai combustibili fossili sei volte di più di quanto non abbiano versato ai paesi vulnerabili per aiutarli ad arginare le conseguenze prodotte dai cambiamenti climatici.

Quei soldi avrebbero potuto fornire quasi metà del denaro di cui i paesi più vulnerabili hanno bisogno per iniziare a proteggersi.

La campagna è presente anche in Italia con cinque richieste fondamentali: ridimensionare o annullare la spesa per interessi dei paesi più poveri, convertire il loro debito in spese a favore delle popolazioni, aiutare i paesi del Sud a lottare contro l’evasione fiscale specie quella attuata da parte delle multinazio-

nali, portare la cooperazione dei paesi del Nord almeno allo 0,7% del Pil come richiedono le Nazioni Unite, riformare l’assetto finanziario internazionale in un’ottica non predatoria. Obiettivi raggiungibili che contribuirebbero a ottenere un mondo più giusto e quindi la pace.

Francesco Gesualdi




Giustizia e pace, se non ora quando?


Diseguaglianze, guerra e crisi climatica sono le sfide a cui tentano di rispondere le iniziative del mondo missionario che vanno sotto il grande ombrello chiamato Gpic: giustizia, pace e integrità del creato. Dalle esperienze passate e presenti possono venire gli spunti per quelle future.

Giustizia, pace e integrità del creato (Gpic) è l’espressione con cui gli istituti religiosi indicano uno degli ambiti su cui si concentrano il loro lavoro e la riflessione teologica.

Le sue origini, si legge sul sito dell’Unione internazionale delle Superiore generali (Uisg)@, risalgono agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in particolare alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes del 1965 e al Sinodo dei vescovi sulla giustizia nel mondo del 1971. Un documento (la GS) e un’istituzione (il sinodo) nati entrambi  dal Concilio Vaticano II e dalla spinta al rinnovamento della Chiesa che esso raccolse. Nel 1967, papa Paolo VI istituì il Pontificio consiglio per la giustizia e per la pace, soppresso da papa Francesco nel 2017 per trasferire le sue funzioni e quella di altri tre Pontifici consigli al Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale@.

Il dicastero, si legge sulla sua pagina istituzionale, «ha il compito di promuovere la persona umana e la sua dignità donatale da Dio, i diritti umani, la salute, la giustizia e la pace», e «si interessa principalmente alle questioni relative all’economia e al lavoro, alla cura del creato e della terra come “casa comune”, alle migrazioni e alle emergenze umanitarie».

La definizione estesa aiuta a orientarsi nella varietà di temi che la Gpic copre, e a operare una sorta di traduzione verso il linguaggio della cooperazione allo sviluppo.

Forzando un po’ alcuni concetti – come è inevitabile quando si passa da un lessico religioso a uno laico -, possiamo dire che la Gpic rimanda alla lotta alle diseguaglianze, alla risoluzione dei conflitti e alla protezione dell’ambiente.

Temi, questi, che anche le Nazioni Unite ritengono prioritari: nel suo discorso all’Assemblea generale Onu dello scorso gennaio, il Segretario generale António Guterres ha indicato come sfide globali più urgenti per il 2025 i conflitti in continua ascesa, le disuguaglianze crescenti, l’intensificarsi della crisi climatica e l’aumento incontrollato della tecnologia.

E non è difficile rintracciare, nel testo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, i riferimenti (ad esempio al punto 13) all’interdipendenza di queste sfide e alla conseguente necessità di affrontarle insieme.

Ricordando padre Antonio Bonanomi a Toribio.

Toribio, dove tutto si incrocia

L’insieme queste tre dimensioni della Gpic si è manifestato fin dall’inizio nella realtà di Toribio, dove – ricorda padre Rinaldo Cogliati, che a Toribio ha lavorato dal 1986 al 2007 – i missionari della Consolata hanno iniziato il loro lavoro il 2 febbraio del 1985: quarant’anni fa.

Toribio si trova nel Nord del Cauca, regione sudoccidentale della Colombia sulla Cordigliera centrale delle Ande. Su Missioni Consolata del novembre 1996, padre Antonio Bonanomi, coordinatore dell’équipe missionaria dal 1988 al 2005, spiegava che i missionari della Consolata erano arrivati a Toribio per continuare il lavoro di padre Alvaro Ulcué Chocué, sacerdote colombiano ucciso il 10 novembre 1984 a causa «del suo impegno evangelico per la giustizia».

Membro lui stesso del popolo indigeno dei Nasa, padre Alvaro aveva lavorato nella parrocchia di Toribio e nei vicini villaggi di Caldono, Jambaló e Tacueyó con la sua équipe di suore missionarie di Madre Laura e di laici indigeni dal 1975 al 1984. Frutto del suo lavoro era stato l’avvio del Progetto Nasa, che probabilmente sarebbe un caso da manuale – se ne esistesse uno – di impegno per la giustizia, la pace e l’integrità del creato.

Chi ha operato in quella zona fra gli anni Settanta e oggi, infatti, si è trovato ad affrontare l’effetto combinato dell’esclusione di cui sono vittime da secoli i popoli indigeni, del conflitto fra esercito e guerriglia, e degli effetti sull’ambiente e sulla sicurezza dell’espandersi prima del latifondo e poi dell’industria, con il corollario della violenza esercitata dai gruppi paramilitari al servizio di latifondisti e industriali.

A questa violenza, la comunità nasa ha opposto la guardia civica, gruppi di volontari che monitorano il territorio. All’epoca della sua istituzione c’erano molti dubbi sull’efficacia di persone armate solo di bastonie nel contenere gruppi con armi vere come i paramilitari e i guerriglieri. Ma, scriveva padre Rinaldo su MC del settembre 2001, la risposta fu che «la vera arma della guardia è l’appoggio della comunità», e la volontà di quest’ultima di difendere, anche con la vita, il proprio plan de vida, cioè il progetto di sviluppo che il popolo nasa ha elaborato per se stesso.

Sarebbe troppo complicato riassumere qui i risultati del lavoro avviato da padre Alvaro e portato avanti dai missionari della Consolata fino allo scorso febbraio, quando questi ultimi hanno lasciato Toribio alla Chiesa locale.

Vale però la pena di ricordare che, se nel 1984, poco prima del suo assassinio, padre Alvaro aveva condiviso con padre Ezio Roattino – missionario della Consolata amico di Alvaro e una delle ultime persone ad averlo visto vivo – la preoccupazione per una popolazione di 69mila persone che rischiava di ridursi fino a sparire, oggi, secondo il più recente censimento nazionale (2018),@ il popolo nasa conta 243mila persone, di cui l’88% nel Cauca.

Il «Centro di educazione, abilitazione e ricerca per lo sviluppo integrale» della comunità, Cecidic, attraverso cui dal 1992 passano gran parte delle attività di istruzione e formazione del Progetto nasa, e al quale l’équipe missionaria ha dato un impulso fondamentale, offre corsi tecnici in agricoltura sostenibile, formazione su arti e saperi ancestrali, etno educazione ed economia, anche in collaborazione con la Pontificia università bolivariana di Medellin.

Ripasso di matematica elementare.

Oujda e i migranti

Se Toribio è un luogo dove si sovrappongono e incrociano, potremmo dire in presa diretta, le tre sfide della Gpic, Oujda, nella parte orientale del Marocco, è un posto che accoglie persone costrette ad affrontare un’impresa ancora diversa: trovare pace e benessere in Europa perché povertà, guerra e crisi climatica rendono impossibile avere queste cose nel proprio Paese d’origine.

«A volte fuggire è anche un atto di ribellione davanti a situazioni a cui non si può fare fronte», spiega, da Malaga, Silvio Testa, responsabile dell’associazione Uyamaa (dal kiswahili ujamaa, famiglia estesa, ndr) dei Missionari della Consolata in Spagna. «La voglia, non solo di aiutare la propria famiglia, ma anche di contribuire a cambiare il proprio Paese, emerge spesso nei racconti dei migranti che i Missionari della Consolata ricevono alla parrocchia di Saint Louis, con il loro servizio di accoglienza d’emergenza, attivo sette giorni su sette, 24 ore al giorno».

