India. Modi, l’autocrate induista

 

Con 1,4 miliardi di persone l’India è il paese più popoloso al mondo. Un paese in rapida crescita economica e politica, dal 2014 guidato con mano ferma da Narendra Modi. Per la sua abilità a muoversi su fronti opposti, il primo ministro indiano può essere paragonato a Recep Erdoğan. E, come il presidente turco, Modi utilizza la religione – nel suo caso, l’induismo – per consolidare il proprio potere. Il primo ministro ha gioco facile essendo il leader del «Bharatiya janata party» (Bjp), partito della destra nazionalista e induista, che detiene solide maggioranze in entrambe le camere del Parlamento indiano.

Nel paese gli induisti sono circa l’80 per cento del totale, i musulmani il 14 per cento e i cristiani il 2,3 per cento. Da anni i cristiani – circa 30 milioni, concentrati soprattutto nel Kerala e nel Tamil Nadu – sono oggetto costante di violenze e attacchi. Nel maggio 2023, soltanto nello stato di Manipur (India del Nordest) sono state distrutte 249 chiese.

Per i musulmani – che comunque sono circa 200 milioni (la più consistente minoranza religiosa al mondo) – non va meglio. Anzi, le discriminazioni nei loro confronti iniziarono già nel 1947, quando l’Impero britannico divise il subcontinente indiano nell’India (a maggioranza induista) e nel Pakistan (a maggioranza islamica), quest’ultimo nel 1971 scissosi dalla sua parte orientale divenuta Bangladesh (anch’essa islamica).

A fine luglio 2023, ci sono stati gravi incidenti tra induisti e musulmani nello stato di Haryana (India settentrionale). Il risultato è stata la distruzione di circa 1.200 tra case e negozi appartenenti alla minoranza islamica.

La Costituzione indiana parla della libertà di religione negli articoli dal 25 al 28. In particolare, l’articolo 25 afferma: «[…] tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e al diritto di professare, praticare e diffondere liberamente la religione». Nonostante questo, l’ultimo attacco alla parità sancita dalla carta costituzionale arriva da una norma dello Stato, il «Citizenship amendment act», legge approvata nel dicembre 2019, ma entrata in vigore soltanto in questo mese di marzo. Essa prevede una corsia preferenziale verso la naturalizzazione per indù, parsi, sikh, buddisti, giainisti e cristiani fuggiti in India da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan prima del 31 dicembre 2014. La legge esclude i musulmani, che sono maggioranza in tutte e tre le nazioni.

La presidente dell’India è Droupadi Murmu, donna di etnia Santhal. La carica è altisonante, ma il potere effettivo è inconsistente. Il paese è saldamente nelle mani di Narendra Modi che, a partire dal 19 aprile, cercherà di ottenere il suo terzo mandato. Come sempre accade per gli autocrati, il successo è assicurato.

Paolo Moiola




Pakistan. L’eredità di Bhatti, difensore delle minoranze

 

Sono passati tredici anni dall’assassino del ministro per le Minoranze del Pakistan Shahbaz Bhatti che difendeva i cristiani e le altre persone discriminate nel suo paese. Parla il fratello Paul Bhatti che oggi ne ha preso l’eredità.

«Shahbaz ci manca, ma il suo messaggio è arrivato in tutto il mondo e il suo sacrificio ha portato tanti frutti», ci dice Paul Bhatti, fratello del ministro per le Minoranze del Pakistan ucciso il 2 marzo del 2011 per la sua azione di difesa delle persone discriminate del suo Paese. A partire dalla sua comunità: quella cristiana.

Oggi Paul, medico che vive tra l’Italia e il Pakistan, ne ha assunto la difficile eredità.

Lo abbiamo incontrato l’11 marzo scorso al Senato della Repubblica italiana in occasione di un evento dedicato proprio all’opera di Shahbaz Bhatti a tredici anni dalla morte.

