Nicaragua. La triste fine del sogno sandinista


Nel paese centroamericano, gli abusi della coppia presidenziale Daniel Ortega-Rosario Murillo non conoscono fine. Gli oppositori sono in carcere o in esilio, mentre la Chiesa cattolica è sotto assedio.

Baffetti neri, indossava sempre una divisa militare e un paio di occhiali a goccia poggiati sul naso. Serio, determinato, di poche parole. Aveva portato alla vittoria il Fronte sandinista (Fsln) sconfiggendo il dittatore Anastasio Somoza e i suoi poderosi alleati, gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Nel luglio del 1979, era entrato a Managua, capitale del paese, da trionfatore, accolto da una folla di nicaraguensi entusiasti, applaudito all’estero da schiere di ammiratori.

Managua, febbraio 2023.  Baffetti grigi, abiti civili, cappellino in testa. Circondato dai suoi collaboratori, parla con un tono di voce tranquillo e monocorde, ma usando il vocabolario tipico del nazionalismo più spinto: agenti stranieri, traditori, terroristi, mercenari al soldo dell’imperialismo. Gli epiteti sono riferiti ai 222 prigionieri politici da lui stesso improvvisamente rilasciati, messi su un volo charter e spediti negli Stati Uniti, ma non prima di essere stati spogliati della cittadinanza. Protagonista di questi eventi è Daniel Ortega Saavedra, un tempo mitico comandante sandinista, oggi presidente del Nicaragua o, secondo l’opinione più accreditata, dittatore senza se e senza ma.

Il presidente russo Putin durante la sua visita al Nicaragua di Ortega e Murillo l’11 luglio 2014. Lo scorso 23 febbraio 2023 il Nicaragua ha nuovamente votato a favore della Russia durante l’Assemblea delle Nazioni Unite. Foto Cesar Perez – Presidencia de Nicaragua – AFP.

Ortega-Murillo, coppia «regale»

Prima, dal 1979 al 1990, poi, dal 2007 a oggi, Daniel Ortega ha ormai raggiunto i 27 anni alla guida del paese centroamericano. Il suo passaggio da presidente ad autocrate (eufemismo per dittatore) è stato graduale, ma sistematico, con la progressiva neutralizzazione di ogni opposizione, in primis quella interna al movimento sandinista. Punto di svolta sono state le proteste di piazza (contro la riforma del sistema di sicurezza sociale, Inss) dell’aprile del 2018, concluse con un bilancio di (almeno) 350 morti. In quell’occasione, il governo ha giustificato la propria reazione accusando i manifestanti di terrorismo golpista che minacciava la stabilità del paese. Nelle elezioni del novembre 2021, Ortega è stato rieletto con il 75% dei voti, ma praticamente senza avversari, visto che i principali concorrenti erano stati incarcerati prima del voto (Cristiana Chamorro, Arturo Cruz, Félix Maradiaga, Juan Sebastián Chamorro, Miguel Mora, Medardo Mairena e Noel José Vidaurre Arguello) o avevano preferito lasciare il paese (María Asunción Moreno).

Dal 2019 il Nicaragua è sottoposto a sanzioni internazionali da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Anche per questo, si sono fatte sempre più strette le relazioni del paese con le due principali autocrazie mondiali: la Russia di Putin e la Cina di Xi (soprattutto dopo la rottura, nel dicembre 2021, delle relazioni tra Managua e Taiwan). Peraltro, entrambe le potenze sono coinvolte nel megaprogetto del canale del Nicaragua tra l’Atlantico e il Pacifico in futura concorrenza con l’unico canale ad oggi aperto, quello di Panama (di proprietà panamense, ma di fatto controllato dagli Stati Uniti). Le scelte di campo sono chiare. Il 23 febbraio Managua si è nuovamente schierata con Putin nella risoluzione delle Nazioni Unite contro l’aggressione della Russia all’Ucraina (unendosi – unico paese latinoamericano – a Bielorussia, Corea del Nord, Siria, Eritrea e Mali). Mentre una settimana dopo (2 marzo) è uscito un report delle Nazioni Unite che accusa il governo nicaraguense di gravi violazioni e abusi dei diritti umani (detenzioni arbitrarie, esecuzioni extragiudiziali, tortura, privazione arbitraria della nazionalità e del diritto di rimanere nel paese).

A queste alleanze internazionali Ortega ne affianca un’altra. Da molto tempo, al suo fianco siede la moglie Rosario Murillo, inizialmente come primera dama, dal 2017 anche con la carica ufficiale di vicepresidente, formando un controverso governo familiare che ricorda più le monarchie ereditarie che le istituzioni repubblicane.

Consolidano la dinastia Ortega-Murillo i nove figli della coppia. Tutti occupano posizioni importanti, ad eccezione di Zoilamérica, la primogenita di Murillo da anni in rotta con la famiglia. Laureano Ortega, il sesto figlio, già cantante d’opera, ha assunto il ruolo di «assessore» nel campo degli investimenti e della cooperazione internazionale, in particolare con la Cina, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan. In quest’ottica, lo scorso 11 febbraio il giovane Ortega ha incontrato a Pechino Wang Yi, direttore della Commissione affari esteri (il diplomatico cinese di più alto grado).

Una foto storica: la trionfale entrata a Managua dei sandinisti, il 19 luglio 1979.

Senza esclusione di colpi

Da tempo, la Chiesa cattolica del Nicaragua è critica verso il governo di Ortega e Murillo e per questo è finita nel mirino della coppia presidenziale. Occorre però ricordare che all’inizio, subito dopo la caduta di Somoza (1979), una parte importante del cattolicesimo nicaraguense si schierò con i sandinisti tanto che alcuni sacerdoti (legati alla teologia della liberazione) entrarono in quel governo: Miguel D’Escoto, Edgard Parrales, Fernando Cardenal, Ernesto Cardenal. Famosa è rimasta la scena del 4 marzo 1983 nella quale Giovanni Paolo II, in visita al paese, con il dito alzato rimproverò pubblicamente padre Ernesto Cardenal, inginocchiato davanti a lui. Più recentemente, nel 2005, il cardinale Miguel Obando y Bravo celebrò le nozze religiose tra Ortega e Murillo.

Oggi i rapporti tra governo nicaraguense e Chiesa cattolica sono ai minimi storici. La coppia presidenziale accusa la Chiesa di appoggiare la rivolta iniziata nell’aprile 2018 e per questo ha iniziato una capillare persecuzione dei suoi rappresentanti. Eppure, a maggio 2018, cinque membri della Conferenza episcopale avevano fatto da mediatori negli incontri (mesa del diálogo nacional) tra il governo e la società civile. A quel tavolo di mediazione – ben presto rivelatosi fallimentare – sedeva anche monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, nonché critico instancabile del governo.  Nell’agosto 2022 i contrasti s’inaspriscono. A inizio mese, la polizia chiude le sette emittenti radio di proprietà della diocesi e pone agli arresti domiciliari il vescovo e i suoi collaboratori. La foto dell’arresto del prelato, con lui inginocchiato a terra e con le mani alzate davanti alla polizia di Ortega, fa il giro del mondo. Dopo quindici giorni, chiusi all’interno della curia di Matagalpa, il 19 agosto la polizia preleva i prigionieri e li conduce a Managua.

Il 9 febbraio arriva la mossa a sorpresa di Ortega con la liberazione e l’espulsione dei prigionieri politici, tra cui monsignor Álvarez. Questi però non smentisce la sua fama di oppositore intransigente: rifiuta la liberazione e l’espatrio. Il giorno seguente un Tribunale lo condanna a un totale di 26 anni di carcere.

Un primo piano di mons. Álvarez, il vescovo che, dopo aver rifiutato l’espulsione dal Nicaragua, è stato condannato a 26 anni di carcere. Foto Diocesis de Matagalpa.

Traditori della patria e paternalismo

L’offensiva repressiva del governo non si ferma però alla condanna del vescovo Álvarez. Il 15 febbraio un altro tribunale nicaraguense toglie la cittadinanza a 94 oppositori in esilio tra cui gli scrittori Sergio Ramírez e Gioconda Belli (entrambi sandinisti della prima ora) e il vescovo Silvio Báez. Tutti dichiarati «traditori della patria».

Secondo il magistrato di Managua, «gli imputati hanno compiuto e continuano a compiere atti criminali a danno della pace, della sovranità, dell’indipendenza e dell’autodeterminazione del popolo nicaraguense, incitando alla destabilizzazione del paese, promuovendo blocchi economici, commerciali e finanziari, il tutto a scapito della pace e del benessere della popolazione».

Oltre che nella Chiesa e nella società civile, il regime Ortega-Murillo ha individuato nelle organizzazioni non governative (Ong) un altro nemico. A fine 2022, su 7.227 Ong ufficiali ne erano state chiuse 3.106 (fonte «Expediente Nicaragua»), in teoria per mancanza di un’adeguata rendicontazione, in realtà per impedire un associazionismo considerato veicolo di critiche e per un avere un controllo ancora più stretto sulla popolazione. Molte Ong fornivano servizi essenziali per la salute, l’educazione e lo sviluppo.

Erano essenziali perché il Nicaragua rimane il terzo paese più povero delle Americhe (dopo Haiti e Honduras), nonostante la propaganda governativa. Per esempio, nel «Piano nazionale di lotta contro la povertà e per lo sviluppo umano 2022-2026» del luglio 2021 è scritto testualmente: «Il modello cristiano e solidale, con i valori cristiani e le pratiche di solidarietà che guidano la costruzione di circoli virtuosi di sviluppo umano con il recupero dei valori, la restituzione dei diritti e il rafforzamento delle capacità che ci hanno permesso di superare i circoli viziosi della povertà e del sottosviluppo». Questa sorta di «paternalismo cristiano» costituisce un mantra ad uso e consumo della coppia presidenziale.

Sentire (Multinoticias Canal 4, televisione di cui sono proprietari i figli Juan Carlos e Daniel Edmundo) o leggere (El 19) i discorsi della compañera Rosario lascia interdetti per la profusione di parole come amore, felicità, pace, dignità, libertà, sovranità, sempre «por gracias de Dios» (grazie a Dio).

Volenti o nolenti, il destino dei nicaraguensi – almeno al momento – rimane nelle mani di Daniel Ortega e Rosario Murillo, probabilmente la peggiore rappresentazione di quello che fu il sogno sandinista.

Paolo Moiola

Il vescovo Silvio Báez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.


Come il potere cambia gli individui

Dall’empatia all’arroganza

La scrittrice Gioconda Belli privata della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Foto da Facebook.

L’esperienza di oggi e del passato dimostra che il potere cambia gli individui. Certamente non tutti alla stessa maniera, ma è difficile rimanere indenni dalla metamorfosi che il potere produce negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone. Nello Spirito delle leggi (1748), la sua opera più nota, Montesquieu (1689-1755), padre riconosciuto del principio della «separazione dei poteri», scrive: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti».

È quello che lo psicologo Dacher Keltner dell’Università della California di Berkeley ha chiamato il «paradosso del potere» (2016). Secondo i suoi studi, una volta raggiunto il potere il protagonista perde le qualità che sono state necessarie per conseguirlo. Questo significa che le persone di potere tendono ad avere meno comprensione dei punti di vista altrui, meno sensibilità, meno compassione verso le sofferenze degli altri ovvero – per dirla in breve – presentano un «deficit di empatia».

«Il deficit di empatia – scrive la psicologa Jennifer Delgado Suárez – non riguarda tutte le persone che hanno potere. C’è chi conserva la capacità di connettersi con gli altri e mettersi nei loro panni. Dopotutto, il potere non è una posizione, ma uno stato mentale. Un politico può sentirsi potente, così come un ufficiale delle forze di sicurezza dello Stato o un giudice, ma può sentirsi potente anche il proprietario di un’impresa o l’insegnante che esercita una certa autorità sui suoi studenti. Chi comprende la responsabilità che deriva dal potere e lo vede come uno stato transitorio che gli consente di aiutare gli altri e migliorare la propria vita, può preservare la propria empatia».

Lo scrittore Sergio Ramírez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.

Al potere è anche collegata quella che viene chiamata la «sindrome dell’arroganza» (Hubris syndrome). «La sindrome di Hubris – scrive David Owen (Clinical Medicine, agosto 2008) – è indissolubilmente legata al potere: il potere è un prerequisito, e quando il potere passa la sindrome normalmente si risolve». È meno probabile che essa si manifesti nelle persone che sanno rimanere modeste, che rimangono aperte alle critiche o che sono dotate di senso dell’umorismo.

Sfortunatamente – lo insegna la storia e lo vediamo nella quotidianità – il potere corrompe e per alcuni diventa difficile o impossibile farne a meno. Spesso neppure la separazione dei poteri risulta sufficiente per arginare la deriva del potere. Sono necessari almeno altri due requisiti: una democrazia solida e una società istruita e dotata di spirito critico.

Pa.Mo.


SCHEDA PAESE

Superficie: 130.374 km²
(il paese più esteso dell’America centrale).

Popolazione: 6.702.379 (2022).

Capitale: Managua (un milione di abitanti).

Forma di governo: repubblica presidenziale (Daniel Ortega e Rosario Murillo).

Religioni: 44,9 per cento di cattolici, 39,8 di evangelici
(di varie denominazioni).

Economia: fondata sul settore agricolo che produce fagioli, sorgo e mais per il consumo interno, e caffè, carne bovina, zucchero di canna, banane, cotone e tabacco per le esportazioni; tra le attività minerarie, l’estrazione dell’oro riveste una sempre maggiore importanza.

Condizione socioeconomica: i dati sulla povertà non sono univoci variando dal 30 al 43 per cento della popolazione.

Sanzioni internazionali: a partire dalla repressione dell’aprile 2018, molti paesi (Stati Uniti e Unione europea in primis) hanno adottato sanzioni contro il regime Ortega-Murillo. L’ultima condanna delle Nazioni Unite è del 2 marzo 2023.


L’Università dei Gesuiti (Uca) e la rivista «Envío»

I vulcani non avvertono

L’Università centroamericana di Managua – generalmente conosciuta con l’acronimo di Uca – è la prima università privata nata in Centroamerica. È stata fondata il 23 luglio 1960 dalla Compagnia di Gesù.

Tra i numerosi meriti dell’ateneo dei Gesuiti c’è quello di essere stato l’editore della rivista Envío. Il primo numero del mensile uscì nel febbraio 1981, l’ultimo è del giugno 2021. Inizialmente, la rivista fu soprattutto uno strumento di «appoggio critico» alla rivoluzione nicaraguense e al pensiero sandinista. Dal 1990 – in concomitanza con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista (Fsln) – si aprì all’America Latina e a molte altre tematiche (dall’ambiente ai popoli indigeni), fino a quando è esplosa la crisi del Nicaragua.

«Aprile 2018 – si legge nell’editoriale del numero di dicembre di quello stesso anno – sarà per sempre impresso nella coscienza nazionale. La sproporzionata risposta repressiva del regime contro le prime proteste cittadine fece esplodere il vulcano. Nessuno aveva presentimento, ma c’erano innumerevoli ragioni che annunciavano che sarebbe successo. Un decennio di sfrenato autoritarismo ha trasformato lo scoppio in un’insurrezione della coscienza nazionale. La gioventù universitaria l’ha iniziata, e la gioventù è stata seguita da gente, tanta gente, sempre più gente. Per anni c’erano morti e terrore nelle zone rurali ma Managua, León, Masaya, le città del Pacifico sembravano addormentate. Al risveglio, hanno sollevato l’intero paese. Com’è stato possibile? Non per una cospirazione dall’esterno, ma a causa della molta lava accumulata all’interno. I vulcani non avvertono.

Questa è una sintesi, un resoconto di quanto abbiamo scritto quest’anno alla vigilia dello scoppio e nelle giornate indimenticabili di resistenza civica e ribellione popolare vissute da aprile».

Infine, l’ultima svolta, raccontata così sul sito che oggi funge da archivio: «Nell’aprile 2018 ci siamo impegnati nell’insurrezione cittadina che chiedeva un Nicaragua libero. A giugno 2021, quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo deciso di porre il punto finale a quest’esperienza informativa tanto preziosa».

Poche semplici righe che, pur senza entrare nei dettagli, sono sufficienti per spiegare l’eutanasia della storica rivista.