Nel 2024, riferisce Silvio, che con il team missionario di Oujda collabora in modo stabile, i migranti accolti dai missionari sono stati 3.744. «Di questi, l’80% circa veniva dal Sudan», il Paese africano dove è in corso la più grave crisi umanitaria sul pianeta, con 30 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti urgenti@.

Quasi metà dei migranti che sono arrivati a Oujda l’anno scorso, continua Silvio, erano minori stranieri non accompagnati, il più piccolo dei quali aveva 13 anni. C’erano poi 44 donne con 20 bambini fra i due e i dieci anni, e molti di loro in condizioni di salute che richiedono cure. Le consultazioni mediche sono state, infatti, poco meno di 1.500 e in 14 casi c’è stato bisogno di un intervento chirurgico. Le ferite e le patologie dermatologiche sono una costante, a cui si sono aggiunti tre casi di tubercolosi, due di anemia falciforme, un’insufficienza cardiaca e una renale. I missionari attivi a Oujda sono i padri Edwin Osaleh, Francesco Giuliani e Patrick Mandondo. Le principali difficoltà che segnalano riguardano l’accesso dei migranti all’ospedale, sia per i costi che occorre affrontare per ricoveri e terapie, che per la mancanza di documenti di identità degli assistiti. Fra gli altri servizi che il centro di accoglienza offre, spiegava padre Edwin in una relazione del 2024, ci sono anche il vitto e alloggio per le persone in attesa di rimpatrio volontario, la formazione professionale, l’alfabetizzazione e il sostegno alle vittime di tratta, che prevede la protezione e l’accompagnamento nelle procedure presso la polizia e le autorità marocchine.

eSwatini, lavorare per il dialogo

Sempre in Africa, ma quasi 11 mila chilometri più a Sud, c’è un’altra realtà dove favorire il dialogo può essere un modo per provare a vincere le tre sfide della Gpic. Monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, porta avanti nella sua diocesi, assieme a un gruppo di sacerdoti e collaboratori, un intenso e delicato lavoro per creare spazi di confronto costruttivo e pacifico.

Questo impegno si è reso necessario specialmente dopo che, nel 2021, il Paese ha vissuto momenti di tensione e violenza in seguito alle proteste, soprattutto da parte dei giovani, per l’uccisione di uno studente universitario e alla repressione da parte delle forze di sicurezza. Anche il 2022 ha visto ulteriori episodi violenti, e nel 2023 è stato ucciso Thulani Maseko, avvocato per i diritti umani, fondatore di Msf, una coalizione di partiti di opposizione.

Al di là dei singoli episodi, alla base della tensione vi è probabilmente la frustrazione per le scarse opportunità di lavoro: il tasso di disoccupazione fra i giovani, raggiunge il 58%@.

«eSwatini», riferiva monsingor Ponce de Leon a MC nel gennaio dell’anno scorso, «ha sempre avuto un buon sistema educativo. Anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro»@.

Per riflettere su questo e altri problemi, la diocesi ha avviato diverse iniziative. «L’esperienza dei disordini ci ha aperto gli occhi sulla necessità di riunirci e dialogare», scrive oggi il vescovo. «Una delle iniziative è stato la creazione di “club della pace” nelle scuole superiori, che ora stiamo estendendo alle parrocchie».

C’è poi la sensibilizzazione sulla violenza di genere, ad esempio le due tavole rotonde con i membri del governo organizzate su questo tema, e l’inizio di un lavoro sulla salute mentale e di sostegno psicosociale: «Il suicidio sta diventando una parola familiare nel nostro Paese, almeno a giudicare dalle statistiche ufficiali. È una grande sfida in una cultura che ha sempre rispettato la vita». Infine, c’è l’Ecplo – eSwatini catholic parliamentary liaison office, «un ufficio lanciato un paio di anni fa per dare al lavoro del Parlamento un contributo ispirato alla nostra dottrina sociale. È molto apprezzato perché i nostri documenti sono brevi e diretti al punto».

Grande área de garimpo com dezenas de barracões sao vistos na regão do rio Uraricoera na Terra Indigena Yanomami. ( Foto: Bruno Kelly/Amazôia Real).

Altre esperienze

Ci sono altre esperienze significative che i missionari della Consolata portano avanti nella giustizia, pace e integrità del creato, ad esempio l’esperienza nell’Amazzonia brasiliana a cominciare da quella di Catrimani. Qui da 70 anni i missionari fanno cooperazione allo sviluppo in ambito educativo e sanitario, ma fungono anche da forza di interposizione fra le comunità indigene e le varie istanze che, nel corso di questi decenni, si sono avvicendate (o alleate) per mandare via questi popoli e sfruttarne le terre.@

C’è poi l’impegno delle missionarie della Consolata, a cominciare da suor Eugenia Bonetti, nella lotta alla tratta di esseri umani@, ma anche il lavoro che padre Nicholas Muthoka e i suoi confratelli portano avanti alla Spera, la parrocchia Maria Speranza Nostra, nel quartiere torinese di Barriera di Milano, zona popolare e multietnica@.

Dal punto di vista del pensiero e della riflessione su Gpic, a cominciare dalle parole e dal loro significato, un contributo prezioso e una sintesi di grande efficacia è stata, dalla fine anni Novanta e per una decina di anni, la Scuola per l’Alternativa, un’iniziativa dei Missionari della Consolata a Torino, in particolare di padre Antonio Rovelli, in collaborazione con questa rivista e le Ong Cisv e Vis.

«Abbiamo bisogno di parole», scriveva padre Rovelli nel 2005@, «perché le vecchie parole sono diventate moneta fuori corso per certi versi. Termini come guerra, terrorismo, amico, nemico, patria, pace, occidente, sostenibilità, progresso, Europa, democrazia e partecipazione, hanno subito una pericolosa metamorfosi semantica.

All’interno delle mura protette del Palazzo gli strateghi fanno i salti mortali, come dei veri e propri funamboli sull’asse dei significati, mentre lontano, nei vari contesti del vissuto sociale, la gente cerca significato e senso alla propria esistenza».

Difficile non sentire delle assonanze sorprendenti con l’oggi.

Chiara Giovetti




Vedere venire il bene


La mia vita, e la vita del mondo: crocifisse come te, Signore, inchiodate sulla morte.

Ero un tamarisco nella steppa: maledetto, gettato in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere (cfr. Ger 17,5-8).

Non vedevo venire alcun bene.
Nessuna consolazione mi toccava.
Tantomeno una speranza.

Ricordo in modo confuso, invece, cosa provavo guardando Maria. Invidia, forse rabbia. Sete, molta sete: un desiderio, allora, ancora senza nome.

Lei era un albero piantato lungo un corso d’acqua che non teme il caldo, perché ha radici stese verso la corrente.
Le sue foglie, in mezzo al sale di quelle ore, rimanevano verdi.

Il mio nome, Pietro, pronunciato da lei,
era un frutto dolce che mi veniva offerto. Bagnava la mia bocca disseccata.

La sua fiducia era il Padre. La sua cura per me era dire bene di Lui e di te.

Senza lei, non so se avrei ritrovato gli occhi per vedere il bene venire.

Di certo oggi protendo anche io le mie radici nodose verso il Padre, e osservo con stupore le mani di molti che, in tutta la Terra, afferrano i frutti del tuo Spirito tra le foglie verdi dei tuoi amici.

Come pellegrini di speranza tra le macerie, con Maria, fissiamo lo sguardo sul bene che viene,
da amico
Luca Lorusso

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Il capitalismo della sorveglianza


L’era digitale è piena di minacce di cui non siamo consapevoli. La raccolta e l’uso di informazioni di ogni tipo che ci riguardano è pervasiva. La possibilità di trovarci come singoli e società in uno stato di dipendenza e intontimento è concreta. Il capitalismo digitale è segnato dalla sorveglianza. È bene saperlo.

«Il capitalismo della sorveglianza» di Shoshana Zuboff, professoressa della Harvard business school dal 1981, è il frutto di anni di ricerca.

Mostra come l’era che stiamo vivendo, caratterizzata da uno sviluppo velocissimo della tecnologia digitale, sia piena di minacce di cui non siamo consapevoli.

