Sommario MC maggio 2025


03 AI LETTORI
Donare la vita di Gigi Anataloni
05 NOI E VOI
Lettori e Missionari in dialogo

Dossier
Giappone. Tradizione e cambiamento
di Piergiorgio Pescali

Articoli

10 KOSOVO
Lo specchio appannato di Valentina Tamborra
15 VATICANO
Il diplomatico dei papi di Giovanni G. Demaria
19 MYANMAR
Il Paese dimezzato di Paolo Affatato
24 EGITTO
Le storia sfrattata di Donatella Murè
47 MOZAMBICO
Un salone di bellezza di Marco Bello
54 ITALIA-BRASILE
Un viaggio indimenticabile di Elio Operti

Rubriche

28 IL VOLTO DEL PADRE/14
Il Signore della vita (Gv 11) di Angelo Fracchia
52 MONDO ALLAMANO/04
Le «armi dei piccoli» di Stefano Camerlengo
58 E LA CHIAMANO ECONOMIA
Rimettiamo i loro debiti di Francesco Gesualdi
61 COOPERANDO
Giustizia e pace, se non ora quando? di Chiara Giovetti
73 LIBRARSI
Il capitalismo della sorveglianza
di Rita Vittori (Centro Studi Sereno Regis)

Amico
Vedere venire il bene a cura di Luca Lorusso

 




Donare la vita


Su un numero di MC dei primi anni Cinquanta trovo un grido di dolore per la scarsità delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Uno dei nodi è il basso numero di missionari nel mondo, circa 15mila, rispetto agli oltre 300mila preti diocesani. C’è anche un altro grido di allarme: anche i sacerdoti diocesani sono scarsi in Italia perché, in quegli anni, c’è «solo» un sacerdote ogni 800 persone. Non viene detto qual è l’età media.

Quel grido di dolore di tanti anni fa mi colpisce e mi provoca a riflettere sull’oggi, stimolato anche dalla Giornata mondiale delle vocazioni che celebriamo l’11 maggio con il tema: «Pellegrini di speranza: dono della vita».

Oggi, in Italia, il rapporto è di un sacerdote (età media sopra i 60 anni) ogni duemila persone, mentre l’accorpamento di più parrocchie procede veloce. Non sono migliori le statistiche negli altri paesi europei e americani, mentre invece in Africa, e anche in Asia, c’è un fiorire di vocazioni alla vita consacrata.

Cosa pensare poi del fatto che anche nel nostro istituto, pur ricco di nuovi membri africani, non ci sia neppure un aspirante missionario italiano, e che gli italiani siano oramai scesi di numero a poco più di 160 (eravamo 994 nel 52), sempre più anziani?

È solo una crisi di vocazioni sacerdotali e religiose, o è un sintomo di un disagio più globale della nostra Chiesa e della società? Cosa sta succedendo?

Un missionario non è il venditore di un prodotto di successo, un influencer da milioni di like, un assicuratore, uno che ha tutte le risposte. Neppure sceglie un istituto o una congregazione per garantirsi sicurezza.

In una società come la nostra, dove tutto – moda, pubblicità, comunicazione, stili di vita – vuole portarci a centrarci sul nostro ego; dove l’io ha cancellato il noi; dove quello che conta è avere tutto adesso; dove sei bombardato da cose da fare, sentire, vedere e avere perché altrimenti non sei nessuno; dove non si vuole che la gente pensi, ma che si adegui al pensiero in voga, una proposta come quella di diventare servi per l’annuncio della bella notizia del Vangelo diventa ingombrante e, certo, non appetibile. E questo non solo per le persone consacrate, ma per ogni cristiano che è chiamato a essere missionario in virtù del battesimo.

Eppure, parlare di vocazione è davvero una notizia di vita, liberazione, fraternità e bellezza.

Dire che ciascuno di noi «è una vocazione» ci ricorda, anzitutto, chi siamo veramente: persone chiamate a vivere con amore e intelligenza le nostre relazioni fondamentali: con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Coscienti che Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza e ci ha voluti liberi, creativi, responsabili e non robot perfettamente programmati, delle super intelligenze artificiali che eseguono i suoi ordini.

Per questo vivere la vocazione è un cammino di speranza e un cammino inedito: scopriamo ogni giorno che è solo donando che si riceve e che la vera felicità è far felici gli altri. Come ha fatto Gesù, che è diventato nostro servo per farci scoprire le dimensioni più autentiche della nostra umanità come liberi figli e figlie di Dio Padre: non di un «patriarca», ma di un «papà» che è misericordia, che ama come una mamma ama il bambino che è nella sua pancia.

Allora rispondere alla vocazione, vivere da vero cristiano o diventare sacerdote, missionario, persona consacrata, significa anche scuotersi di dosso l’intontimento e la schiavitù. È reagire all’appiattimento generale, alla rassegnazione, al vivere senza sogni e prospettive, al dominio della logica economica e consumista che divide il mondo in dominatori e dominati, ricchi e poveri, padroni e servi.

In questo contesto, tre parole riacquistano un significato profondo e rivoluzionario.

Castità: non semplice purezza sessuale, ma modo nuovo di relazionarsi con se stessi e gli altri nell’amore, nella libertà, nel rispetto più profondo, senza diventare padroni di nessuno e neppure schiavi di alcuno o di qualcosa. È relazione nuova e sana, libera e liberante.

Povertà: è vivere coscienti che non siamo i padroni del mondo ma solo amministratori, giardinieri, che lavorano insieme per il bene di ciascuno, soprattutto dei più poveri e indifesi. È relazione nuova con i beni di questo mondo, da persone libere, perché noi siamo molto più di quello che abbiamo.

Obbedienza: è fare una scelta che ti fa diventare libero servo degli altri perché sei cosciente che l’unico valore, per cui vale la pena dare tutto per costruire un mondo bello, è l’Amore come l’ha vissuto lo stesso Gesù Cristo che ha obbedito al Padre suo fino a donare la sua vita per noi. È relazione sana con Dio, e quindi con se stessi, senza esaltarsi e neppure sottovalutarsi.

Gigi Anataloni

Ordinazione diaconale di Gabriel Kwedho, SebastienNtoto Ntoto, Matthew Kirema e Joseph Mwaniki per le mani di Mons Virgilio Pante, vescovo di Maralal, il 30/09/2011 a Torino santuario Allamano. – AfMC / Gigi Anataloni

Gruppo sacerdoti novelli ordinati da mons Carlo Re il 20/06/1948: Benozzo Giuseppe, Balest Settimo, Chiuch Enrico, Zabotti Giovanni, Bona Candido, Barbanti Luigi, Ferraroni Livio, Mellino Francesco, Kaltenhauser Bruno, Sevéga Spirito, Lorenzini Livio, Berghi Giovanni – AfMC




Noie Voi, dialogo lettori e missionari

Continuità

Gentile redazione,
sono un lettore della vostra rivista Missioni Consolata, inviata da anni a mia madre. Apprezzo molto la vostra linea editoriale che privilegia valori di libertà, di eguaglianza e di tolleranza, riportando al contempo articoli di politica internazionale di notevole attualità. Volevo comunicarvi che, purtroppo, mia madre, destinataria della rivista, è deceduta. Vi prego pertanto di eliminare il suo nominativo sostituendolo con il mio. Provvederò io a mia volta al contributo per continuare a leggere la vostra interessante rivista. Cordiali saluti e buon lavoro.

Attilio dal Maso, 16/03/2025

Caro Attilio,
grazie del tuo scritto e un grazie anche a tua mamma che ti ha coinvolto nella lettura di MC. Siamo certi che il Signore della Misericordia l’ha accolta nella festa del suo Paradiso.

Una lettera come la tua ci dona gioia, e compensa quelle che richiedono la cancellazione del nome del parente deceduto, a volte con modi e toni perfino offensivi. Grazie a te per la fiducia e l’incoraggiamento che ci comunichi.

Pubblicità

Mi unisco anch’io a tutti quelli che approvano la vostra scelta di non pubblicare pubblicità.

La vostra rivista ha una serietà «da rivista scientifica» che non deve essere intaccata dalle inserzioni. Probabilmente io ho un po’ di fobia per la pubblicità. Per esempio in televisione, mentre seguo un film, all’apparire della pubblicità «zappo» subito su un qualche canale con programmi tipo Affari o Quattro ruote, Cash or trash o Sport, restandoci il tempo che mi sembra necessario per riprendere il film da dove era rimasto.

Apprezzo molto le cartine che corredano i vostri articoli, tra cui le utilissime piccole cartine all’inizio di un articolo che posizionano la nazione di cui si parla.

Ho appena terminato la lettura dell’articolo di Paolo Moiola su Gaza (MC 3/2025): è un articolo perfetto, in particolare per le molte citazioni (Msf, Amnesty, Anna Foa, …). Guardando Gaza in tv mi sono sempre chiesto quanto tempo sarà necessario (per la ricostruzione) a fronte di una simile distruzione. Ho letto la risposta che dà Medici senza frontiere. È incredibile, però ci credo. Come se a Dresda finissero ora di ricostruire (ma la forza tecnica/economica della Germania non ha paragone con quella di Gaza). Mi ricordo sempre della bella e grande «montagnetta» costruita a Milano nell’immediato dopoguerra con le macerie rimosse. Quanto verrà alta la montagna di Gaza?
Saluti e complimenti.

Carlo Maria My, 06/03/2025

Grazie dell’apprezzamento. Di questi tempi abbiamo la concorrenza terribile delle notizie «mordi e fuggi» che più che informarti vogliono tenerti incollato al computer o cellulare, senza darti il tempo di pensare. Crediamo che abbiamo invece bisogno, per mantenere la nostra libertà totale, di una lettura che ci dia il tempo di pensare, di criticare e approfondire e, quindi, fare le nostre scelte libere e responsabili.

«Piccolo»

Padre Gigi,
la lettera arriverà, spero, nel periodo natalizio e dunque ancora in tempo per meditare e celebrare il mistero di un Dio che si fa conoscere per essere vicino a ogni uomo, soprattutto il più «piccolo».

Desidero ringraziare per l’impegno nella preparazione di «Missioni Consolata» che anche un dubbioso, e a volte anticlericale come una persona a me cara, legge con attenzione per conoscere nazioni e luoghi geografici lontani. In particolare, ringrazio per l’editoriale «Quando piccolo è grande» (MC 12/2024, ndr) che intercetta una mia ricerca che dura da tempo riguardo coloro che più sono vicini al cuore di Dio e appartengono a pieno titolo al suo regno. Il termine «piccolo» ha un significato molto profondo e non si riferisce tanto all’età quanto a una condizione per cui una persona di pochi o tanti anni, non gode di considerazione come Sorino o coloro che non contano niente, come li desiderava don Tonino Bello.

Da qualche mese faccio parte della cappellania che porta la santa Eucarestia in una Rsa locale; la liturgia della Parola è preceduta e seguita da attività varie che coinvolgono gli ospiti affinché si superi l’idea che siano tenuti o intrattenuti. Io, nello specifico, in base alle mie competenze, mi occupo di attività di logica quali raccontare una storia, classificare, individuare un assurdo, che li stimola a pensare e a parlare.

È una tristezza infinita pensare che persone che sono state attive nel corso della loro vita ora rischino di essere considerate degli scarti. La loro spiritualità è invece molto ricca e possono donare sapienza, gioia e speranza.

Ancora ringrazio e auguro che anche il 2025 sia un anno di cammino, nell’acquisizione di doni spirituali e di inaspettate belle sorprese.

Milva Capoia, 25/12/2024

Pubblico solo ora quanto scritto il giorno di Natale da Milva, che già altre volte ha contribuito a queste pagine.
Chiedo scusa per il ritardo.
Ricevere una lettera cartacea invece di una e-mail è un grande piacere, allo stesso tempo comporta il rischio che venga tenuta da parte in attesa di essere trascritta «appena possibile», e quindi posticipata più del dovuto.

Cara Milva, le tue considerazioni sui «piccoli» e gli incredibili doni che sono e possono dare alla nostra società, trovano una conferma fantastica sia negli Special olympic games svoltisi a Torino ai primi di marzo, sia, e soprattutto, in come papa Francesco sta vivendo questo tempo di malattia. Anche senza bisogno di attribuirgli scritti bellissimi, ma inventati (come quelli che circolano sui social), papa Francesco ci sta mostrando cosa significa essere piccoli e trovare la vera forza della vita solo nell’amore del Signore.