«II Pakistan è un Paese che ha avuto, e che ancora ha, gravi problemi dal punto di vista economico, sociale e politico – sottolinea Paul Bhatti -. Per quanto riguarda la libertà religiosa e l’integrazione delle persone più emarginate, i problemi restano, ma molto è stato fatto da Shahbaz. È quanto riconoscono in Pakistan ma anche a livello internazionale. La sua perdita ci ha fatto soffrire, mio fratello Shahbaz ci manca. Però il messaggio che è stato percepito a livello nazionale in Pakistan e anche internazionale in qualche modo ha ridotto questa sofferenza. Ci dà sollievo che il suo sacrificio in qualche modo non è stato vano».

Paul racconta quanto la perdita del fratello abbia inciso sulla sua vita personale: «Io facevo il medico in Italia, ero contento. Lui mi diceva sempre: “Devi tornare in Pakistan, anche qui ci sono gli ospedali”. Io gli rispondevo: “Ma tu vuoi che io passi dal paradiso all’inferno…”. E invece con la sua morte ho capito che dovevo tornare e fare qualcosa per il mio Paese».

Parla dei suoi incontri per pacificare il Pakistan: «Nei giorni scorsi ho avuto un incontro con politici, leader religiosi musulmani, vescovi cattolici. Tutti riconoscevano quanto fatto da Shahbaz e questo mi dà sostegno e coraggio.

Dopo la morte di mio fratello – confida – ho avuto alti e bassi. Però ci sono state anche grandi soddisfazioni. Prima mi ero limitato al mio lavoro in campo medico e alla famiglia. Ora sono esposto al mondo intero e spesso non riesco a credere a quante persone ritengono importante il messaggio di fratellanza e di pace di Shahbaz».

Paul Bhatti nel corso di questi anni ha incontrato più volte Papa Francesco ed è in stretto collegamento con la Segreteria di Stato vaticana per portare avanti le sue iniziative.

Per Shahbaz Bhatti, che aveva scelto la via politica per difendere gli ultimi del suo Paese e ha pagato con la vita il suo impegno, è in corso il processo di beatificazione. «La fede è stata fondamentale. Lavorare in Pakistan parlando contro determinate leggi, come quella sulla blasfemia, e contro alcune ideologie fondamentaliste, comporta dei rischi. Lui con grande coraggio ha affrontato questi temi. Noi, in famiglia, quando ha cominciato, eravamo tutti terrorizzati. Non riuscivamo a capire da dove gli arrivava questo coraggio, poi abbiamo capito – dice Paul Bhatti – che la sua fede era talmente forte che non aveva paura».

Shahbaz, infatti, diceva che «lui aveva scelto di seguire Gesù Cristo e che non faceva altro che quello che Lui gli aveva insegnato».

Manuela Tulli




Missionari martiri. I molti Romero

 

Il 24 marzo la Chiesa italiana celebra la giornata dei missionari martiri. Secondo il rapporto annuale di Fides nel 2023 sarebbero stati 20 quelli uccisi mentre erano impegnati nell’annuncio in contesti difficili. Le loro storie di «cristiani normali» sono la testimonianza della presenza viva del Vangelo tra gli ultimi.

Sono le 21 del 29 marzo 2023. Fratel Moses Simukonde Sens, 35 anni, viene ucciso da un proiettile nei pressi di un posto di blocco militare a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.

Originario dello Zambia e attivo dal 2016 prima in Niger e poi in Burkina Faso, fratel Moses, membro dei Missionari d’Africa (padri Bianchi) è uno dei venti «battezzati impegnati nella vita della Chiesa morti in modo violento» nel 2023 censiti dal rapporto annuale di Fides, l’agenzia di stampa delle Pontificie opere missionarie.