L’Università dei gesuiti riuscirà a resistere? La domanda è lecita visti gli ultimi sviluppi. Il 7 marzo il governo Ortega-Murillo ha, infatti, deciso la chiusura di due università: la Universidad Juan Pablo II (Managua e altre quattro città) e la Universidad cristiana autónoma de Nicaragua (León e altre cinque sedi). Allo stessso, tempo è stata costretta alla chiusura (formalmente per autoscioglimento) l’organizzazione della Caritas. In Nicaragua, la repressione non si ferma.

Pa.Mo. 

IL NICARAGUA SU MC

Paolo Moiola, Rosario e Daniel Ortega Spa, gennaio-febbraio 2017




Zarco riposa sulla Luna


Manuel Antonio Zarco era un «cacique» degli Emberá, uno dei sette popoli indigeni di Panama. Negli anni Sessanta la sua strada s’incrociò con quella degli astronauti della Nasa che si preparavano a sbarcare sulla Luna. Zarco è scomparso nel 2010, ma la sua storia – incredibile e poco conosciuta – è sopravvissuta.

Nella conquista umana dello spazio, l’esplorazione della Luna è una tappa fondamentale che passa dal programma statunitense Apollo 11 del 1969 fino ad Artemis, attualmente in corso.

Apollo fu il famoso programma spaziale dell’Ente nazionale per le attività spaziali e aeronautiche, più conosciuto per la sua sigla inglese Nasa. Il programma fu messo in opera dagli Stati Uniti negli anni Sessanta per vincere la corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica, all’epoca della Guerra fredda. Quel programma fu la continuazione di Mercury, le missioni che vennero lanciate dalla Nasa per identificare la zona della Luna più idonea per un possibile atterraggio di una capsula con equipaggio a bordo: allunaggio che avvenne il 20 luglio 1969 e che consegnò alla storia la frase «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità» .

Artemis è invece il nome scelto per la nuova sfida della Nasa che promette di riportare sulla Luna gli esseri umani nel 2024. Un progetto che ha già fatto il primo passo a fine 2022 con la missione spaziale Artemis 1, partita con il lancio del 16 novembre dal Kennedy space center (Merritt Island, Florida) e conclusa l’11 dicembre con l’ammaraggio della navicella Orion nell’Oceano Pacifico, al largo della costa settentrionale del Messico.

Artemis 1 ha fatto ben sperare e ha battuto molti record: il veicolo spaziale senza equipaggio ha, infatti, realizzato un viaggio di 25 giorni percorrendo 2.254 milioni di chilometri attorno alla luna. Orion ha sorvolato per due volte la superficie lunare arrivando ad una distanza di soli 130 km dalla stessa. Nel suo punto più lontano dalla Terra, la navicella si è trovata a quasi 435mila chilometri di distanza, circa mille volte superiore alla lunghezza dell’orbita che percorre la Stazione spaziale internazionale attorno al nostro pianeta.

Una sfida lunga più di 60 anni, quella della conquista della Luna, che ha visto successi e fallimenti, momenti di grandezza e di profondo sconforto e che probabilmente ci riserverà ancora molte sorprese.

Se la storia dei programmi spaziali è generalmente nota, c’è però una storia dentro la storia che pochi conoscono e che lega la missione Apollo 11 alle popolazioni indigene dell’America Latina.

Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins, gli astronauti dell’Apollo 11. Foto NASA.

Un cacique come istruttore

Una rara immagine dell’addestratore indigeno, Manuel Antonio Zarco, jaibaná del popolo Emberá. Foto ACP y Panamá Vieja Escuela.

Negli archivi della Nasa si trova il nome di un cacique (capo), un indigeno panamense leggendario per il suo popolo, legato a doppio filo ai nomi degli astronauti Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins. Si tratta del jaibaná (guida spirituale) del popolo indigeno Emberá, Manuel Antonio Zarco.

Per conoscere la sua storia dobbiamo viaggiare fino a Panama e entrare nella selva del paese centroamericano, il Darién. Il nostro nacque nel 1914 a Rio Chico (Darién panamense) all’interno di una comunità del popolo indigeno Emberá. Gli Emberá sono uno dei sette popoli indigeni della Repubblica di Panama (insieme agli Ngäbe, i Buglé, i Guna o Dule, i Wounaan, i Bri bri e i Naso Tjërdie – vedere riquadro a pag. 24, ndr) e sono come gli altri sei, custodi di una connessione ancestrale con gli elementi della natura, una conoscenza profonda che permette loro di vivere in armonia con l’ambiente selvaggio e, all’apparenza, ostile nel quale sono immersi.

La zona nella quale Manuel Antonio trascorse i primi anni di vita è ancora oggi impervia, coperta di selva e piena di insidie. In quel contesto l’adolescente Zarco apprese i segreti della caccia, della pesca, delle piante medicinali e della comunicazione con la Madre Terra.

La destrezza con arco e freccia, la sua profonda conoscenza di flora e fauna e il suo carisma, lo fecero diventare presto un punto di riferimento per tutta la comunità, che iniziò a trattarlo con rispetto vedendo in lui una guida.

Intorno al 1940, Zarco, già maturo e sperimentato con i suoi 26 anni, decise di trasferirsi con la sua famiglia a Gamboa, zona del Canale di Panama nella quale il lago artificiale Gatún si unisce al fiume Chagres. La sua idea era quella di ampliare le frontiere della sua comunità, trovando nuove aree nelle quali vivere e prosperare.

Lezione di sopravvivenza alla «Tropical survival school» di Panamá in una foto d’epoca. Foto Panama Canal Museum.


Storia del Canale e dell’enclave Usa

A quell’epoca era già operativo il Canale di Panama, colossale opera ingegneristica che taglia in due l’istmo di Panama consentendo il traffico marittimo di navi di grosse dimensioni (oggi conosciute come Panamax).

Il canale collega l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico arrivando a una lunghezza totale di 81,1 km, una profondità massima di 12 m e una larghezza che varia dai 240-300 m del lago Gatún e ai 90-150 m nel tratto del taglio della Culebra. Quello che è considerato una delle meraviglie del mondo moderno fu inaugurato al traffico marittimo il 15 di agosto del 1914.

All’epoca dell’arrivo di Manuel Antonio Zarco nell’area, il Canale era, dunque, già operativo da più di 20 anni. La zona del Canale divideva di fatto il paese centroamericano in due: in una fascia di territorio larga 16 km che costeggiava il Canale sui due lati, vivevano migliaia di statunitensi con le loro famiglie, in una vera e propria enclave Usa che funzionava con leggi e regole autonome. Un territorio al quale i panamensi non avevano accesso (se non con permessi speciali) e nel quale il tenore di vita era molto più alto che nel resto del Paese. Questa situazione derivava dalla firma del trattato Hay-Bunau Varilla del 18 novembre 1903 che di fatto cedeva una parte del territorio di Panama agli Stati Uniti per la realizzazione dei lavori prima e della manutenzione e gestione del Canale poi.

A difesa dei loro interessi gli statunitensi avevano dispiegato un contingente militare e la United States air force aveva stabilito una base aerea ad Albrook, nella zona del Canale.

La mappa evidenzia i territori indigeni (camarcas) di Panamá.

Una scuola molto speciale

Nella base aerea era presente anche la Tropical survival school (Scuola di sopravvivenza tropicale) che era stata trasferita lì dalla California. Alla guida della scuola era stato scelto H. Morgan Smith, antropologo che ben conosceva Panama e che aveva già collaborato per i suoi studi con Manuel Antonio Zarco negli anni Cinquanta.

Smith era stato diretto testimone delle capacità di adattamento di Zarco alla vita in foresta. Così gli chiese di diventare istruttore di tecniche di sopravvivenza nella selva per i soldati dell’esercito statunitense. In questo modo, Zarco cominciò a lavorare nella base aerea di Albrook in un momento particolarmente teso per le relazioni tra Usa e Panama.

Nel 1958, infatti, tra i panamensi stava emergendo un sentimento di rivalsa nei confronti dei privilegi di cui godevano da cinquant’anni i loro connazionali residenti nella zona del Canale, chiamati zonians perché isolati dal resto della popolazione e protetti dagli Usa.

In quell’anno ebbe luogo la dimostrazione chiamata Operación soberania (Operazione sovranità), durante la quale un gruppo di studenti universitari piantarono 75 bandiere panamensi nella zona del Canale. Il motto era el que siembra banderas, cosecha soberanía (chi semina bandiere, raccoglie sovranità).

L’anno successivo gli stessi studenti organizzarono quella che venne chiamata «Marcia patriottica», invitando i cittadini panamensi a entrare in modo pacifico nell’area sotto giurisdizione Usa. Il governatore della zona del Canale, che all’epoca era William Everett Potter, diede però l’ordine alla polizia di fermare i manifestanti e di impedire loro l’ingresso, scatenando tumulti e scontri che terminarono con un saldo di vari feriti.

Arrivano gli astronauti

Nel 1963, proprio mentre la situazione politica nell’istmo diventava ancora più incandescente (sarebbe sfociata nei fatti del 9 gennaio 1964, ricordato oggi come el día de los martires, «il giorno dei martiri»), arrivarono alla Scuola di sopravvivenza sedici astronauti del programma spaziale Apollo.

L’inizio delle missioni con destinazione la Luna erano imminenti, ma c’era un problema: non era possibile calcolare con precisione in quale punto della Terra sarebbe rientrato il modulo lunare e per questo bisognava che gli astronauti fossero pronti a ogni evenienza. Tra i sedici c’erano anche Armstrong, Aldrin e Collins, che per un mese seguirono gli insegnamenti di Zarco per capire come sopravvivere in mezzo a una giungla.

L’addestramento si realizzò nelle vicinanze della comunità Emberá Purú, lungo il rio Chagres (dove oggi vivono i discendenti di Manuel Antonio) e continuò fino alla frontiera con la Colombia, nella selva conosciuta come Darién gap.

Il cacique insegnò loro come procurarsi cibo e acqua, come evitare le trappole mortali della selva, come cacciare e come difendersi dai pericoli e ripararsi dalle intemperie. Oltre agli insegnamenti pratici però, Zarco spiegò agli astronauti che lassù, sulla Luna, secondo la tradizione del suo popolo, riposavano gli spiriti degli antenati Emberá.

Fu così che, nella selva panamense, la tecnologia più avanzata dell’epoca incontrò il sapere ancestrale indigeno, in un connubio al servizio di una missione spaziale che ha segnato la storia dell’umanità.

Dopo quella missione il jaibaná Manuel Antonio Zarco continuò a prestare il suo servizio, sia per l’esercito statunitense dal quale ricevette onorificenze, sia per la sua comunità, insediata sulle rive del fiume Chagres.

Per il suo popolo, lo spirito di Manuel Antonio Zarco, scomparso nel 2010, oggi riposa proprio là, su quella Luna che anche lui ha aiutato a toccare.

Diego Battistessa

Foto ricordo per istruttori e astronauti della Nasa (programmi Mercury e Gemini) alla «Tropical survival school», a Panamá, nel giugno del 1963. Foto Usaf-Nasa.


I sette popoli indigeni di Panama

Qui è nata «Abya yala»

Secondo i dati del censimento del 2010 (l’ultimo disponibile), a Panama sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione.  Parliamo di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in sette popoli indigeni: gli Emberà, i Ngäbe, i Buglé, i Guna (o Dule), i Wounaan, i Bri bri e i Naso Tjërdie. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) di quella che oggi è la Repubblica di Panama è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi, infatti, esistono a Panama sei comarcas indigene (contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico culturali, dentro il sistema dello stato panamense. Le sei comarcas indigene coprono attualmente un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di Comarca (2020).

In questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, una menzione speciale merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925, che portò alla creazione dell’effimera Repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata.

Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva «Abya Yala», termine ancestrale che sempre più viene utilizzato per riferirsi alle Americhe.

Di.Ba.

Squacio panoramico di Panama City, capitale dell’omonimo stato. Foto Pixabay.

Il Darién, dove la selva vince

Il Darién è una regione geografica del continente americano che ha resistito ai vari tentativi di conquista e antropizzazione. Stiamo parlando di una estesa e fitta selva, che divide il Sud di Panama dal Nord Ovest della Colombia (dipartimento del Chocó) e che storicamente ha ospitato le popolazioni indigene Emberá-Wounaan e Guna. Durante l’epoca della corona spagnola molti africani fuggiti dalla schiavitù (chiamate cimarrones) trovarono rifugio in questa selva, creando vere e proprie comunità autonome come quelle guidate da Baiano o da Felipillo, accrescendo il mito dell’impenetrabilità di questa zona di 5mila km² che separa il Sud America dal Centro America. In inglese ci si riferisce a questa zona come Darien gap, dove il termine «gap» (divario, vuoto) viene a significare l’impossibilità di continuare la costruzione della Panamericana, la famosa strada che collega i due estremi del continente americano. A Yaviza, ultimo villaggio nella parte panamense del Darién, il percorso della strada, infatti, s’interrompe per poi riprendere a Turbo in Colombia.

Un progetto viario mastodontico, di circa 18mila km e che attraversa 14 paesi da Nord a Sud del continente ma che, di fronte al Darién, ha dovuto arrendersi. Secondo altre interpretazioni, però, il vero motivo per cui la Panamericana s’interrompe è che gli Stati Uniti non hanno voluto che si facesse, perché avrebbe favorito il traffico di droga.

Oggi questa selva è famosa soprattutto per essere una delle rotte delle migrazioni che portano decine di migliaia di persone a rischiare la loro vita per raggiungere Panama dalla Colombia, e da lì proseguire verso Nord, verso l’«American dream»: solo nel 2022 si stima che siano passati dal Daríen gap circa 250 mila persone (130mila nel 2021).

Di.Ba.

PANAMA SU MC
Diego Battistessa, Dalla schiavitù al Cristo negro, aprile 2022

Squacio panoramico di Panama City, capitale dell’omonimo stato. Foto Pixabay.




Siria: Terroristi passati e futuri


Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.

Raqqa (Rojava). Sono passati cinque anni da quando la resistenza curda cacciava i terroristi dell’Isis fuori dalle città principali del Rojava, nel Nord Est della Siria. I combattenti dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e dell’Ypj (Unità di protezione delle donne) riconquistavano le città di Raqqa, Kobane, Deir ez-Zor e Qamishle. Riprendevano possesso di territori diventati, nei quattro anni di occupazione dei militanti dello Stato islamico (Isis, o Daesh, acronimo arabo di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante»), teatro di esecuzioni di massa, torture e distruzione.

Sono passati cinque anni e, oggi, la domanda è: i terroristi dell’Isis sono stati davvero sconfitti o si stanno solo nascondendo in attesa di riorganizzarsi? Qui in Rojava, gli attentati sono diminuiti, ma non sono mai cessati del tutto. Un ulteriore intensificazione del terrorismo sta avvenendo proprio in questi mesi, complici una nuova serie di bombardamenti da parte della Turchia e le conseguenze del devastante terremoto di febbraio. Questi eventi hanno favorito la fuga di diversi detenuti, riunitisi, in seguito, alle cellule terroristiche nascoste.

Per comprendere meglio lo stato delle cose, ho chiesto alle autorità curde di poter intervistare uno dei detenuti.

Dopo diverse settimane di controlli delle mie credenziali, colloqui e incontri con le autorità, riesco ad avere il permesso di parlare con un prigioniero, un uomo che aveva militato nelle file dell’Isis fino al suo arresto, avvenuto nel 2017, e che, prima della sua radicalizzazione, aveva anche vissuto e studiato in Italia.

L’ex terrorista sta scontando la sua pena nel carcere di al-Hasakah, il più grande del Rojava. Qui si trovano 3.500 detenuti di cui 700 minori, ragazzi soprannominati «i cuccioli del califfato».

Le misure di sicurezza sono tantissime. Proprio qui, il 20 gennaio 2021, un gruppo armato attaccò il carcere causando un’evasione di massa. L’attacco si trasformò in una battaglia, durata nove giorni, che vide la morte di 140 persone, tra guardie del carcere e forze dell’ordine.

Per questo costante stato di pericolo, vengo perquisito a fondo e scortato da alcuni militari.

Manette ai polsi di Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis da noi intervistato in un carcere del Rojava. Foto di Angelo Calianno.