Nel capitalismo della sorveglianza, infatti, c’è chi si appropria, per gli scopi più diversi, dei dati relativi ai nostri comportamenti, sia quando siamo online che quando siamo offline.

Ogni nostra e-mail, ogni nostra interazione, ogni nostra emozione, è venduta, controllata, manipolata.

Se molti dei dati che ci riguardano vengono usati per migliorare prodotti o servizi, molti altri diventano quelli che Zuboff chiama «surplus comportamentale privato»: dati che vengono utilizzati per capire come ci comporteremo nel futuro e, di conseguenza, per persuaderci ad assumere comportamenti che generano maggiore profitto per alcuni grandi gruppi finanziari.

I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza diventano allora trappole che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze personali vengono catturate e usate per scopi di altre persone.

Pensiamo a quanto internet sia saturo di pubblicità «personalizzata». Messaggi continui che producono sia dipendenza che intontimento psichico. Segno di quanto siamo tracciati, analizzati, sfruttati, e del rischio di essere modificati nei nostri gusti, scelte, persino nel nostro orientamento politico.

L’occulto condizionamento delle scelte individuali

I dati che più interessano al sistema del potere digitale sono quelli che provengono dai comportamenti quotidiani, quelli che possono essere riorientati a favore di obiettivi non nostri, gli scopi economici dei capitalisti della sorveglianza.

I nuovi protocolli automatizzati sono progettati per influenzare e modificare il comportamento umano.

Anziché usare eserciti e armi, il sistema del capitalismo della sorveglianza impone il proprio potere tramite l’automazione e un’architettura sempre più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi.

Google ha avuto un ruolo importantissimo in questa direzione, perché ha finanziato ricerca e sviluppo ponendosi all’avanguardia.

Ogni individuo è sorvegliato: ciascuno diventa plusvalore.

Il libro di Shoshana Zuboff è molto ricco di informazioni su come i dati vengono acquisiti e usati, ovviamente all’insaputa del consumatore.

Nel testo è presente un’approfondita analisi storica, giuridica ed economica di questo nuovo capitalismo fondato sulle tecnologie digitali. È presente poi la descrizione della nuova forma di potere antidemocratico basato sull’occulto condizionamento delle scelte individuali.

L’utopia della Silicon Valley, per Zuboff, nasconde proprio un disegno politico antidemocratico, la cui spia è la fortissima partecipazione dell’oligarchia economica statunitense alla politica, come dimostra il governo Trump.

Non è magia, ma sorveglianza

«Il capitalismo della sorveglianza», pubblicato per la prima volta in Italia dalla Luiss University Press nel 2019 e riedito nel 2023, è un libro a tratti inquietante, ma che apre gli occhi su un aspetto poco indagato della nostra società liquida, e che ci interpella sui nostri comportamenti, anche quelli apparentemente più banali come mettere un like o accettare i cookie.

Ci fa capire come mai, nelle nostre ricerche su Google, troviamo subito i siti degli argomenti di cui stavamo discutendo.

Non è magia, ma sorveglianza.

Rita Vittori
Centro studi Sereno Regis

Piccola bibliografia

Cory Doctorow, Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano 2024, pp. 156, 16,00 €.

Cory Doctorow è giornalista, romanziere, attivista e noto blogger. Sostiene che l’unica possibilità rimasta per rispondere al capitalismo della sorveglianza è quella di distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale così come lo conosciamo. In modo da tornare a un web aperto e libero, in cui la raccolta dei dati non sia un principio fondante.

Pedro Baños, Così si controlla il mondo. I meccanismi segreti del potere globale, Rizzoli, Milano 2020, pp. 480, 19,00 €.

L’autore, ex comandante del controspionaggio dell’Unione europea, svela i giochi di potere tra le élite politiche internazionali, le tecniche e i trucchi utilizzati per indirizzare gli eventi e manipolare l’avversario: «Impoverisci e indebolisci il tuo vicino», «Menti, qualcosa resterà», «Chi fa le parti si prende quella migliore», e così via. E come tutto questo influisca nella vita di ogni singolo cittadino.

Stefano Borroni Barale, L’intelligenza inesistente. Un approccio conviviale all’intelligenza artificiale, Altreconomia, Milano 2023, pp. 160, 14,00 €.

In questo libro si ricostruiscono le tappe che la comunità scientifica ha attraversato da Alan Turing, primo sostenitore forte dell’IA, ai creatori di ChatGPT, il software in grado di sostenere un dialogo credibile con un essere umano.

Comprendere questo fenomeno, però, può aiutarci a costruire tecnologie alternative, che promuovano la convivialità e la partecipazione diffusa invece del controllo di pochi sugli utenti.




Giappone. Tradizione e cambiamento


Sommario


La ricerca dell’armonia
La diversità giapponese

Nel paese nipponico, i comportamenti individuali e collettivi sono diversi dal resto del mondo. Tuttavia, molti problemi sono comuni, dalla frammentazione politica alle difficoltà economiche fino alla questione demografica.

Yokohama. Anche un turista frettoloso e poco attento può individuare quanto la società giapponese sia profondamente radicata in valori culturali che enfatizzano la modestia, la cortesia e la ricerca dell’armonia sociale. Sebbene il Giappone abbia abbracciato molti aspetti dello stile di vita occidentale, il Paese conserva un forte impegno a preservare il suo patrimonio culturale e le sue tradizioni uniche.

Usanze e comportamenti

L’enfasi sull’armonia sociale e sul primato del bene comune spesso influenzano gli stili di comunicazione, che tendono a essere indiretti e si basano su un linguaggio non verbale per evitare il conflitto. Questi valori culturali svolgono un ruolo significativo nel plasmare le influenze sociali, le pratiche commerciali e persino i discorsi politici.

Il rispetto per l’anzianità (senpai-kohai), ad esempio, è una pietra angolare delle interazioni sociali, influenzando le dinamiche sul posto di lavoro e le strutture familiari. Il primato del bene comune (una sorta di «collettivismo» alla giapponese) è molto apprezzato. Ciò porta a privilegiare l’armonia collettiva e la costruzione del consenso, dando priorità ai bisogni del gruppo rispetto ai desideri del singolo. Questo induce noi occidentali a classificare la società giapponese come incline al conformismo con un forte senso di responsabilità collettiva.

La pulizia è un altro valore culturale radicato che si riflette in varie usanze, come togliersi le scarpe prima di entrare in casa e in molti altri spazi interni. Le arti e le usanze tradizionali, tra cui la complessa cerimonia del tè (chanoyu) e l’indossare il tradizionale kimono, continuano a essere praticate e sono viste come aspetti importanti della conservazione del ricco patrimonio culturale giapponese.

L’inchino (ojigi) è una forma fondamentale di comunicazione non verbale usata per esprimere rispetto, scuse e saluti.

Insegne luminose e vita notturna a Shibuya, uno dei quartieri di Tokyo, la capitale giapponese. Foto Jezael Melgoza – Unsplash.

Shintoismo e buddhismo

Tutto questo si innesta perfettamente con le due religioni dominanti, lo shintoismo e il buddhismo. Lo shintoismo, con il risalto che dà alla sacralità della natura e alla venerazione degli antenati, e il buddhismo, arrivato in Giappone nel VI secolo, hanno plasmato i valori e le usanze giapponesi. Lungi dall’essere in competizione tra loro, per molti giapponesi è comune praticare aspetti di entrambe le religioni. Fino al 1868, quando il governo dell’imperatore Meiji (1852-1912) obbligò la separazione dei santuari shintoisti da quelli buddhisti, i fedeli professavano una sorta di sincretismo che accomunava attività sociali e religiose in un’unica pratica chiamata shinbutsu shūgō.

Fu sempre in quella che è chiamata la «restaurazione Meiji» che venne a costruirsi l’impalcatura dell’attuale sistema che regge la politica nazionale.

L’imperatore e il primo ministro

Naruhito, 126° imperatore del Giappone, in carica dal 2019. Foto Wikimedia.

Il Giappone opera secondo un sistema di monarchia costituzionale parlamentare unitaria: sebbene esista un imperatore, la cui posizione è ereditaria (attualmente Naruhito, salito al trono nel 2019, è il 126° imperatore), l’autorità suprema risiede nel popolo, esercitata attraverso un parlamento eletto, noto come Dieta nazionale. L’imperatore – 天皇, «sovrano celeste» – è il simbolo dello Stato e dell’unità dei giapponesi, svolge compiti cerimoniali ma non detiene alcun potere politico reale.