Gli altri diciannove sono un vescovo, otto sacerdoti, un altro religioso non sacerdote, un seminarista, un novizio e sette tra laici e laiche. «Quest’anno il numero più elevato torna a registrarsi in Africa – scrive Stefano Lodigiani, curatore del rapporto -, dove sono stati uccisi nove missionari: cinque sacerdoti, due religiosi, un seminarista, un novizio. In America sono stati assassinati sei missionari: un vescovo, tre sacerdoti, due laiche. In Asia […] quattro laici e laiche. Infine in Europa è stato ucciso un laico».

Il rapporto di Fides sottolinea che la normalità di vita è l’elemento che accomuna tutte le vittime: nessuna azione eclatante o impresa fuori del comune che avrebbero potuto farle entrare nel mirino di qualcuno. «Scorrendo le poche note sulla circostanza della loro morte violenta troviamo sacerdoti che stavano andando a celebrare la Messa o a svolgere attività pastorali in qualche comunità lontana; aggressioni a mano armata perpetrate lungo strade trafficate; assalti a canoniche e conventi dove erano impegnati nell’evangelizzazione, nella carità, nella promozione umana. Si sono trovati a essere, senza colpa, vittime di sequestri, di atti di terrorismo, coinvolti in sparatorie o violenze di diverso tipo».

Giornata di preghiera

Per ricordare questi venti missionari, ma anche tutti i cristiani, cattolici e di altre confessioni, che nel mondo ogni anno perdono la vita mentre testimoniano la fede in Cristo, la Chiesa italiana celebra il 24 marzo la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.

Istituita nel 1992 su proposta Movimento giovanile delle Pontificie opere missionarie, ora Missio Giovani, si è deciso di celebrarla nel giorno dell’anniversario dell’uccisione, nel 1980, di monsignor Oscar Romero in Salvador: un difensore degli oppressi, assassinato dagli oppressori.

La giornata è l’occasione per ricordare tutte le situazioni difficili nelle quali i cristiani, laici e consacrati, comunicano il Vangelo, spesso tramite la promozione umana, la difesa dei diritti degli ultimi, la tutela dell’ambiente.

Online, sul sito di missioitalia.it si possono trovare diversi strumenti per celebrarla. Tra essi, anche una scheda di presentazione di un progetto missionario che i Missionari della Consolata hanno attivato in Marocco nella missione di Oujda per soccorrere i migranti che transitano attraverso il confine tra Algeria e Marocco con il sogno di arrivare in Europa.

Luca Lorusso




Somalia ed Eritrea: sempre più amiche

 

Somalia ed Eritrea sono sempre più amiche. La loro alleanza si è fatta, negli ultimi anni, sempre più solida, suggellata da un ottimo rapporto personale tra i due presidenti, l’eritreo Isaias Afwerki e il somalo Hassan Sheikh Mohamud.

Domenica scorsa i due leader si sono visti ad Asmara, la capitale eritrea, per una sessione di colloqui bilaterali. Questa è stata la seconda visita del presidente Mohamud in Eritrea quest’anno e la sesta da quando è salito al potere nel maggio 2022.
Il ministro eritreo dell’Informazione, Yemane Meskel, ha scritto su X che l’incontro di è stato «ampio» e nel corso di esso i due leader hanno discusso di questioni regionali, inclusa la lotta della Somalia contro i militanti di al-Shabaab, milizia jihadista legata ad al-Qaeda che da anni controlla ampie porzioni del territorio somalo. Nel loro incontro, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa somala Sonna, sono anche stati affrontati «importanti temi regionali e globali», senza però fornire ulteriori dettagli.

