

Israele-Palestina. Non ci sono più parole
Condividi:
«Cinquantamila sudari per Gaza», tanti quanti i morti palestinesi. Anche le manifestazioni si svolgono ormai senza parole. Basta un telo bianco appeso alle finestre o posto sulle spalle di chi manifesta. Cosa si può aggiungere a quanto si vede quotidianamente in diretta? Al numero dei morti – qualunque esso sia – provocato dalle azioni dell’Idf (Israel defense forces), va aggiunto quello delle vittime per fame. Perché, a Gaza, ormai si muore anche per mancanza di cibo.
Secondo il World food programme (Wfp) delle Nazioni Unite, tutta la popolazione della striscia (2,3 milioni di palestinesi) soffre di «una forte insicurezza alimentare», ma oltre mezzo milione sono letteralmente alla fame. La cosa più inconcepibile è che gli aiuti ci sarebbero, ma non arrivano a destinazione per gli ostacoli frapposti da Israele, come mostrano – ad esempio – le immagini delle centinaia di camion fermi in coda al valico di Rafah.

il «sudario», simbolo dei 50.000 morti palestinesi. Foto Paolo Moiola.

Al momento, una soluzione del conflitto sembra lontanissima, almeno finché il premier israeliano sarà Benjamin Netanyahu. Donald Trump osserva la situazione con il cinismo tipico del business man, mentre i leader europei paiono troppo deboli e divisi per prendere iniziative coraggiose. Quanto ai governi arabi sono «fratelli» dei palestinesi soltanto a parole.

Parlare di «genocidio» non è un atto di antisemitismo. Foto Paolo Moiola.
I politici e molti media usano l’accusa di antisemitismo per demonizzare chiunque si opponga o critichi il massacro genocida perpetrato da Netanyahu e dal suo governo di estremisti religiosi ebrei. Forse giocano sul fatto che la maggioranza delle persone non conosce la distinzione tra antisemitismo e antisionismo, quest’ultimo inteso «come la politica dello Stato di Israele», secondo la definizione della storica ebrea Anna Foa.
D’altra parte, fare silenzio significa avvallare l’impunità. Come ha scritto «The Lancet», la prestigiosa rivista medica inglese. «Ogni giorno, in media, a Gaza – si legge in un passaggio del suo editoriale del 24 maggio – vengono uccisi 35 bambini, per un totale di almeno 18.000 bambini uccisi in questo conflitto. Minori preadolescenti vengono ricoverati con ferite da arma da fuoco. Bambini muoiono di malnutrizione cronica e quelli che sopravvivono potrebbero non riprendersi mai completamente. Gaza ospita anche la più grande comunità di bambini amputati della storia moderna. Oltre alle ferite fisiche, il trauma psicologico di vedere le proprie case distrutte e le proprie famiglie uccise lascerà cicatrici indelebili. Le conseguenze di tale distruzione si faranno sentire per le generazioni future. Per troppo tempo, il governo israeliano ha agito nell’impunità».
Si dice: quello israeliano è l’unico governo democratico della regione. Forse è stato così. Da tempo, però, il verbo va coniugato al passato. «Ogni mattina mi sveglio con un peso insostenibile: il dolore per la mia patria, per i prigionieri, per la popolazione di Gaza. E una vergogna che mi consuma per i crimini commessi in mio nome» ha scritto su «Repubblica» Ariel Bernstein, un ex soldato dell’Idf divenuto un attivista della pace. Quanti sono gli israeliani che si sentono come Ariel Bernstein?
Paolo Moiola