Dentro il carcere

Ad accogliermi c’è Omar (nome di fantasia), uno dei responsabili della sicurezza. A lui, chiedo di parlarmi della situazione attuale: «In Rojava deteniamo la maggior parte dei terroristi del Daesh, arrestati durante le operazioni di questi anni, operazioni che ancora continuano in tutto il territorio. Ci sono sempre tentativi di fuga. Qui, ce ne sono stati almeno venti negli ultimi due anni.

Come hai potuto vedere, i bombardamenti da parte della Turchia non favoriscono il nostro lavoro. Erdogan, e i capi dello Stato maggiore turco, per anni si sono scontrati con noi ma, capendo che il popolo curdo resiste e combatte, stanno tentando questa nuova tecnica: debilitare la sicurezza attorno alle strutture di detenzione, favorendo la fuga di potenziali terroristi che possono attaccarci dall’interno, mentre la Turchia prova a invaderci».

Gli chiedo: anche le famiglie dei detenuti, quelle rinchiuse nei campi profughi, sono considerate alla stregua di terroristi?»

«Le misure di sicurezza nei campi sono più leggere. All’interno di un territorio delimitato, quelle persone possono muoversi come vogliono, ricevono cibo e assistenza medica. Cerchiamo di trattare anche le famiglie dei terroristi con umanità ma, personalmente, credo che la maggior parte di loro siano terroristi. A parte la mia opinione, in questi campi troviamo continuamente, durante le perquisizioni, armi nascoste tra le tende. Purtroppo, la maggior parte delle radicalizzazioni oggi, avvengono proprio nelle prigioni e nei campi di detenzione, è un processo difficile da evitare. Possiamo dividere i criminali in base al grado di pericolosità, attuare misure di isolamento, ma parliamo di migliaia di persone, è un’impresa impossibile da raggiungere con le nostre risorse. Ora incontrerai uno dei prigionieri, io sarò dietro di te, armato, pronto a intervenire in qualsiasi caso. Potrai chiedergli quello che vuoi, tranne informazioni sulla prigione, domande a proposito dei suoi compagni o qualsiasi cosa possa rivelare la logistica del carcere. Inoltre, non potrai dire nulla su quello che accade al di fuori di qui, niente notizie sulla situazione politica o particolari sulle nostre misure di sicurezza».

Incontro con Adnan, carcerato ed ex terrorista

Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis ritratto di schiena (su sua richiesta); in carcere dal 2017, non sa ancora quando e se sarà liberato, né quanto potrebbe durare la sua pena. Foto di Angelo Calianno.

Due soldati accompagnano un uomo, incatenato mani e piedi, verso la stanza messa a disposizione per l’intervista.

L’ex terrorista ha la testa coperta da un cappuccio nero, è visibilmente molto magro. Tolto il cappuccio, ci presentiamo. Pronuncia le sue prime frasi in un italiano quasi perfetto, ma preferisce continuare l’intervista in arabo. L’uomo dice di chiamarsi Adnan Bu Zedi, ha 39 anni ed è di nazionalità tunisina. Si trova in carcere dal 2017. Adnan è laureato in matematica. Dopo l’università, grazie a un programma interculturale, si è specializzato studiando a Roma e a Siena. Adnan ha vissuto in Italia quattro anni, dove ha anche lavorato, come commesso, per una famosa catena di negozi di abbigliamento.

«Sono stati molto belli i miei anni in Italia. Quando sono arrivato ero sì, musulmano, ma non molto praticante. Nemmeno la mia famiglia è stata mai molto religiosa», mi racconta.

La storia della radicalizzazione di Adnan comincia dal suo ritorno in Tunisia, nel 2011, durante le proteste della Primavera araba. «Sono tornato in Tunisia perché dovevamo fare qualcosa contro la corruzione e la povertà. La religione non aveva nulla a che fare con le mie azioni. Io volevo solo avere una vita normale, ma la situazione di quegli anni non ci permetteva di pensare al futuro, per questo erano cominciati gli scontri e le proteste. In quei giorni però, ho conosciuto dei ragazzi che mi hanno introdotto alla moschea e ai movimenti più radicali.

È stato facile avvicinarmi alla religione. Stavo vivendo un momento personale molto brutto. La mia fidanzata mi aveva lasciato, ero senza lavoro, avevo litigato con la mia famiglia e, di conseguenza, ero sprofondato in una brutta depressione. Questo è stato il motivo per cui mi sono avvicinato alla moschea, ad Allah e ai miei compagni. Ho trovato conforto e una nuova famiglia: mi sentivo parte di qualcosa.

Qualche tempo dopo, uno dei miei nuovi amici alla moschea, mi ha parlato della Siria. La guerra stava devastando il paese, c’era bisogno di riportare la parola di Allah in quelle terre e così, siamo partiti. Il nostro viaggio è stato interamente pagato da un benefattore (15mila dollari), leader del nostro movimento. Sono arrivato a Istanbul con regolare visto turistico. In seguito, illegalmente, con i miei compagni abbiamo passato il confine per arrivare in Siria. Lì è cominciata la nostra opera. Tutto questo è avvenuto prima dell’arrivo del Daesh. Il nostro gruppo non era violento, quello che facevamo era semplicemente predicare per strada, nelle moschee, e avvicinare i ragazzi più giovani all’Islam “giusto”. Quello è stato un bel periodo per me, economicamente stavo molto bene, tanto che mi sono riappacificato con la mia famiglia, alcuni di loro mi hanno anche raggiunto in Siria. Il movimento si sciolse dopo circa un anno, il nostro leader si era ammalato gravemente. Quindi, ho trovato un lavoro presso un distributore di benzina. Subito dopo, ho sposato una ragazza siriana.

Alla fine del 2013, alcuni miei amici mi hanno chiamato dicendomi che si stava formando una nuova organizzazione, un gruppo che avrebbe riportato ordine e la parola di Allah in Siria: era nato il Daesh. Mi sono trasferito a Raqqa e mi sono unito ai miei nuovi compagni. Io ho l’asma e, per l’Islam, chi è infermo non può combattere. Mi occupavo della logistica, soprattutto della ricerca di alloggi e infrastrutture per i combattenti».

In quei giorni, il Daesh si macchiava di orrendi crimini. Venivano uccise centinaia di persone senza motivo. Chiedo ad Adnan: vedendo questo, non hai mai avuto ripensamenti? Lo trovavi giusto? «Ho più volte avuto dei ripensamenti e considerato di poter tornare in Tunisia. I miei compagni, però, erano molto bravi a farmi cambiare idea. Devo dire che il fattore economico aveva un grosso peso: fino a quando eravamo affiliati, non avevamo mai problemi di soldi. Ci tengo a dire che, per me, le uccisioni erano sbagliate, perché nel Corano è scritto che non bisogna uccidere. Certo, ci sono alcuni casi in cui la violenza è necessaria: se, ad esempio, una donna tradisce, merita di morire; se un uomo ruba, è giusto che gli venga tagliata una mano».

Nel 2017, quando l’Isis cominciava a indebolirsi, Adnan, sua moglie e due figli, denunciati da un ex compagno «pentito», sono stati arrestati mentre cercavano di scappare verso la Tunisia.

Quando gli chiedo come si sente oggi e cosa farebbe se mai dovesse uscire dal carcere, mi risponde: «In galera ho capito il senso della vita. Se mai dovessi uscire, la mia priorità sarebbe quella di tenermi fuori dai guai, lontano dai problemi. Vorrei avere una vita tranquilla. La prima cosa che farei sarebbe quella di mangiare del miele, mangerei un po’ di miele ogni giorno, mi manca il suo sapore, non l’ho più assaggiato da quando sono qui».

Lo stadio di calcio di Raqqa; è stato teatro dei momenti più drammatici durante l’occupazione dell’Isis; è qui che avvenivano molte delle esecuzioni pubbliche; gli spogliatoi per gli atleti sono stati trasformati in celle per la detenzione degli «infedeli». Foto di Angelo Calianno.

Reem, la signora della pace

Lasciato il carcere di al-Hasakah, torno a Raqqa, quella che è stata la roccaforte dell’Isis per quattro anni. Qui sono state migliaia le persone, considerate «infedeli», giustiziate dal Daesh.

Cosa è successo a tutti quelli che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai giorni di occupazione dei terroristi? Come vivono oggi? Quali sono le loro speranze per il futuro?

Reem, la «signora della Pace», ritratta di schiena in una delle stanze della sua piccola Ong; Reem indossa il burqa solanto per proteggere la sua identità. Foto di Angelo Calianno.

Una delle persone più adatte a rispondere a queste domande è Reem, una donna che ha fondato una piccola Ong che si prende cura delle vittime del terrorismo: persone che hanno avuto danni psicologici e fisici, gente che ha perso lavoro e famiglia. Grazie a un team di 37 volontari tra medici, psicologi e insegnanti, Reem cerca di guarire la ferita profonda lasciata dalla guerra. Per il suo impegno, molti poeti siriani le hanno dedicato delle odi, soprannominandola «Lady Peace» (signora della pace).

Mi racconta: «Pochi si rendono conto dei danni psicologici che il Daesh ha provocato e continua a provocare. Sono tantissime le persone che fanno fatica a uscire di casa, a causa dei traumi subiti durante i giorni di occupazione. Io sono una di loro. Vengo da una famiglia cristiana, mi sono convertita per sposare mio marito. A casa avevo una statua della Madonna e, per questo, un giorno degli uomini hanno fatto irruzione e distrutto tutto a colpi di mitragliatrice: tutti i miei ricordi.

Mentre provavo a lasciare Raqqa, una pattuglia del Daesh ci ha bloccato per strada prendendo a bastonate il taxi che ci trasportava: il motivo era che mia figlia, di 15 anni, non indossava un burqa integrale. Sono stati giorni tremendi, non ci si poteva fidare di nessuno, molti erano pronti a denunciarti anche solo per ottenere un pasto caldo. Un giorno, nel mio quartiere, hanno radunato tutti gli uomini non musulmani e quelli sciiti e, davanti ai nostri occhi, li hanno decapitati. Dopo aver assistito alla scena, la moglie di uno di quegli uomini è morta sul colpo, stroncata da un infarto.

Io, per l’ansia, da allora esco raramente e ho cominciato a fumare moltissimo. Ho ancora paura che quacuno mi possa fermare per strada e uccidere. Per la mia attività, per quello che ho deciso di fare aiutando le vittime del Daesh, sono in cima alle loro liste delle persone da eliminare. Per questo preferisco che non mi si veda in volto».

Un’immagine del centro di Raqqa, sullo sfondo s’intravvede la chiesa armena dei Santi Martiri. Foto di Angelo Calianno.

Torture e indottrinamento

Camminando per Raqqa, sono tantissimi i luoghi che portano le cicatrici della guerra contro il terrorismo. Centinaia sono i palazzi distrutti per essersi trovati in mezzo alla linea di fuoco nei combattimenti tra i terroristi e la coalizione internazionale. Malgrado le case siano ad alto pericolo di crollo, sono comunque occupate abusivamente. Molte di queste abitazioni hanno subito ulteriori crolli dovuti al terremoto del 6 febbraio, evento che ha ucciso migliaia di persone in Siria, molte nemmeno registrate come cittadini. Le uniche alternative, per chi ha perso tutto, sono l’occupazione abusiva o la vita in una tenda di un campo profughi.

Uno dei luoghi più noti per la detenzione, e le esecuzioni dell’Isis, è stato lo stadio di calcio di Raqqa. Un guardiano mi apre il cancello, mi mostra le stanze dove i terroristi tenevano gli «infedeli». Persone catturate perché non avevano osservato la sharia, o semplicemente perché di un’altra religione.

Qui incontro Majid, sunnita, uno dei ragazzi che, in queste celle, ha passato mesi. «Nel 2014 – racconta – il Daesh aveva distrutto la chiesa dei Santi Martiri, qui a Raqqa. Allora io, insieme a tanti musulmani, sciiti e sunniti, e a cristiani di varie confessioni, sono andato lì per rimettere su la croce, in segno di protesta contro l’occupazione. Sono stato arrestato in quell’occasione. Non mi sono mai tirato indietro contro le ingiustizie, ho sempre cercato di far sentire la mia voce con proteste pacifiche. Ovviamente, questo dava molto fastidio e così mi hanno arrestato e torturato. Le torture si alternavano a tentativi di indottrinamento. I primi giorni mi trattavano bene, mi davano molto da mangiare e, in seguito, mi parlavano a lungo del motivo per cui mi sarei dovuto unire al Daesh. Quando mi sono rifiutato, una delle prime volte, mi hanno legato, incappucciato e lasciato nel centro del corridoio, proprio qui all’ingresso degli spogliatoi dello stadio. Tutti quelli che passavano mi picchiavano, mi tiravano calci in testa, nelle costole, sulla schiena. Sono rimasto in quello stato per diversi giorni.

Poi, ancora nuovi tentativi di conversione e nuove torture. Una delle peggiori che ricordo è chiamata al-Shabh («il fantasma», in arabo), una tortura che consiste nell’essere appeso con le braccia in tensione dietro la schiena. Sono stato lasciato così quasi un giorno. Sono stato accusato di essere sciita, perché nella mia famiglia ci sono diverse persone che si chiamano “Alì”. In seguito, mi hanno accusato di essere comunista, ateo e di aver combattuto con i partigiani curdi».

«Durante quel periodo, mi sono gravemente ammalato di dissenteria. I miei carcerieri mi davano solo un minuto per poter andare in bagno, puoi immaginare le condizioni igieniche. Sulla porta della mia cella, con delle pietre, avevo disegnato un ideale passaggio rappresentato da un arco con dei fiori. Quell’immagine mi ha dato speranza. Sono rimasto imprigionato per 5 mesi e 20 giorni. Sono stato liberato perché la mia famiglia ha pagato un riscatto. Ancora oggi però, soffro di attacchi di ansia. Dormo pochissimo e ho continuamente incubi. Ci sono dei suoni che mi scatenano ancora terrore: il tintinnio delle chiavi, il rumore di un cancello che si apre, dei passi lungo il corridoio. Chi è sopravvissuto fisicamente all’Isis, dentro ha ancora delle ferite inguaribili».

Oggi Majid lavora in diversi campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente. Si occupa di portare avanti progetti d’arte e pittura con i bambini che hanno perso casa e famiglia. Come prima immagine, quando si presenta ai ragazzi, mostra quell’arco con i fiori che gli ha dato speranza durante la prigionia.

Chi sostiene l’Isis

Oltre ai bombardamenti ordinati da Erdogan, a favorire l’Isis ci sarebbe anche Assad con il suo regime. Il presidente della Siria, secondo diversi comunicati dell’intelligence curda e Usa, decidendo di non intervenire in alcun modo per contrastare i terroristi dello Stato islamico, ne favorirebbe la circolazione e la sopravvivenza. Un recente dossier del Washington Institute (un centro studi statunitense sul Medio Oriente, ndr), parla anche di veri e propri finanziamenti in denaro e fornitura di armi.

Così come Erdogan, anche Assad auspica il crollo della democrazia del Rojava, cosa che gli darebbe la possibilità di occupare i territori del Nord Est, molto ricchi di petrolio.

Malgrado non ci sia più una vera occupazione da parte del Daesh, e la maggior parte delle cellule terroristiche si sia rifugiata nelle zone rurali e sulle montagne, il pericolo del terrorismo è ancora reale. Proprio nella struttura governativa curda, che mi ha ospitato a Raqqa, il 26 dicembre 2022 i terroristi dell’Isis hanno fatto irruzione, uccidendo sei persone.

A seguito di questo attacco, una nuova operazione antiterrorismo, effettuata dall’Sdf (Syrian democratic force), chiamata «Per i martiri di Raqqa», ha portato all’arresto di 32 terroristi e di decine di complici che ne favorivano la latitanza.

A oggi, sono 55 i villaggi sospettati di ospitare e sostenere gli uomini dello Stato islamico. Negli ultimi tre anni, grazie agli interventi dell’Sdf, sono stati sequestrati centinaia di milioni di dollari in contanti, nascosti da alcuni «facilitatori» che si occupavano degli aspetti finanziari del terrorismo islamista.

Malgrado la comprovata efficienza delle operazioni militari, moltissimo c’è ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto umanitario che coinvolge profughi e detenuti. Campi di detenzione e carceri rischiano di essere, secondo il parere dei vertici dello Stato maggiore curdo, degli incubatori per i terroristi di domani.