Al di là dei contenuti specifici dell’incontro del fine settimana, Eritrea e Somalia hanno interessi comuni a livello regionale che stanno rafforzando la loro amicizia. Il primo e, forse, il più importante di questi interessi è il contenimento dell’influenza etiope nel Corno d’Africa. Negli anni scorsi, il presidente eritreo Isaias Afewerki ha stretto i rapporti con il premier etiope Abiy Ahmed. Il riavvicinamento ha portato a un miglioramento dei rapporti tra i loro due Paesi, rapporti che erano stati molto testi a partire dalla guerra tra Eritrea ed Etiopia combattuta dal 1998 al 2000. Il sodalizio tra il presidente eritreo e il premier etiope ha portato le truppe eritree a schierarsi a fianco di quelle di Addis Abeba nella guerra civile che si è combattuta in Tigray (2020-2022). La pace tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray e il governo federale etiope siglato a Pretoria ha imposto un cessate-il-fuoco tra le parti, ma le truppe eritree, schierate sul confine, hanno continuato e continuano a occupare porzioni di territorio etiope (quelle rivendicate dal 2000 al termine della guerra tra Asmara e Addis Abeba).
È chiaro che l’Eritrea ha interesse a mantenere alta la pressione sull’Etiopia per poter continuare a occupare queste aree.

In questa crisi, la Somalia ha svolto un ruolo che, per molti versi, rimane misterioso. Di sicuro c’è che molti soldati somali sono stati inviati ad addestrarsi in Eritrea. Fonti citate dai media somali hanno testimoniato che molti di questi militari sono poi stati impiegati nei combattimenti in Tigray e alcuni di essi sarebbero morti. Tesi negata dalle autorità di Mogadiscio. È però un fatto che reparti somali sono ancora in fase di training nelle caserme eritree.
D’altra parte anche la Somalia ha interesse a tenere alta la tensione con l’Etiopia. L’accordo firmato recentemente tra Addis Abeba e il Somaliland, che prevede che quest’ultimo ceda un porto all’Etiopia in cambio di un possibile riconoscimento diplomatico di Hargeisa (capitale del Somaliland), ha scatenato una crisi tra l’Etiopia e la Somalia. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud e il suo premier Hamza Abdi Barre hanno dichiarato che l’intesa è una aperta violazione della sovranità della Somalia e hanno dichiarato nullo l’accordo. La tensione con l’Etiopia è cresciuta, nonostante truppe etiopi siano in Somalia a fianco di quelle somale per contrastare la milizia fondamentalista al-Shabaab.
La visita di Hassan Sheikh Mohamud ad Asmara rischia quindi di buttare benzina sul fuoco in un contesto già caldo, non solo per i cambiamenti climatici.

Enrico Casale




Europa armata. Negoziati invisibili

 

Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.

Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.

Perché queste prese di posizione?

È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?

Un messaggio a Putin

La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.

Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.

Un messaggio all’Europa

La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.

Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.

Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.

Un messaggio all’opinione pubblica

La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.

Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.

Il coraggio della trattativa

Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.

Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.

Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.

E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.

Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.

Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.

Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.

È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.

Paolo Candelari

Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.




Europa e migranti. Le quattro forme di violenza

 

«Non pensavamo di dover continuare a fuggire anche una volta giunti in Europa», dice un migrante agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) a Ventimiglia, al confine con la Francia.

Sono parole contenute nell’ultimo rapporto di Msf, Morte e disperazione. Il costo umano delle politiche migratorie dell’UE, uscito a febbraio 2024 per denunciare quanto le politiche europee su migrazione e asilo generino diverse forme di violenza sulle persone.

Una conclusione a cui Msf è giunta grazie a testimonianze raccolte tra i beneficiari di dodici dei suoi progetti in Paesi europei (come Italia, Grecia e Polonia) ed extraeuropei (come Libia, Niger e Serbia).

Dal momento della partenza dai Paesi di origine a quello dell’ingresso nell’Ue, e anche dopo, salute, benessere psicofisico e dignità dei migranti sono messi a repentaglio.

In particolare, l’organizzazione umanitaria individua quattro fasi del percorso migratorio nelle quali la violenza diventa esplicita: la prima è l’intrappolamento nei paesi con i quali l’Ue ha preso accordi di contenimento; la seconda è l’assenza di assistenza e la violenza sui confini; la terza è la detenzione in condizioni spesso degradanti all’interno dei confini dell’Ue; la quarta è l’insicurezza sistematica, l’esclusione e l’indigenza sperimentate nei Paesi di approdo.

