Le «armi dei piccoli»


L’iniziativa di un missionario porta a nuovi orizzonti. Trova subito le condizioni per una missione «ad gentes». Poi la presenza si espande. Ma la crisi socio economica in cui versa oggi il Paese interroga.

L’esperienza dell’Istituto Missioni Consolata in Venezuela comincia nel 1971, grazie all’iniziativa di padre Giovanni Vespertini.

Vespertini era in missione in Colombia ma, stanco e in difficoltà, decise di recarsi in Venezuela e prendere contatti con alcuni vescovi. La risposta dell’episcopato del Paese fu molto positiva, tanto da indurre i missionari della Consolata della Regione Colombia a inviare altri sacerdoti e stabilire una comunità nella diocesi di Trujillo. Erano i primi anni dopo il Concilio Vaticano II, quando, su suggerimento del Capitolo del 1969, ovunque nell’istituto si studiavano possibilità di aprire nuovi campi di lavoro missionario, attraverso la costituzione di piccoli gruppi.

I superiori accolsero la proposta della Colombia e nel 1974 iniziarono a inviare personale. Tra i primi ci fu padre Francesco Babbini, che sarebbe rimasto un missionario emblematico del Venezuela.

Una prima riflessione che sorge è che, talvolta, le nuove aperture in Paesi sconosciuti sono fatte dopo grandi discernimenti, ma non sempre. Altre volte, invece, l’indicazione te la dà la vita, un qualche malessere, il bisogno di andare altrove. E ancora, spesso aspettiamo sconvolgimenti e cambiamenti fatti da masse, ma la storia ci insegna che a volte basta una persona che crede in qualcosa, e che inizi a fare dei passi, e da lì cambiano le cose.

Popoli indigeni e afro

Nel 1982 la presenza di Imc in Venezuela assunse il nome di Delegazione e fu dedicata alla vergine di Corogoto.

Come istituto ad gentes, l’opzione fu da subito quella dei popoli indigeni. Così le prime missioni furono nella Guajira, la striscia di terra al confine con la Colombia, nelle tre comunità di Guarero, Paraguaipoa, Sinamaica. Il lavoro dei missionari diede vita a numerose piccole comunità.

Terminata quell’esperienza una decina di anni dopo, i missionari furono sollecitati per una nuova missione tra i Warao, il popolo delle canoe, nel delta dell’Orinoco. Iniziato negli anni 2000, il lavoro tra loro continua ancora oggi.

Il secondo pilastro dell’intervento Imc in Venezuela è l’accompagnamento degli afrodiscendenti. Nel 1986 fu aperta, tra queste popolazioni, una comunità a Barlovento. Occorre dire che gli afrodiscendenti del Venezuela sono piuttosto diversi da altri con cui i missionari lavorano in America Latina.

Qui è difficile ricavare qualcosa, essere significativi, anche dopo tanti anni di presenza. In Colombia, ad esempio, gli afro portano avanti una ricerca identitaria, culturale. In Venezuela si tratta di gruppi che vivono in zone periferiche. Esercitano il controllo del territorio e, con le loro bande, fanno entrare solo chi vogliono. La situazione è dura. Sono quasi gettizzati. Si fa fatica a riunirli e a camminare con loro. Gli sforzi di promozione umana sono difficili. È un terreno abbastanza arido.

Il merito dell’istituto è quello di essere lì con continuità da 40 anni a condividere un cammino missionario fatto di quotidianità.

Quartiere di Carapita, periferia di Caracas

Con gli ultimi delle periferie

Dal 1999, inoltre, i missionari si interessarono anche alle periferie povere delle grandi città. Così nacque l’accompagnamento della comunità di Carapita. Si tratta di una baraccopoli formata da un impressionante alveare di mattoni, lamiere e cartoni, dove le abitazioni poggiano l’una sull’altra, fino a raggiungere la sommità della collina. Le strade, poche e strette, si inerpicano su per la montagna, tra strapiombi mozzafiato. In molti luoghi si può andare solo a piedi. Qui vivono 100mila persone soggette a ogni sorta di stenti e potenziali vittime di ogni tipo di violenza. Questo habitat pone svariate sfide al lavoro pastorale: mancanza di spazio per strutture parrocchiali; eterogeneità del tessuto umano quanto a provenienza e nazionalità; pochi i giovani che frequentano la chiesa; molta violenza, droga, assenteismo nelle iniziative pastorali.

L’ultimo pilastro della presenza Imc in Venezuela è l’animazione missionaria e vocazionale. Nacque presto, come naturale espressione del carisma missionario dell’istituto e come dono alla chiesa venezuelana. I frutti sono stati molteplici: vocazioni di speciale consacrazione al servizio della Chiesa locale e anche dell’istituto; laici che hanno accolto la dimensione missionaria dentro la loro specifica vocazione laicale nelle loro comunità cristiane, non disgiunta anche da servizi temporanei alle chiese dell’Africa; parrocchie e seminari sensibilizzati a un nuovo stile di evangelizzazione.

Il dubbio

Nel desiderio di recuperare l’ad gentes originario, fatto cioè di ricerca dei «non cristiani», alcuni missionari hanno iniziato, alcuni anni fa, a riflettere se fosse giunto il momento di lasciare il Paese per andare altrove.

Anche la crisi sociopolitica, oramai acuta nel Paese, portava in questa direzione.

La missione in Venezuela si era anche fatta una cattiva fama tra i nuovi missionari, per cui i seminaristi preferivano non andarci.

Proprio per queste difficoltà si è invece pensato che non era il momento di lasciare, ma piuttosto di rimanere come segno di consolazione. Questa si esprime anche attraverso a una comunità aperta. Come dimostra l’attività di accompagnare i poveri per le strade: c’è un gruppo di giovani che sabato e domenica vanno nei quartieri a portare cibo e consolazione agli abbandonati. È un’esperienza molto forte.

Nel 2018 i missionari presenti in Venezuela hanno scritto una lettera a tutti i confratelli nella quale ricordano la crisi che il Paese sta vivendo ma ribadiscono che «in Venezuela, la missione di consolazione e liberazione è oggi più necessaria che mai», e dichiarano: «Siamo disponibili ad accogliere qualsiasi giovane in formazione che desideri fare una esperienza missionaria in Venezuela e fare qui i suoi studi di specializzazione».

Voglio concludere citando una frase di san Francesco, che calza con la presenza «piccola», perché non numerosa, dei missionari della Consolata in Venezuela:

«Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? […] Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere a servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Stefano Camerlengo


La serie

 Le missionarie e i missionari della Consolata sono presenti in 35 paesi di quattro continenti: Africa, Americhe, Asia, Europa. È questa l’opera di san Giuseppe Allamano oggi, iniziata nel 1901 e tramandata da generazioni di donne e uomini che hanno raccolto la sfida. Questa serie è realizzata insieme alla rivista Andare alle genti, e al sito delle missionarie della Consolata. missionariedellaconsolata.org

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