Angelo Calianno
(seconda parte – fine)

Periferia di al-Hasakah: in gran parte delle città non esistono discariche ufficiali, l’immondizia viene lasciata in enormi spazi, appena fuori dai centri abitati; qui s’incontrano molti ragazzi e bambini che, tra la spazzatura, cercano materiali da riciclare, soprattutto metalli da poter rivendere a peso. Foto di Angelo Calianno.


Dopo i 45mila morti del terremoto

La tragedia e il cinismo di Erdogan e Assad

I l devastante terremoto che, il 6 febbraio 2023, ha colpito il Sud Est della Turchia e il Nord Ovest della Siria, rischia di influire pesantemente anche sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

Per quanto riguarda la Turchia, la zona colpita, una delle più povere del paese, è abitata per la maggior parte da curdi. Città come Salinurfa e Gaziantep, sono da sempre i centri principali dei movimenti di opposizione a Erdogan. Con le elezioni alle porte, previste prima per giugno 2023 ma, molto probabilmente, anticipate al 14 maggio, il presidente turco potrebbe usare il controllo degli aiuti come mezzo di propaganda. Erdogan si gioca molta della sua credibilità nella gestione di questa emergenza. In Turchia, la consapevolezza del rischio di un terremoto di questa entità esisteva da anni. Il governo parla di 4,2 miliardi di euro, spesi negli ultimi 20 anni, per la messa in sicurezza di case e infrastrutture. I partiti di opposizione rispondono che, visto quello che il sisma ha causato, quei soldi sono stati spesi in alcune zone piuttosto che in altre, svantaggiando i curdi, i nemici di sempre di Erdogan.

Le elezioni anticipate potrebbero giocare molto a sfavore dell’attuale presidente, ma anche per l’opposizione, che non ha ancora un leader abbastanza carismatico da contrapporre a Erdogan.

In Turchia sono arrivati volontari da tutto il mondo. La macchina degli aiuti si è mossa velocemente. Nonostante questo, al momento (6 marzo), sono oltre 40mila le vittime di questo terremoto.

Ancora più complicata è la situazione in Siria. Il terremoto, oltre alle migliaia di vittime dovute allo stato precarissimo delle costruzioni, ha causato l’ennesima evasione di terroristi dello Stato islamico da alcuni dei centri di detenzione. Inoltre, la Siria è ancora uno stato sottoposto a sanzioni, quindi, l’ingresso di aiuti umanitari e invio di denaro è molto complicato.

Il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeymo, ha dichiarato sospese, almeno temporaneamente, alcune delle penalizzazioni nei confronti del paese, per permettere l’ingresso alle organizzazioni umanitarie.

Tuttavia, i soccorsi sono arrivati e stanno arrivando molto in ritardo. Le Nazioni Unite ne hanno posticipato l’invio per il timore che Assad possa usare il coordinamento degli aiuti come ulteriore arma per rafforzare il proprio regime, e controllare quelle aree ancora a lui ostili. In questo momento, le Ong stanno cercando un modo per inviare denaro, e supporto, direttamente alle organizzazioni umanitarie già presenti in Siria (come, ad esempio, i volontari White Helmets), evitando così che tutto debba passare al vaglio di Damasco. A questo, si sono opposti Iran e Russia, alleati del presidente Assad.

A oggi, sono quasi seimila le vittime in Siria, numero destinato drammaticamente a salire, poiché sono davvero poche le aree raggiunte dai soccorsi.

Un ulteriore problema, che la Siria dovrà affrontare, sarà l’ondata di persone che tenteranno di fuggire dal paese, il terremoto ha distrutto quel poco che rimaneva di molte aree già provate da più di un decennio di guerra.

An.Ca.

L’interno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.

I cristiani del Rojava

Fuga senza fine

Nel 2011, erano 400 le famiglie di cristiani residenti a Raqqa. Una comunità, molto praticante, partecipava a tutte le funzioni domenicali e delle festività, soprattutto quella natalizia. L’occupazione dell’Isis, l’impossibilità di praticare la propria religione e le persecuzioni, hanno causato la  fuga della maggior parte dei fedeli. Oggi, a Raqqa sono rimasti meno di 60 cristiani, quasi tutti uomini. Malgrado alcune chiese siano state ricostruite (come quella armena in foto), non si celebrano più messe per la mancanza di parrocchiani. Dei 150mila cristiani che si stimano presenti nel Rojava, una gran parte sta a al-Qamishle e dintorni. In tanti si sono trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove la comunità cristiana è relativamente benestante.

An.Ca.

L’esterno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.




Pacifico: Territorio di caccia


Il Pacifico meridionale, con i suoi molteplici stati insulari, non solo è un paradiso terrestre che sta per scomparire a causa della crisi climatica, ma è sempre più teatro di contesa tra le superpotenze mondiali. Cina e Stati Uniti (con i suoi alleati) si sfidano con accordi economici e di sicurezza nell’area.

Cannoni giapponesi e carri armati statunitensi mezzi sepolti dalla sabbia e dall’acqua cristallina del Pacifico. Le coste del piccolo arcipelago di Kiribati portano ancora i segni delle battaglie della Seconda guerra mondiale. Siamo all’estremità orientale della Micronesia, una delle tre aree, insieme a Melanesia e Polinesia, in cui sono raggruppati i paesi dell’Oceania.

Luoghi spesso dimenticati e di cui si parla solo per le spiagge da sogno o per gli effetti nefasti del cambiamento climatico, qui più evidenti che altrove. Lontani dalle luci della ribalta, eppure sempre più nel cuore delle contrapposte strategie delle grandi potenze: il Pacifico meridionale sta diventando teatro della contesa geopolitica fra Stati Uniti e Cina. Non siamo solo nel cosiddetto «giardino» di casa dell’Australia, ma anche dinanzi alla porta d’accesso a quello che Washington e Tokyo amano chiamare Indo Pacifico, definizione che non piace a Pechino che preferisce anteporre «Asia» al nome dell’oceano più grande.

Honolulu, sede della base del comando del Pacifico dell’esercito americano, dista «solo» duemila chilometri da Kiribati. Proprio questo arcipelago di 120mila abitanti è stato l’ultimo «acquisto» della campagna diplomatica messa in atto nell’area dalla Cina. Il gigante asiatico ha, infatti, aperto proprio qui la sua più recente ambasciata nella regione dopo la decisione del governo locale del premier Taneti Maamau di rompere i rapporti con Taiwan, che nelle vicinanze ha tradizionalmente un gruppo sostanzioso di «amici diplomatici».

Era l’autunno del 2019. Poche settimane prima, avevano operato la stessa mossa anche le Isole Salomone, luogo chiave per capire la strategia della Repubblica popolare nel Pacifico meridionale. Nel paese celebre per la battaglia di Guadalcanal, parte della mitologia bellica a stelle e strisce, Pechino ha messo rapidamente radici. Ha costruito una grande ambasciata, strade e stadi in vista dei Pacific games (olimpiadi locali, ndr) del prossimo novembre, appuntamento sfruttato dal premier Manasseh Sogavare per rinviare le elezioni previste quest’anno.

L’avanzata cinese

Come anche altrove, Pechino ha approfittato per anni della sostanziale assenza degli Stati Uniti, distratti da quanto accadeva in Medio Oriente o in Afghanistan. Nonché più interessati a questioni interne, con un protezionismo economico che si è, per qualche tempo, accompagnato a un’introversione strategica.

Secondo i dati dell’australiano Lowy Institute, tra il 2006 e il 2017 la Cina ha speso quasi 1,5 miliardi di dollari in aiuti esteri, un misto di sovvenzioni e prestiti, per le isole del Pacifico. Negli ultimi anni di Covid-19 il flusso è rallentato, ma non verso Kiribati e Isole Salomone, «ricompensati» per la rottura dei rapporti con Taipei (capitale di Taiwan, ndr).

Proprio con le Salomone, nel 2022 sono stati siglati due accordi bilaterali molto significativi. Il primo per la costruzione di 161 torri cellulari di Huawei, il gigante tecnologico di Shenzhen su cui Washington ha emesso una serie di restrizioni già a partire dal 2020.

Il progetto delle torri è frutto di un prestito da oltre 70 milioni di dollari stanziato dalla China harbor engineering company, i cui uffici si trovano nello stesso edificio verde del ministero degli Affari esteri delle Salomone, a riprova di un rapporto a dir poco stretto.

Le reti di telefonia mobile esistenti nelle Isole Salomone coprono almeno il 94% della popolazione, ma la copertura della banda larga mobile è minore al 30%. La Cina corteggiava da anni il governo locale sull’argomento. Nel 2018, l’Australia era intervenuta all’ultimo momento con un progetto alternativo pur di impedire a Huawei di posare un cavo di comunicazione sottomarino fino alla capitale Honiara. Con il progetto delle torri, invece, si è andati fino in fondo e sono in fase di costruzione.

Chinese Foreign Minister Wang Yi (L) and Kiribatiís President Taneti Maamau shake hands during a signing ceremony at the Great Hall of the People in Beijing on January 6, 2020. (Photo by Mark Schiefelbein / POOL / AFP)

Così come nessuno ha fermato un accordo di sicurezza sottoscritto tra i due governi che consente a Pechino di inviare agenti di polizia o navi militari nel paese del Pacifico.

Washington e Canberra (capitale australiana, ndr) temono che possa essere costruita una base dell’esercito cinese in una zona considerata strategica. Le due parti hanno negato, ma dopo aver visto per la prima volta la polizia cinese addestrarsi con gli ufficiali delle Isole Salomone, Sogavare ha dichiarato: «Mi sento più sicuro».

Il suo scopo è quello di tutelarsi di fronte alle forti tensioni sociali e politiche che caratterizzano le Salomone. Nel dicembre del 2021, il governo locale della provincia di Malaita (l’isola più popolosa che si sente storicamente sottorappresentata dalle istituzioni centrali) ha ispirato rivolte di piazza contro il premier che hanno causato diverse violenze, prendendo di mira la Chinatown di Honiara.

Dopo il Covid, d’altronde, Pechino ha diluito investimenti e prestiti, ma prova a proporsi come «garante di stabilità». Tendenza accentuata dalla guerra in Ucraina e in qualche modo favorita dalle piattaforme militari promosse dagli Stati Uniti nel Pacifico, a partire da Aukus, il trattato di sicurezza che riunisce Washington, Londra e Canberra per lo sviluppo (tra le altre cose) di sottomarini nucleari in dotazione alla marina australiana.

La stabilità promessa da Pechino è innanzitutto economica, da attuarsi tramite investimenti e meccanismi di cooperazione commerciale, legati alla strategia della Nuova via della seta (Belt and road initiative), ma si parla anche di stabilità nel senso di sicurezza nazionale. Leggasi Global security initiative, il nuovo progetto multilaterale a guida cinese lanciato da Xi Jinping nel 2022. Dopo i due accordi su digitale e sicurezza, le Isole Salomone sono state ritratte dai media di stato cinesi come un modello di ciò che gli sforzi internazionali della Cina possono realizzare.

L’influenza di Pechino arriva anche altrove. Una società cinese possiede, per esempio, la principale miniera d’oro delle Figi, così come uno dei loro principali siti estrattivi di bauxite. A Palau, uno dei paesi ancora fedeli a Taipei, la Cina ha inviato uomini d’affari che si stanno ritagliando un ruolo sempre più rilevante nella vita economica e politica. Due ex presidenti del piccolo paese, così come altri politici e funzionari, sarebbero vicini ad alcune di queste figure e potrebbero spingere in futuro il riconoscimento diplomatico della Repubblica popolare.

La risposta americana

Dopo anni di avanzata semi incontrastata della Rpc, negli ultimi tempi gli Stati Uniti sono tornati a occuparsi della regione, unendosi agli sforzi dell’Australia che, oltre per i cavi sottomarini, era intervenuta nel 2021 per bloccare l’acquisizione da parte cinese di Digicel, la principale azienda di telecomunicazioni delle isole del Pacifico.

A fine settembre dello scorso anno, la Casa Bianca ha organizzato il primo summit bilaterale con gli stati insulari della regione. Dopo aver ricordato il miliardo e mezzo di dollari già speso nel decennio passato, Washington ha presentato un pacchetto di 810 milioni volto soprattutto ad affrontare il cambiamento climatico, a rafforzare l’assistenza economica, la pesca, il commercio e gli investimenti, e a fornire altro sostegno tangibile alla regione. Il piano prevede anche ulteriori fondi per un programma globale di infrastrutture e investimenti per favorire la ripresa economica delle nazioni insulari colpite dalla pandemia, ad esempio nel campo del turismo.

Se sulla spesa è difficile pareggiare la presenza cinese, gli Usa però hanno battuto qualche colpo anche a livello simbolico e diplomatico. Hanno annunciato la riapertura di una mini ambasciata a Honiara (Isole Salomone, chiusa dal 1993) e il ritorno dei corpi di pace tra Figi, Tonga, Samoa e Vanuatu. Ha nominato anche il primo ambasciatore statunitense al Forum delle isole del Pacifico, il massimo organismo politico regionale.

L’accordo prodotto dal summit è stato firmato (in modo inatteso) anche dalle Salomone, dopo che dal testo finale erano stati stralciati tutti i riferimenti alla Cina. Ai paesi del Pacifico meridionale preme, infatti, evitare di finire invischiati in uno scontro tra superpotenze. La loro intenzione è quella di non dover scegliere da che parte stare, quantomeno fino a quando sarà concesso loro. E soprattutto di ricevere aiuto concreto sulle problematiche che hanno di fronte, a partire dallo sviluppo economico e dalla minaccia sempre più impellente del cambiamento climatico (con l’innalzamento del livello del mare che rischia di sommergere le isole, ndr). Ecco allora che Washington è riuscita a ottenere la firma di Honiara e degli altri governi concentrandosi su questioni come il clima, la crescita economica e i disastri naturali.

Gli interessi dei governi locali

Dall’altra parte, dopo il caso delle Salomone, gli altri stati insulari sembrano aver capito che non conviene sottoscrivere troppo in fretta accordi legati alla sfera della sicurezza con la Cina. Dopo un primo dialogo a livello ministeriale tra Pechino e i capi dei dipartimenti di pubblica sicurezza di diversi paesi della regione, su forze dell’ordine e cooperazione di polizia, qualcosa si è fermato.

A maggio, il tour senza precedenti dell’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi nel Pacifico meridionale ha portato a diversi accordi economici, ma non a un accordo regionale sulla sicurezza che il diplomatico di Pechino aveva sottoposto agli omologhi regionali.

Solo Samoa ha dato il via libera alla costruzione di un laboratorio di impronte digitali della polizia, mentre a Tonga è arrivata luce verde per la fornitura di un laboratorio di polizia e di attrezzature per l’ispezione doganale. Ma l’accordo quadro non è stato sottoscritto. Anzi, c’è chi si è opposto apertamente. In particolare, David Panuelo, presidente degli Stati federati di Micronesia (dotati peraltro di un accordo di sicurezza con gli Usa), che in una lettera ai colleghi aveva paventato il rischio di una sorveglianza di massa cinese nella regione e lo scatenamento di «una nuova era di guerra fredda nel migliore dei casi, e una guerra mondiale nel peggiore».

A inizio 2023, le Figi non hanno rinnovato il memorandum of understading siglato nel 2011 che consentiva scambi di personale di polizia con la Cina. E lo hanno fatto con parole che saranno sembrate musica per le orecchie di Washington. «Il nostro sistema di democrazia e di giustizia è diverso, quindi ci rivolgeremo a chi ha sistemi simili ai nostri», ha affermato il premier Sitiveni Rabuka.

Ciò non significa che diversi governi non siano invece tentati dalla proposta cinese. Tanto che i leader che non hanno sottoscritto l’accordo regionale di sicurezza non hanno escluso di poterlo fare in futuro, adducendo come ragione del mancato via libera il poco tempo messo a disposizione per studiarne dettagli e implicazioni.

Usa e Australia, nel frattempo, si premuniscono. Sulle Salomone sta andando in scena quasi una corsa al rifornimento di armi. Dopo che Canberra ha fornito fucili alle autorità locali, Pechino ha inviato cannoni ad acqua. E gli Stati Uniti preparano l’invio di circa cinquemila marines in più, rispetto a quelli già presenti sull’isola di Guam, territorio americano nel Pacifico e famosa base militare. Obiettivo ufficiale: proteggere le isole del Pacifico e le rotte marittime vitali. Nella speranza che in futuro le spiagge e i mari (sempre più alti) degli stati insulari non debbano accogliere nuovi resti di cannoni e carri armati.