Intrappolati nei Paesi extra Ue

Accordi di cooperazione tra Ue e Paesi extra Ue (ad esempio, Libia, Tunisia e Serbia), da cui spesso i migranti transitano per compiere l’ultimo tratto di viaggio, permettono a Bruxelles di esternalizzare le proprie frontiere, intrappolando le persone in Stati non sicuri, dove le condizioni di vita sono difficili e le violenze quotidiane.

La Libia è l’esempio per eccellenza di questa prima forma di violenza fisica e psicologica sui migranti. Tra il 2016 e il 2022, la quantità di persone che dopo aver tentato di lasciare il Paese nordafricano vi sono state riportate a forza è cresciuta fino alla metà del totale delle partenze. Nei primi otto mesi del 2023, più di 11mila persone sono state intercettate e respinte in Libia. Dietro a questo incremento si nascondono i cospicui finanziamenti di Ue e governo italiano per rafforzare la capacità libica di controllare i propri confini.

Muri, barriere, assenza di soccorsi

Nonostante questo, i flussi verso l’Europa continuano. Ed è a questo punto che i migranti si scontrano con una seconda tipologia di violenza. Muri e barriere, dotati delle più moderne tecnologie di sorveglianza, costellano i confini esterni dell’Ue e testimoniano la brutalità dell’approccio securitario europeo alle migrazioni.

Ad esempio, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia corre una barriera di filo spinato alta 5,5 metri. Questa crea quella che viene chiamata la «zona della morte»: una terra di nessuno tra i due Paesi alla quale le organizzazioni umanitarie non possono accedere e dove i migranti – esposti alle intemperie e oggetto di violenze e umiliazioni da parte della polizia polacca di frontiera – si trovano bloccati.

Ma non sono solo muri e barriere a tenere fuori i migranti dell’Ue. Anche la decisione, sempre più frequente, dei Centri maltese e italiano per il coordinamento dei salvataggi in mare di ignorare la presenza di barche in difficoltà nelle proprie aree di competenza costituisce una forma di violenza psicofisica sui migranti. Questo mentre le organizzazioni umanitarie che cercano di supplire alla mancanza di operazioni di salvataggio sono criminalizzate e le loro attività osteggiate.

Detenzioni

Giunti nell’Ue, i migranti si scontrano con una terza forma di violenza, la detenzione. Molti si trovano a vivere in strutture di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.

Sono gli hotspot, introdotti in Italia e Grecia per velocizzare le operazioni di identificazione dei migranti ed eventuali processi di rimpatrio. Luoghi dove le persone sperimentano privazioni e restrizione di diritti e libertà. Questo genera in loro un senso di coercizione che aumenta le sofferenze fisiche e psicologiche già accumulate durante il viaggio.

Marginalizzazione

Infine, a testimonianza di quanto la violenza sia connaturata alle politiche migratorie europee, in diversi Paesi si verificano forme di rifiuto ed esclusione che impediscono ad adulti e bambini di accedere al sistema di accoglienza. In questo modo, i migranti sono forzati a vivere nella precarietà e non beneficiano, ad esempio, di un’abitazione o di assistenza sanitaria di base.

In più alcuni Paesi destinatari di movimenti secondari, come la Francia, ostacolano i flussi: per i migranti, superare il confine italo-francese a Ventimiglia è diventato molto difficile a causa del ripristino dei controlli alla frontiera.

Violenza connaturata alle politiche Ue

Quelle descritte dal rapporto di Medici senza frontiere sono quattro forme di violenza che generano un costo umano enorme. L’organizzazione umanitaria, infatti, riscontra tra i migranti, oltre a problemi fisici come malnutrizione, disidratazione, malattie della pelle e dell’apparato gastrointestinale, anche un’allarmante crescita di disturbi psicologici: disturbi del sonno, ansia, stato di allerta costante e flashback ricorrenti di momenti traumatici.