28ª Settimana biblica a Caserta

Egregio Sig. Direttore,
anche quest’anno la Diocesi di Caserta organizza la Settimana biblica, giunta alla XXVIII edizione, con il patrocinio dell’Associazione biblica italiana, in collaborazione con l’Istituto superiore di scienze religiose interdiocesano SS. Apostoli Pietro e Paolo e con la segreteria del Centro apostolato biblico diocesano. Esperienza fortemente sostenuta dal vescovo di Caserta e arcivescovo di Capua, monsignor Pietro Lagnese. La Settimana biblica si terrà a Caserta da martedì 1 luglio 2025 e fino a sabato 5 luglio 2025. Tema della XXVIII edizione sarà il Vangelo secondo Giovanni, con i biblisti Giuseppe De Virgilio, docente di esegesi del Nuovo Testamento alla Pontificia università della Santa Croce di Gerusalemme a Roma, ed Eusebio Gonzàlez, docente di Teologia biblica alla stessa università. La celebrazione della Settimana biblica rinnova e custodisce la speranza che nutre ogni missione educativa ed evangelizzatrice. «Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: “Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore” (Salmo 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo» (Spes non confundit, bolla di indizione del Giubileo ordinario 2025, n. 25).

Tutto il popolo di Dio è convocato in assemblea per ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. La Settimana biblica, che sarà inaugurata dal vescovo, è un’esperienza culturale e spirituale che richiama a Caserta, ormai da diversi anni, cultori e appassionati della Bibbia che si confrontano con varie esperienze territoriali nell’ambito del progetto «Bibbia e cultura europea» per confermare le parole del cardinale Carlo Maria Martini: «Il futuro dell’Europa si basa sulla lettura della Bibbia quale codice delle radici cristiane dell’Occidente».

La Settimana biblica di Caserta si conferma una valida proposta culturale e sapienziale per far crescere la familiarità del popolo di Dio con la Sacra Scrittura, in una Chiesa sinodale. Papa Francesco, nella Llettera apostolica Aperuit Illis, ci dice che: «La dolcezza della Parola di Dio ci spinge a parteciparla a quanti incontriamo nella nostra vita, per esprimere la certezza della speranza che essa contiene (cfr. 1Pt 3, 15-16)».
Buon cammino giubilare. Cordiali saluti.

don Valentino Picazio

Wamba: rinasce il 17 maggio

Cari amici e benefattori,
la corsa Run for Wamba (una corsa per raccogliere fondi avvenuta in diverse parrocchie della diocesi di Maralal in periodi diversi da dicembre 2024, ndr) è stata molto più di un semplice evento: è stato un viaggio di vita, di salute e di beneficenza. Non è stata solo l’attività di un giorno, ma una missione di servizio per tutta la vita. A nome del Catholic Wamba Hospital vi porgo la nostra più profonda gratitudine per i vostri generosi contributi e il vostro costante sostegno. Grazie a tutti voi che avete strisciato, cavalcato boda bodas, camminato e corso per Wamba. Il vostro sostegno finanziario e morale ci ha permesso, nella fede e nell’unità, di raggiungere un traguardo notevole. Mentre sono grato a tutti voi che avete contribuito, vorrei fare una menzione speciale dei seguenti sostenitori (segue una lista di personalità politiche e religiose locali, di associazioni cattoliche varie, di amici dei missionari, ndr) il cui contributo è stato importante.

Siamo orgogliosi di annunciare che l’iniziativa Run for Wamba ha finora raccolto un totale cumulativo di 1,863 milioni di scellini (quasi 15mila euro). I vostri contributi, sia in natura che nei fatti, sono sempre benvenuti, poiché il viaggio continua fino a quando non realizzeremo pienamente il sogno di vedere il Catholic Wamba Hospital rivitalizzato e pienamente operativo. Portiamo altre buone notizie. I lavori di riparazione e rivitalizzazione a Wamba stanno procedendo bene e ora sono completati quasi al 70%. A Dio piacendo, prevediamo di riaprire ufficialmente l’ospedale il 17 maggio 2025. In questo giorno speciale, celebreremo anche il tanto atteso Giubileo d’oro della Scuola per infermieri della Consolata di Wamba. Diamo un caloroso benvenuto a tutti coloro che si uniranno a noi nel celebrare questo incredibile risultato. Che Dio vi benedica tutti abbondantemente.

don Letaon Albert
diocesi di Maralal, 21/03/2025

Siamo felici di accompagnare la riapertura dell’ospedale, anche se ben coscienti delle enormi sfide che ancora lo attendono. Tale ospedale è stato un presidio speciale per la salute dei bambini e per la lotta contro la mutilazione genitale femminile. La sua Nursing school ha formato migliaia di infermiere e infermieri che ora curano nei dispensari delle varie missioni o in altri ospedali in Kenya. Tanto personale medico volontario ha contribuito alla sua eccellenza, incoraggiato anche da una figura speciale come il dottor Silvio Prandoni che all’ospedale ha dedicato la sua vita.

Auguri allora. Se qualcuno volesse sostenere l’ospedale può sempre farlo attraverso la nostra Fondazione MCO. Trovate i dati e le modalità a pagina 75. Asante sana, grazie di cuore.

 




Kosovo. Lo specchio appannato


Serbi e albanesi si fronteggiano nel Nord del Kosovo. Un conflitto complicato e di difficile soluzione. Nel monastero ortodosso di Dečani, l’abate padre Sava Janjić predica la riconciliazione.

È il 6 gennaio, vigilia del Natale ortodosso. Mi sono appena lasciata alle spalle Mitrovica, una città che incarna le frustrazioni delle comunità serba e albanese nel Kosovo contemporaneo. Spesso teatro di fiammate di violenza, espressione del conflitto latente, la città è divisa in due comuni: Mitrovica Nord, a maggioranza serba, e Mitrovica Sud, a maggioranza albanese. Questa divisione, simbolica e reale, rappresenta le tensioni che affliggono l’intera regione. Per la comunità albanese, Mitrovica è il segno visibile della mancata attuazione delle sue aspirazioni di indipendenza, mentre per i serbi costituisce un bastione di resistenza. Ancora oggi, il ponte tra Mitrovica Nord e Mitrovica Sud è presidiato dalla Kosovo force (Kfor), forza militare internazionale a guida Nato con la partecipazione dei carabinieri italiani.

La mia destinazione è il monastero Visoki Dečani, dodici chilometri a Sud della città di Peja (in albanese, Pèc). Il distretto di Peja, istituito dall’Onu nel 1999, si è dichiarato unilateralmente Repubblica indipendente, secessionista della Serbia, per la quale è una provincia autonoma. Lungo la strada, sventolano bandiere rosse dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), e ci si imbatte spesso in blindati della Kfor. Per raggiungere il monastero, la più grande chiesa medievale del Kosovo, nonché simbolo della Chiesa ortodossa serba, è necessario addentrarsi fra le montagne.

Da qualche giorno nevica fitto e i boschi sono ricoperti da una soffice coltre bianca. Tutto intorno è silenzio e pace. Eppure, proprio questo luogo è stato uno dei simboli del conflitto: tra il febbraio 1998 e il giugno del 1999, il paese è stato attraversato da un’ondata di odio e violenza di cui ancora oggi sono visibili gli strascichi.

Attorno alla tavola, i monaci si apprestano a consumare il pranzo natalizio. Foto Valentina Tamborra.

L’arrivo al monastero

Dopo una curva, ecco apparire i primi cartelli militari: divieto di accesso, vietato fotografare, vietato riprendere, vietato varcare alcune sbarre che sembrano bloccare l’ingresso non a luoghi abitati, ma al bosco.

Filo spinato circonda questo monastero fondato nel 1327 da Stefano Dečanski, re serbo dal quale prende il nome. È qui che vive padre Sava Janjić, archimandrita, abate del monastero. Il mio obiettivo è incontrarlo per un’intervista, cosa non semplice, a maggior ragione alla vigilia di Natale. Varcato il cancello di accesso, Visoki Dečani si staglia meraviglioso e imponente contro le montagne.

Alla sua destra, dodici abeti piantati in cerchio rappresentano i dodici apostoli. Anche qui regna il silenzio. Di tanto in tanto si vede un militare o un monaco attraversare il grande piazzale antistante la chiesa e scomparire dietro una delle porte in legno che conducono alle celle. All’interno della chiesa sono conservati grandi e importanti affreschi ortodossi che, nonostante i ripetuti attacchi, non sono andati distrutti.

È un novizio a fornirmi l’occasione per poter chiedere udienza a padre Sava. Uscita dalla chiesa, infatti, vengo invitata a bere un caffè nell’area ristoro. Qui incontro due militari italiani che, per ragioni di sicurezza, desiderano rimanere anonimi. Sono loro a fare da portavoce, dopo aver dato loro i miei documenti e le mie generalità. Ottengo così un appuntamento per l’indomani, dopo la messa di Natale.

Il giorno seguente torno a ripercorrere la strada fra le montagne. Mi accorgo che non sono moltissimi i fedeli che hanno sfidato la neve. La cerimonia natalizia dura due ore e più ed è intensa e commovente: partecipano, oltre ai militari e ai pochi fedeli serbi, due suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta che deve al Kosovo i suoi natali.

Padre Sava è alto, imponente: la lunga barba gli incornicia il volto severo. Non comprendo le parole, ma vengo invitata a avvicinarmi, a partecipare da vicino a questa funzione che riunisce persone così distanti fra loro. Alla fine della celebrazione, anch’io ricevo la benedizione.

La strada che conduce al monastero: la zona è sotto protezione della Kfor. Foto Valentina Tamborra.

Con la mente e il cuore

La conversazione con padre Sava non inizia dal conflitto dei Balcani, bensì da un pensiero che appartiene alla cultura greca, quello della «metanoia».

Il termine significa «cambiamento di mente» e rappresenta un invito a una trasformazione interiore profonda. Per padre Sava, questo concetto va oltre il semplice pentimento. Implica un vero e proprio rinnovamento del cuore e della mente: «Metanoia è un processo attivo di purificazione del cuore, un modo di vedere il mondo e le persone in una luce nuova», afferma.

Nelle sue riflessioni, padre Sava sottolinea che la metanoia è essenziale per superare l’odio e la divisione. In un contesto come quello del Kosovo, dove le tensioni etniche sono palpabili, egli crede che la vera trasformazione possa avvenire solo attraverso un cambiamento della propria prospettiva e un impegno a vivere secondo valori di amore e comprensione. Padre Sava utilizza la metanoia come strumento di riconciliazione. L’abate invita le persone a guardare oltre le loro differenze e a riconoscere l’umanità comune.

«L’odio è un sintomo di disordine interiore», afferma, e il suo superamento richiede un profondo lavoro spirituale. La speranza di padre Sava è che le nuove generazioni possano abbracciare questo messaggio, superando le divisioni etniche e costruendo ponti di dialogo.

In un mondo dove il nazionalismo e le tensioni identitarie sono in aumento, la visione di padre Sava è un richiamo alla pace. Propone modelli di convivenza pacifica, come quello dell’Alto Adige, dove diverse comunità coesistono rispettando le proprie identità. «La metanoia può guidarci verso una società inclusiva, dove ogni voce è ascoltata», sostiene.

L’abate del monastero di Visoki Dečani, padre Sava Janjić. Foto Valentina Tamborra.

La deriva dell’odio

Quest’uomo, nato a Dubrovnik, è stato segretario del vescovo della diocesi dal 1997 al 2002, con speciali responsabilità per le relazioni pubbliche e con i media. Dal giugno 1999 al 2001 ha vissuto presso il monastero di Gračanica per obbedienza al vescovo della diocesi. In seguito, è tornato al monastero di Dečani e ha assunto regolari incarichi monastici.

Durante la guerra ha dato asilo ad albanesi e serbi, occupandosi dei feriti e dei morti con la medesima cura e umanità: «Non c’è distinzione agli occhi di Dio». Eppure, nonostante la fede profonda, anche padre Sava ha avuto e ha paura. Ci tiene a raccontarlo mentre intorno a noi i monaci e i pochi ospiti ascoltano rapiti le sue parole.

Ascoltare padre Sava è d’ispirazione per chiunque, credente o meno che sia. Quando parliamo della paura, egli ci tiene a specificare che il suo timore non è legato alla sofferenza fisica o alla morte. Non ripercorre con la memoria i rischi corsi in passato e neppure si proietta su ciò che potrebbe accadere a lui e agli altri monaci, bensì il suo pensiero è rivolto alla possibile deriva spirituale derivante dall’odio. Padre Sava, infatti, ha assistito all’orrore, alla violenza cieca, ad atti tanto efferati da poter corrompere il cuore di chiunque. Ed è questo che teme: la perdita di lucidità. «Immagina il cuore come uno specchio lucente: riflette l’immagine di Dio. Questo specchio può essere appannato dall’odio e dalla paura, ma non distrutto. Dobbiamo applicare la metanoia, il cambiamento di prospettiva, per far sì che questo specchio torni lucido e pulito e capace di ricordarci che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Dobbiamo aprirci alla sua presenza anche quando ci appare lontana, è questa la vera fede».