La struttura delle istituzioni statali si basa sulla separazione dei poteri tra il ramo legislativo, esecutivo e giudiziario. La Dieta è l’organo legislativo ed è composta da due camere (Camera dei rappresentanti o Camera bassa e la Camera dei consiglieri o Camera alta). Sebbene entrambe condividano i poteri legislativi, la Camera dei rappresentanti detiene un potere più significativo, soprattutto in relazione al bilancio, ai trattati e alla scelta del primo ministro.

Il potere esecutivo è conferito al gabinetto, che è guidato dal primo ministro (attualmente Shigeru Ishiba, leader del Partito liberal democratico), nominato dalla Dieta e confermato dall’imperatore.

Infine, il potere giudiziario vede il suo vertice nella Corte suprema, che ha il potere di interpretare la Costituzione.

I partiti del sistema giapponese

Shigeru Ishiba, primo ministro giapponese dal novembre 2024. Foto Wikimedia.

Il Partito liberal democratico (Pld) è stato la forza dominante nella politica giapponese per la maggior parte dell’era post bellica, godendo di un potere quasi ininterrotto dalla sua formazione nel 1955. Questo grazie, almeno in parte, alla sua adattabilità e alla sua capacità di rappresentare un’ampia gamma di interessi economici. Questo predominio di lunga data, spesso definito «Sistema del 1955», ha portato alcuni a descrivere il Giappone come uno Stato di fatto a partito unico.

Tuttavia, il panorama politico ha subito un cambiamento significativo nelle elezioni generali tenutesi il 27 ottobre 2024.

Il Pld, sotto la guida di Shigeru Ishiba, diventato primo ministro appena un mese prima, ha perso la maggioranza nella Camera dei rappresentanti per la prima volta dal 2009, ottenendo solo 191 seggi su 465, segnando il suo secondo peggior risultato dalla sua fondazione.

Il Pld ora governa in una coalizione di minoranza con il suo tradizionale partner, il Komeito, anche lui penalizzato dagli elettori con la perdita di otto seggi. Nonostante l’assenza di una sua maggioranza, Ishiba è stato rieletto primo ministro nel novembre 2024, guidando un governo di minoranza Pld-Komeito.

Il principale partito di opposizione, il Partito democratico costituzionale (Cdp), guidato da Yoshihiko Noda, è emerso come un vincitore significativo nelle elezioni, aumentando i suoi seggi da 96 a 148, il suo miglior risultato di sempre. Altro grande risultato è stato quello del Partito democratico per il popolo (Dpp) che, conquistando 28 seggi, è diventato il quarto partito più grande della Camera. Il successo di partiti minori come il Reiwa Shinsengumi e il neo formato Partito conservatore hanno alla fine formato un panorama politico più frammentato che, assieme alla perdita della maggioranza del Pld, potrebbe inaugurare un’epoca di maggiore instabilità politica e la necessità di costruire e negoziare coalizioni inedite per governare efficacemente. Il malcontento pubblico per uno scandalo di corruzione e fondi neri all’interno del Pld è considerato il fattore chiave che ha contribuito alla battuta d’arresto elettorale dei liberal democratici, evidenziando l’erosione della fiducia pubblica nel partito.

Con la coalizione di minoranza Pld-Komeito ora al governo, l’approvazione della legislazione richiederà la ricerca del sostegno di altri partiti alla Dieta. Il primo ministro Ishiba ha indicato la sua intenzione di ottenere il sostegno di partiti come Nippon Ishin (Partito dell’innovazione) e il Dpp. Quest’ultimo, dopo essere emerso come un potenziale ago della bilancia, ha espresso la volontà di considerare una cooperazione ad hoc con la coalizione di governo su questioni specifiche.

Nel frattempo, il Cdp, in quanto principale partito di opposizione, ha dichiarato il suo obiettivo di cooperare con altri partiti per opporre una forte sfida al governo. Questa nuova realtà politica suggerisce un potenziale periodo di maggiore negoziazione e compromesso che non esclude la possibilità di elezioni anticipate (le prossime elezioni generali sono previste alla fine del 2028).

La stabilità di lunga data caratterizzata dal dominio del Pld sta, quindi, affrontando sfide significative, suggerendo un potenziale spostamento verso un sistema multipartitico più competitivo o almeno un periodo di maggiore fluidità politica e instabilità. Anche il calo dell’affluenza alle urne osservato nelle recenti elezioni potrebbe riflettere una tendenza più ampia di disimpegno o insoddisfazione dei giapponesi nei confronti del sistema politico, cosa che potrebbe ulteriormente contribuire a risultati elettorali imprevedibili.

Scene da un matrimonio tradizionale giapponese. Foto Wikimedia.

La questione demografica

In campo sociale ed economico, il Giappone sta affrontando una crisi demografica caratterizzata da un rapido invecchiamento della popolazione. A partire dal 2020, oltre il 29% dei giapponesi ha più di 65 anni e le proiezioni indicano che, entro il 2060, potrebbero superare il 40%.

Questa tendenza è accompagnata da un’elevata aspettativa di vita (circa 84 anni) e da un tasso di natalità persistentemente basso, che ha toccato un minimo di 1,2 figli per donna nel 2023. Il tasso di fertilità di 2,1 – indicato come limite minimo per consentire una sostituzione demografica senza traumi – è oggi una chimera (si veda MC, aprile 2025, ndr).

La popolazione del Paese è in declino da più di quindici anni consecutivi, con il calo più consistente registrato nel 2021. Oltre il 90% dei giapponesi risiedono ora nei centri urbani e l’età media, che – nel 2024 – ha raggiunto i 49 anni, obbliga le città ad adeguare sempre più i loro servizi a un’utenza più fragile e bisognosa di cure.

Tutto questo costringe il Paese ad affrontare sfide significative e multiformi per il futuro con una forza lavoro in calo e una maggiore pressione sul sistema di sicurezza sociale. Per sostenere una popolazione anziana più numerosa, ci saranno meno contribuenti e una crescita economica inferiore a causa della riduzione dei consumi e della spinta verso l’innovazione. Inoltre, la tendenza all’urbanizzazione concentra questi problemi in specifiche aree geografiche, esacerbando le sfide nelle regioni rurali in spopolamento.

Uno Shinkansen arriva alla stazione di Shin Yokohama; la rete ferroviaria giapponese è tra le fitte al mondo ed è anche tra le meglio organizzate. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli immigrati: un’apertura obbligata

Spinto dalla carenza di manodopera e dalla crescente globalizzazione, il Giappone sta vivendo un graduale aumento del numero di residenti e lavoratori stranieri. Sebbene le politiche sull’immigrazione siano state sempre piuttosto rigide, vi è oggi un crescente riconoscimento della necessità di attrarre personale straniero per affrontare la contrazione della forza lavoro. Questa tendenza sta lentamente introducendo una maggiore diversità nella società, sebbene rimangano aperte le sfide dell’integrazione e della comprensione culturale. Anche il tradizionale panorama del lavoro sta subendo una trasformazione. Si registra un notevole aumento di occupazioni occasionali e di contratti a breve termine, che riflettono un allontanamento dal sistema dell’impiego a vita, un tempo prevalente.

Allo stesso tempo, vi è una crescente pressione sulle aziende affinché forniscano accordi di lavoro più flessibili e migliorino l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Anche le giovani generazioni mettono sempre più in discussione le norme e le aspettative sociali tradizionali, come dimostra – ad esempio – la crescente accettazione delle uniformi unisex nelle scuole.

Inoltre, la società giapponese contemporanea è sempre più interessata al benessere personale e alla cura della salute. Vi è, inoltre, un rinnovato apprezzamento per la cultura e il design, che influenza le preferenze dei consumatori e le scelte di stile di vita.

Le donne, ancora discriminate

Sebbene il Giappone sia stato storicamente percepito come una società omogenea, la crescente necessità di lavoratori stranieri e l’impatto della globalizzazione stanno gradualmente portando a una maggiore diversità.