Lorenzo Lamperti

(220526) — HONIARA, May 26, 2022 (Xinhua) — A ground breaking ceremony of the 2023 Pacific Games Stadium Project is held in Honiara, capital of the Solomon Islands, May 5, 2021. (Xinhua) (Photo by XINHUA / XINHUA / Xinhua via AFP)


Nuova Caledonia e Isole Marshall

Quando ti liberi, ricordati di me

La partita incrociata tra Usa e Cina sul Pacifico meridionale si gioca anche su situazioni politiche irrisolte, retaggio della guerra fredda o persino dell’era della colonizzazione occidentale.

La Cina si muove con attenzione anche su quegli arcipelaghi che ancora non sono indipendenti ma che potrebbero in futuro diventarlo. Puntando così a rimpinguare la già folta pattuglia di paesi pronti a sostenere Pechino presso gli organismi internazionali, a oggi composta in particolare dai rappresentanti africani.

Un esempio è la Nuova Caledonia, che fa ancora parte della Francia. I movimenti indipendentisti sono stati sconfitti tre volte nei referendum degli anni passati, ma non si sono ancora del tutto arresi. Essi hanno sovente una comunanza ideologica col Partito comunista cinese, con una particolare affinità creatasi presso le comunità indigene sin dai tempi in cui Mao Zedong promuoveva la Cina come guida del cosiddetto «terzo mondo».

L’arcipelago delle Isole Marshall (paese indipendente, ndr), in Micronesia, è stato invece teatro di una spy story dai connotati particolarmente intriganti. Una coppia di cittadini cinesi è stata arrestata nel 2020 con l’accusa di aver complottato per creare un mini stato indipendente su un remoto atollo delle Marshall. Secondo la giustizia statunitense, i due avrebbero pagato tangenti a parlamentari e funzionari per far sì che le proposte di legge a sostegno della creazione di uno stato indipendente venissero discusse nel parlamento locale a due riprese, nel 2018 e nel 2020. Un argomento sul quale era stato trovato almeno in parte terreno fertile, anche a causa delle ferite mai del tutto rimarginate dovute a circa quattro decenni di amministrazione statunitense, conclusasi nel 1990, durante i quali furono condotti 66 test di armi nucleari, compreso il Castle Bravo, il test atomico più grande mai condotto dalle forze militari americane. Gli abitanti degli atolli limitrofi non furono evacuati, con conseguenze sulla salute dei cittadini esposti alle radiazioni.

La sconfitta alle elezioni del 2020 della presidente uscente Heine, ferma oppositrice del progetto del ministato, sembrava poter favorire l’idea dei due cittadini cinesi. Questi, legati in qualche modo a obiettivi di Pechino, quantomeno secondo la Heine, sono stati poi arrestati in Thailandia.

Anche gli Stati Uniti, con altre modalità, utilizzano alcune divisioni interne ai paesi dell’area per fini strategici. Nelle Isole Salomone continuano per esempio a sovvenzionare il governo locale della provincia di Malaita, che durante la pandemia ha ricevuto anche aiuti sanitari da parte di Taiwan sfidando le disposizioni dell’esecutivo centrale filocinese. Durante il recente summit tra Usa e Stati del Pacifico, la Casa Bianca ha anche annunciato l’intenzione di riconoscere le Isole Cook e Niue come stati sovrani, dopo «appropriate consultazioni». Attualmente Washington riconosce le isole come territori autogestiti.

Lor.Lam.

HONIARA, May 26, 2022 (Xinhua) — Solomon Islands Prime Minister Manasseh Sogavare (R) meets with visiting Chinese State Councilor and Foreign Minister Wang Yi in Honiara, Solomon Islands, May 26, 2022. (Xinhua) (Photo by Guo Lei / XINHUA / Xinhua via AFP)




La rivincita della legalità


Sommario

In Villa contro le mafie
La libera Masseria di Cisliano (Milano)

Beni Liberati
Da Nord a Sud Italia, migliaia di confische alle mafie

Beni confiscati, in gestione e destinati

Togliere potere alla malavita 
Intervista al direttore dell’Anbsc

Ha firmato il dossier

In Villa contro le mafie

La libera Masseria di Cisliano (Milano)

La villa di un boss della ’ndràngheta, nei pressi di Milano, diventa un bene comune. Grazie a soggetti impegnati per la legalità, oggi accoglie persone con disagio abitativo, ragazzi da formare, giovani profughi.

S ulla strada provinciale 114 che da Milano porta in direzione sud ovest, all’altezza di Cisliano, comune di 5mila abitanti, quasi ogni mattina, in periodo scolastico, decine di studenti delle scuole superiori varcano il grande cancello di una villa con piscina, ristorante e stalle per cavalli.

La villa, che fino a pochi anni fa era di proprietà della famiglia Valle, affiliata alla ’ndràngheta, oggi è meta di gite scolastiche perché uno di quei molti beni «liberati» dalla malavita organizzata, cioè confiscati dallo Stato, e messi a disposizione della società civile tramite un ente senza scopo di lucro.

Benvenuti alla Libera Masseria

Quando arriviamo alla Libera Masseria di Cisliano, è una fredda giornata invernale. Appena entriamo, però, sentiamo la sensazione di un fuoco che riscalda: quello della legalità.

Ci accolgono Elena Simeti e Giovanni Balestreri che lavorano alla Masseria attraverso l’associazione Una casa anche per te (Ucapte Onlus).

Poco dopo di noi, arriva anche don Massimo Mapelli, responsabile della Caritas nella zona VI della Diocesi di Milano e presidente dell’associazione.

Da almeno un ventennio don Massimo è impegnato in prima linea in diversi ambiti. Vive poco lontano da qui, in una comunità che, tra le altre cose, ospita 35 minori stranieri non accompagnati, molti arrivati in Italia dopo essere scappati dalle angherie in Libia. Per anni ha seguito anche le comunità rom di Milano e dintorni.

Elena e Giovanni hanno terminato da poco un’intensa mattinata di confronto con un paio di classi delle superiori: «Siamo arrivati a quota 13mila studenti in sei anni – esordisce don Mapelli -. Arrivano da ogni parte della Lombardia e non solo».

Sulle pareti della sala nella quale ci sediamo a parlare, come altrove nella Masseria, campeggiano frasi di alcune delle persone che più hanno speso la propria esistenza nella lotta alla mafia.

Nei pressi della cucina ne leggiamo una di Pio La Torre, politico e sindacalista siciliano assassinato da cosa nostra nel 1982: «Lo so che per voi la mafia sembra un’onda inarrestabile. Ma la mafia si può fermare ed insieme la fermeremo».

Turni di notte e delibere comunali

Cisliano e gli altri centri della cintura sud ovest di Milano – Corsico, Trezzano sul Naviglio, Buccinasco, ecc. – mostrano dati impressionanti circa la presenza della criminalità organizzata in questo territorio: «In media, c’è un bene confiscato ogni mille abitanti», sottolinea don Mapelli.

Fu in occasione dell’apertura di un Emporio della solidarietà in zona che lui e altre persone riunitesi per dare risposte sociali capaci di sottrarre protagonismo alle mafie, iniziarono a ragionare attorno all’uso dei beni confiscati.

La prassi vuole che un bene confiscato definitivamente dallo Stato venga assegnato per vie formali a un ente che possa utilizzarlo. Nel caso della Libera Masseria di Cisliano la storia andò diversamente, ci spiega don Massimo.

Era il 2014. Quattro anni dopo l’arresto di diversi componenti della famiglia Valle, avvenuto durante un’operazione speciale con tanto di elicottero e televisioni in diretta.

Con l’ultimo grado di giudizio arrivò la confisca definitiva della villa. Poco tempo dopo sparì il grande cancello d’ingresso: chiunque ora sarebbe potuto entrare e rovinare l’edificio. Il rischio dell’abbandono all’incuria e al degrado era elevato.

«Aspettare l’iter legislativo avrebbe voluto dire che il posto sarebbe diventato ingestibile», ricorda don Mapelli. Così, assieme ad altre persone legate alla Caritas, entrò nella villa «senza chiedere il permesso, dato che era tutto aperto», e ne verificò le condizioni. Subito dopo andò dal sindaco di Cisliano per capire cosa si sarebbe potuto fare.

«Il Comune è piccolo, buona parte del fabbricato è risultata abusiva, la questione era delicata».

Così il primo cittadino indisse un consiglio comunale ad hoc per tutti, all’aperto.

Era maggio 2015: trecento persone si riunirono e, votando, diedero il loro consenso affinché il gruppo di don Mapelli, che poi si sarebbe riunito nell’associazione Una casa anche per te, prendesse in gestione la villa.

«Dopo avere fatto per qualche giorno i turni anche di notte per arginare l’ingresso di vandali, attraverso l’amministrazione si è arrivati all’assegnazione provvisoria della villa».

Il 14 giugno 2021 l’assegnazione comunale diventò finalmente definitiva.

Accoglienza e formazione alla legalità

Nei sei anni intercorsi tra il 2015 e il 2021, il bene confiscato alla ’ndràngheta è stato gestito senza nessun soldo pubblico, ma solo grazie al lavoro volontario, in particolare quello di molti giovani.

È stato sistemato quello che si poteva per rendere vivibile il luogo e, soprattutto, per offrire fin da subito alcune stanze a persone del territorio in difficoltà: «Da allora a oggi ne abbiamo ospitate sessanta, tra cui diversi nuclei familiari che avevano subito uno sfratto esecutivo». Non per periodi lunghi, giusto il tempo necessario per trovare un’altra sistemazione.

Ancora oggi l’accoglienza rimane il primo scopo di Libera Masseria, la formazione alla legalità dei giovani studenti è lo step successivo. Mentre ragazzi arrivati dalle migrazioni si occupano del verde e della manutenzione del posto.

Migliaia di giovanissimi, tra studenti e partecipanti a campi di lavoro estivi, imparano la storia del riscatto di questo luogo anche attraverso la conoscenza delle vicende criminali dei suoi precedenti proprietari. «Il clan Valle era dedito soprattutto all’usura e, prima dell’arresto, è arrivato a possedere cento immobili, tredici società, quasi cento conti correnti», spiega don Mapelli.

Un altro valore aggiunto di Libera Masseria: i ragazzi che la visitano ascoltano le vicende dei profughi provenienti dall’Africa, imparando così a leggere anche gli attuali fenomeni migratori.

Sogni e progetti che diventano realtà

Foto e cartelloni appesi nelle sale di Libera Masseria parlano di un luogo molto vissuto.

Dopo l’assegnazione definitiva, si è finalmente mosso qualcosa a livello economico e ora sono in programma lavori di manutenzione.

Per tre anni, una zona alla volta, sono in fase di ristrutturazione saloni, taverne e gli stessi appartamenti dedicati all’accoglienza: «Gli aiuti arrivano dal fondo che la Regione Lombardia stanzia ogni anno per i beni confiscati».

Una volta conclusi i lavori, per don Mapelli e il suo gruppo si realizzerà il sogno del riutilizzo completo della struttura, compresa la pizzeria annessa alla villa un tempo gestita dalla famiglia Valle.

Il nuovo progetto sarà, ovviamente, del tutto speciale: stiamo parlando di ristorazione sociale e di formazione alla ristorazione. Un luogo, quindi, nel quale, per esempio, potranno mangiare una pizza una volta ogni tanto anche le famiglie indigenti, grazie a una tessera solidale, e dove ragazze e ragazzi potranno imparare a fare cuochi e pizzaioli.

Accendere fari sulla criminalità

La collaborazione tra Libera Masseria e l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (benisequestraticonfiscati.it), l’Ansbc, è stretta e quotidiana, e fa anche da punto di riferimento per altri comuni a associazioni che vogliono capire come rendere sostenibile la gestione di un bene sottratto alle mafie.

In quest’ottica, nel 2020 la villa ha ospitato un importante incontro con il Prefetto di Milano Renato Saccone, la coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Alessandra Dolci, e 53 sindaci della zona. In seguito è venuto in visita anche l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, con Nando Dalla Chiesa e la stessa Alessandra Dolci.

«Ci abbiamo messo la faccia fin dall’inizio, chiarendo da che parte stiamo», dice don Mapelli. Per questo lui e gli operatori coinvolti nella gestione della Libera Masseria, nel corso del tempo, sono stati più volte contattati da persone che volevano raccontare come si erano trovate coinvolte nella precedente gestione mafiosa di quegli stessi beni. «Con paura e discrezione, si sono avvicinati. Questo significa che, se accendi i fari sul territorio, qualcosa cambia».

Una rete che cresce

Nonostante le fatiche iniziali, un po’ per volta diverse associazioni del territorio hanno preso contatti con la Libera Masseria e ora si stanno lasciando coinvolgere, creando una rete.

Il 5 luglio 2021 questa rete si è sperimentata in un’azione dimostrativa a Buccinasco, comune non lontano da Cisliano, che ha portato 400 persone, tra cui 40 sindaci dei dintorni, sotto la casa di Rocco Papalia, definito uno dei più potenti boss della ’ndràngheta, tornato nel paese lombardo dopo aver scontato 26 anni di carcere fino al 2017.

Come si legge sul sito del comune di Buccinasco, «oggi vive nella stessa palazzina […] dove lo Stato ha confiscato alla sua famiglia due appartamenti, due box e una taverna, da anni destinati a un progetto per minori».

L’iniziativa di protesta è nata dall’indignazione per le dichiarazioni di Papalia intervistato pochi giorni prima durante la trasmissione Mappe criminali di Tv8, nella quale, tra le altre cose, aveva negato l’esistenza della mafia a Buccinasco.

Sapere da che parte stare

Per il resto, i cittadini arrivano alla Libera Masseria in differenti modi: per esempio grazie alla piscina gratuita estiva dedicata, in particolare, ai pensionati che non vanno in vacanza.

«Siamo coscienti della delicatezza del tema della ’ndràngheta sul territorio: del resto i Valle sono in carcere, ma i loro 100 immobili, le 13 società e i quasi 100 conti correnti dovevano pur essere gestiti da notai, commercialisti, direttori di banca che ora sono a piede libero», ricorda don Mapelli.

Prima di lasciarci completare il giro della Libera Masseria con Elena Simeti, anche lei coinvolta fin dalla prima visita del 2014, don Massimo ci regala altre parole importanti: «Ai giovani che vengono in Masseria diciamo di stare attenti, perché qualsiasi lavoro faranno, dal giornalista all’idraulico, potrà capitare loro di trovarsi davanti un mafioso: nel caso devi già essere allenato e sapere da che parte stare, non lo puoi decidere quel giorno lì».

Un lavoro impegnativo, ma splendido

Ogni passo dentro il bene confiscato di Cisliano, dal salone liberty all’ingresso della pizzeria, è un passo attraverso vissuti e storie: della sala sotterranea, un ambiente di rara bellezza, Elena ci racconta: «Quello era il luogo in cui veniva torturato chi doveva delle risposte al clan».

Nel nostro giro, visitiamo la stanza dove per anni è stato attivo un presidio di vendita di prodotti «buoni e giusti» derivanti anche da coltivazioni in terre confiscate. Oggi vi troviamo gadget come felpe e magliette vendute per raccogliere fondi e una piccola libreria antimafia.

Visitiamo poi le stalle, oggi adibite a magazzini, il giardino con la piscina estiva e l’enorme cucina, simbolo del luogo, nella quale campeggia la scritta «Mani in pasta» assieme a decine di mani disegnate sui muri con un nome inciso sul palmo: sono i nomi dei giovanissimi volontari passati di qui, ad esempio durante i lavori di pulizia dell’estate 2017. «C’era tanto di quel grasso!», ricorda la nostra accompagnatrice. «È stato un lavoro impegnativo, ma è splendido vedere ragazze e ragazzi impegnarsi così tanto».

Daniele Biella


Beni Liberati

Da Nord a Sud Italia, migliaia di confische alle mafie

Sono 50mila in tutta Italia: ville, terreni agricoli, auto, aziende, attività commerciali. Una galassia di enti non profit (e di giovani e volontari) si spende per il loro riuso in ottica sociale, nonostante minacce e intimidazioni.

Il 15 agosto 2021, papa Francesco, in una lettera alla pontificia Accademia mariana internazionale, scrivendo di devozione mariana e mafia ha esortato a liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose e dai «poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».