Un momento della celebrazione del Natale ortodosso nella chiesa del monastero. Foto Valentina Tamborra.

La cecità dei governi

Quando parliamo dell’attuale situazione politica, padre Sava ha una visione molto chiara: è infatti convinto che difficilmente il governo serbo possa riconoscere l’indipendenza del Paese e che continuerà a considerarla illegale. In ogni caso, prima di parlare di qualsiasi forma di riconoscimento, il governo serbo vuole che venga stabilita un’associazione dei comuni a maggioranza serba, come concordato fra Belgrado e Pristina nel 2013 e successivamente confermato nel 2015. L’accordo, però, non è mai stato rispettato.

Ad oggi, la Serbia considera inaccettabile la condizione posta dalle autorità kosovare di riconoscere prima il Kosovo e poi discutere di una qualche forma di protezione per i serbi. Questa condi-

zione è percepita da Belgrado come una sorta di ricatto.

Secondo padre Sava, in Serbia il livello di sostegno per l’indipendenza del Kosovo è pari a zero, e persino il sostegno all’Unione europea è diminuito, e questo è diretta conseguenza del comportamento delle autorità kosovare e della mancanza di un approccio bilanciato da parte di alcuni rappresentanti europei.

Foto Valentina Tamborra.

La Chiesa serba in Kosovo

Padre Sava Janjić descrive la Chiesa ortodossa serba in Kosovo come una parte fondamentale del tessuto della società locale: le chiese, infatti, costituiscono un elemento importante dove si intrecciano le tradizioni del popolo serbo, ma anche quelle di altre comunità che, infatti, hanno sempre rispettato questi luoghi, come dimostra la sopravvivenza del monastero di Dečani per 700 anni.

L’ortodossia, del resto, ha radici profonde in Kosovo: i serbi qui hanno vissuto per secoli, lasciando numerose tracce come chiese, monasteri e cimiteri.

Nonostante periodi difficili, la Chiesa ha beneficiato della protezione di diverse forze nel corso della storia, come l’esercito turco all’inizio del XX secolo, l’esercito italiano durante la Seconda guerra mondiale e, successivamente, la Kfor.

Il diritto delle altre comunità non serbo ortodosse di vivere in Kosovo non è messo in discussione per padre Sava e, men che meno, quello di mantenere le proprie tradizioni, ma è necessario insistere sul rispetto reciproco. Il Kosovo, dunque, non dovrebbe essere inteso come uno stato etnico albanese, ma come un luogo dove tutti si sentano sicuri. Tuttavia, la tendenza attuale pare opposta, costituendo una fonte pericolosa di instabilità per la regione e per l’Europa.

Padre Sava sottolinea le sfide attuali per la comunità serba, aggravate dal ritiro dei rappresentanti serbi dalle istituzioni kosovare. Questo ha portato a una situazione di instabilità e all’ascesa di figure albanesi che non rappresentano la maggioranza della popolazione e il cui comportamento è percepito dai serbi locali come repressivo e provocatorio. Mantenere il sistema educativo e sanitario serbo è cruciale per preservare l’identità e lo stile di vita della comunità serba (lo scorso 15 gennaio in varie località del Paese il governo kosovaro ha chiuso decine di istituzioni serbe, tra cui alcune «amministrazioni parallele», ndr).

Il mancato riconoscimento dell’accordo del 2013/2015 sull’istituzione dell’associazione dei comuni a maggioranza serba è un serio problema che ha portato a un’empasse con le autorità kosovare che ora richiedono il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia come precondizione per ulteriori discussioni.

Infatti, nonostante i serbi in Kosovo abbiano la cittadinanza e rispettino le leggi, non si sentono trattati in modo paritario dalle attuali autorità kosovare, caratterizzate da un forte nazionalismo etnico.

Il dialogo con padre Sava è chiaramente improntato a una ferma condanna per ogni forma di violenza. Sottolinea come la Chiesa sia impegnata nella ricerca di soluzioni pacifiche e nel dialogo. Ricorda che, durante il periodo di Slobodan Milošević, lui stesso e il vescovo precedente si erano schierati contro le violazioni dei diritti umani degli albanesi, pur mettendo in guardia anche contro il loro nazionalismo.

Viene impartita la benedizione a una giovane fedele. Foto Valentina Tamborra.

I pericoli dei nazionalismi

Prima di recarci a pranzo, padre Sava ci tiene a lasciarmi con una riflessione sulle nuove generazioni.

La sua speranza è che superino le mentalità tribali e settarie, vivendo in armonia al di là delle differenze etniche e religiose. Oggi come oggi però, dice, il nazionalismo balcanico è in crescita e non solo in Kosovo ma anche in Serbia, Croazia e in generale ovunque nei Balcani.

Anche sul primo ministro del Kosovo (Albin Kurti, il cui partito nazionalista – «Vetevendosje» – ha vinto le elezioni del 9 febbraio 2025, ndr), padre Sava ha opinioni chiare: a suo dire, rappresenta il nazionalismo etnico albanese e il suo comportamento è autocratico. Il timore è che si voglia creare una «Grande Albania» andando così di fatto a peggiorare la condizione della minoranza serba in Kosovo e a inasprire i rapporti con la Serbia.

L’intervista viene conclusa dall’arrivo di un novizio: è pronto il pranzo.

Ci spostiamo in un’ala del monastero normalmente chiusa al pubblico. Sotto volte affrescate, sono apparecchiati tre lunghi tavoli in legno. I monaci, guidati da padre Sava, iniziano a cantare. È una preghiera dalla quale, pur non comprendendo le parole, arrivano forti suggestioni. Qui, fra le montagne, è possibile sentirsi accolti, essere «in pace», uniti oltre le provenienze, la lingua, la religione.

Un carico di doni

Quando lascio il monastero, il silenzio del paesaggio circostante è interrotto solo dal suono delle campane. Ripenso al messaggio di padre Sava che trascende le sue parole. È un richiamo a tutti noi, un invito a intraprendere un cammino di metanoia, a trasformare il nostro cuore e la nostra mente. Le sue parole ci portano a immaginare un futuro dove le generazioni di oggi e domani possano vivere senza il peso delle divisioni etniche, dove l’amore e la comprensione possano sostituire l’odio e la paura. Tentare di guardare ogni persona non attraverso il filtro delle differenze, ma attraverso la lente della dignità e dell’umanità condivisa. La sfida che padre Sava ci pone è semplice: possiamo scegliere di essere portatori di pace, di diventare architetti di un dialogo autentico e costruttivo. Con il cuore aperto e la mente pronta a cambiare, possiamo costruire insieme un futuro migliore, un Kosovo e un mondo in cui la speranza trionfi sull’odio. E così, come il monastero che resiste nel tempo, anche noi possiamo diventare simboli di resilienza e amore, pronti a scrivere una nuova storia di unità e riconciliazione.

Valentina Tamborra

Il monastero ortodosso di Visoki Dečani con in primo piano la chiesa. Foto. Valentina Tamborra.

 




Il diplomatico dei Papi


La vita di un nunzio può essere avventurosa. L’ambasciatore del Papa si può trovare a vivere in passaggi fondamentali della storia. È successo al monsignore originario di Cuneo, uomo di rara intelligenza e sensibilità. Come ci racconta il suo biografo.

Monsignor Antonio Riberi è stato un diplomatico che ha svolto un ruolo importante sia nella Chiesa che nel mondo. È stato al servizio di quattro papi (Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI), e si è confrontato con il colonialismo inglese in Africa, con il comunismo in Cina e con la dittatura franchista in Spagna. Rimane però pressoché sconosciuto, non solo al grande pubblico, ma anche agli specialisti. Di lui si sa a malapena che è stato espulso da Mao Zedong.

Origini

I genitori, da Limone Piemonte in provincia di Cuneo, si sono trasferiti nel Principato di Monaco dove Antonio nasce il 15 giugno 1897. L’essere figlio di migranti lo aiuterà molto nella sua attività. Il migrante ha due patrie: quella che gli ha dato i natali che quella che gli dà il pane, quindi è portato ad apprezzare, ringraziare e valorizzare la seconda patria.

Inoltre, il Principato di Monaco è uno stato troppo piccolo per avere mire colonialiste, e abbastanza ricco, grazie al casinò e alle transazioni finanziarie, da non aver bisogno di adottare una politica colonialista. Monsignor Riberi è stato quindi meno condizionato dall’ideologia colonialista e, molto naturalmente, quando si troverà in Africa apprezzerà le religioni africane, così come in Cina valorizzerà la cultura locale.

Primi anni

I genitori sono molto impegnati nel lavoro e perciò lasciano il piccolo Antonio presso i nonni paterni a Limone.

Egli frequenta il seminario vescovile di Cuneo e il 29 giugno 1922 viene ordinato sacerdote. L’essersi formato a Cuneo, allora provincia giolittiana per definizione, dove sta nascendo la prima industrializzazione, gli permette di venire a contatto con le problematiche del mondo del lavoro e di coltivare una profonda sensibilità sociale che evidenzierà in seguito occupandosi delle missioni presso le miniere della regione del Copperbelt in Africa, della riforma agraria in Cina e del nuovo sindacalismo in Spagna. È inviato a Roma presso la Pontificia accademia ecclesiastica dove incontra Giovanni Battista Montini che diventerà suo amico e consigliere per tutta la vita.

Nel 1925 si laurea in Diritto canonico e, contemporaneamente, in Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal 1925 al 1930 è segretario della Nunziatura in Bolivia. Si trasferisce poi a Dublino dove, fino al 1934, è segretario della Nunziatura di Dublino con il nunzio Paschal Robinson.

Al fianco di quest’ultimo il giovane diplomatico impara il mestiere: intrattenere buoni rapporti con il governo, non intervenire troppo nelle faccende interne della gerarchia ecclesiastica locale, aprire le porte a chiunque voglia portare il suo contributo, curare una rete di amici per poter sentire il polso della situazione, ascoltare, suggerire più che controllare i fratelli nell’episcopato.

In Irlanda monsignor Riberi conosce il vescovo Joseph Shanahan, religioso spiritano, missionario in Nigeria, e ne adotta il metodo: collaborazione con il governo coloniale, massima importanza alle scuole, formazione del clero locale, rispetto per le religioni indigene e per l’islam, liberazione delle donne.

Sull’isola Riberi conosce pure Frank Duff, fondatore della Legio Mariae che, secondo lui, coglie l’intima essenza dell’Azione cattolica e rinnova il fervore dei primi secoli del cristianesimo. Riberi la promuoverà come alternativa all’Azione cattolica tradizionale, anche perché quest’ultima è appena ai suoi inizi in Africa, mentre in Cina, dopo la guerra contro il Giappone e la guerra civile, non è più un movimento nazionale.

Missionari della Consolata con il vescovo Carlo Re e Monsignor Antonio Riberi, Delegato apostolico in Kenya.

Gli anni del Kenya

Nel 1935 monsignor Riberi è nominato Delegato apostolico per l’Africa inglese (Kenya, Uganda e Tanzania, ndr) con sede a Mombasa (Kenya). Il primo problema che il missionario incontra quando arriva in terra di missione è la necessità di comperare terreni per costruire la chiesa, la casa per i missionari, una falegnameria, un dispensario, una scuola, un lebbrosario. La missione deve essere tendenzialmente autosufficiente e, quindi, deve provvedere a tutte le spese. Deve quindi comperare altri terreni per piantagioni di caffè, cotone, tabacco da vendere sui mercati internazionali e ricavarne così un reddito adeguato. La terra appartiene al governo coloniale e monsignore Riberi consiglia ai missionari il modo migliore per impostare le pratiche burocratiche.

Un altro tema chiave sono le scuole, forse lo strumento migliore per l’evangelizzazione. Il governo inglese non istituisce un sistema scolastico proprio, ma contribuisce con sussidi alle scuole delle missioni. Però vuole scuole per pochi futuri funzionari del livello più basso dell’amministrazione, perché teme il formarsi di un’élite culturale. Le missioni invece cercano di fornire istruzione possibilmente a tutti.

Il governo coloniale, inoltre, non desidera che il diploma di scuola secondaria dia accesso alle università inglesi, perché questo favorirebbe un cambio di mentalità negli africani e li renderebbe potenziali oppositori politici. Riberi si batte per fare sì che questo avvenga, anzi, propone a tutti gli istituti missionari di comperare una casa a Londra per inviarvi i migliori studenti.  Un altro punto di divergenza sono i programmi scolastici che dovrebbero essere solo di tipo tecnico amministrativo escludendo la dimensione catechetico-religiosa.