Nonostante l’evidenza dei dati, le politiche e le pratiche dell’Ue sulle migrazioni sono state confermate e normalizzate nell’ultima versione del Patto europeo su migrazioni e asilo del dicembre 2023. Lo scopo rimane quello di contenere i flussi, senza considerare però l’impatto su coloro che quei flussi li compongono: persone.

Aurora Guainazzi




In Ucraina: fino a Zaporiza e Nikopol


Padre Luca Bovio, Missionario della Consolata in Polonia, ci racconta il suo ultimo viaggio compiuto in Ucraina dal 2 al 7 marzo 2024, a Zaporiza e Nikopol.

Grazie alle offerte raccolte, nei giorni precedenti al viaggio abbiamo acquistato e spedito dalla Polonia ai frati francescani Albertini a Zaporiza 5 bancali di carne in scatola (18.000 confezioni). Oltre a questo, lì è giunto due giorni prima del nostro arrivo anche l’ultimo carico di aiuti raccolti dalla parrocchia di Villa di Serio (Bergamo) e da tanti altri, portato da Ruggero e gli amici di Cantù (Como) a Sandomierz in Polonia, e da lì con un altro trasporto inviati a Zaporiza.

Per arrivare a Zaporiza da Varsavia occorrono due giorni di viaggio.

Anche in Polonia come nel resto d’Europa ci sono proteste dei contadini. I camion per entrare in Ucraina alle frontiere hanno tempi di attesa medi di circa dieci giorni.

La nostra auto, trasportando aiuti umanitari, riceve il permesso di passare e così agevolmente varchiamo la frontiera.

Zaporiza è una grande città nella zona centro orientale del Paese, costruita sul grande fiume Dniepr che divide in due la città. Qui c’è la concattedrale cattolica dedicata a Dio Padre Misericordioso e non lontano la comunità dei frati Albertini. Nei pressi della concattedrale, quattro volte alla settimana viene fatta la distribuzione del pane e di una scatoletta di carne. Sono circa 1.500 le persone che in fila ricevono l’aiuto.

Prima gli invalidi, poi le donne e infine gli uomini.

Il forno dei frati, che visitiamo il giorno successivo, ha la capacità di produrre 900 pani, per questo motivo, per dare qualcosa a ognuno, a un certo punto occorre dividere a metà o anche in tre parti il pane. Durante la distribuzione a cui partecipiamo ci raccontano che nei negozi i beni si trovano. Quello che manca sono i soldi per comprare. La pensione media di circa 50 euro al mese è troppo bassa per pagare tutte le spese di casa così come quelle personali.

La città, prima della guerra, contava quasi un milione di abitanti. Oggi è difficile fare stime. Molti sono partiti. Altri sono arrivati dai villaggi vicini. Il fronte dista da qui solo 30 chilometri.

Nel pomeriggio visitiamo la seconda e unica presenza romano cattolica in città. In una piccola parrocchia circondata da alti palazzi vive un padre di origine polacca dei missionari di Nostra Signora di La Salette. Ci racconta delle sue attività di assistenza a favore degli ammalati che sono nelle case. Con alcuni volontari portano medicine e cibo. I volontari hanno anche il compito di verificare l’effettiva presenza dell’ammalato.

IL missionario ci racconta anche di un suo giovane confratello, p. Giovanni, che vive a Nikopol a circa 100 chilometri a sud in una situazione peggiore della sua. Nikopol è una città che si affaccia sul fiume. Sulla riva opposta c’è Ernegodar, la città con la più grande centrale atomica d’Europa. La riva opposta è territorio occupato. Per questo motivo Nikopol e tutta quella regione è spesso sotto attacco avendo come unico argine il fiume.

Decidiamo di fare una breve visita. Avendo ottenuto i permessi umanitari necessari, arriviamo brevemente a Nikopol per incontrare don Giovanni che ci accoglie calorosamente, quasi incredulo che qualcuno venga a trovarlo.