Lo stesso desiderio di «liberazione» dalle mafie è ribadito ogni giorno, anche se in un ambito diverso, da chi sta in prima linea nel dare una destinazione sociale alle migliaia di beni confiscati alla criminalità organizzata lungo tutta l’Italia.

Il modello italiano studiato nel mondo

Il modello italiano di riutilizzo istituzionale e sociale dei beni confiscati alle mafie, sta trasformando e rendendo disponibili alla collettività luoghi prima saldamente in mano alla malavita.

La sua unicità per volume e complessità lo rende un punto di riferimento a livello internazionale.

Da Sud a Nord, i numeri delle confische nel nostro Paese sono molto alti: circa 50mila se si considerano i beni confiscati a partire dal 19821.

La regione che ne conta di più è la Sicilia, seguita da Campania, Calabria e Lazio, a cui segue la Lombardia, prima della Puglia: sintomo della capacità delle associazioni di stampo mafioso di infiltrarsi ovunque, «ancora di più nei piccoli paesini anonimi della provincia, dove non ti dà fastidio nessuno», ci dice don Massimo Mapelli, incontrato alla Libera Masseria di Cisliano.

Confische e assegnazioni

Basta dare un’occhiata alla sezione «Sala stampa / Notizie» del sito web dell’Ansbc per capire la varietà dei beni confiscati: agli immobili si aggiungono moto, macchine di lusso, Ferrari comprese, aziende, attività commerciali.

La confisca definitiva scatta quando il processo penale a carico di un imputato di mafia compie tutti i suoi gradi di giudizio e arriva a sentenza di condanna. Da quel momento, avviene l’assegnazione del bene che spesso, negli anni, è stata fatta alle amministrazioni comunali.

Un primo bando nazionale di assegnazione diretta a realtà non profit, promosso dall’Ansbc e arrivato a graduatoria a inizio 2023 con 160 beni assegnati, ha compiuto un importante cambiamento.

Nello stesso momento è arrivato a compimento anche il finanziamento di ulteriori 254 beni confiscati attraverso il Pnrr (Piano nazionale ripresa e resilienza) per 166 enti destinatari. In questo caso, in sei regioni italiane: Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Campania, Puglia e Calabria.

Un palazzo straordinario a Lamezia Terme

Proprio in Calabria sorge una realtà considerata uno degli esempi virtuosi della nuova vita che può avere un bene confiscato.

Siamo a Lamezia Terme, cittadina di 66mila abitanti in provincia di Catanzaro, dove opera don Giacomo Panizza, originario di Brescia, calabrese d’adozione, fondatore, nel 1976, della Comunità progetto Sud (comunitaprogettosud.it).

Era il 2001 quando alla Comunità di don Panizza è stato dato in gestione dalla città, allora commissariata, un palazzo appartenuto alla famiglia Torcasio. «Stiamo parlando del primo bene cittadino assegnato con la procedura ufficiale», sottolinea Maria Pia Tucci, coordinatrice di Progetto Sud, in occasione di una chiacchierata a distanza che facciamo con lei e don Panizza a inizio febbraio 2023. «Si trova in un posto molto visibile e in una zona di passaggio per i residenti».

L’obiettivo dichiarato, fin da subito, era quello di «regalare alla città di avere meno paura».

È nato così Pensieri&Parole, un palazzo a dir poco rivoluzionario dove «le parole mettono i pensieri in azione» e dove si è passati dalla presenza ’ndrànghetista a un miscuglio impressionante di realtà associative e solidali.

Nel condominio di quattro piani, infatti, oggi c’è la sede di Fish Calabria (sezione regionale della Federazione italiana superamento handicap), quella del Forum del Terzo settore calabrese, gli uffici di Banca Etica e dell’ente di microcredito Per Micro, diversi spazi a disposizione della cittadinanza, e due fiori all’occhiello dell’accoglienza: una casa famiglia dedicata al «Dopo di noi» che ospita adulti soli con disabilità, e una struttura per dodici minori stranieri non accompagnati, chiamata Luna Rossa. Il tutto reso sostenibile attraverso l’installazione di pannelli fotovoltaici.

Ciascuna delle diverse realtà presenti nel palazzo Pensieri&Parole interagisce secondo le proprie modalità con il quartiere e, nel tempo, la struttura è diventata un punto di riferimento per la cittadinanza che accoglie volentieri la varietà di persone che la frequenta.

«Quello che rimane difficile è il rapporto con alcuni parenti del proprietario originario del bene confiscato che vivono ancora lì accanto», sottolinea Maria Pia.

Minacce e intimidazioni

Per don Panizza e i suoi collaboratori, la scelta di gestire un bene confiscato non è stata indolore: fin dall’inizio sono stati oggetto di minacce e intimidazioni, tanto che dal 2002 al sacerdote è stata assegnata la scorta.

«Di recente – prosegue Maria Pia -, a un dipendente sono state squarciate le ruote due volte in sette giorni, mentre nel 2021 sono state danneggiate ben dieci auto».

Il brutto clima, però, non spinge le persone della Comunità a fare passi indietro, anzi, vedere che negli anni la città è cambiata anche grazie alla loro testimonianza li aiuta ad andare avanti: «È via via cambiato l’approccio nel parlare di mafia. Prima era vista come un’opportunità, ora come un pericolo», sottolinea Tucci.

La Comunità è riconosciuta a Lamezia come un faro della legalità e del diritto delle persone a essere considerate nella loro dignità: temi come legalità e disabilità qui vanno di pari passo.

Lo stesso don Panizza, che porta con vigore i suoi quasi 76 anni, del resto, è stato tra i promotori delle leggi regionali per i diritti delle persone con disabilità, nonché fondatore, nel 1977, della Caritas cittadina e promotore, più di recente, di un primo sportello antiracket proprio presso il bene confiscato: «Gli imprenditori all’inizio venivano di nascosto per non avere ritorsioni», ci racconta.

Le minacce? «Ci sono – continua -, ma c’è anche tanta solidarietà. Essere un gruppo è l’aspetto fondamentale: più facce ci sono, più attività si fanno». La Comunità oggi conta circa 200 persone tra dipendenti e collaboratori, uno spazio nel quale una persona in carrozzina equivale a una che cammina sulle sue gambe. «Ci aiutano anche le parole che ci ha rivolto Goffredo Fofi (giornalista e saggista che nel 2023 compie 86 anni e ha collaborato diversi anni con il sociologo Danilo Dolci, nda): “Siete una minoranza etica, attiva”».

Famigliari dei mafiosi

Angela Iantosca, giornalista esperta di mafie che ha lavorato molto sul tema della difficoltà di figli e parenti di mafiosi a uscire dal giro malavitoso, ci racconta: «Don Panizza, con la Comunità progetto Sud, ha portato in piazza le tematiche dei disabili. Questi, prima venivano confinati in casa, a volte usati dalla criminalità organizzata. Lui li ha resi visibili e non più “contaminabili”. La stessa cosa, nel tempo, ha fatto con i tossicodipendenti, anche attraverso il lavoro agricolo.

Questa esperienza di Lamezia, così come altre realtà virtuose in Italia, fanno capire l’importanza di mettersi in gioco per la legalità e quanto di positivo possa essere fatto con un bene confiscato».

Nel suo libro Bambini a metà. I figli della ’ndràngheta (Perrone Editore, 2015), Iantosca dedica diverse pagine a donne coraggiose i cui figli venivano usati dai loro famigliari come ricatto per indurle a «tacere»: una delle vicende più drammatiche è quella di Maria Cacciola, testimone di giustizia contro la ’ndràngheta, originaria di Rosarno, che nel 2011 è stata trovata morta per ingestione di acido cloridrico: vittima di un omicidio mascherato da suicidio.

La giornalista approfondisce poi il tema dell’inserimento lavorativo dei giovani ex mafiosi che vogliono spezzare le loro catene famigliari, ma rischiano di ricadere nella delinquenza per assenza di percorsi alternativi.

Per scrivere il libro, Iantosca ha visitato anche famiglie residenti in alcuni beni confiscati. Chi non è coinvolto nelle azioni criminali dei parenti, infatti, con tutte le difficoltà del caso, conserva il diritto di utilizzare parte dei beni rimanenti.

Lavorare sulla consapevolezza

«Quello delle confische – continua Iantosca -, è un tema cruciale. Cerco di occuparmene, di sensibilizzare, e partecipo alle iniziative pubbliche, ma, incontrando la gente comune, noto che spesso la tematica non viene nemmeno percepita, trovo tanto stupore e poca consapevolezza, anche nei “tour” che abbiamo organizzato per conoscere ville e appartamenti confiscati. Non ci vedo assuefazione, piuttosto distrazione, e mi spiace molto».

Non di rado, su questi temi, si organizzano manifestazioni nazionali con adesioni da ogni parte d’Italia. Purtroppo, però, i numeri sono ancora generalmente piccoli rispetto al potenziale. D’altronde, centinaia se non migliaia di beni sottratti all’illegalità rimangono vuoti a lungo per problemi oggettivi delle strutture o per questioni burocratiche riguardanti l’assegnazione.

Un aumento di interesse, tuttavia, sembra esserci, in particolare da quando è entrata in azione l’Agenzia nazionale che si occupa dei beni confiscati e da quando diversi enti hanno iniziato a diffondere cultura sul tema. Ad esempio Libera, associazione fondata nel ‘95 da don Luigi Ciotti che non gestisce beni ma fa informazione a 360 gradi.

Molto utile per conoscere la materia è il progetto di mappatura delle confische del portale confiscatibene.it, così come il glossario che lo accompagna e che chiarisce alcune espressioni importanti di cittadinanza attiva come «accesso civico ai dati», «diritto di sapere», «monitoraggio civico», «portale della trasparenza collaborativo».

Non solo Cisliano e Lamezia

Se di minoranza etica si parla, quella rappresentata dalla galassia di gruppi e associazioni che si occupano di legalità e lotta alle mafie è, di certo, una minoranza che si fa sentire e, soprattutto, si rimbocca le maniche: in ogni regione e provincia si possono trovare molte storie virtuose.

Cercare quella più vicina alla propria residenza, andare a visitarla, supportare le attività degli enti che ci lavorano, così come spalleggiare le aziende in ripartenza legale dopo la confisca, è un modo per fare la propria parte. Da Torino a Napoli, da Milano alla Locride.

Non solo a Cisliano e a Lamezia Terme, ma anche, ad esempio, a San Sebastiano da Po (Torino), dove si trova la Cascina Carla e Bruno Caccia (cascinacaccia.net) nella quale oggi vivono in cohousing giovani che curano un noccioleto, producono miele e ospitano gruppi per turismo sociale, anch’essa tolta alla ’ndràngheta e assegnata all’associazione Acmos (acmos.net) nel 2008.

Nella Locride, in Calabria, c’è il Consorzio Goel (goel.coop) che dal 2017 gestisce un ostello realizzato in un bene confiscato, ecosostenibile dal 2021: l’Eco-ostello Locride.

A Casal di Principe (Caserta), emerge l’esperienza superlativa dell’associazione La forza del silenzio (laforzadelsilenzio.it) che dal 2008 promuove servizi per le persone autistiche e le loro famiglie: 80 ragazzi seguiti in un bene confiscato alla famiglia Schiavone, in particolare a Francesco, detto Sandokan, uno dei più noti esponenti dei Casalesi.

Nella cittadina casertana, tra l’altro, il Comune e il Centro servizi per il volontariato Asso.Vo.Ce, hanno approntato un testo (scaricabile in formato pdf, ndr) intitolato Beni liberati: buone pratiche di riuso dei beni confiscati nel comune di Casal di Principe che riporta l’elenco aggiornato dei beni confiscati sul territorio.

(R)esistenza anticamorra a Scampia

Rimanendo in Campania, ma spostandoci nel quartiere napoletano di Scampia, incontriamo un’altra iniziativa che sta incidendo sul territorio: è quella dell’associazione (R)esistenza anticamorra, nata come ente di volontariato nel 2008 per promuovere percorsi scolastici rivolti ai figli di camorristi detenuti, oggi gestisce un bene confiscato diventato nel tempo un polo associativo.

Il bene è una ex scuola dismessa, nella zona popolare delle «case dei puffi», divenuta nel tempo un magazzino segreto della camorra. Nella struttura, oggi, dieci enti non profit accolgono almeno 400 persone al giorno tra la scuola di musica, la palestra di pilates (che conta 700 madri del quartiere iscritte), uno sportello antiviolenza, una scuola di danza e una di karate con 250 iscritti.

Qui, e nei 14 ettari del Fondo rustico Amato Lamberti, un altro bene confiscato poco lontano, a Chiaiano, trovano lavoro 120 detenuti, producendo, tra le altre cose, vino di qualità tramite la cooperativa sociale che porta lo stesso nome dell’associazione, (R)esistenza anticamorra.

«Prima che arrivassimo noi», ci dice Ciro Corona, fondatore dell’associazione, nominato cavaliere della Repubblica da Sergio Mattarella nel 2021 per il suo impegno sociale, «l’edificio, lasciato in disuso, era una grande “casa del buco” in cui persone tossicodipendenti entravano e uscivano a tutte le ore. Ora, dedicandoci l’anima, l’abbiamo trasformato pulendolo tutto. L’abbiamo chiamato Officina delle culture Gelsomina Verde, intitolandolo a Mina, 22enne impegnata nel sociale, uccisa nel 2004 da membri della camorra per arrivare al suo ex fidanzato affiliato a una cosca rivale.

Abbiamo ricevuto minacce, anche pesanti, ma nel tempo abbiamo conquistato la stima delle persone che vivono qui attorno. Oggi so che, se ce ne andassimo, lo prenderebbero in gestione loro».

Corona oggi è però preoccupato, non tanto per le intimidazioni, quanto per il futuro della struttura messo in dubbio dalla burocrazia: il contratto dello stabile, scaduto nel 2018, non è stato ancora rinnovato dal comune.

«Tutti i percorsi virtuosi realizzati negli anni, anche grazie a diversi enti finanziatori, sono ora fermi. Ad esempio una casa famiglia per bambini da 0 a 6 anni, pronta per l’apertura, una biblioteca con sala multimediale che era attiva ma poi è stata chiusa alla scadenza del contratto. Allo stesso modo una comunità alloggio per minori stranieri non accompagnati», elenca Corona. «Qui c’è il 70% di disoccupazione, ma a causa di questi ritardi abbiamo dovuto licenziare persone».

Sfide da affrontare

Oltre alle rivalse della criminalità organizzata sui beni espropriati, il tema delle difficoltà burocratiche e gestionali è presente ovunque, non solo a Scampia, ed è una delle sfide da affrontare nel futuro immediato, innanzitutto da parte delle istituzioni, ma anche della collettività.

Una delle urgenze è quella di risolvere i problemi legati alla «rinascita» delle aziende liberate dal giogo mafioso. Paradossalmente, «c’è chi con la mafia lavorava, ma con lo Stato no, perché, ovviamente, con dei contratti veri, i conti non reggono», spiega Danilo Chirico, presidente dell’associazione daSud (dasud.it) con sede a Roma. «Lo Stato non è ancora attrezzato per far fronte a questa anomalia. Bisogna trovare soluzioni presto, altrimenti la gente si sente tradita anziché aiutata».

Chirico è impegnato da quasi un ventennio nell’antimafia, in particolare a Roma e nel Lazio, attraverso un’accademia popolare e un intenso presidio territoriale. Suo è il libro, uscito nel 2021, Storia dell’antindrangheta (Rubbettino Editore).

«I beni confiscati sono una grande opportunità – continua -. Si restituisce il maltolto e si costruisce lavoro buono. La difficoltà sta nel gestire i patrimoni confiscati quando non ci sono soldi per ristrutturare e quando non è semplice capire la prassi da seguire, in particolare quando queste cose le devono fare le piccole associazioni che, a differenza dei grandi enti o delle alleanze, non hanno disponibilità economiche e rapporti con le prefetture già in essere».

Il tema sollevato da Chirico è caro anche a don Mapelli che, oltre alla Libera Masseria di Cisliano, amministra altri beni nel territorio circostante. Uno di essi è una villetta a Trezzano sul Naviglio in gestione con diverse parrocchie del decanato: «Bisogna creare le condizioni affinché molte più associazioni possano muoversi in questo ambito, non solo quelle già riconosciute, come la nostra, con dietro istituzioni che già le supportano», afferma chiaramente il sacerdote.

«Anche una neonata associazione di giovani senza un prete che ci metta la faccia – continua – deve poter arrivare a gestire un bene confiscato, se ne avesse l’opportunità. Oggi, invece, non è possibile, perché il groviglio burocratico fa paura, e quindi sono ancora troppo pochi quelli che ci provano».

La chiosa arriva da mille chilometri più a sud, da Lamezia Terme: «Chi ha già esperienza può far scuola ad altri, ma bisogna lavorare ancora di più in rete, per creare un movimento laddove oggi ci sono tante costellazioni», esorta don Panizza nella speranza di rendere ancora più virtuosa una realtà come quella dei beni confiscati.

«Non è più come 20 anni fa, quando c’era rassegnazione verso i mafiosi – conclude don Panizza -. Oggi è chiaro che si può fare qualcosa, non è più “inutile” agire contro di essi, si può combattere, così come si può dire di no alle loro richieste».

Daniele Biella

 Note:

1- Dati da https://openregio.anbsc.it/statistiche

Si veda anche l’approfondimento di Libera, Fatti per bene, di fine 2021, uscito in occasione dei 25 anni della legge apripista sui beni confiscati, la n.109 del 7/3/1996.


Beni confiscati, in gestione e destinati

I beni confiscati, siano essi immobili o aziende, vengono classificati dall’agenzia nazionale in due categorie: quella dei beni in gestione e quella dei beni destinati.

Alla categoria dei beni in gestione appartengono tutti quei beni che, per diverse ragioni (iter giudiziario ancora in corso, criticità che bloccano le procedure), non sono ancora stati trasferiti ad altre amministrazioni dello Stato o agli enti locali e, dunque, sono ancora sotto la gestione dell’agenzia stessa.

I beni destinati, invece, sono quelli per i quali le procedure sono giunte al termine e dunque è stato possibile procedere alla destinazione, sia per finalità istituzionali sia per finalità sociali. Ciò non significa necessariamente che questi beni siano stati anche riutilizzati. Molti beni, infatti, anche dopo la destinazione e il trasferimento ai Comuni, rimangono ancora inutilizzati.

dal glossario di confiscatibene.it


Togliere potere alla malavita

Intervista al direttore dell’Anbsc

L’agenzia nazionale che si occupa dei beni confiscati alle mafie è nata nel 2010. Con migliaia di assegnazioni ogni anno ha un ruolo centrale nel restituire alla collettività ciò che la malavita utilizzava per i propri fini.

Uno dei suoi compiti è anche quello di sensibilizzare.

L’ente governativo che si occupa dei beni sottratti alle mafie ha un nome lungo: Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, in sigla Anbsc.

Istituito con il decreto legge n. 4 del 4/2/2010, con le sue cinque sedi a Roma, Milano, Napoli, Reggio Calabria e Palermo, è una realtà strategica per la società italiana, ma sconosciuta alla collettività.

Abbiamo intervistato il suo attuale direttore, il prefetto Bruno Corda, in carica dal 17 agosto 2020.

L’Agenzia, in 13 anni, ha assegnato in gestione migliaia di beni confiscati. Su quali priorità state lavorando?

«In primo luogo, siamo in un momento importante: venerdì 20 gennaio 2023 abbiamo pubblicato il primo bando ad assegnazione diretta dei beni dall’ultima modifica legislativa del 2017, la quale prevede che si assegni un bene a un’associazione tramite un bando pubblico nazionale.

Sono stati 260 i beni assegnati a oltre 100 associazioni, in alcuni casi consorziate tra loro.

Abbiamo previsto, inoltre, un contributo fino a 50mila euro, per un milione totale di stanziamento. Si tratta di una facilitazione per la partenza: non copre tutte le esigenze (di ristrutturazione, per esempio, nda), ma è un incentivo.

Oltre al bando, la prima nostra sfida è rendere sempre più veloce la destinazione degli immobili. Il fattore tempo è fondamentale, perché più ne passa, più il bene ha la tendenza a deteriorarsi e più sarà difficile la sua ristrutturazione, potendo accadere che né l’ente locale né il soggetto del Terzo settore sia in grado di sopportarne i costi. Restringere i tempi è quindi fondamentale.

Altrettanto prioritario per l’Agenzia è promuovere l’acquisizione consapevole del bene, ovvero che il bene venga “capito”: utilizziamo conferenze di servizio che vengono anticipate da attività svolte da nuclei di supporto presso le prefetture. In esse il bene viene presentato agli enti locali evidenziandone positività ma anche criticità.

Infine, vorremmo completare prima possibile il rafforzamento della nostra struttura, ovvero passare dai 200 lavoratori attuali ai 300 previsti per legge: più risorse umane si hanno, più aumentano velocità ed efficacia del nostro operato».

Da Nord a Sud ci sono esperienze che funzionano molto bene: che elementi basilari hanno questi modelli virtuosi?

«Il perno di un’esperienza positiva sta nella condivisione e nel supporto che la società civile e le istituzioni coinvolte danno a quella struttura. Perché la struttura, di per sé, ha un significato oggettivo – per esempio un’abitazione che accoglie donne in stato di bisogno -, ma chi la gestisce non deve essere lasciato solo: altri enti pubblici e non profit si devono affiancare, convinti dell’importanza della riappropriazione del bene per la collettività. Se succede questo, si arriva a realizzare le finalità della legge sui beni confiscati».

Quali criticità affrontate in questo periodo?

«Il problema principale attualmente è legato alle aziende confiscate: non è semplice superare lo shock di “legalità” del passaggio aziendale da economia illegale a legale.

Prima della confisca, spesso, l’azienda non pagava contributi, stipendi, riciclava denaro, falsava le regole del mercato. Una volta riammessa nel mercato, le difficoltà sono enormi: per questo tali aziende oggi hanno bisogno del supporto dell’intera società civile e del tessuto economico del territorio in cui operano. È una scommessa di tutti.

Sono circa 3mila le aziende confiscate, il 67% di esse sono “scatole vuote”, non hanno personale, né producono alcunché, se non fatturazioni false o riciclo di denaro, ma vanno gestite anch’esse.

Poi ci sono, invece, quelle attive: sono circa 370, con 3mila addetti.

La restante parte, che deve essere recuperata, va seguita dal primo momento del sequestro in avanti. Non è facile.

Un’altra criticità sta nei tantissimi beni già assegnati a enti, in particolare piccoli Comuni, che non riescono più a gestirli e devono accordarsi con altre amministrazioni vicine per fare rete.

Tale aspetto critico riguarda anche la ricerca dei finanziamenti: nei piccoli enti locali non c’è la capacità progettuale per intercettare fondi, a volte manca un capo ufficio tecnico o è presente per un tempo limitato. Queste realtà vanno supportate».

Quali richieste vorreste fare alle istituzioni?

«La principale richiesta è che ognuno faccia la propria parte. Chiediamo un supporto molto forte da parte delle Regioni verso i Comuni, per esempio quelli più piccoli, per aumentare la loro capacità progettuale con la formazione e aiutarli a creare sistemi consortili.

Ogni organismo deve essere consapevole che un bene non ha solo un suo valore intrinseco, come villa di lusso, appartamento o palestra o quello che sia, ma ha anche un alto valore simbolico: è stato sottratto a un soggetto criminale, riappropriarsi di esso è un’azione di potere che travalica il valore, diciamo economico, del bene stesso.

Alcune Regioni, in ogni caso, sono attente e preparano i propri dipendenti. La coscienza è sempre più radicata.

Noi stessi ci estendiamo spesso attraverso le reti universitarie, anche con master nelle diverse facoltà – per esempio giurisprudenza, scienze politiche, economia e commercio -, e notiamo come stia sorgendo una grande cultura sull’impatto economico e sociale del bene confiscato. Sono in atto ferventi studi su tutti questi aspetti».

Che sguardo ha oggi la cittadinanza, e nello specifico i giovani, verso l’Agenzia?

«Ci rendiamo conto che il lavoro dell’Agenzia non è molto conosciuto e quindi il rischio è che emergano più le criticità dei punti di forza. Anche per questo stiamo cercando modi efficaci per rapportarci con la popolazione, in particolare con le giovani generazioni. È la scommessa di quest’anno.

Importante, in tal senso, è l’interazione con il Terzo settore per capire cosa possiamo fare noi in prima persona per migliorare le cose.

La fiducia delle persone sull’utilizzo sociale dei beni confiscati è in aumento, ma la strada è ancora lunga, come Agenzia ne siamo coscienti e dobbiamo fare ancora molto.

Non è semplice: a volte i beni vengono consegnati quasi distrutti e a rischio peggioramento, ma anche nelle criticità si devono fare emergere le opportunità. Dove un bene viene riutilizzato in modo diretto, ribadisco, il valore simbolico della perdita di potere da parte della malavita è un aspetto fondamentale».

Daniele Biella

Ha firmato il dossier:

 Daniele Biella

Classe 1978, giornalista e ricercatore, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di tematiche sociali, in particolare migrazioni e cooperazione internazionale. Interviene come formatore in progetti educativi sul tema dell’accoglienza in scuole e università. Ha pubblicato i libri Nawal, L’isola dei giusti e Con altri occhi.
Di recente, ha condotto la ricerca Nascosti in piena vista per l’ong Save the Children.

 Dossier a cura di Luca Lorusso

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Mille e duecento km a piedi

Gentile Redazione,
siamo tre amici di Cherasco (Cn) che hanno scritto nel 2022 il libro «Padre Giuseppe Alessandria, 1.200 chilometri a piedi», di 156 pagine, corredato di fotografie.

Padre Giuseppe è stato un missionario della Consolata che ha dedicato la sua vita alle missioni in Mozambico, a propagare la fede e a fornire aiuto, non solo spirituale, agli abitanti di quelle terre.

Molti sono i motivi che ci hanno spinti a scrivere il libro, tra i quali uno molto importante e insolito: nella famiglia di padre Giuseppe ci sono state ben 16 vocazioni religiose: nove sacerdoti, sei suore e una terziaria francescana.

Il testo contiene materiale che il nipote Giovanni aveva ricevuto da padre Giuseppe prima di partire per l’ultima volta per il Mozambico: due album fotografici e alcuni scritti, tra cui un diario giornaliero dei primi sei mesi di vita sacerdotale, del suo viaggio in Portogallo per imparare il portoghese e del viaggio che lo ha condotto a Maputo, capitale del Mozambico, dove è stato missionario per 13 anni, fino al drammatico racconto del sequestro.

Padre Giuseppe è stato ordinato sacerdote nel 1964 e qualche anno dopo, nel 1969, è stato inviato in Mozambico, dove nel luglio del 1982 è stato fatto prigioniero dai guerriglieri della Frelimo, dai quali è stato costretto a percorrere 1.200 chilometri a piedi attraverso la savana, con quattro suore e un altro confratello, e liberati solo dopo quattro mesi di prigionia.

Tornato in Italia, la sua volontà sarebbe stata di ripartire al più presto per tornare a «casa sua», come chiamava la terra di missione. Dopo varie richieste, riuscì a ripartire per il Mozambico solo nel 1996, dove rimase per poco tempo a causa di un incidente stradale che provocò la sua morte, il 30 luglio 1998.

Con il nostro scritto desideriamo ricordarlo a 25 anni dalla sua morte e far conoscere la dura realtà dei missionari che spendono tutta la loro vita per gli altri.

Padre Alessandria è stato un missionario autentico, un lavoratore instancabile e generoso, sia in terra di missione, che in Italia e in Portogallo, con tutti quelli che lo hanno conosciuto e amato.

Giovanni Tarabra, Giuseppe Capra e Agostino Borra
Cherasco, 21/01/2023


Nomadelfia è in Tanzania

Egregio direttore,
mi presento subito: sono Mina di Nomadelfia.

Le riviste missionarie sono sempre state attraenti e interessanti ma, da un po’ di tempo, è più viva la mia curiosità di sapere di più della Tanzania sul cui territorio sta muovendo i primi passi Nomadelfia. Abbiamo letto con interesse la pagina di padre Bernardi sulla rivista di luglio 2022 in cui parla la presidente del Tanzania. Le notizie che ci riferiva fanno capire che c’è tanto bisogno di una presenza costruttiva di vita vera fraterna e lieta.

Nomadelfia è a Mvimwa, nelle vicinanze del monastero benedettino.

I rapporti con i benedettini di questo monastero sono iniziati nel 2016 con l’abate Denis Udomba in visita a Nomadelfia. Rimasto fortemente colpito dall’esperienza vissuta con noi, ha invitato i nomadelfi ad una collaborazione fattiva con i monaci per portare la proposta di una vita fraterna tra le famiglie legate al monastero.

Spero tanto che, tramite la rivista Missioni Consolata, venga conosciuto questo piccolo popolo di volontari cattolici che papa Francesco ha definito «una realtà profetica» e che san Giovanni Paolo II ha dichiarato: «Un seme piccolo che deve crescere e diventare grande e forse formare la civiltà del mondo futuro. Se siamo vocati ad essere figli di Dio e tra noi fratelli, allora la regola che si chiama Nomadelfia (nomos + adelfos = legge di fraternità) è un preavviso, un preannuncio di questo mondo futuro dove siamo chiamati tutti».

Sempre nella stessa rivista del luglio 2022, il giornalista Marco Labbate parla, nell’articolo «Tu non uccidere», di don Milani, di don Primo Mazzolari, di Aldo Capitini, di La Pira, padre Ernesto Balducci, don Bosco … mi aspettavo che parlasse anche di don Zeno (Saltini, fondatore di Nomadelfia, ndr) che con i figli ha buttato giù i muri del campo di concentramento di Fossoli (frazione di Carpi, Modena).

Caro direttore, preghiamo che lo Spirito Santo ci illumini nel nostro apostolato. La Madonna ci sia vicina, ci insegni a muoverci con delicatezza e costanza.

Gesù non può lasciarci soli, in fondo è lui che deve fare con noi.

Grazie per le informazioni che ci date dei nostri fratelli vicini e lontani.

Mina di Nomadelfia
23/12/2022


Complimenti

Gentilissimi,
mi è gradito trasmettervi questa breve nota.

Nel numero 10, ottobre 2022 di Missioni Consolata: leggo la nota di un lettore (a pag. 7) sul decaduto interesse per la carta e per la rivista. Ne rimango allibito: MC è a mio avviso una delle poche riviste che affronta seriamente temi molto attuali di varia natura con una visione di sintesi, ma anche etica e sovente, sulla base dell’esperienza diretta su territori poco vissuti da noi «benestanti del mondo», ne derivano articoli di rara qualità e reperibilità. Sono invece, diversamente da tale lettore, molto positivamente colpito dalla capacità degli autori di MC di affrontare temi anche tecnici, presumibilmente non facenti parte delle loro quotidianità (penso ad uno recente sui veicoli elettrici, ad idrogeno, ecc.), con una limpidezza ed intelligenza, oltre che cuore, assai ardui da trovare negli scritti e nelle persone «moderne». Un lettore che non apprezzi tutto ciò merita comprensione, possibilmente per altri stati di disagio che non quello di sfogliare una rivista stampata, il cui eventuale danno ambientale è veramente tutto da provare.

Complimenti per il Vs. operato.

Bruno dalla Chiara
22/02/2023


Una lettera dal passato

Carissimi,
mi è tornata tra le mani questa lettera, inviata alla mia nonna, nel lontano 1931 dalla missione di Kaheti dalla vostra suora missionaria suor Luigia, con tanto di numero di protocollo n. 908.

La suora ringraziava per un’offerta inviata dalla mia nonna Rossetti Grosso Maria e raccontava del battesimo effettuato a un uomo in punto di morte, con il nome di Luigi Francesco, che era quello del figlio ventunenne (mio padre),

Dai racconti della famiglia, sapevo che mio padre, nel gennaio del 1931, era scampato dalla tragedia che aveva coinvolto gli Alpini in servizio militare nell’alta Valle di Susa, e precisamente nel Vallone di Rochemolles. C’erano stati una ventina di morti (esattamente 21, ndr) travolti dalla valanga e alcuni anche del mio paese (Cumiana). Penso quindi che mia nonna, devota della Madonna Consolata, abbia voluto ringraziare Maria per il ritorno sano e salvo del proprio figlio.