Nonostante questi problemi, il Delegato apostolico riesce a garantire i finanziamenti senza grosse difficoltà.

Il clero locale

Il problema cruciale per la giovane chiesa keniana è la formazione del clero locale. Il capolavoro di monsignor Riberi è la consacrazione del primo vescovo africano dei tempi moderni, il 29 ottobre 1939: l’ugandese Joseph Kiwanuka. La decisione di consacrare vescovo un sacerdote africano non è facile. I missionari stranieri, e gli stessi confratelli africani, seppure in teoria d’accordo nell’inculturare la Chiesa, pensano che non sia ancora giunto il momento di affidare al clero locale una diocesi. Pensano ancora a una chiesa africana con leadership europea strutturata secondo il modello occidentale. I preti africani sono considerati di seconda classe, nonostante le pressanti sollecitazioni da Roma per un trattamento paritario tra clero missionario e clero locale.

Dal 1938, i venti di guerra costringono Antonio Riberi a riorganizzare le missioni. Elabora un piano per assicurare che esse possano continuare il lavoro, ma il 6 agosto 1940, il ministro degli Esteri inglese chiede al Papa di richiamarlo, in quanto italiano e quindi di nazionalità nemica.

Dal 12 novembre 1941 all’8 giugno 1946 monsignor Riberi lavora presso la Pontificia commissione soccorsi.

Mons Riberi Delegato Apostolico in visita al Vicariato di Nyeri, Kenya

Nella Cina nazionalista

Quando Riberi è nominato internunzio in Cina presso il governo del presidente Chiang Kai-sek, al suo arrivo il giornalista che lo intervista si meraviglia della sua conoscenza della lingua cinese.

I rapporti con il presidente della Repubblica di Cina non sono facili. Per il monsignore sono fondamentali alcune riforme, in particolare quella agraria. Poi sottolinea anche l’importanza di applicare la Costituzione appena approvata, ma Chiang è di tutt’altro parere.

Il Papa ha appena istituito la gerarchia ecclesiastica cinese. Il primo compito dell’internunzio è, quindi, di intronizzare i vescovi nelle loro diocesi. È un’impresa complicata data la guerra civile in corso che costringe a continui cambiamenti di programmi per l’impraticabilità delle comunicazioni.

Monsignor Riberi vuole dotare la gerarchia di uno strumento che permetta di dare unità d’azione alle diocesi cinesi poiché vi operano molteplici istituti missionari di nazionalità diverse, con teologie, pratiche di apostolato e sensibilità diverse, e istituisce il Catholic central
bureau. In esso un ruolo fondamentale è svolto dal dipartimento legale. Parte delle proprietà delle missioni cattoliche cinesi non è legalmente riconosciuta, motivo per cui l’internunzio deve regolarizzare i contratti per evitare che i terreni vengano messi all’asta e quindi manchino alle missioni le risorse necessarie.

La Cina comunista

Il 21 aprile 1949 le truppe comuniste entrano nella capitale Nanchino. Da quel momento gli ambasciatori non sono più riconosciuti. Di conseguenza non godono più dei privilegi diplomatici. Ogni ambasciatore cerca di lasciare la Cina e rientrare in patria. Monsignor Riberi invece rimane, e tenta di incontrare i dirigenti comunisti per garantire alla Chiesa la possibilità di continuare la sua attività. Chiede alla Santa Sede di riconoscere il governo comunista, ma essa non ritiene opportuno compiere tale passo.

Nel novembre 1950 viene pubblicato il manifesto di Guangyang e qualche mese dopo quello di Chongqing. In essi si afferma che la Chiesa deve rompere ogni relazione con i paesi imperialisti e praticare le tre autonomie: deve essere autonoma dal punto di vista finanziario, amministrativo e apostolico. Ciò implica tagliare i ponti con la Santa Sede. Ma una Chiesa nazionale cinese indipendente non sarebbe più in unione con il Papa e tutta la Chiesa.

Il 17 gennaio del 1951, un gruppo di cattolici, tra cui il segretario di Riberi, incontra Zhou Enlai (numero due della rivoluzione) per discutere la questione delle tre autonomie. Si cerca un accordo, vengono redatte tre bozze, ma nessuna è considerata soddisfacente.

Nell’aprile 1951 inizia una violenta campagna stampa contro lo stesso Riberi. Il 26 giugno viene messo agli arresti domiciliari e sottoposto a interrogatori di 10-12 ore consecutive.
Il 4 settembre è espulso dalla Cina, accusato di essere un alleato di Chiang Kai-sek, di aver organizzato la lotta contro i comunisti, di aver promosso l’organizzazione reazionaria della Legio Mariae. L’8 settembre arriva a Hong Kong. Vi rimane fino al 24 ottobre 1952, quando si trasferisce a Taiwan dove resta fino al 1959.

il cardinale Antonio Riberi a Roma nel 1967.

Ritorno in Europa

Il 31 agosto 1959 Riberi torna a Dublino in qualità di nunzio e vi rimane fino al maggio 1962. È un periodo breve. Non ha la possibilità di incidere molto su quella Chiesa, ma la prepara per il Concilio Vaticano II.

Il 9 giugno 1962 è nunzio a Madrid. Il problema principale da risolvere in Spagna è l’adeguamento del Concordato del 1953 alle direttive del Concilio Vaticano II, per superare il nazionalcattolicesimo. Con molta gradualità monsignor Riberi favorisce il rinnovamento dell’episcopato, sia dal punto di vista anagrafico che teologico. Alla Chiesa interessa soprattutto garantire la libertà religiosa che viene assicurata con la legge approvata il 24 febbraio 1967, e abolire il «privilegio di presentazione». Dopo la scoperta delle Americhe il Papa aveva concesso la facoltà di scegliere i vescovi all’imperatore portoghese e a quello spagnolo. Francisco Franco lo aveva ereditato e poteva presentare alla Santa Sede una terna di nomi tra cui scegliere un nuovo vescovo. Tale privilegio sarà abolito il 19 agosto 1976.

Il 4 luglio 1967 Riberi riceve la berretta cardinalizia da Francisco Franco, secondo il privilegio che spettava al capo di Stato spagnolo. Quando ritorna a Roma, si diffondono voci sulla sua candidatura alla Segreteria di Stato, ma improvvisamente muore il 16 dicembre.

I funerali solenni sono celebrati nella cattedrale di Cuneo dall’arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, assistito dai vescovi di Cuneo, Fossano, Mondovì e Saluzzo. Sono presenti le massime autorità e una folla immensa.

Giovanni Giorgio Demaria




Myanmar. Il Paese dimezzato


La giunta militare, al potere dal 2021, ha chiuso la breve parentesi democratica del Paese. Intanto le milizie etniche si sono alleate sottraendo all’esercito metà territorio. Quasi 8 milioni di persone hanno lasciato le loro case. L’economia è in crisi. Le scuole sono chiuse. E la Chiesa porta aiuti.

A Banmaw, città (si stima) di 65mila persone, nello stato Kachin, nel Nord del Myanmar, non ci sono elettricità né acqua, né linea telefonica.

Il centro abitato si è svuotato, come i villaggi delle aree circostanti. La popolazione è dispersa nelle foreste dove ha improvvisato insediamenti di tende e capanne e si sostenta con difficoltà, tra frutti spontanei e piccole risaie.

Anche le comunicazioni sono difficili, o del tutto tagliate dalla giunta militare al potere.

Per contattare il mondo esterno, padre Wilbert Mireh, gesuita birmano che aiuta il parroco nella chiesa cattolica di san Michele, nella zona rurale intorno a Banmaw, ha dovuto spingersi in una località al confine con la Cina per trovare corrente elettrica e internet.

Da quella postazione precaria ha raccontato che il centro pastorale della parrocchia in cui lavora è stato colpito dall’esercito birmano. «Cinque proiettili e due bombe aeree sparate contro il complesso della nostra chiesa hanno colpito la struttura ma non hanno ferito nessuno», ha riferito.

Mosaico etnico e militare

Banmaw – a 200 km a sud di Myitkyina, capoluogo dello stato Kachin -, ha una popolazione in prevalenza di etnia kachin, ma anche bamar, shan e han.

Il Myanmar è un Paese nel quale si registrano 135 gruppi etnici diversi, e Banmaw è un crogiolo di lingue ed etnie nel quale a un gruppo maggioritario si affiancano diverse minoranze.

In modo simile, si configurano anche gli altri sei stati (Chin, Shan, Kayah, Kayin, Mon e Rakhine) che compongono il Paese asiatico assieme alle sette regioni e al territorio amministrativo della capitale Naypyidaw.

Gli stati – macro regioni che insieme non costituiscono un vero e proprio stato federale – ospitano i popoli delle minoranze etniche: i diversi gruppi, con i relativi eserciti locali, da 60 anni rivendicano l’autonomia e combattono per l’autodeterminazione in un Paese che è stato governato costantemente da un regime militare, e che, solo nell’ultimo tratto della sua storia, a partire dal 2015 e fino al 2021, ha faticosamente provato la strada della democrazia.

La svolta democratica è stata bruscamente interrotta nel febbraio 2021 dal colpo di stato della giunta militare guidata da Min Aung Hlaing, il generale che controlla l’esercito nazionale detto «Tatmadaw»: «Le forze armate», ma anche «La potenza».

Da allora, dopo un’iniziale protesta pacifica e un movimento di disobbedienza civile, ben presto soffocato con la forza, nel Paese si è sviluppata una lotta armata che ha visto nascere milizie spontanee, le Forze di difesa popolare (Pdf, nella sigla inglese), composte soprattutto da giovani di etnia bamar, quella dominante nel Paese (il 65% della popolazione complessiva), cui appartengono anche il gruppo dirigente della giunta e le fila del Tatmadaw.

Le Pdf fanno riferimento al Governo di unità nazionale (Nug), il governo in esilio, formato soprattutto da ex parlamentari della Lega nazionale per la democrazia, il partito al potere prima del golpe, fondato e guidato dalla premio Nobel per la pace Aung San Suu Kiy, tuttora agli arresti domiciliari.

Il conflitto, che si è sviluppato e diffuso nel Paese negli ultimi quattro anni, ha registrato una svolta quando le forze popolari si sono saldate con gli storici eserciti delle minoranze etniche.

L’alleanza è riuscita a infliggere pesanti sconfitte sul campo all’esercito birmano, soprattutto nelle aree periferiche del Paese e negli Stati di frontiera, utilizzando tattiche di guerriglia che hanno portato al graduale ritiro dei militari di Tatmadaw dai territori più remoti.

Cattedrale Loikaw (foto arcidiocesi di Loikaw)

Una nazione divisa

Al quinto anno di guerra, la giunta al potere controlla, secondo gli osservatori, il 50% del territorio nazionale, arroccata con il grosso delle forze militari nella parte centrale del Paese e nelle città principali come Mandalay, Naypyidaw, Yangon.

Il resto del Paese è ormai costituito da territori che vengono definiti dalla resistenza «zone liberate», sottratte al controllo della giunta.

In questa situazione di violenza generalizzata che ha fatto oltre 50mila morti in un Paese che oggi conta 51,3 milioni di abitanti, gli espatriati toccano oramai quota 3,7 milioni e gli sfollati interni 3,8 milioni, secondo dati dell’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo.

Nelle zone liberate, l’esercito continua a bombardare con forze aeree o artiglieria, aumentando il numero delle vittime civili e delle persone che fuggono.

In tali azioni indiscriminate, spesso sono state colpite strutture civili o religiose che accolgono profughi e non hanno nulla a che fare con il conflitto.

«Ringraziamo Dio di essere salvi – rimarca padre Wilbert Mireh, il primo gesuita birmano -. Qui la gente stenta a sopravvivere: non ci sono scuole, cliniche, né commercio. Dopo l’ennesimo attacco, i fedeli pregano perché l’arcangelo Michele ci protegga», racconta. «La messa, solitamente, la celebriamo sotto gli alberi perché stare in chiesa è troppo pericoloso, e l’edificio è già stato colpito e danneggiato.

Ma, nonostante la sofferenza e le condizioni precarie, lo spirito è forte e ogni giorno affidiamo la nostra vita a Dio».

Il religioso, accanto alla cura spirituale dei battezzati, ha sempre lavorato nell’apostolato sociale e nell’istruzione.

Aggiunge: «Ora i bambini non hanno scuola, una grave conseguenza del conflitto».

In questa situazione di precarietà, «continueremo a vivere per il bene, la verità e la giustizia», conclude.

monsignor Celso Ba Shwe, vescovo di Loikaw, diocesi nello stato Kayah, nell’Est del Paese, in visita a famiglie di fedeli. (foto arcidiocesi di Loikaw)

Il vescovo profugo

Nel suo territorio si consuma lo scontro tra l’esercito regolare e l’Esercito per l’indipendenza Kachin (Kia), una delle milizie etniche meglio organizzate, attiva da decenni.

Il gesuita in passato ha svolto servizio pastorale anche più a Sud, a Loikaw, diocesi nello stato Kayah, nell’Est del Paese, un altro territorio martoriato dalla guerra, dove la comunità cattolica conta 90mila battezzati dispersi in un territorio in cui si registrano, da tempo, duri scontri tra l’esercito e le forze di opposizione.

Tutta la popolazione condivide qui una sorte fatta di sfollamento, fame, freddo, con la fatica di una vita quotidiana trascorsa nei campi profughi o improvvisata all’addiaccio nelle aree boschive.

A Loikaw, in particolare, la Chiesa locale è segnata da una ferita profonda: la cattedrale diocesana di Cristo Re, e l’annesso complesso pastorale, sono stati sequestrati e occupati a novembre del 2023 dai militari che ne hanno fatto un campo base dell’esercito. Il vescovo Celso Ba Shwe ha dovuto abbandonare il centro pastorale e si è trasferito nella parrocchia della Madre di Dio a Sondu, vivendo da «profugo tra i profughi».

«Questa Chiesa è divenuta uno dei nostri centri di pellegrinaggio giubilare», racconta padre Paul Pa, delegato della diocesi per l’Anno santo del 2025.

Le parrocchie della diocesi si sono del tutto svuotate di fedeli e allora i sacerdoti sono divenuti «preti itineranti»: si muovono di continuo nel territorio per confortare i fedeli, celebrare i sacramenti, portare aiuto.

Nel celebrare il tempo del Giubileo, ha detto il vescovo Ba Shwe, «la speranza viene dalla solidarietà e dalla carità reciproca in questo tempo di deserto, di sofferenza e di sfollamento».

Padre Paul Pa racconta che a Loikaw oggi il ministero dei sacerdoti «è soprattutto un ministero di consolazione, è consolare gli afflitti».

Accanto al conforto umano e spirituale, vi è l’impegno a fornire aiuti umanitari ai più bisognosi, oggi soprattutto i bambini senza istruzione, gli anziani e i malati, in una situazione in cui anche i centri sanitari e le cliniche gestite dalla comunità cattolica sono chiusi o registrano gravi difficoltà e carenze.

Profughu Rohingya Chakmarkul in Cox’s Bazar Bangladesh, april 4, 2018. – 2018/European Commission/ECHO/K M Asad

A Occidente, i Rohingya

Nella parte occidentale della nazione, verso il confine con l’India, lo stato Chin (altra minoranza etnica) è saldamente sotto il controllo delle milizie locali Chinland defence force (Cdf), mentre all’esercito non resta che bombardare da lontano: così nei mesi scorsi è stata colpita la chiesa cattolica del Sacro Cuore di Gesù a Mindat, chiesa prescelta come cattedrale della neonata diocesi di Mindat, eretta il 25 gennaio scorso dalla Santa Sede.

Più a Sud, in un altro scenario di crisi, si registrano violenti combattimenti nello stato Rakhine (o Arakan), nella parte centro occidentale del Myanmar: qui si scontrano l’esercito Arakan, la milizia locale, e i militari di Tatmadaw. Il conflitto civile che si è intensificato nello stato Rakhine ha generato un’impennata di vittime e sfollamenti per il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di fede musulmana che convive con la maggioranza della popolazione di etnia rakhine, buddhista.

Data la situazione sul terreno, continua il flusso di rifugiati rohingya che cercano rifugio e protezione in Bangladesh: è quanto avviene a sette anni dal primo esodo di 750mila Rohingya che fuggirono dalle violenze e dalle persecuzioni in Myanmar, varcando il confine e stanziandosi nella località bangladese di Cox’s Bazar, dove il governo di Dacca, con il sostegno di organismi Onu e della comunità internazionale, li ha organizzati in campi profughi di vaste dimensioni.

La situazione dei Rohingya è critica su entrambi i versanti della frontiera. In Myanmar, oltre 130mila civili, in particolare i bambini e le famiglie, sono coinvolti nel fuoco incrociato dello scontro tra esercito regolare birmano e miliziani.

L’accesso di organizzazioni umanitarie in Rakhine, come in altre regioni, è diventato estremamente difficile. I servizi essenziali, come l’accesso all’acqua potabile e all’assistenza sanitaria, scarseggiano, aggravati dai blackout di elettricità e telecomunicazioni.

Anche oltre frontiera, in Bangladesh, la vita nei campi profughi appare critica per le difficoltà nella distribuzione di beni di prima necessità e la mancanza di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione. Un ritorno «dignitoso, volontario e sostenibile» dei profughi in Myanmar – nella loro terra di origine – resta la soluzione auspicata, ma non vi sono le condizioni per renderla possibile, data l’escalation del conflitto.

Myanmar cristiani in preghiera

La testimonianza di fede

Lo scenario che si registra nello stato Rakhine è comune a diversi altri stati del Paese, così come è comune la modalità della presenza della comunità cattolica: la vita spirituale, pastorale e sacramentale, l’assistenza e il conforto agli sfollati dispersi nel territorio, proseguono con grande dedizione e fede, nonostante le difficoltà e la precarietà.

Esempio di questa dedizione è la vicenda del primo sacerdote cattolico birmano ucciso: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, quarantaquattrenne prete dell’arcidiocesi di Mandalay.

Il suo corpo senza vita, mutilato e sfigurato con colpi di arma da taglio, è stato ritrovato il 14 febbraio scorso da alcuni membri della comunità nel complesso di Nostra Signora di Lourdes, dove era parroco.

La chiesa si trova nella regione di Sagaing, nel centro Nord del Paese, una di quelle zone dove sono quotidiani i combattimenti e gli scontri tra le Forze di difesa popolare e l’esercito birmano.

Padre Donald Martin cercava di stare vicino alla comunità sofferente, e per questo aveva organizzato un servizio scolastico per i bambini del territorio: infatti, nella regione di Sagaing, il sistema statale è collassato, non vi sono servizi pubblici e l’istruzione va avanti solo grazie a sporadiche iniziative spontanee, come quelle attivate dalle parrocchie.

Secondo due donne testimoni dell’aggressione a don Donald Martin, dieci uomini provenienti da un villaggio vicino hanno colpito il prete, per motivi non chiari.

Il capo della banda ha intimato al sacerdote di inginocchiarsi di fronte a lui. Don Donald lo ha osservato e, mantenendo un tono mite, ha risposto pacificamente: «Mi inginocchio soltanto davanti a Dio», e ha proseguito: «Cosa posso fare per voi?».
In preda alla rabbia, l’uomo ha sguainato un coltello e ha colpito ripetutamente il sacerdote sul corpo e alla gola.
Don Donald, secondo le testimoni, non ha pronunciato una parola né un lamento e non ha reagito.
La vicenda è in mano all’amministrazione parallela delle aree controllate dalla resistenza.
Lì non esiste un quadro giuridico definito. Non sarà dunque facile indagare e fare giustizia.

Paolo Affatato


Myanmar, la crisi in cifre

  • Popolazione: 51,3 milioni di persone (erano 54 milioni prima del golpe del 2021).
  • Etnie: Bamar 68%; Shan 9%; Karen 7%; Rakhine 4%; Cinesi 3%; Indiani 2%; Mon 2%; altri 5%.
  • Religioni: buddhisti 87,9%; cristiani 6,2%; musulmani 4,3%; indù 0,5%; culti tribali 1,1%.
  • Lingue: oltre 120.
  • Emigrazione: 3,7 milioni di persone espatriate nel triennio 2021-2023.
  • Grave insicurezza alimentare: 19,9 milioni di persone.
  • Sfollati interni: 3,8 milioni.
  • Pil: -12% tra 2020 e 2021.
  • Inflazione: 25%.
  • Accesso all’elettricità: 48% della popolazione.
  • Produzione agricola: contrazione del 16%.
  • Vittime mine antiuomo: 1.052 persone nel 2023.
  • Scolarizzazione: sistema scolastico interrotto nel 50% del Paese. Da tre anni, 4,5 milioni di bambini sono senza istruzione.

P.A.
dati Onu, Unicef, Banca mondiale.


Il sisma

Il 28 marzo scorso, nel Mynamar centrale, lungo la faglia tettonica che attraversa da Nord a Sud il Paese, la terra ha tremato. Un violento sisma ha causato devastazioni nella regione di Mandalay e Sagaing e in grandi città come Yangon e Naypyidaw, con un bilancio (ancora provvisorio quando MC va in stampa, ndr) di oltre 3.500 morti e 5mila feriti.

Dopo l’appello della giunta militare al potere, un flusso di aiuti umanitari dall’estero ha raggiunto le aree colpite, che già prima del terremoto ospitavano il 45% dei 3,8 milioni di sfollati interni provocati dal conflitto civile.

Il sisma ha rotto l’isolamento internazionale della giunta militare, che ha aperto canali per la risposta umanitaria.

La Chiesa e altre organizzazioni hanno chiesto una tregua nel conflitto per consentire l’arrivo degli aiuti. Interagendo con altri Paesi e con enti internazionali, il generale Min Aung Hlaing si è imposto come unica autorità pubblica del Paese. Solo con il tempo si capirà se la tragedia del 28 marzo sarà un’occasione per la risoluzione del conflitto o un fattore che acuirà lo scontro.

P.A.

Card. Bo tra i Kachin




Egitto. La storia sfrattata


Il Cairo è una megalopoli. Racchiude in sé quartieri storici molto particolari. Le autorità vogliono renderla moderna, nello stile delle città del Golfo. Molti antichi luoghi andranno presto perduti.

Il Cairo, megalopoli tra le più grandi del mondo, con una stima, difficile da verificare, di oltre dieci milioni di abitanti, è crocevia di terra e acqua, grazie al poderoso Nilo che la attraversa.

Fondata da Jawhar al Siqilli, di origine siciliana, verso la fine del primo millennio, nemmeno Il Cairo poteva resistere ai grandi cambiamenti urbanistici in atto in molte città in tutto il mondo. Nel nome della globalizzazione urbanistica, che favorisce cemento e speculazione, vengono sacrificate identità strutturali e architettoniche che hanno reso unici alcuni luoghi.

E così il Nilo viene ingabbiato in sponde di cemento unite da passerelle a pagamento, e le sue rive, spesso ormai invisibili, sono invase da locali alla moda e alti palazzi, in vetro e cemento. Alla vista di chi passeggia spariranno le sue belle acque cangianti e il loro lento fluire, così come gli orti e i giardini rigogliosi sulle sue rive, mentre sono già scomparse, quasi totalmente, le sue eleganti case sull’acqua: le «awamat».

Queste sono antiche houseboats, costruite nell’Ottocento, e narrano parte della storia cairota. Erano usate dai pascià per incontri clandestini, e negli anni Venti per riunioni governative. Erano abitate da personaggi illustri come la diva del cinema egiziano Munira al Mahdiyya.

Anche la letteratura le ricorda nelle pagine di Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura nel 1988. Erano duecento, colorate, con ricami architettonici come pizzi. Adesso ne sono rimaste solo venti, ma perderanno il loro uso come abitazioni, perché diventeranno bar e ristoranti. Nonostante le proteste degli anziani abitanti, ormai sradicati, e dei comitati cittadini.

tombe alla «città dei morti» al Cairo

La città dei morti

Il Cairo è anche tante altre città. Passiamo attraverso el Mosky, infinito e caotico mercato amatissimo dai cairoti. Visitiamo poi la moschea di al Azhar, dove ha sede l’università islamica punto di riferimento dottrinale per l’islam sunnita. Attraversiamo Khan al Khalili, il più antico bazar del mondo, che assomiglia a quello delle «Mille e una notte». Arriviamo all’immensa «città dei morti»: al Qarafah.

Qui, alla fine del XIV secolo, i ricchi sultani mamelucchi cercarono l’eternità, fuori dalle mura della città di allora, costruendo mausolei con cupole e minareti scolpiti che sfiorano il cielo. La morte e la vita in questo luogo sembrano non avere confini. C’è un movimento continuo di uomini, cose e animali. Tra le antichissime costruzioni funerarie, dove la sabbia del deserto si mischia con la polvere di chi non c’è più, troviamo incroci, piccoli negozi, meccanici, artigiani e animate caffetterie nelle quali si fuma il narghilè, la pipa ad acqua. Quasi ogni tomba, specie quelle più maestose, ha i suoi inquilini che vivono, senza timori, accanto ai loro morti o custodiscono quelli di altri. E così, alla storia dei defunti si somma quella dei vivi che abitano le sepolture.

Interno di un cortile nella «città dei morti» dove ogni giorno vengono letti passi del Corano

Uomini e lapidi

Donne rimaste sole con i figli, o famiglie in condizioni disagiate, curano questi luoghi come fossero le loro case e conservano la memoria dei trapassati. Questi custodi assicurano ai morti una sorta di eternità, narrando la loro vita a chi passa. Nessuno qui scompare nel silenzio. Lapidi e uomini raccontano storie: come il custode della tomba del calzolaio del re Farouk. La sua famiglia la custodisce da generazioni e poi la passerà al figlio.

Una donna ancora giovane ci apre le porte della sua tomba-casa. È un tripudio di colori: pareti arcobaleno, mobili semplici nella cucina. La cameretta della figlia adolescente, Aisha, con pupazzi e fiori affrescati sui muri. Lei ha la mano d’artista e da grande vorrebbe fare la pittrice. Forse questo ambiente le dà la possibilità di inseguire il suo sogno.

Non lontano, un’altra famiglia custode ci mostra un salotto tra urne e damascato, dove ci si incontra per il tè, a chiacchierare e guardare la televisione.

Poi, cosa più unica che rara negli spazi ristretti di questa grande città ad alta densità abitativa, la tomba si apre su un immenso giardino sacro. Ricco di vecchi gelsi, che donano ombra a chi non c’è più, e che riecheggiano dei ricordi degli attuali custodi, qui da generazioni, quando erano bambini.

Questa visione dell’aldilà non sembra intimorire il Governo egiziano che, sotto un’altra ottica, sembra deciso a far scomparire anche questo luogo ricco di arte funeraria e di spiritualità a favore di cemento e nuove architetture. Via i morti, che verranno spostati lontano nel deserto, e via chi li veglia, persone che non conoscono il loro destino. Anche per loro sarà un po’ come morire. Guardando la bellezza di questo luogo così ricco di fascino è impossibile pensare di ritornarvi in futuro e non trovarlo più.

una donna all’ingresso di casa sua, ricavata da un’antica tomba di famiglia

Garbage city

Altri luoghi, che fanno la storia di questa città, e contribuiscono all’economia della nazione, sono fortemente in pericolo e a rischio delocalizzazione. Ad esempio, la «Città della spazzatura» (Garbage city), detta anche «città degli zabaleen».

Questo grande insediamento nacque nei primi del Novecento sotto il monte Moqattam a opera di minoranze cristiane copte, provenienti dalle zone desertiche occidentali e, successivamente, dalle regioni rurali del medio Egitto. Qui si raccolgono e si riciclano ogni giorno tonnellate di spazzatura che circa 30mila tra uomini, donne e bambini, chiamati zabaleen (ovvero netturbini, ndr), raccolgono incessantemente.

Strutturata come una piccola città ai margini del Cairo, è dotata di strade, negozi, scuole, chiese e abitazioni. Tutto circondato, riempito e soffocato da tonnellate di spazzatura ordinata, suddivisa, imballata, innalzata e trasportata. Oppure lavorata direttamente sul posto.

È un luogo che appare caotico, sporco, maleodorante, ma che ha la precisione di un formicaio. Ovunque vediamo immagini di santi e Madonne e svettano croci luminose, a indicare l’appartenenza religiosa. Fieri di essere cristiani, anche se sepolti dalla spazzatura. Pure qui si è avvolti dalla polvere del deserto e da quella dei rifiuti che nessuno sembra volere, se non gli zabaleen.

Quel vento ammorbato da un odore a tratti insopportabile e il caos umano e frenetico che confonde la vista, sono il motore di un’economia che crea un indotto importante: il business dell’immondizia. Si valuta che vengano recuperate tremila tonnellate di rifiuti al giorno, portate ad aziende che impiegano molti dipendenti per il loro trattamento.

Una donna nella “citta degli zeebelin” lavora a separare rifiuti

Salute a rischio

Una ragazza con guanti di gomma, con un elegante abito in velluto rosso, immersa nella spazzatura al pianterreno di casa sua, ci racconta che quella è la sua vita e che i rifiuti le servono per mantenere la famiglia. Non le dispiace questo lavoro, collabora con il marito, pure lui raccoglitore d’immondizia.

Ci mostra la casa, orgogliosa ci fa notare che i rifiuti sono chiusi fuori. Dentro tutto è a posto ma all’esterno si è prigionieri di quello che il resto del mondo butta via. Sorride e continua a dividere la plastica dalla stoffa, i fili dal ferro.

Un problema importante è che qui si mette a rischio la salute, perché molti dei materiali trattati sono fortemente nocivi e le condizioni precarie di questi lavoratori li espongono a infezioni anche gravi. «È la storia che si ripete, per vivere dobbiamo adattarci a condizioni che non tutelano diritti e non danno protezioni», confessano alcuni giovani. «E allora non resta che sperare e pregare».

Infatti, alla fine della giornata, molti di loro salgono al monastero di Saint Simon, chiesa scavata nella roccia a due passi dalla spazzatura. Fondata da padre Saman, immortalato in ogni dove a Garbage city. È un luogo di grande devozione ma anche di respiro.

Cosa resterà di queste realtà, anche difficili, se si deciderà di farle scomparire? Rimarranno i ricordi delle identità perdute degli zabaleen, della città dei morti, delle hoseboats. Poi i ricordi sfumeranno, e non si riconoscerà più la peculiarità di luoghi che oggi sono unici. Tutto sembra doversi trasformare in grattacieli, luoghi esclusivi, città smart, facendo sparire il lento incedere del Nilo e dei suoi abitanti.

Diceva Nagib Mahfuz: «In realtà, l’unica patria possibile è quella dei ricordi. Belli o brutti, sono come noi li vogliamo».

Donatella Murè

Pre lavorazione della plastica




Il Signore della vita (Gv 11)


Con l’undicesimo capitolo, si chiude la prima parte del Vangelo di Giovanni, quella dei «segni», come li chiama lui. Fino qui, infatti, abbiamo letto dei miracoli di Gesù, segni che alludono ad altro e che spesso hanno aperto discussioni e ampie spiegazioni. Anche questo capitolo presenta un segno, un prodigio che allude a qualcosa di rilevante: Gesù, infatti, riporta in vita un morto.

Il brano, peraltro, è decisamente giovanneo: ci stimola molte più riflessioni e domande di quelle alle quali offra risposte. Proviamo a intuirne alcune.

Il racconto

La vicenda è semplice: qualcuno riferisce a Gesù che Lazzaro, suo amico residente a Betania, sta male (vv. 1-3). Gesù, che dovrebbe trovarsi al di là del Giordano (Gv 10,40), ossia non troppo lontano, sostiene che la malattia di Lazzaro non va verso la morte, ma servirà a mostrare la gloria del Figlio di Dio, vale a dire che illustrerà chi lui è davvero (v. 4). Dopo di che, aspetta due giorni prima di partire: perché? Può darsi che il motivo sia quello suggerito dai discepoli, che Betania è vicinissima a Gerusalemme (15 stadi, ossia circa due chilometri) e quindi sotto l’influenza di coloro che vogliono uccidere Gesù (v. 8).

A questo punto, però, Gesù e i discepoli si avventurano in un dibattito curioso sulla condizione di Lazzaro: è morto o si è solo addormentato (vv. 11-16). E nel lettore si insinua, in modo molto sottile, l’idea che la morte possa non essere un evento definitivo. Come fanno gli scrittori bravi, l’evangelista non ci svela la conclusione della vicenda prima di narrarla, eppure, se tornassimo a leggere quelle righe sapendo già come la storia va a finire, non potremmo non notare che in qualche modo l’esito è già anticipato qui.

Un altro dialogo che ci potrebbe lasciare perplessi è quello che Gesù sostiene una volta arrivato a Betania. Parla dapprima e più a lungo con Marta, riguardo a morte e risurrezione (vv. 21-27), e in un secondo tempo con Maria. È un caso che in tutto il capitolo Gesù sembri conversare con gli altri solo uno alla volta?

Quando Gesù ordina di aprire il sepolcro, Marta oppone resistenza affermando: «è morto già da quattro giorni e ormai puzza» (v. 39). Di fronte a questa obiezione, Gesù rimprovera l’amica per la sua mancanza di fede, quindi ripete l’ordine. A sepolcro aperto, il maestro sembra mettere in scena, e in modo teatrale, la reazione che forse si aspettava dai suoi amici, in quanto ringrazia il Padre prima ancora che dal sepolcro emerga qualcosa: «Io lo sapevo che tu mi ascolti sempre, ma l’ho detto per la folla che sta qui intorno» (v. 42).

Legami personali

La prima dimensione rilevante del racconto, che non può sfuggirci, è che Gesù non si trova di fronte a estranei: Lazzaro, Marta e Maria vengono definiti esplicitamente suoi amici (v. 5). Dai Vangeli sappiamo di altri due episodi in cui Gesù riporta in vita dei morti, il figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17) e la figlia di Giairo (Mc 5; Mt 9; Lc 8). Entrambi gli erano sconosciuti e, alla domanda che può sorgere, «perché loro sì e altri no?», la risposta potrebbe serenamente chiamare in ballo il caso: l’incontro di Nain pare totalmente imprevisto, mentre quando Giairo chiede l’aiuto di Gesù, sua figlia è gravemente malata ma ancora viva.

Il caso di Lazzaro invece è diverso: ci verrebbe quasi da pensare che questo miracolo sia inopportuno. Ci saranno raccomandati e amici anche intorno a Gesù? E se Lazzaro non avesse avuto amicizie importanti, sarebbe stato lasciato nel sepolcro?

Per affrontare queste domande basta constatare che i Vangeli non perdono occasione di presentarci un Gesù che instaura con chiunque una relazione sempre centrata sulla persona, e mai su ruoli o formalità. Il Padre che Gesù rivela non guarda a titoli o precedenze o convenienze, ma incontra persone con storie e caratteristiche loro.

Notavamo poco sopra che, in questo racconto, Gesù sembra quasi parlare solo con singole persone, in modalità «uno a uno», come nei rapporti profondamente personali. Il Padre non conosce incarichi, ma chiama ognuno per nome. Tra il rischio di dare l’impressione di favoritismi e la rinuncia a valorizzare i legami personali, Dio non ha dubbio: le persone vengono prima!

Se sono le relazioni personali a smuovere Gesù, non sembra però che lui si astenga dalle proprie scelte quando invece queste stesse relazioni sono negative: quando ha deciso che si sarebbe partiti per Betania, i discepoli hanno tentato di dissuaderlo, visto che già i suoi avversari, di stanza apparentemente a Gerusalemme, avevano tentato di eliminarlo (v. 8), ma Gesù non ha cambiato idea. Ai discepoli, consapevoli del rischio, non è rimasto che commentare che ciò significava andare a farsi uccidere (v. 16).

Un Gesù, e un Padre, che si muovono per le relazioni personali, ma non si fanno bloccare dalle minacce.

Risurrezione

Centrale, in tutto il capitolo, è il rapporto tra vita e morte.

Le sorelle di Lazzaro sono convinte che Gesù avrebbe potuto guarire il fratello. E confidano nella risurrezione alla fine del tempo. Gesù non le smentisce, su nessuno dei due punti, né conferma le loro idee. La sua risposta, enigmatica come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, sposta altrove il centro dell’attenzione: è lui stesso a essere la risurrezione e la vita. La risurrezione smette di essere un evento o una condizione, ma si incentra sul rapporto con Gesù. In modo esplicito, a essere significativo non è più il tempo della risurrezione (alla fine del tempo, come crede Marta?) o la modalità, ma la relazione. Per viverla occorre credere in Gesù, affidarsi a lui, essere in relazione con lui (vv. 25-26). Cruciale non è la vita, ma essere in rapporto con Dio. Il contrario sarebbe come se ci concentrassimo sulla carta che avvolge un regalo invece che sul regalo stesso.

Due altri particolari ci colpiscono. Nel dialogo, Marta si espone con chiarezza: «Credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo» (v. 27). È la più esplicita tra le affermazioni di fede nel Vangelo e la prima che viene dopo l’affermazione che chi avesse riconosciuto Gesù come Cristo sarebbe stato espulso dalle sinagoghe (Gv 9,22). Marta entra in relazione personale con l’amico e quindi non si fa spaventare dalle minacce. Chi si affida a Gesù, impara, come lui, a vincere la paura.