Da questo capiamo come siano importanti queste visite che, seppur brevi, incoraggiano. Ci raggiunge anche un militare responsabile della zona col quale, bevendo un caffè, parliamo della situazione al fronte. Il momento non è facile. C’è pessimismo. Occorre un ricambio del personale. Il governo sta lavorando a una legge che definisca meglio i criteri di arruolamento. Gli aiuti esterni sono da sempre stati fondamentali per difendersi contro un nemico che per numero e possibilità è impari. Questi aiuti su larga scala per vari motivi sono in forte diminuzione. Ad esempio, gli aiuti umanitari, ci comunica la Caritas locale, sono diminuiti del 60%. Si parla sul luogo anche di persone che simpatizzano per gli occupanti o che nel migliore dei casi desiderano l’occupazione come raggiungimento di una vita più tranquilla.

Il tempo trascorre veloce. Velocemente ritorniamo a Zaporiza e da lì il giorno successivo per Kiev e Varsavia.

Padre Luca Bovio




Cambogia. Di padre in figlio

Da Hun Sen a Hun Manet, di padre in figlio. Nulla di strano se fosse la successione a capo di un’azienda familiare, ma in questo caso la successione riguarda la guida di un paese, la Cambogia, nazione asiatica con 16,5 milioni di abitanti.

Hun Sen (71 anni) è stato primo ministro di Phnom Penh per la bellezza di 38 anni, avendo ricoperto la carica dal 1985 (con un periodo di cinque anni – dal 1993 al 1998 – in condivisione con Norodom Ranariddh, figlio del re Norodom Sihanouk). A luglio 2023 Hun Sen si è (finalmente) dimesso ma è stato sostituito dal figlio maggiore, Hun Manet (41 anni, studi negli Stati Uniti), dopo elezioni fraudolente.

Nel suo ultimo report, Human rights watch inizia così il capitolo dedicato al paese: «La Cambogia – si legge – è effettivamente uno stato a partito unico con elezioni fisse e controllate, mancanza di media indipendenti, interferenza del partito al governo e controllo di tutte le istituzioni statali, controllo politico della magistratura, sistematica persecuzione dei critici sia nell’opposizione politica che nella società civile». La situazione è ulteriormente peggiorata nel periodo precedente alle elezioni nazionali del luglio 2023.

Dopo gli anni drammatici della guerra civile e dei Khmer rossi, il paese ha cercato un po’ di normalità. Nel 2023 la crescita economica ha superato il 5 per cento annuo, una delle più alte della regione. Tuttavia, le condizioni della maggioranza della popolazione – soprattutto di quella rurale – rimangono improntate alla precarietà. Ad esempio, si calcola che il 70 per cento dei cambogiani non abbia accesso all’acqua potabile e il 63 per cento a servizi igienici sicuri. Inoltre, il paese – attraversato dal grande fiume Mekong – è fortemente soggetto ai cambiamenti climatici con l’agricoltura, comparto produttivo di primaria importanza, che ne patisce le conseguenze.

L’attuale sovrano della Cambogia, re Norodom Sihamoni. I suoi poteri sono limitati. (Foto Khmer Times)

Tutti gli altri settori dell’economia nazionale sono saldamente nelle mani della vasta famiglia Hun, che possiede circa 120 società, dall’energia alle comunicazioni, dalle miniere al commercio. Peraltro, il capostipite Hun Sen non è andato in pensione. Lo scorso 25 febbraio si sono tenute le elezioni per il senato (la camera alta del parlamento) del Paese. Il Partito del popolo cambogiano (Kpk), partito di cui Hun Sen è presidente, ha ottenuto 55 seggi sui 58 disponibili (mentre altri quattro sono appannaggio della camera bassa e di sua maestà, re Norodom Sihamoni). La vittoria permetterà a Hun Sen di diventare presidente del senato (e, quindi, di rappresentare il paese quando il sovrano si trova all’estero). Insomma, la Cambogia più che una democrazia continua a essere un paese a gestione familiare.

Paolo Moiola




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada