Il sistema economico è cambiato. Lo sanno bene Stati Uniti e Cina, le due prime potenze mondiali. L’Unione europea è impreparata e rischia l’irrilevanza. Per questo ha chiesto aiuto a Mario Draghi. Tuttavia, le proposte da lui formulate sono deludenti e vecchie.
Il capitalismo è uno solo per i fini perseguiti, ma è plurimo per le modalità di attuazione. A determinarne la forma sono le circostanze rappresentate dalla dimensione delle imprese, i valori dominanti all’interno della società, la volontà e la capacità di pressione popolare, la situazione ambientale, i rapporti internazionali. Agli albori del capitalismo, quando la rivoluzione industriale muoveva i primi passi, la filosofia capitalista non incontrò ostacoli: si affermò il capitalismo selvaggio del lavoro minorile, del colonialismo, delle guerre di sopraffazione. Dopo la grande crisi del 1929 ci fu un sussulto di valori sociali e, grazie a economisti come John Maynard Keynes (1883-1946), si affermò la convinzione di dover conciliare il profitto con obiettivi come la piena occupazione, la garanzia di una certa sicurezza per tutti, l’indipendenza politica di ogni popolo. Un periodo di grazia che durò fino agli anni Ottanta del secolo scorso, allorché lo spirito mercantilista più radicale ebbe di nuovo il sopravvento e iniziò l’epoca neoliberista.
Intanto in tutti i paesi industrializzati si erano affermate imprese di dimensione globale che, a fine secolo, pretesero la riscrittura delle regole mondiali per trasformare il mondo intero in un unico grande mercato, un unico spazio produttivo, un’unica piazza finanziaria.
Cominciò l’era della globalizzazione che, fra i suoi effetti, ebbe anche l’emergere di nuove potenze mondiali come Cina, India, Russia, Brasile, Sudafrica, riunite nei Brics. Potenze prima avvertite come necessarie, poi come minacce.
Nello stesso periodo si affermò una nuova rivoluzione tecnologica, quella informatica, mentre vennero al pettine tutti i guasti ambientali provocati da un sistema economico che, in nome della crescita, non si è mai preoccupata dei limiti del pianeta.
Arriviamo così ai giorni nostri caratterizzati da un ripensamento della globalizzazione, da un ritrovato desiderio di protezionismo per difendersi dall’espansione altrui, da un rigurgito di nazionalismi e di guerre di sopraffazione, dalla necessità di riorganizzare gli assetti produttivi nell’illusione di poter continuare a espandere produzione e consumi senza provocare ulteriore degrado ambientale.
In termini di potenze economiche, i paesi che hanno dominato la scena nel primo scorcio del 21° secolo sono stati Cina e Stati Uniti che si contendono la supremazia tecnologica a suon di brevetti, mentre usano l’arma doganale per ostacolare l’ingresso delle reciproche mercanzie. Recentemente sia l’una che gli altri hanno aggiunto sovvenzioni governative alle imprese per promuovere l’espansione produttiva in settori strategici come i semiconduttori e le energie alternative. Politiche andate a segno dal momento che entrambi hanno registrato crescite significative in termini di prodotto interno lordo e di investimenti.
Il declino dell’Europa
Chi invece è rimasta al palo è stata l’Unione europea che ora – ancora di più dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump – è terrorizzata non solo di perdere terreno nell’arena internazionale, ma addirittura di andare verso il declino.
Grida di allarme lanciate da tutte le più grandi rappresentanze industriali. Tra esse, la European round table, il forum in cui siedono gli amministratori delegati delle prime sessanta imprese operanti in Europa, che – a dimostrare quanto la situazione sia grave – riporta i dati relativi alla produzione industriale mondiale: se nel 2000 il contributo dell’Europa ammontava al 25 per cento, nel 2020 era sceso al 16,3 per cento.
Lamenti ascoltati dalla Commissione europa che, nel settembre 2023, ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sullo stato della concorrenza dell’industria europea. Che tradotto significa capire i motivi per cui l’industria della Ue sta perdendo terreno e individuare i passi per farle riprendere quota.
Draghi è stato veloce: sei mesi dopo aveva il rapporto già pronto ma, non volendo interferire con le elezioni, ha atteso settembre per annunciare i propri risultati.
Del resto sul tema molto era stato già scritto, in particolare da parte del mondo imprenditoriale che, a detta di una trentina di Organizzazioni non governative, ha lavorato a stretto contatto con Draghi per la stesura del rapporto. Protesta, quella delle Ong, contenuta in una lettera aperta in cui si lamenta scarsa trasparenza e rapporti di collaborazione quasi esclusivi con le rappresentanze imprenditoriali. Se ci fosse stato il coinvolgimento delle organizzazioni sociali e ambientali, forse certe proposte non avrebbero trovato accoglienza.
Certo, tutti sanno che le strategie per sopravvivere e anzi farsi spazio nel mercato globale sono tematiche tutte interne alla logica capitalista, per cui sarebbe stato da ingenui aspettarsi un rapporto dai contenuti rivoluzionari. Specie quando a scriverlo è un personaggio come Draghi da sempre custode del sistema. Ma certe proposte hanno fatto sobbalzare anche i più ortodossi.
Lo Stato no, i privati sì?
Complessivamente il rapporto Draghi, titolato «Il futuro della competitività europea», è composto da 400 pagine distribuite in due volumi: la parte A che offre una sintesi delle conclusioni raggiunte e la parte B che entra nei dettagli dei singoli temi e settori.
Fra i settori analizzati e fatti oggetto di proposte c’è anche quello dei minerali rari, delle industrie ad alte emissioni di anidride carbonica, del riciclo, delle energie pulite, dell’intelligenza artificiale, della farmaceutica, perfino dell’industria bellica e aerospaziale.
Benché il rapporto Draghi avanzi 170 proposte, la filosofia da cui queste derivano è un condensato di pochi elementi: crescita, innovazione, dinamismo, riduzione e ottimizzazione dei costi di produzione, approvvigionamento di materie prime in maniera sicura e a buon mercato, alta disponibilità finanziaria, sicurezza militare.
A partire da questi principi il rapporto formula proposte per ogni ambito e settore. Nel caso delle telecomunicazioni, ad esempio, indica la necessità di innovare investendo nella fibra ottica e nel 5G.
Ma il problema, secondo il rapporto, è che il settore è affollato da troppe imprese di piccole dimensioni.
In Europa i gruppi dediti alla telefonia mobile sono 34 contro tre degli Stati Uniti e quattro della Cina. Una frammentazione che dà come risultato un ammontare di investimenti di gran lunga inferiore rispetto agli altri due paesi. La conclusione di Draghi è che anche in Europa bisogna favorire la nascita di mega colossi tramite fusioni e acquisizioni. Il tutto in barba all’idea fin qui inseguita che i monopoli sono pericolosi, motivo per cui negli anni Novanta venne imposta in tutta Europa la privatizzazione di quelli di Stato dediti alla telefonia e all’energia. Avallare oggi i monopoli privati sarebbe una beffa e la dimostrazione che il vero obiettivo delle privatizzazioni non era la concorrenza, ma espropriare lo Stato della sua funzione sociale.
Il rapporto raccomanda un processo di concentrazione anche nel settore della produzione bellica, che in Europa ha un giro d’affari di 135 miliardi di euro. A tale scopo porta come esempio gli Stati Uniti che, dal 1990 a oggi, hanno ridotto il numero di imprese belliche di carattere strategico da 51 a 5. E, per non dare spazio ai concorrenti esteri, Draghi chiede ai paesi dell’Unione europea di programmare insieme gli acquisti di materiale bellico privilegiando le forniture dalle imprese europee. Ma al di là delle proposte specifiche, sorprende che un rapporto sulla concorrenza si occupi anche di produzione di armi dal momento che, in termini di valore economico, rappresenta appena il 2,5% del totale della produzione industriale europea. La risposta di Draghi è militare più che economica: «L’Unione europea proviene da decenni di bassa spesa militare, bassi investimenti nell’industria bellica e basse riserve di magazzino. Ma oggi la sicurezza alle sue frontiere è radicalmente cambiata per cui deve dotarsi di un piano per rafforzare gli investimenti nella difesa in modo da raggiungere una vera indipendenza strategica e aumentare la sua influenza geopolitica a livello globale».
Un’ulteriore conferma di come economico e militare siano profondamente intrecciati fra loro.
Fra i motivi per cui l’industria europea sta perdendo terreno, il rapporto Draghi ne sottolinea un paio: costi energetici elevati (come conseguenza della riduzione di gas proveniente dalla Russia) e incapacità di produrre internamente semiconduttori, batterie al litio e altri prodotti strategici per l’innovazione tecnologica. Due strozzature che l’Europa deve risolvere insieme a un terzo elemento di crisi che non è solo suo, ma dell’intera umanità: i cambiamenti climatici che impongono l’abbattimento dell’anidride carbonica.
Chi paga?
Un insieme di problematiche che, secondo Draghi, richiedono investimenti massicci, addirittura dell’ordine di 800 miliardi di dollari, per un numero indefinito di anni.
Ma chi paga? Il rapporto Draghi non lo precisa, ma fa capire che il peso deve essere ripartito fra sfera pubblica e sfera privata. Tant’è che formula proposte per permettere a entrambe di reperire i fondi necessari.
Per quanto riguarda i governi, Draghi avrebbe potuto proporre una tassa straordinaria sui più ricchi. Invece ha ripiegato sulla formula classica del debito con l’unica novità di farlo non individualmente, ma collettivamente, in quanto Unione europea, come già successo per il finanziamento del Next generation Eu attualizzato in Italia sotto la sigla Pnrr.
Il debito contratto dall’intera Unione europea ha il vantaggio di costare meno perché quando il prestito è chiesto da un’entità ritenuta solida, questa riesce a spuntare interessi più bassi. Ma quando arriverà il momento di restituirlo, tutti i paesi membri dovranno frugarsi in tasca, e quelli più deboli si comporteranno come sempre, ossia faranno cassa tagliando le spese, in particolare quelle a beneficio dei più poveri.
I fondi pensione
Venendo alle imprese, Draghi segnala che una difficoltà incontrata in Europa è la scarsità di capitali fuori dal circuito bancario. Fa anche notare che una delle realtà non bancarie che più investe nelle imprese è rappresentata dai fondi pensione, per cui sollecita il loro potenziamento.
Il che apre degli interrogativi sul perché si insiste tanto per demolire la previdenza pubblica. Ci è stato detto che la ragione è l’inefficienza della macchina pubblica e il peso eccessivo delle pensioni che fa indebitare lo Stato. Ma, alla luce delle parole di Draghi, viene il sospetto che la verità sia un’altra: ossia che si voglia spostare le pensioni dal pubblico al privato per fare un regalo di peso alle imprese private.
La dominanza del «meno»
Per favorire la competitività delle imprese, Draghi insiste molto anche sulle regole. Oltre a raccomandare di alleggerire il carico fiscale sulle imprese e di snellire le procedure di accesso a benefici e permessi, il rapporto raccomanda anche di ridurre gli obblighi a loro carico.
Fra questi cita espressamente una disposizione appena introdotta dal Parlamento europeo. Si tratta dell’obbligo di sorveglianza del rispetto dei diritti umani, tecnicamente definita due diligence, imposto alle multinazionali con fatturato annuo superiore ai 450 milioni di euro. Draghi cita quest’obbligo, assieme ad altri di natura ambientale e sociale, come esempi concreti di costi che sovraccaricano le imprese.
A questo punto, la domanda che occorre farsi è: dove finisce l’Europa attenta ai diritti, che abbiamo sempre detto di voler costruire, se anteponiamo la concorrenza ai diritti umani e all’ambiente?
Francesco Gesualdi