L’altro particolare potrebbe farci venire la pelle d’oca. Al termine del colloquio con le due sorelle, Gesù chiede dove hanno sepolto Lazzaro. La risposta potrebbe anche sembrare semplicemente funzionale: «Vieni e vedi» (Gv 11,34). E, al limite, il pianto in cui esplode Gesù potrebbe indicare che finalmente anche lui ceda a una commozione e a un affetto che sono comunque percepibili in tutto il capitolo. Ma quelle parole sono chiaramente vicine a quelle che Gesù stesso aveva rivolto ai suoi due primi discepoli, che gli chiedevano dove abitasse: «Venite e vedrete» (Gv 1,39). In quel frangente, l’invito era a coinvolgersi, a fare esperienza personale, e l’esito era stato che i due discepoli di Giovanni avevano iniziato a seguire Gesù. Nel capitolo 11, è come se la morte di Lazzaro invitasse anche Gesù a fare esperienza personale della fine della vita, per coinvolgersene fino in fondo. È ciò che accadrà pochi giorni dopo.

È però solo un anticipo, e imperfetto. Lazzaro, infatti, esce dal sepolcro legato e velato (v. 44) e ha bisogno di essere aiutato a tornare in vita, mentre Gesù lascerà il sepolcro con tutte le bende in ordine, senza alcun testimone (Gv 20,6-7). Lazzaro sarà ancora sottomesso alla morte, Gesù, dopo la risurrezione, non lo sarà più. Ma in entrambi i casi, il Padre chiama sempre alla vita, la sua intenzione è quella, quello desidera, quello prepara. Il Padre non lascia che vinca la morte.

Le conseguenze (vv. 47-53)

Giovanni lo aveva spiegato: Betania è molto vicina a Gerusalemme e molti «giudei» (ossia, nel linguaggio dell’evangelista, avversari di Gesù) erano venuti a consolare le sorelle di Lazzaro. Anche Tommaso (v. 16) aveva preannunciato che avvicinarsi alla città santa avrebbe significato rischiare la vita. Il che puntualmente succederà. I giudei non possono ancora mettergli le mani addosso, ma i capi sacerdotali e i farisei decidono che bisogna far tacere Gesù. Anzi, Caifa, sommo sacerdote, afferma che conviene che sia un uomo solo a morire per tutto il popolo.

Giovanni fa notare che, essendo sacerdote, le sue parole erano profetiche, e attestavano già che la morte di Gesù sarebbe andata a vantaggio di tutti, anzi addirittura anche di coloro che del popolo non facevano parte (v. 52).
È un esempio dell’ironia giovannea: qui Caifa intende semplicemente dire che conviene mandare a morte Gesù anziché lasciare che avvii una eventuale rivolta politica che attirerebbe la reazione dei romani. In effetti, però, anticipa già il senso che la sua morte potrà avere per l’umanità. Allo stesso modo, i capi dei sacerdoti si dicono preoccupati che, se la gente credesse in Gesù, Gerusalemme potrebbe essere distrutta, cosa che (i lettori di Giovanni lo sanno già) accadrà davvero nel 70 d.C., nonostante  la folla avesse scelto di far crocifiggere Gesù (cfr. Gv 19,6.15). Se vogliamo, c’è un esempio di ironia anche nel fatto che lo stesso Lazzaro, appena tornato alla vita, rischia di nuovo di morire presto, stavolta ammazzato per mano delle autorità religiose anziché nel suo letto, accudito dalle sorelle (Gv 12,9-11).

Ma in fondo è tragica ironia anche il senso di tutto questo paragrafo. Le autorità religiose, che dovrebbero avere a cuore la vita del popolo, mentre dicono di interessarsene, riescono soltanto a progettare la morte. La vita viene tramite Gesù, e attraversando la morte stessa.

Ormai siamo verso la fine della vicenda umana del Signore, ci è sempre più chiaro il volto del Padre che Gesù ci sta mostrando (come si era detto in Gv 1,18). È il volto di chi vuole la vita, di chi si commuove e piange di fronte alla sofferenza degli amici, di chi vede negli uomini persone con cui entrare direttamente e profondamente in relazione. È un Padre che ama la vita di tutti.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 14 – continua)

da Jesus Mafa- risurrezione di Lazzaro




(La Chiesa è) Un salone di bellezza


Il missionario prima o poi deve partire. E lasciare così la sua gente. Ma si porterà nel cuore mille storie. Padre Sandro è appena rientrato dal Mozambico, dove ha costruito una chiesa e, soprattutto, una comunità. Lo abbiamo incontrato.

Padre Sandro Faedi cammina veloce. Parla veloce. Agisce. È un uomo operativo, oltre che di grande intelletto. Ma è anche un organizzatore nato. Missionario della Consolata dal 1967, è tornato in missione in Mozambico nel 2013 dopo una prima esperienza tra il 1998 e il 2008. Prima ancora era stato missionario in Venezuela dal ‘74 al ‘98.

Negli ultimi quattro anni della sua presenza nel Paese lusofono ha lavorato a Tete, capoluogo dell’omonima provincia, nel Nord Ovest, con il vescovo, monsignor Diamantino Guapo Antunes, anch’egli missionario della Consolata.

Tete è una città di 450mila abitanti, fondata dai portoghesi nel XVIII secolo a ridosso del grande fiume Zambesi. All’inizio degli anni duemila fu scoperta una miniera di carbone a Moatize, a circa 20 chilometri. Da allora aspiranti minatori sono arrivati dalla provincia e da tutto il Mozambico, per lavorarci.

La chiesa in cosruzione

Un nuovo quartiere

La parte destra del fiume che era pietrosa e, in parte, selva, è stata occupata dai nuovi arrivati dove è cresciuto un quartiere che conta oggi 150mila abitanti, e continua a espandersi.

Diverse imprese multinazionali stanno sfruttando il carbone della miniera. Inizialmente sono state Rio Tinto, Vale, adesso è Vindal, un consorzio indiano. Intanto, il prezzo del carbone è sceso e, inoltre, la qualità del sito non è quella sperata.

Dalla miniera, i treni portano il materiale al porto di Beira, e da qui, via nave, raggiunge l’India, dove è usato in prevalenza nelle acciaierie.

«Intorno al 2010 c’è stato un boom di arrivi – ci dice padre Sandro che incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata – seguito poi da una diminuzione. Molti avevano iniziato a lavorare e si erano costruiti una casetta di mattoni. Poi sono rimasti senza lavoro.

In questa vasta area c’era una parrocchia dedicata ai Martiri d’Uganda, e tenuta dai missionari Comboniani. Questi avevano costruito varie cappelle nel quartiere. Una, in particolare, era intitolata a san Daniele Comboni. Ogni tanto i padri celebravano messa in queste cappelle interne».

Ricorda padre Sandro: «Monsignor Diamantino ha avuto l’idea di farne una parrocchia e ha chiesto a me di seguirne la fondazione.

Ho subito pensato che la zona fosse a mia misura perché sono vecchio, e non si tratta di quelle parrocchie africane disperse su territori enormi. È concentrata, ha circa 50mila abitanti, una casa a ridosso dell’altra, in una zona pietrosa. Questo, tra l’altro, rende problematico lo scolo dell’acqua. Si trattava di un quartiere piuttosto povero e avrei dovuto aiutare a costruire la comunità».

«Padre, facciamo la chiesa»

Padre Sandro prende in mano la parrocchia proprio quando inizia la pandemia da coronavirus. La comunità aveva a disposizione solo una piccola cappella, venti metri per dieci.

«La domenica la cappella si riempiva. Poi si è sparsa la voce della presenza di un prete, e arrivava sempre più gente. Allora abbiamo iniziato a celebrare la messa sotto un grande baobab. Intanto le scuole erano chiuse e io ho approfittato per visitare tutte le famiglie. Con due animatori, armati di mascherina, andavamo casa per casa. Sono piccole abitazioni, la gente vive fuori: la fontana è all’esterno, così come la cucina. Mi sono fatto conoscere».

«La gente ha cominciato a dire: “Padre cosa facciamo? Non ci stiamo in questa chiesa. Quando finisce il coronavirus facciamo una chiesa nuova”. Intanto, dentro la cappella pioveva.

Abbiamo fatto il disegno, con il vescovo. Io volevo una chiesa rotonda, senza colonne nel mezzo, per vedere la gente, e affinché loro vedessero il celebrante. Doveva essere capiente, almeno per cinque o seicento persone».

Dopo quasi due anni di lavoro, la nuova chiesa, una costruzione di 1.100 metri quadrati, rotonda con un diametro di 38 metri, era pronta. E al suo interno stavano comodamente 850 sedie di plastica.

la chiesa piena di fedeli durante un giorno di festa.

Una grande partecipazione

Il missionario ci spiega come ha finanziato l’opera. «Iniziai a dire alla gente: “Di chi è la chiesa? Di padre Sandro, che poi, quando partirà, prenderà mattone su mattone e se la porta via?”. Rispondevano: “No padre non è così”. Allora abbiamo creato alcune commissioni, e abbiamo deciso che ogni famiglia si tassasse con 500 meticais al mese (circa 7,5 euro all’epoca, ndr). Chi poteva li dava, chi poteva darne di più meglio. Ogni mese raccoglievamo».

Padre Sandro diceva ai suoi parrocchiani: «Così domani potrete dire ai vostri figli: la chiesa l’ho fatta io, perché ogni mese ho contribuito».

I soldi raccolti non sono bastati a pagare la costruzione, anche se contribuirono quasi al 18%. Gli altri fondi sono stati trovati presso amici, finanziatori vari e la Santa Sede.

«Ho visto pagine molto belle. Persone che, con sacrificio, hanno partecipato.

Appena cominciata la costruzione, arriva una signora anziana, con i piedi e le mani gonfie. Avevo già pensato di darle qualcosa per aiutarla. Invece mi dice: “Anche io vorrei contribuire per la chiesa”, e mi consegna 500 meticais.

Un’altra signora che compiva 80 anni mi dice: “Padre Sandro, i miei figli vivono tutti a Maputo. Mi hanno chiesto che regalo volessi. Datemi i soldi, ho detto loro. Per che cosa? Per la chiesa. 20mila meticais, 300 euro. Il salario minimo mensile sono settemila.

Un altro: “Padre ho risparmiato 40mila per la mia vita, ma chiedo perdono al Signore, e li do alla chiesa”. Tra i ricchi ricordo solo un indiano, che mi ha donato 200 sacchi di cemento. Oltre a tante altre storie, che io non conosco, di persone che hanno dato, con generosità. Così abbiamo fatto la chiesa».

il coro Comboni durante una performance nella nuova chiesa parrocchiale.

Costruire la comunità

«Mentre costruivamo la chiesa in muratura, dovevamo fare la Chiesa delle persone, la cosa più importante».

Padre Sandro è soddisfatto quando racconta di questa esperienza. Parla di una comunità cristiana molto viva. «Ho organizzato la parrocchia in tre grosse comunità. Ognuna di esse costituita da nuclei (gruppi) di famiglie, con un piccolo spazio dove si riuniscono una volta al mese per la vita del gruppo e la catechesi».

I giovani non facevano parte nel nucleo. In esso si riunivano le persone adulte, i genitori. «In parallelo, abbiamo creato il gruppo giovanile, composto di una sessantina di persone, dei quali più di trenta adolescenti. Poi c’è il gruppo degli accoliti. Questi sono i ragazzi dal battesimo ai 22 anni. Si tratta di un cammino di formazione, una vita di gruppo tra di loro».

E ancora: «Poi abbiamo 36 catechisti, ed è prevista una formazione anche per loro».

Altri gruppi della parrocchia sono la Legio Mariae e l’Apostolato della preghiera. «Il primo è un po’ esigente – continua padre Sandro -, vogliono che le coppie siano sposate in chiesa. Perché poi devono essere apostoli. Nel secondo c’è la famiglia allargata: venite come siete. Molte signore e signori».

La messa della domenica dura due ore e mezza, anche tre. Ci sono infatti sempre feste che allungano la funzione. Inoltre, è molto partecipata.

«Perché tre comunità?», chiediamo a padre Sandro. «Sono tre per ragioni di territorio. È più facile, per le persone, ritrovarsi. Ogni comunità ha due donne come animatrici e un animatore, e poi un consiglio. Per tutte le questioni relative ai membri della comunità, sono interpellati loro, che conoscono le persone e il territorio. Se qualcuno si vuole sposare, o battezzare il figlio, il nucleo conosce e valuta la situazione. Così come se c’è qualche necessità particolare, è segnalata al nucleo che, se è il caso, ne parla anche al parroco. Ad esempio, se c’è un malato da visitare».