L’evoluzione degli atteggiamenti nei confronti dei ruoli di genere e dell’equilibrio tra lavoro e vita privata, in particolare tra le giovani generazioni, suggerisce che sta avvenendo un cambiamento lento ma costante nelle tradizionali strutture della società. Queste tendenze hanno implicazioni significative per la futura forza lavoro, le dinamiche sociali e la competitività economica.

Nonostante il suo progresso economico, però, il Paese continua a confrontarsi con significative disparità di genere in vari ambiti, in particolare nel mondo del lavoro e nelle posizioni di leadership. Nel Gender gap index del 2024, il Giappone si è classificato relativamente in basso: le tradizionali strutture lavorative, gli atteggiamenti sociali e l’onere del lavoro di cura non retribuito colpiscono la progressione di carriera delle donne nipponiche.

Le incertezze dell’economia

Giapponesi in un vagone della metro. Foto Liam Burnett Blue – Unsplash.

Il Giappone ha attraversato un prolungato periodo di stagnazione economica, spesso definito «i decenni perduti» (originariamente riferito agli anni Novanta, ma esteso ai decenni successivi), in seguito al drammatico crollo della sua bolla speculativa del 1991.

Quest’epoca è stata caratterizzata da una crescita del Pil lenta o negativa, persistenti pressioni deflazionistiche e significativi problemi nel settore bancario.

Molti economisti attribuiscono la prolungata stagnazione a una combinazione di fattori, tra cui risposte politiche governative errate allo scoppio della bolla economica che spesso comportavano il ritardo delle necessarie riforme strutturali e il sostegno a imprese e istituzioni finanziarie in difficoltà, portando alla creazione di «banche zombie». Inoltre, le tendenze demografiche, come i già citati invecchiamento della popolazione e calo del tasso di natalità, hanno contribuito al malessere economico riducendo la forza lavoro e smorzando la domanda dei consumatori.

Questo prolungato periodo di stagnazione ha avuto un impatto profondo e duraturo sull’economia locale, con un conseguente significativo ritardo nella crescita del Pil procapite rispetto ad altre importanti nazioni industrializzate.

L’esperienza dei «Decenni perduti» funge da monito per altre economie che affrontano sfide simili legate a bolle speculative e cambiamenti demografici.

Il Giappone scivolato al quarto posto

Nel 2023, l’economia giapponese ha subito un importante cambiamento nella classifica globale, scivolando al quarto posto dopo la contrazione dell’ultimo trimestre e il superamento da parte della Germania. Sebbene, sempre durante il 2023, il Pil complessivo sia cresciuto dell’1,9%, la riduzione del quarto trimestre ha sollevato preoccupazioni su una potenziale recessione tecnica, in seguito a una precedente contrazione nel periodo luglio-settembre. Il calo è stato in parte attribuito a uno yen giapponese più debole.

Tuttavia, i recenti indicatori economici suggeriscono un quadro più sfumato. Ci sono segnali di una potenziale inversione di tendenza, con un’inflazione del 2%, superiore all’obiettivo della Banca del Giappone, e una crescita salariale del mercato del lavoro che mostra la più forte progressione dagli anni Novanta.

I consumi privati, un motore chiave della domanda interna, hanno mostrato alcuni segnali di ripresa, sebbene la loro sostenibilità dipenda da una continua crescita dei salari reali che superi l’inflazione. Gli investimenti delle imprese sembrano attestarsi su una moderata tendenza al rialzo, sostenuti da forti utili aziendali.

Nonostante i recenti segnali positivi, permane un certo grado di incertezza tra gli economisti riguardo alla forza e alla longevità della ripresa economica. I venti contrari dell’economia globale, le politiche commerciali di Trump e le sfide demografiche continuano a rappresentare grossi rischi per una crescita significativa.

Tokyo, il quartiere di Asakusa e il tempio Sensoji. Foto Andrea Serini-Unsplash.

Un debito pubblico enorme

Il livello del debito pubblico giapponese è uno dei più alti tra le nazioni sviluppate, stimato a circa il 263% del Pil a gennaio 2025. Circa 8.840 miliardi di dollari Usa (1,35 quadrilioni di yen). Il costo (tecnicamente detto «servizio») di questo ingente debito consuma una parte considerevole del bilancio nazionale, rappresentando il 22% dal 2023. Questo elevato livello di debito è stato un problema persistente, esacerbato dalle misure di stimolo economico implementate dallo scoppio della bolla speculativa (1989-1990) e ulteriormente aumentato da eventi come la Grande recessione (1991-2010), il terremoto e lo tsunami del Tōhoku nel 2011 e la pandemia da Covid-19.

Sebbene l’enorme entità del debito pubblico giapponese sia una grave preoccupazione, il fatto che una grande percentuale sia detenuta a livello nazionale, in particolare dalla Banca del Giappone (il 43,3% del debito è in mano al principale ente finanziario nazionale), mitiga alcuni dei rischi immediati associati al debito estero. Tuttavia, ciò non diminuisce le implicazioni a lungo termine di un tale elevato onere del debito, che può limitare la flessibilità fiscale del governo nel rispondere a futuri shock economici o nell’investire in aree cruciali come la sicurezza sociale e la transizione energetica. Il potenziale aumento dei tassi di interesse con la normalizzazione della politica monetaria da parte della Banca del Giappone potrebbe esacerbare ulteriormente i costi del servizio del debito.

Nel corso degli anni, Tokyo ha implementato varie strategie per affrontare le sue sfide economiche. «Abenomics» (dal nome del primo ministro Shinzo Abe, ndr), un piano di rivitalizzazione lanciato nel 2013, ha impiegato un approccio a tre fasi che combinava stimoli fiscali, allentamento monetario e riforme strutturali, volte a incrementare l’offerta di lavoro, aumentare la concorrenza e promuovere la crescita in nuovi settori come l’energia e l’ambiente.

Più recentemente, il governo si sta concentrando sulla «tariffazione del carbonio orientata alla crescita» come parte della sua politica di Trasformazione verde (la cosiddetta Gx), con l’obiettivo di incentivare gli investimenti privati e pubblici negli sforzi di decarbonizzazione. Ciò include iniziative come le obbligazioni di transizione Gx e il miglioramento dell’occupabilità e della sicurezza del lavoro attraverso programmi di formazione e liberalizzazione del mercato del lavoro.

L’instabilità politica, caratterizzata da frequenti cambi di governo, è stata identificata come un significativo ostacolo a un’efficace elaborazione delle politiche economiche, in quanto crea incertezza per le imprese e le famiglie, scoraggiando gli investimenti e i consumi. Anche la cultura aziendale unica del Giappone, con la sua enfasi storica sulla stabilità dei prezzi, e le tendenze occupazionali in evoluzione, inclusa la crescita del lavoro temporaneo, plasmano il panorama economico e l’efficacia delle varie misure politiche.

Le sfide demografiche, come detto, intrecciate con le prospettive economiche del Paese, rappresentano anche opportunità per l’innovazione tecnologica, in particolare nei settori dell’automazione e dell’assistenza sanitaria per gli anziani.

I valori sociali e le percezioni pubbliche svolgono un ruolo significativo nel plasmare la politica energetica giapponese, soprattutto per quanto riguarda l’accettazione dell’energia nucleare e la transizione verso fonti di energia rinnovabile.

La transizione energetica in corso non è solo un imperativo ambientale per il Giappone, ma anche economico, perché offre il potenziale per nuovi investimenti, creazione di posti di lavoro e maggiore indipendenza energetica, pur presentando sfide relative ai costi e allo sviluppo delle infrastrutture.

Un robot nel Museo della scienza di Odaiba; la ricerca scientifica in Giappone ha un forte orientamento verso la robotica. Foto Piergiorgio Pescali.

Prospettive

Questi fattori interconnessi creano un panorama complesso e dinamico in cui decisioni politiche, cambiamenti sociali, pressioni economiche e politiche energetiche sono tutti elementi legati tra loro. La loro modulazione plasma la traiettoria del Giappone in un ambiente globale sempre più incerto.

Il Paese dovrà affrontare la sfida di bilanciare i finanziamenti della sua ambiziosa transizione energetica e i suoi obblighi di sicurezza sociale con l’elevato livello di debito pubblico.

Anche la gestione delle incertezze geopolitiche, in particolare le relazioni con la Cina e con la nuova amministrazione statunitense, sarà cruciale. Inoltre, affrontare la resistenza politica e culturale interna alle riforme necessarie, come l’aumento dell’immigrazione, sarà essenziale per la sostenibilità a lungo termine.

Il Giappone ha il potenziale per affrontare le sfide poste da una società che invecchia, sfruttando la sua abilità tecnologica, in particolare, nei settori del’automazione, della robotica e delle tecnologie sanitarie. Una transizione riuscita verso un’economia basata sulle risorse rinnovabili potrebbe rafforzare l’indipendenza energetica, stabilizzare i costi dell’energia e creare nuove opportunità economiche.

Gli attuali segnali che fanno pensare alla fine della deflazione e a un ritorno a una crescita salariale sostenuta offrono un barlume di speranza per rivitalizzare la domanda interna e la spesa dei consumatori.

In definitiva, la capacità del Giappone di bilanciare la ricchezza del suo patrimonio culturale, le sue pressanti sfide sociali ed economiche e l’imperativo per un futuro sostenibile determinerà il suo successo negli anni a venire.

Piergiorgio Pescali

Immagine da una gara di sumo, sport nazionale giapponese. Foto Wikimedia.

Dopo la lezione di Fukushima
la transizione energetica

Mentre la produzione di energia nucleare è in  lenta ripresa, oggi il Giappone  deve importare molti combustibili fossili. Tuttavia, la strada per un passaggio alle energie rinnovabili pare segnata.

In Giappone, l’eredità del disastro di Fukushima continua a influenzare l’opinione pubblica sulle scelte energetiche del Paese. Il mix energetico attuale è dominato dai combustibili fossili: petrolio, gas naturale e carbone, insieme rappresentano circa l’63,5% dell’approvvigionamento di energia primaria. Il paese nipponico detiene la posizione di maggiore importatore mondiale di gas naturale liquefatto (Gnl) e dipende fortemente dalle importazioni anche per carbone e petrolio a causa delle limitate risorse energetiche nazionali.

Il nucleare ha svolto un ruolo significativo nella produzione di elettricità prima dell’incidente di Fukushima Daiichi del 2011. Tuttavia, in seguito al disastro, molti reattori sono stati spenti per ispezioni di sicurezza, portando a una drastica diminuzione della quota del nucleare nel mix energetico. Nel 2010 era al 31%. Nel 2011, dopo lo tsunami, era praticamente a zero. Ancora nel 2023, l’energia atomica ha rappresentato una percentuale minore dell’approvvigionamento energetico totale, sebbene in rialzo all’8,6%. Vi è, cioè, una tendenza al ritorno all’energia ricavata dalla fissione assieme all’aumento delle rinnovabili.

Queste ultime – ovvero l’energia solare, eolica, idroelettrica, geotermica e da biomassa – stanno svolgendo un ruolo sempre più importante nel panorama giapponese, ma il loro contributo complessivo è di circa il 20% (nell’Unione europea siamo attorno al 24%, con l’Italia che, con il 37% di energia rinnovabile sul totale dell’energia prodotta, si pone nei primi posti).

La forte dipendenza del Giappone dalle importazioni di energia rende il Paese più vulnerabile all’instabilità geopolitica, alle fluttuazioni dei prezzi globali dell’energia e alle variazioni dei tassi di cambio, sottolineando l’importanza di diversificare le sue fonti e rafforzare la sicurezza energetica.

Tramonto su una fila di tralicci elettrici nei dintorni di Yokohama. Foto Aotaro-pxhere.com.

La strada della decarbonizzazione

Il governo ha fissato obiettivi ambiziosi per aumentare la quota di energia rinnovabile nel suo mix di produzione di elettricità. Il sesto Piano energetico strategico, pubblicato nel 2021, mirava a far sì che le rinnovabili costituissero il 36-38% dell’approvvigionamento di elettricità entro il 2030. Il settimo Piano energetico strategico, approvato nel febbraio 2025, ha innalzato questo obiettivo al 40-50% entro l’anno fiscale 2040, posizionando per la prima volta l’energia rinnovabile come fonte di energia principale.

Gli obiettivi includono la diminuzione della quota di gas naturale dal 34% nel 2022 al 20% entro il 2030, e del carbone dal 31% al 19% nello stesso periodo. Al tempo stesso si intende massimizzare l’uso dell’energia nucleare insieme alle rinnovabili per garantire un approvvigionamento energetico stabile e raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, puntando a una quota del 20-22% di nucleare entro il 2030 e del 20% nel 2040.

Vista dell’impianto eolico di Nunobiki. Foto Wikimedia.

La strada del nucleare

Dopo il disastro di Fukushima, l’energia nucleare rimane una questione delicata in Giappone, con preoccupazioni per la sicurezza e opposizione pubblica persistenti che potrebbero ostacolare il raggiungimento degli obiettivi. Tuttavia, la ges-

tione, fino ad oggi positiva, dell’incidente di Fukushima Daiichi, ha iniettato una dose di ottimismo nella popolazione giapponese la quale, dopo il comprensibile rifiuto, oggi sta riprendendo confidenza con la fissione e la necessità di un suo ritorno nel mix energetico.

Con successi altalenanti, la Tepco (la compagnia elettrica proprietaria della centrale di Fukushima) sta cercando di mitigare le gravi conseguenze sociali e psicologiche dovute alla gestione della centrale dopo l’incidente e anche i paesi che, dopo la fusione dei tre reattori, erano stati completamente evacuati, si stanno ripopolando.

La strada verso le rinnovabili

Le principali misure politiche energetiche includono la creazione di zone di promozione dell’energia rinnovabile, l’aumento degli investimenti nel settore di ricerca e sviluppo per le tecnologie solari ed eoliche, l’accelerazione per i progetti eolici offshore e la promozione dello stoccaggio di energia tramite batterie. Il governo ha anche annunciato piani per eliminare gradualmente le centrali a carbone più vecchie e meno efficienti.

Il raggiungimento di questi ambiziosi obiettivi per le energie rinnovabili richiederà il superamento di sfide significative relative al rafforzamento della disciplina aziendale, alla riduzione dei costi per i consumatori, allo sviluppo della capacità della rete interregionale, all’accelerazione dell’innovazione e alla creazione di sistemi adeguati di smaltimento e riciclaggio per i pannelli solari usati.

La sfida maggiore verso la transizione energetica è la necessità di ingenti investimenti in nuove infrastrutture, come l’aggiornamento della rete elettrica per accogliere la variabilità delle energie rinnovabili e lo sviluppo di infrastrutture per l’idrogeno e l’ammoniaca.

Inoltre, la fornitura da parte del governo di significativi sussidi per i combustibili fossili potrebbe  rallentare la transizione verso l’energia rinnovabile. Una strategia a lungo termine più coerente comporterebbe il reindirizzamento di questi sussidi verso investimenti in energia rinnovabile ed efficienza energetica.

L’impianto solare della Toshiba a Minamisoma, nella prefettura di Fukushima; dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, parte dell’energia è data dagli impianti solari ed eolici. Foto Piergiorgio Pescali.

L’accettazione sociale

L’incidente nucleare di Fukushima del 2011 ha avuto un impatto significativo sulla percezione pubblica di tutte le strutture energetiche in Giappone, portando a una maggiore attenzione e, in molti casi, a una resistenza nei confronti sia dei progetti nucleari sia, in certa misura, di quelli per l’energia rinnovabile. Costruire fiducia e interagire con le comunità locali sono azioni cruciali per ottenere l’accettazione sociale. I modelli di proprietà comunitaria, in cui i residenti locali hanno una partecipazione diretta nei progetti energetici, hanno dimostrato di migliorare le relazioni.

L’accettazione dei progetti di energia rinnovabile, in particolare di quella eolica, può essere difficile a causa delle preoccupazioni relative all’impatto delle turbine sul paesaggio, al rumore e ad altri effetti ambientali.

La percezione pubblica è plasmata da vari fattori, tra cui il livello di fiducia nei fornitori di energia e nel governo, i benefici percepiti (come la protezione ambientale e l’indipendenza energetica) e i rischi percepiti associati alle diverse fonti di energia rinnovabile. Una maggiore conoscenza e consapevolezza pubblica sui benefici delle rinnovabili può portare a un atteggiamento più positivo e a una maggiore volontà di adottare queste tecnologie.

Le opportunità della transizione

Premesso tutto questo, la transizione energetica presenta significative opportunità per il Giappone. Massimizzare l’uso delle risorse rinnovabili nazionali può rafforzare la sicurezza energetica e ridurre la dipendenza del paese dai volatili mercati globali dei combustibili fossili stimolando al tempo stesso la crescita economica attirando ingenti investimenti, promuovendo l’innovazione, creando nuovi posti di lavoro nella produzione, nell’installazione e nella manutenzione e rivitalizzando le economie regionali. I progressi tecnologici in settori come l’idrogeno verde, la co-combustione di ammoniaca e la cattura e stoccaggio del carbonio (Ccs) offrono potenziali percorsi per la decarbonizzazione dei settori industriali, altrimenti difficili da abbattere.

Le implicazioni economiche della transizione energetica giapponese sono sostanziali. Gli investimenti in infrastrutture e tecnologie per le energie rinnovabili possono stimolare l’attività economica, creare posti di lavoro e ridurre la dipendenza da costose importazioni di combustibili fossili, portando a prezzi dell’energia più stabili e accessibili nel lungo periodo. Il raggiungimento degli obiettivi di emissioni nette zero potrebbe attrarre trilioni di dollari di investimenti, alimentando ulteriormente l’innovazione e la rivitalizzazione economica regionale. Tuttavia, la transizione comporta anche costi iniziali e richiede un’attenta pianificazione per minimizzare gli impatti economici negativi sulle industrie ad alta intensità energetica e garantire una transizione giusta per i lavoratori nei settori dei combustibili fossili.

Piergiorgio Pescali

La «cupola» di Hiroshima, testimonianza della tragedia. Foto Rap dela Rea – Unsplash.

Mai più altri «Hibakusha»
Hiroshima e Nagasaki (1945-2025)

Sono trascorsi ottant’anni dal lancio delle bombe atomiche sulle due città giapponesi. Una pagina tragica nella storia dell’umanità.

Questo 2025 segna l’ottantesimo anniversario dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, avvenuti il 6 e il 9 agosto 1945. Questa ricorrenza storica funge da sfondo per comprendere la traiettoria post bellica del Giappone e il suo impegno per la pace sulla scena globale oggi messo in discussione da un nazionalismo sempre più aggressivo.

Le bombe atomiche degli Stati Uniti sulle due città giapponesi furono i primi e, almeno fino a oggi, gli unici casi di utilizzo di armi nucleari in un conflitto armato. Il bombardamento di Hiroshima causò un numero stimato di morti tra 90mila e 166mila entro la fine del 1945, mentre Nagasaki vide circa 60mila-80mila morti nello stesso periodo. Circa la metà di questi decessi si verificò il primo giorno dei bombardamenti.

L’impatto immediato delle esplosioni fu devastante, con intense onde d’urto, calore radiante e radiazioni ionizzanti che causarono distruzioni diffuse e immense perdite di vite umane. Nei mesi e negli anni successivi, molti altri sopravvissuti, noti come hibakusha, continuarono a soffrire e morire a causa degli effetti a lungo termine di ustioni, malattie da radiazioni, tumori e altre lesioni aggravate da malattie e malnutrizione.

Il Giappone si arrese alle forze alleate il 15 agosto 1945, sei giorni dopo il bombardamento di Nagasaki e la dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica, firmando lo strumento di resa il 2 settembre 1945.

Fu giusto utilizzarle?

A livello internazionale, le opinioni su quei bombardamenti rimangono divise. Mentre la maggioranza dei giapponesi ritiene che i bombardamenti siano stati ingiustificati, l’opinione pubblica negli Stati Uniti è stata storicamente più favorevole. Molti hanno sostenuto che fosse stato necessario l’uso delle bombe nucleari per porre rapidamente fine alla guerra ed evitare ulteriori vittime.

Tuttavia, nel tempo, il sostegno ai bombardamenti è gradualmente diminuito anche negli Usa, riflettendo una crescente consapevolezza delle implicazioni etiche e dell’esistenza di strategie alternative. I bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki rappresentano un momento cruciale nella storia dell’umanità, perché hanno mostrato la potenza distruttiva senza precedenti delle armi nucleari e sollevato profonde questioni etiche e giuridiche sul loro utilizzo.  Le conseguenze sulla salute a lungo termine per gli hibakusha servono da crudo promemoria del duraturo costo umano della guerra nucleare. Le loro esperienze sono state fondamentali per sensibilizzare l’opinione pubblica globale sui pericoli delle armi nucleari e per sostenere la loro abolizione.

Il «torii» (portale d’accesso dei templi shintoisti) galleggiante del santuario di Itsukushima, nei pressi di Hiroshima. Foto Bing-Hui-Yau – Unsplash.

Contrarietà e commemorazioni

In Giappone, l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki ha favorito una forte identità nazionale in sostegno della pace e del disarmo nucleare, una posizione che influenza la politica estera e l’impegno internazionale del Paese.

Esiste una profonda contrarietà verso il nucleare militare (per quello civile, le opinioni dei giapponesi sono assai più contrastanti) e le annuali cerimonie commemorative della pace in entrambe le città fungono da potenti promemoria: la devastazione causata dalle armi nucleari è un appello alla pace e al disarmo globale.

Hiroshima e Nagasaki tengono cerimonie commemorative il 6 e il 9 agosto di ogni anno, durante le quali si riuniscono le famiglie delle vittime, funzionari governativi, rappresentanti internazionali e sostenitori della pace da tutto il mondo. Esse rafforzano la consapevolezza di quanto sia importante la cooperazione e il dialogo internazionale nella prevenzione di futuri conflitti e nella promozione di un mondo più pacifico.

La lezione è stata appresa?

I bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki hanno segnato l’alba dell’era nucleare. Essi hanno alterato per sempre il panorama della politica internazionale, introducendo la minaccia esistenziale di un annientamento dell’umanità, portando alla corsa agli armamenti nucleari durante la Guerra Fredda e plasmando le dinamiche globali del potere per decenni. Mentre il mondo si avvicina all’ottantesimo anniversario di questi eventi, è fondamentale riflettere sulle lezioni apprese.

I bombardamenti sottolineano l’imperativo di prevenire la proliferazione nucleare, perseguire accordi sul controllo degli armamenti e promuovere soluzioni diplomatiche ai conflitti internazionali. La ricerca di un mondo libero da armi nucleari rimane un obiettivo cruciale per garantire la pace e la sicurezza globale per le generazioni future. L’anniversario evidenzia anche l’importanza di riconoscere le ingiustizie storiche e promuovere la riconciliazione.

Piergiorgio Pescali

Il monumento nel Parco della pace di Nagasaki. Foto Tayawee Supan – Unsplash.

Il Premio Nobel per la pace a Nihon Hidankyō

Nel 2024 l’associazione giapponese Nihon Hidankyō ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Raggruppando tutte le associazioni che rappresentano le vittime delle bombe atomiche e termonucleari, il premio assegnato alla Nihon Hidankyō proprio l’anno prima dell’ottantesimo anniversario dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, assume un significato particolarmente forte perché, come ha affermato Kjersti Fløgstad, direttrice esecutiva del Nobel peace centre di Oslo: «Sottolinea quanto sia importante che le persone si impegnino in riflessioni sugli impatti devastanti della guerra e dell’uso delle armi sui civili».

I precedenti

Il conferimento del premio alla federazione giapponese si aggiunge a quelli già assegnati, dal Comitato norvegese, a persone e associazioni che si battono per il bando delle armi nucleari.

Nel 1985 il riconoscimento andò ai Fisici internazionali per la prevenzione della guerra nucleare; nel 1995 a Jozef Rotblat, l’unico scienziato che abbandonò il Progetto Manhattan e all’associazione Pugwash, di cui Rotblat fu uno dei fondatori; nel 2005 alla Iaea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, «per gli sforzi di prevenzione dell’uso dell’energia atomica per scopi militari» e nel 2017 all’Ican, l’associazione per la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari.

Chi sono i vincitori

Il logo dell’associazione Nihon Hidankyo, vincitrice del Premio Nobel per la pace 2024.

La Nihon Hidankyō – il nome completo è «Nihon gensuibaku higaisha dantai kyōgi-kai», ovvero Confederazione giapponese delle organizzazioni di chi ha sofferto le bombe atomiche e termonucleari – rappresenta non solo le migliaia di hibakusha di Hiroshima e Nagasaki, ma anche i ventitre pescatori della nave giapponese Daigo Fukuryū Maru esposti al fallout radioattivo dell’esplosione termonucleare della bomba Castle Bravo fatta detonare dagli Stati Uniti nell’atollo di Bikini nel 1954. Fu proprio quest’ultimo test che convinse gli hibakusha, riunitisi nel 1956 a Nagasaki per la Seconda conferenza mondiale sulla messa al bando delle armi nucleari, a fondare la confederazione.

Da allora, l’attività della Nihon Hidankyō ha conosciuto alti e bassi, ma, tra defezioni, scissioni, polemiche ideologiche e politiche, ha continuato a lottare per un mondo libero dalle armi atomiche. Come ha spiegato Mimami Toshiuki, copresidente dell’associazione, «nessuno può coesistere con le armi nucleari, il cui unico scopo è quello di annientare l’umanità. Noi hibakusha ci battiamo affinché non vi siano più hibakusha».

Toshiyuki Mimaki, uno dei responsabili di Nihon Hidankyo, l’associazione giapponese che, nel 2024, ha ricevuto il Premio Nobel per la pace. Foto Harald Krichel – Wikimedia.

Nel 2016 un membro dell’associazione, Tanaka Terumi, balzò alla ribalta delle cronache per aver criticato il presidente statunitense Barak Obama (allora al massimo della sua popolarità), intervenuto a Hiroshima il 6 agosto, che definì inopportunamente il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki «morte caduta dal cielo», senza specificare chi avesse lanciato le bombe.

Ciò che fa più paura al Nihon Hidankyō è la proliferazione delle armi tattiche, bombe nucleari a bassa potenza (inferiore al chilotone) che potrebbero essere usate sui campi di battaglia con effetti distruttivi minori: «Non esistono armi atomiche “buone”», spiega Tanaka, aggiungendo che «con le bombe nucleari tattiche si cerca di ridimensionare il pericolo di questi ordigni sulla popolazione civile, ma noi hibakusha siamo la prova vivente che qualunque arma atomica è devastante».

In Giappone, il premio Nobel non ha fatto piacere a tutti. Vi sono anche molte voci critiche, specialmente nel governo e all’interno del potente movimento nazionalista. Tra i punti dello statuto del Nihon Hidenkyō vi è – infatti – anche una richiesta di risarcimento verso i 107mila hibakusha ancora in vita, una richiesta avanzata allo Stato giapponese in quanto responsabile di «aver scatenato la guerra, che ha portato ai danni causati dal bombardamento atomico».

Una risposta positiva rappresenterebbe un’ammissione di responsabilità che contrasta con il crescente nazionalismo che, ormai da diversi decenni, sta attraversando tutta la nazione, trovando nel governo di Tokyo consensi sempre più ampi.

In un mondo di testate

Secondo il Sipri (Stockholm international peace research institute), negli arsenali mondiali sarebbero stoccate più di 12mila testate nucleari di cui 10.500 tra Usa e Russia, e il restante in altri sette Paesi (India, Pakistan, Cina, Francia, Regno Unito, Israele e Nord Corea). Numericamente gli attuali ordini atomici sono inferiori rispetto ai 65mila attivi alla fine degli anni Ottanta, ma la potenza distruttiva è ben più devastante. Inoltre, la miniaturizzazione delle bombe, permette sempre più il trasferimento veloce da una regione all’altra del globo e nessuna nazione, vicina o lontana che sia, oggi si può dire al sicuro da un eventuale attacco nucleare.

 P.P.

La base militare di Kure, vicino a Hiroshima, dove sottomarini giapponesi sono attraccati assieme a navi della marina statunitense. Foto Piergiorgio Pescali.

Ha firmato il dossier:

PIERGIORGIO PESCALI

Risiede in Giappone e Corea del Nord lavorando nella ricerca scientifica in campo fisico e nucleare. Nel 2011, subito dopo lo tsunami, è stato uno dei primi a entrare nella centrale nucleare di Fukushima che a tutt’oggi visita regolarmente. Grazie al lavoro che lo porta a viaggiare per il mondo collabora con vari media. È una firma storica di MC.

A CURA DI:

Paolo Moiola, giornalista MC.

Un macchinista controlla un’ultima volta la pensilina prima di chiudere le porte dello Shinkansen; l’abbigliamento, sempre perfetto, degli addetti ai trasporti pubblici giapponesi è una delle regole principali per mantenere il rispetto verso gli utenti. Foto Piergiorgio Pescali.




Vivi, ama, sogna, credi e spera sempre

 

Nei miei bellissimi anni di permanenza a Roma, a causa della mia collaborazione presso l’allora congregazione di Propaganda Fide, prima con il cardinale Filoni e successivamente con il cardinale Tagle mi è stata data l’opportunità di incontrare papa Francesco e di vivere da vicino il magistero del suo pontificato.

In lui ho trovato un padre che ha sempre attentamente ascoltato, risposto, ricordato e mai si è eretto a giudice. Lo ricordo come una persona sorridente, semplice, spontanea, talvolta impulsiva, di grande concretezza e determinazione, ma contemporaneamente di grande spiritualità: la predicazione del Vangelo la stella a cui tendere sempre. Un Vangelo predicato e vissuto con gioia: la gioia della Parola.

In uno dei primi incontri avuti con lui, a santa Marta, si interessò e mi chiese notizie del mio Paese, la cosa mi stupì, non sapendo che stava già progettando una visita in Mozambico che avvenne nel settembre del 2019. Ho un ricordo vivissimo di quel viaggio in quanto ero anche io sul posto.

Con sommo mio stupore mi riconobbe, mi rivolse parole di affetto e mi assicurò che avremo avuto occasione di parlare con più tranquillità cosa che effettivamente avvenne in un’altra occasione a casa Santa Marta.

Nel viaggio in Mozambico il Santo Padre esortò alla pace e alla concordia in un paese dilaniato da una lunga guerra di liberazione, esortò i giovani all’educazione sportiva: sport ed educazione devono essere sempre congiunti nella vita.

Lo ricordo come un missionario con l’odore delle pecore appassionato per l’evangelizzazione. Infatti, il fatto di mettere il dicastero per l’Evangelizzazione nel primo posto, e farne un dicastero presieduto direttamente da lui, a me come missionario, e ora vescovo, ricorda che la prima missione della Chiesa è l’evangelizzazione.

Uomo determinato che seppe mettere tutto al servizio del l’evangelizzazione orientata con il lemma: «la Chiesa in uscita»!

Un grande padre che ha saputo orientare la Chiesa a camminare insieme come figli dello stesso Padre.

Nel settembre del 2023 ha voluto nominarmi vescovo ausiliario del mio paese, mentre il nostro ultimo incontro è avvenuto il 21 settembre del 2024 in occasione di una riunione sinodale dove ho avuto il grande onore di rivolgergli un saluto e un ringraziamento da parte di tutti i padri convenuti.

Ritengo che il suo pontificato sia stato innovativo e mi auguro che il nuovo pontefice possa portare a termine quanto lui ha avviato.

Il pontificato di Francesco è stato un insegnamento profondo che mi ha molto segnato e mi accompagnerà nel mio servizio pastorale per la Chiesa e per le sue pecore. Nei miei momenti di stanchezza ricorderò la sua forza anche nel periodo della malattia, il suo buon umore sempre rafforzato dalla preghiera giornaliera di Tommaso Moro «Dammi o Signore, il senso dell’umorismo, concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, affinché conosca nella vita un po’ di gioia e possa farne parte anche ad altri».

Il popolo e il clero del Mozambico hanno ricordato Francesco con una veglia di preghiera alla presenza di molte centinaia di persone.

Osório Citora AFONSO, vescovo ausiliario di Maputo, Mozambico