È un ricordo che volevo condividere con Voi con tutta la stima per quanto continuate a fare in terra di missione. Con stima

Eva Rossetti
23/01/2023

Ecco il testo di quella preziosa lettera nell’italiano del tempo.

Pregiatissima Signora,
capitò, ieri, qui un uomo sulla cinquantina, il quale giunto nel bel prato adiacente alla nostra Missione cadde a terra. Fu visto da alcuni pastori di greggi e venne avvicinato, ma non gli poterono recare alcun aiuto poiché non dava alcun segno di vita. Alcuni di questi fanciulli corsero ad avvertirci del caso e mi portai colà. Lo sollevarono, gli diedi a bere un po’ di cordiale e dopo poco parve riaversi, ma ricadde al suolo dicendo lasciatemi dormire. Dopo un quarto d’ora si destò e ci diede sue notizie.

Egli tornava dalla vicina Regione del Meru ove s’era recato per comperare un bue, ma poi al ritorno fu assalito da certo malore che non sapeva definire accompagnato da vomiti di sangue nerastro. (I Neri dicono che egli sia stato avvelenato, poiché quei popoli sono avvelenatori astuti assai). Il bue, si sa, gli sfuggì e non poté rincorrerlo perché assalito appunto in quel momento da eccessivo vomito. Poveretto!

Diceva questo e fu riappreso dal più grave eccesso di vomito sanguigno ed in meno di un quarto d’ora era ridotto in fin di vita. Visto il caso disperato lo disposi a ricevere la grande grazia del S. Battesimo. Accettò di gran cuore e quasi subito dopo spirava. Ora il nostro Luigi Francesco è già in cielo a pregare per lei. Gradisca i miei riconoscenti ossequi

Dev. Suor Luigia,
 M. d. Consolata
Kaheti 06/08/1931

 

Grazie per questa condivisione di vita di altri tempi. Il racconto di suor Luigia è di una vivezza speciale, e in me, che nei miei primi giorni di missione ho dovuto seppellire una adolescente che era stata avvelenata, suscita un’emozione profonda.


Devozione ai piedi di Gesù

Carissimo padre Gigi,
ti mando questo materiale, caso mai riuscissi a fare un po’ di pubblicità. Avevo già provato a pubblicare un libro, ma era stato come vendere verdure in un negozio di fiori. Adesso ho trovato un editore. Per me è la prima volta che pubblico un libro. Pensa che ho venduto la bellezza di … 39 copie. Insomma, io ti butto tutto addosso ma tu fa come vuoi. L’importante è che Gesù faccia bella figura. Ciao e buona festa del Fondatore.

Ecco qui una breve presentazione del libro che ho appena pubblicato.

«Chi non conosce Maria Maddalena? La grande santa, la grande apostola, la grande convertita. Ma lo sapevate che è anche una grande maestra di vita spirituale? Con il cammino finora inesplorato della devozione ai piedi di Gesù, Maria di Magdala ci aiuta a crescere nella fede. Ogni volta che nei Vangeli incontriamo questa grande donna in relazione con i piedi di Gesù, entriamo in una scuola di vita e di spiritualità. Una scuola che, più che da una lunga riflessione, nasce dall’esperienza concreta e immediata dell’incontro tra l’umanità peccatrice e il Cristo Salvatore!

Sulla rivista «Testimoni» di giugno 2022, a pagina 33, c’è un articolo di Elsa Antoniazzi. Riguarda una mostra d’arte a Forlì. L’autrice sottolinea come le rappresentazioni della Maddalena vanno dalla «Penitente» alla «sessualità redenta», alla sequela ma ancora con l’accento sul fascino della femminilità. Se questo fosse vero anche per la produzione letteraria, allora questo libro sulla «Devozione ai piedi di Gesù» potrebbe essere il primo caso in cui la Maddalena viene rappresentata come maestra di spiritualità, come discepola e apostola per sé, senza sottolineare altri elementi, che pur rilevanti, rischiano di adombrare il grande cammino ed esempio di fede di questa donna. Se qualcuno ci mostra la strada per arrivare a Dio, non importa il sesso, la nazionalità, l’età, lo stato sociale. Dio importa. E non sono molti quelli che ci hanno “dato” Dio come ha fatto la nostra Maria».

padre Gian Paolo Lamberto
Daejeon, Corea, 16/02/2023


Qui la situazione è dura

Carissimo padre,
ieri, 2 marzo 2023, sono andata nel villaggio di Longetei, non molto distante da Baragoi, Kenya, dove vivo. Ho dato una mano a cucinare una specie di porridge per i bambini che vedi nella foto. Qui la situazione è molto dura e la siccità è grande, sono diverse stagioni che non piove. Questo ha anche aumentato le tensioni tra le diverse comunità, e le razzie e gli scontri armati sono cosa ordinaria. Più di una volta sono stata svegliata dagli spari nella notte. Che il Signore e la Consolata ci aiutino.

Alishe E.
Baragoi, Kenya, 02/03/2023
(sintesi di messaggi Whatsapp)




Una Pasqua oscurata?


Probabilmente quando leggerete queste righe il dramma di Cutro sarà sparito da un po’ dalle prime pagine, magari sarà ridotto a mero strumento per colpi bassi tra i partiti di governo e le opposizioni. Purtroppo, tragedie come questa finiscono troppo in fretta nel tritacarne dell’assuefazione, e vengono sostituite dal gossip e dalle vanità di turno.

Mi ha colpito un’insegnante che raccontava su Facebook come avesse chiesto ai suoi alunni delle medie del terremoto in Turchia e Siria e si fosse trovata davanti una scena muta. Quando invece aveva fatto il nome di due noti cantanti e influencer, si era trovata travolta da un fiume di particolari. Il suo racconto mi ha fatto pensare a quanto sperimento io stesso quando chiedo a dei ragazzi se hanno mai sentito parlare di Eswatini (troppo difficile) o dello Yemen. Per fortuna c’è sempre uno più sveglio che, magari con un piccolo aiutino, ti dà poi la risposta giusta.

La stessa ignoranza mi pare di trovarla in certi politici che di fronte ai problemi delle migrazioni danno risposte prefabbricate e dogmatiche, usando a volte a sproposito le parole del papa. Per loro è tutta colpa dei trafficanti di persone e delle Ong che si fanno loro complici. Una visione semplificata e di comodo che non tiene conto della complessità del problema, e delle responsabilità del «nostro» sistema economico che causa squilibri ecologici, instabilità politica o dittature, sfruttamento del lavoro, razzia di materie prime, guerre intestine e tanto altro ancora. Come non comprendere chi decide di tentare un’alternativa rispetto a una vita impossibile e indegna, aggravata dalla crisi climatica, che pure colpisce pesantemente anche il nostro mondo, e dalla diffusione di nuove pandemie, come il Covid-19.

Solo chi non vuole vedere, o chi sa di poterne trarre un tornaconto, riduce il problema delle migrazioni alla responsabilità dei trafficanti. Senza interventi radicali che promuovano la vita, il lavoro, la salute, la scuola e, anche, libertà e democrazia in tanti paesi impoveriti (e spesso i più ricchi di risorse naturali), la fuga dei disperati (o dei sognatori di una vita più dignitosa) continuerà a crescere.

Mentre leggete queste righe stiamo celebrando la Pasqua, il tempo che segue quello nel quale, dal Getsemani al Calvario, si intrecciano morte e vita, indifferenza e violenza, fanatismi e paure, fughe e pianti, silenzi e gesti di grande generosità, disperazione e coraggio, delusioni e speranze. Dopo oltre un anno di guerra folle in Ucraina, dopo i tre anni di pandemia che, oltre a troppi morti, hanno lasciato segni profondi nella vita di tanti, soprattutto giovani, e amari strascichi da caccia alle streghe, dopo una siccità (sia qui da noi che in tante parti del mondo) che sembra inarrestabile e di cui non comprendiamo ancora appieno le conseguenze, la tentazione è quella di domandarci: «In questa situazione, come si può celebrare la Pasqua che è risurrezione, cioè vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio, della gioia sul pianto?».

Mi ero fatto una domanda simile, tanti anni fa, a Maralal, in Kenya, quando, il Venerdì Santo, avevamo concluso la Via crucis vivente lasciando (chi impersonava) Gesù inchiodato alla croce. In quel momento, quell’immagine rappresentava le sofferenze di persone e animali attanagliati in tutta la regione da un lungo e doloroso periodo di siccità e fame.

La risposta, allora come oggi, è proprio la Pasqua: non una risoluzione magica di tutti i problemi, ma un cammino che porta dal buio alla luce, dalla morte alla vita. Un cammino da fare non da soli, ma con Lui, Gesù di Nazareth, per rinascere con Lui, per trovare in Lui la forza di vivere, lottare, amare, pagare di persona per un mondo nuovo, bello, fraterno e giusto.

Allora, nella Pasqua, ha senso pregare ogni giorno per la pace, non per convincere Dio, spossato dalle nostre richieste, a risolvere i nostri problemi, quanto piuttosto per riscoprire la nostra vera dignità e vocazione, e ritrovare il coraggio di assumerci la nostra responsabilità nel costruire la pace a cominciare da lì dove siamo: casa, lavoro, scuola, tempo libero, impegno sociale e politico.

Se davvero vivo la Pasqua, se davvero ascolto la Parola, non rimango seduto sul divano a guardare uno schermo nell’attesa di un miracolo, ma divento soggetto attivo di fraternità, costruttore di pace, operatore di giustizia. Giorno per giorno, passo dopo passo.

Allora sì, anche in mezzo alla violenza degli uomini e all’incontrollabile potenza degli avvenimenti naturali, terremo viva la luce della speranza, non lasceremo spegnere la nostra piccola candela accesa al fuoco di Cristo, e avremo la forza di lottare tenacemente per un mondo dove tutti gli uomini possano danzare insieme la gioia della vera pace.




Vivere a partire dalla Risurrezione


“Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede!” (1 Cor 15)

“Apparendo agli Apostoli, dopo la risurrezione, Gesù diede loro il saluto della pace. Gran cosa la pace! Bisogna quindi che ci sia la pace con Dio, compiendo la sua volontà; con noi stessi, evitando le distrazioni, regolando le passioni e liberandoci dai desideri inutili; e con il prossimo, soprattutto accettandone i limiti e trattando tutti bene. La pace può stare anche con il sacrificio e con la tribolazione, mentre non può stare con il peccato. Chiedetela a nostro Signore, che è il Principe della pace.” Beato Giuseppe Allamano

“Dunque, il grido che caratterizza la Pasqua cristiana, l’annuncio «Cristo è risorto» (quello che i nostri fratelli ortodossi si scambiano come augurio nel tempo di Pasqua, rispondendo «Cristo è veramente risorto»), è anche l’ultima parola sulla storia impietosa del cosmo e su tutte le tragiche vicende imposte dalla crudeltà dell’uomo.  Allora anche le catastrofi naturali ci spingono a far sì che la violenza che è nel cuore dell’uomo sia vinta da un senso più forte di compassione e di pietà.” Carlo Maria Martini


Carissimi Missionari, Missionarie,
Laici e Laiche missionarie,
Familiari, Benefattori,
Amici e fratelli e sorelle tutti,

con profonda emozione vi scrivo per dirvi che non c’è mattino più dolce del mattino di Pasqua, fatto di un’alba a lungo attesa, di una corsa trafelata, di un sepolcro vuoto, di un annuncio sconvolgente che passa di bocca in bocca e, prima ancora, di cuore in cuore: Cristo è risorto, è veramente risorto!

Quel sogno che l’uomo da sempre ha cullato e mai potuto realizzare è diventato realtà: la morte è stata sconfitta grazie al sacrificio dell’unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo, nel quale anche noi per grazia siamo diventati figli di Dio. La morte è stata vinta in Gesù e aspetta di essere vinta in ciascuno dei suoi fratelli e delle sue sorelle.

Con il cuore grondante di gioia desidero chiedere al Signore per ciascuno di noi la grazia di entrare in questo mistero di luce o nella luce di questo mistero, accogliendo nella nostra vita l’annuncio della Pasqua e facendone il cardine della nostra testimonianza tra le case degli uomini, in mezzo alle opere e ai giorni della nostra gente, spesso così affaccendata ma pur sempre alla ricerca di Luce nella notte che turba l’esistenza.

Penso particolarmente a quanti soffrono nel corpo e nello spirito nelle nostre missioni, ai malati a casa o negli ospedali; alle tante situazioni di disagio e sofferenza che molti fratelli e sorelle devono affrontare in questo periodo a causa della mancanza del lavoro o della casa; a quanti sono coinvolti nei molteplici fenomeni migratori.

Un pensiero del tutto speciale e paterno vorrei rivolgere in questa Pasqua alle tante situazioni di violenza, ingiustizia, odio e morte che purtroppo abitano tanti nostri paesi dove siamo presenti come missionari. In particolare, vorrei porre alla vostra attenzione, solidarietà e preghiera, la passione del popolo Yanomami e la terribile situazione che vive da anni il Congo e il Sud Sudan, recentemente visitati da Papa Francesco.

Secondo le organizzazioni indigene, buona parte del popolo Yanomami “è spiritualmente morto a causa della distruzione della foresta, degli omicidi e degli attacchi di ogni genere che subisce, delle umiliazioni, degli stupri, del furto di bambini, dei suicidi” e, tutto ciò è il risultato dello sfruttamento minerario: “il cercatore d’oro è bagnato di sangue”. Stiamo vivendo una catastrofe umanitaria già ben nota in Brasile, anche se le cifre esatte siano arrivate solo ora. Negli ultimi quattro anni, ogni sessanta ora, un bambino Yanomami, sotto i cinque anni, è stato ucciso dalla fame, dalla dissenteria acuta o dalla malaria.

Come uomini e come missionari non possiamo rimanere a guardare davanti a queste ingiustizie, consapevoli che la sorte dell’Amazzonia deve preoccupare tutti perché è di tutti.

Papa Francesco, visitando recentemente la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan ha risvegliato l’attenzione verso l’Africa in generale e, in particolare, verso questi due paesi sofferenti da tempo: “Avverto il bisogno di sensibilizzare la comunità internazionale su un dramma silenzioso, che necessita dell’impegno di tutti per giungere a una soluzione che ponga fine al conflitto in corso”. “Disinteressarsi dei problemi dell’umanità, soprattutto in un contesto come quello che affligge il Congo e il Sud Sudan, significherebbe infatti dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso”. Senza dimenticare, certamente, tante altre situazioni di sofferenza, ingiustizie e violenza che viviamo e tocchiamo con mano ogni giorno nella nostra missione.

Che questa Pasqua ci aiuti ad essere testimoni instancabili della prossimità di Dio Padre verso i suoi figli più poveri, e che le nostre comunità e il nostro Istituto diventino autentica accoglienza in cui nella ferialità della vita si fa esperienza di speranza e di condivisione, promuovendo e animando concreti segni di carità evangelica.

Accogliere l’annuncio della Pasqua vuol dire esserne testimoni ed è quanto auguro a ciascuno di voi. Possa ognuno essere testimone audace e credibile del Crocifisso Risorto, dell’Innalzato Glorioso e possa passare il testimone a quanti incontra nel proprio cammino, sapendo che la fede si trasmette per contagio e che non è un tesoro da tenere nascosto, come spesso ci ricorda Papa Francesco invitandoci ad essere Chiesa in uscita. Vorrei che il nostro Istituto vivesse e agisse a partire dalla risurrezione di Cristo. A tal proposito, desidero far mie alcune espressioni di un autore a me molto caro: «A partire dalla risurrezione di Cristo può spirare un vento nuovo e purificante per il mondo d’oggi. Se due uomini credessero realmente a ciò e, nel loro agire sulla terra, si facessero muovere da questa fede, molte cose cambierebbero. Vivere a partire dalla risurrezione: questo significa Pasqua» (D. Bonhoeffer, A E. Bethge 27 marzo 1944).

Con questi sentimenti di profondo affetto e amore per ciascuno di voi, auguro a tutti di vivere la gioia sconvolgente della Pasqua. Il Crocifisso risorto continui a sedurre i nostri cuori perché possiamo continuare a spendere la nostra vita nel mondo e nella Chiesa nella misura del dono totale di sé.

Buona e Santa Pasqua a tutti!

A tutti e a ciascuno: coraggio e avanti in Domino!

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P. Stefano Camerlengo, IMC
Superiore Generale