Nella parrocchia è attiva anche la Caritas, che fa distribuzione di alimenti ogni mese. Il cibo è raccolto dalla stessa gente. I bisognosi sono indicati dal nucleo delle comunità, che li ha visitati a casa, e ha verificato le necessità.

padre Sandro con il vescovo di Tete, monsignor Diamantino Guapo Antunes

Un’organizzazione di persone

Ogni comunità è, dunque, composta da nuclei, e le persone del nucleo fanno capo al responsabile di comunità, che poi riferisce al consiglio parrocchiale. Il sistema pare molto strutturato.

«C’è poi la “vice parroca” – continua padre Sandro -. Io dico la messa, animo, da dietro, ma la macchina va avanti grazie a lei. Questa signora è una vedova, insegnante in pensione, figlia di catechisti. Conosce bene il suo ruolo e il mio ruolo. Lei era già animatrice quando sono arrivato io, poi abbiamo fatto le elezioni due volte, ed è sempre stata rieletta.

Quando ci sono problemi, io sono sempre uno straniero, la lingua la conosco poco. Lei va e cerca di risolvere. Devo dire che in questo quartiere ho trovato persone che avevano già un’esperienza profonda di vita cristiana. E questo è stato fondamentale».

«Ci sono tante attività: le formazioni, poi l’esame dei catecumeni, oppure fanno la maglietta per la tale festa. E non mi chiedono mai un centesimo. A livello economico facciamo la colletta la domenica e la raccolta all’offertorio. Abbiamo due persone incaricate dei soldi. È un sistema molto trasparente, non mi preoccupo».

È un tipo di organizzazione che padre Sandro aveva già visto altrove in Mozambico, ma che funziona solo se ci sono le persone giuste. Lo ha messo in piedi in questa nuova parrocchia.

«Si tratta di una chiesa ministeriale. Ovviamente organizziamo formazioni, ogni mese per i catechisti. È sempre importante formarli, motivarli. Faccio venire persone da altre parrocchie, come quella dei Comboniani, oppure mando i miei parrocchiani a formare i loro».

Inoltre, «Quando viene il vescovo per celebrazioni varie, a pranzo è invitato nella casa di qualcuno. Così conosce le persone. È meglio questo metodo rispetto a fare grandi pranzi in parrocchia. E costa di meno.

Abbiamo fatto anche l’asilo infantile, con 70 bambini. C’è la casa delle suore di San Vincenzo de Paoli, con 120 bambini orfani. Da loro mangiano, fanno i compiti, si lavano. Poi vanno a scuola e la sera a casa».

Faedi padre Sandro

Il missionario deve partire

Padre Sandro ha dovuto lasciare la parrocchia l’anno scorso: «La parrocchia era matura. Lasciarla non è stata la mia volontà, ma quella dei superiori. Ho trascorso quattro anni con quella comunità. Sono partito con molta tristezza. È molto doloroso, perché, per i missionari, andare via dalla missione vuole dire non tornare più. Non sei un funzionario, che fai andare avanti la macchina e quando hai finito vai a casa. La parrocchia è la nostra famiglia, la gente sono i nostri figli e figlie. Con molti di loro continuo a scrivermi».

Oggi il parroco è un sacerdote diocesano. «Ho detto alla gente: guai a voi se dite padre Sandro faceva, padre Sandro diceva. Avete il consiglio parrocchiale, direte: “Padre noi facciamo così ma ci dica lei come la pensa”».

Bisogna sempre avere il dubbio, dice il missionario, «soprattutto quando vai in un paese nuovo, ogni gruppo etnico ha una cultura diversa. Magari tu fai bene per una cultura, ma non per l’altra.

Ad esempio, a Tete la cultura di base è Niungwe, ma una parte sono Chewa che vengono da fuori. Questi ultimi hanno una cultura forte, con un cristianesimo antico e radicato. I loro canti sono bellissimi, mentre quelli niungwe sono più poveri. Ma bisogna fare i canti di tutti i gruppi etnici».

La Chiesa che fa belli

«Cosa ho fatto io a Tete? Il missionario deve promuovere lo sviluppo, annunciare il Vangelo per rendere più felice la vita oggi in attesa di una vita ancora più felice domani. Mi sono preoccupato perché ci fosse il pane per i poveri, un luogo per i bambini orfani. Ma noi perché facciamo la chiesa? Perché la Chiesa fa più belle le persone. Noi in Europa siamo già tutti belli, abbiamo un cristianesimo che da duemila anni ci sta alimentando, è la nostra linfa. Il mondo africano era molto segnato da paganesimo, divisioni e tribalismi. In questo contesto annunciamo il Vangelo che dice: siamo tutti fratelli, dobbiamo fare il bene, dobbiamo essere onesti, santi, preoccuparci per gli altri, quelli che non sono della tua etnia, i tuoi vicini.

Io dico, quando siamo in chiesa, siamo in un salone di bellezza. Con Gesù nel cuore, ogni domenica, la sua Parola ci fa più belli, ci fa migliori. Andiamo a casa, non posso essere il marito arrogante, maltrattare mia moglie. Non posso essere la donna pettegola che va in giro e non fa da mangiare. Neppure il ragazzo disobbediente. Se sono impiegato sarò il migliore impiegato. Il cristianesimo ci fa belli dentro.

Il contributo della Chiesa è fare belle le persone. Domani avremo una società migliore se le persone sono più belle. Cosa è che ci fa soffrire? Quando manca da mangiare? No, quando ci maltrattiamo, quando siamo ingiusti, quando i figli sono ribelli, quando si tradiscono le relazioni. Noi ci ammaliamo per il male che abbiamo, Gesù ci salva dentro. La ricchezza di un Paese non è la ricchezza economica. Non è la ricchezza materiale che ci fa felici, ma è una società di persone coscienti di un dovere civico, che comincia da se stessi.

Il male di fuori viene da dentro. Noi non facciamo il miracolo della prosperità, ma questa è la Chiesa della bellezza. Qui dentro la gente viene per essere più bella. È il brutto che si abbellisce.

Io ho cercato di fare capire questo alla mia gente».

Marco Bello

padre Sandro con due giovani sposi della comunità.




Le «armi dei piccoli»


L’iniziativa di un missionario porta a nuovi orizzonti. Trova subito le condizioni per una missione «ad gentes». Poi la presenza si espande. Ma la crisi socio economica in cui versa oggi il Paese interroga.

L’esperienza dell’Istituto Missioni Consolata in Venezuela comincia nel 1971, grazie all’iniziativa di padre Giovanni Vespertini.

Vespertini era in missione in Colombia ma, stanco e in difficoltà, decise di recarsi in Venezuela e prendere contatti con alcuni vescovi. La risposta dell’episcopato del Paese fu molto positiva, tanto da indurre i missionari della Consolata della Regione Colombia a inviare altri sacerdoti e stabilire una comunità nella diocesi di Trujillo. Erano i primi anni dopo il Concilio Vaticano II, quando, su suggerimento del Capitolo del 1969, ovunque nell’istituto si studiavano possibilità di aprire nuovi campi di lavoro missionario, attraverso la costituzione di piccoli gruppi.

I superiori accolsero la proposta della Colombia e nel 1974 iniziarono a inviare personale. Tra i primi ci fu padre Francesco Babbini, che sarebbe rimasto un missionario emblematico del Venezuela.

Una prima riflessione che sorge è che, talvolta, le nuove aperture in Paesi sconosciuti sono fatte dopo grandi discernimenti, ma non sempre. Altre volte, invece, l’indicazione te la dà la vita, un qualche malessere, il bisogno di andare altrove. E ancora, spesso aspettiamo sconvolgimenti e cambiamenti fatti da masse, ma la storia ci insegna che a volte basta una persona che crede in qualcosa, e che inizi a fare dei passi, e da lì cambiano le cose.

Popoli indigeni e afro

Nel 1982 la presenza di Imc in Venezuela assunse il nome di Delegazione e fu dedicata alla vergine di Corogoto.

Come istituto ad gentes, l’opzione fu da subito quella dei popoli indigeni. Così le prime missioni furono nella Guajira, la striscia di terra al confine con la Colombia, nelle tre comunità di Guarero, Paraguaipoa, Sinamaica. Il lavoro dei missionari diede vita a numerose piccole comunità.

Terminata quell’esperienza una decina di anni dopo, i missionari furono sollecitati per una nuova missione tra i Warao, il popolo delle canoe, nel delta dell’Orinoco. Iniziato negli anni 2000, il lavoro tra loro continua ancora oggi.

Il secondo pilastro dell’intervento Imc in Venezuela è l’accompagnamento degli afrodiscendenti. Nel 1986 fu aperta, tra queste popolazioni, una comunità a Barlovento. Occorre dire che gli afrodiscendenti del Venezuela sono piuttosto diversi da altri con cui i missionari lavorano in America Latina.

Qui è difficile ricavare qualcosa, essere significativi, anche dopo tanti anni di presenza. In Colombia, ad esempio, gli afro portano avanti una ricerca identitaria, culturale. In Venezuela si tratta di gruppi che vivono in zone periferiche. Esercitano il controllo del territorio e, con le loro bande, fanno entrare solo chi vogliono. La situazione è dura. Sono quasi gettizzati. Si fa fatica a riunirli e a camminare con loro. Gli sforzi di promozione umana sono difficili. È un terreno abbastanza arido.

Il merito dell’istituto è quello di essere lì con continuità da 40 anni a condividere un cammino missionario fatto di quotidianità.

Quartiere di Carapita, periferia di Caracas

Con gli ultimi delle periferie

Dal 1999, inoltre, i missionari si interessarono anche alle periferie povere delle grandi città. Così nacque l’accompagnamento della comunità di Carapita. Si tratta di una baraccopoli formata da un impressionante alveare di mattoni, lamiere e cartoni, dove le abitazioni poggiano l’una sull’altra, fino a raggiungere la sommità della collina. Le strade, poche e strette, si inerpicano su per la montagna, tra strapiombi mozzafiato. In molti luoghi si può andare solo a piedi. Qui vivono 100mila persone soggette a ogni sorta di stenti e potenziali vittime di ogni tipo di violenza. Questo habitat pone svariate sfide al lavoro pastorale: mancanza di spazio per strutture parrocchiali; eterogeneità del tessuto umano quanto a provenienza e nazionalità; pochi i giovani che frequentano la chiesa; molta violenza, droga, assenteismo nelle iniziative pastorali.

L’ultimo pilastro della presenza Imc in Venezuela è l’animazione missionaria e vocazionale. Nacque presto, come naturale espressione del carisma missionario dell’istituto e come dono alla chiesa venezuelana. I frutti sono stati molteplici: vocazioni di speciale consacrazione al servizio della Chiesa locale e anche dell’istituto; laici che hanno accolto la dimensione missionaria dentro la loro specifica vocazione laicale nelle loro comunità cristiane, non disgiunta anche da servizi temporanei alle chiese dell’Africa; parrocchie e seminari sensibilizzati a un nuovo stile di evangelizzazione.

Il dubbio

Nel desiderio di recuperare l’ad gentes originario, fatto cioè di ricerca dei «non cristiani», alcuni missionari hanno iniziato, alcuni anni fa, a riflettere se fosse giunto il momento di lasciare il Paese per andare altrove.

Anche la crisi sociopolitica, oramai acuta nel Paese, portava in questa direzione.

La missione in Venezuela si era anche fatta una cattiva fama tra i nuovi missionari, per cui i seminaristi preferivano non andarci.

Proprio per queste difficoltà si è invece pensato che non era il momento di lasciare, ma piuttosto di rimanere come segno di consolazione. Questa si esprime anche attraverso a una comunità aperta. Come dimostra l’attività di accompagnare i poveri per le strade: c’è un gruppo di giovani che sabato e domenica vanno nei quartieri a portare cibo e consolazione agli abbandonati. È un’esperienza molto forte.

Nel 2018 i missionari presenti in Venezuela hanno scritto una lettera a tutti i confratelli nella quale ricordano la crisi che il Paese sta vivendo ma ribadiscono che «in Venezuela, la missione di consolazione e liberazione è oggi più necessaria che mai», e dichiarano: «Siamo disponibili ad accogliere qualsiasi giovane in formazione che desideri fare una esperienza missionaria in Venezuela e fare qui i suoi studi di specializzazione».

Voglio concludere citando una frase di san Francesco, che calza con la presenza «piccola», perché non numerosa, dei missionari della Consolata in Venezuela:

«Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? […] Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere a servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Stefano Camerlengo


La serie

 Le missionarie e i missionari della Consolata sono presenti in 35 paesi di quattro continenti: Africa, Americhe, Asia, Europa. È questa l’opera di san Giuseppe Allamano oggi, iniziata nel 1901 e tramandata da generazioni di donne e uomini che hanno raccolto la sfida. Questa serie è realizzata insieme alla rivista Andare alle genti, e al sito delle missionarie della Consolata. missionariedellaconsolata.org

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