Sommario MC giugno 2022

Questo numero della rivista è disponibile online dal 16 giugno.


Editoriale.

Bambini al centro.

Articoli

Dossier

I primi 50 anni della Consolata in RdC – Dallo Zaire al Congo.

Rubriche


Editoriale

Bambini al centro

Giugno, per noi mese della Consolata, si caratterizza per avere tre «giornate mondiali» dedicate ai bambini: il 4 giugno, quella dedicata all’infanzia vittima di violenza, il 12 giugno contro il lavoro minorile e il 16 giugno, la giornata che ricorda i bambini africani. Tutto questo nella cornice di altre giornate mondiali significative: per l’ambiente il 5 giugno, per gli oceani l’8 giugno, quella contro la desertificazione il 17 giugno, poi contro la violenza sessuale nei conflitti il 19 giugno, e la giornata mondiale del rifugiato il 20. Temi tutti di drammatica attualità, come dimostra la terribile guerra in Ucraina e il sempre più grave degrado dell’ambiente di cui è segno, per esempio, la siccità che attanaglia il nostro e tanti altri paesi causando una estesa crisi alimentare.

Articoli

I popoli indigeni e le elezioni di ottobre -Fuori Bolsonaro, fuori i garimpeiros

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, nella Terra indigena yanomami (Tiy); si noti la pista per gli aerei. Foto Bruno Kelly – HAY.

Dopo quattro anni di presidenza Bolsonaro, il paese latinoamericano versa in condizioni molto pesanti. In particolare, drammatica è la situazione dei popoli indigeni. Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, organizzazione che quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Al bingo dello «shoop do Ismael» i primi due premi sono due revolver 357, il terzo è costituito da due litri di whisky. All’internet caffè di Lora, oltre alla connessione wifi, si possono trovare torte, snack, pizze, bibite gassate, succhi naturali. Da Nanda c’è, invece, una festa di carnevale con cabaret e musica.

Questo pubblicizzano i manifesti di tre locali pubblici.

Da Trento a Chişinău – Vicinanza e concretezza

Suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina, sistema gli aiuti ricevuti da Trento e Mestre nel deposito della Casa Provvidenza, a Chişinău, capitale della Moldavia. Foto Luisa Legari.

La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.

Incontro con due donne maya ixil – Da vittime a protagoniste

Cristina Raymundo (a sinistra) ed Elena Guzaro, donne maya ixil del dipartimento guatemalteco del Quiché. Foto Simona Carnino.

Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Il documentario su Gianni Minà – l giornalista che non voleva gridare

Un sorridente Gianni Minà alla scrivania del suo studio. Foto archivio Gianni Minà.

È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.

Evoluzione delle Società Benefit in Italia – Da prospettiva a solida realtà

Le imprenditrici che Reynaldi ha coinvolto in Burkina Faso per la produzione del burro di karitè

Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.

Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

Padre Lisandro Rivas, nuovo ausiliare di Caracas – Un Vescovo servo di consolazione

Consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio

L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.

In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro.

Dossier

I primi 50 anni della Consolata in RdC – Dallo Zaire al Congo

  • Tra guerre e dittature, 50 anni di strada – Partire dalle minoranze
  • Dal diario del pioniere – Prime lettere dallo Zaire
  • La nuova avventura – Kisangani, ultima periferia
  • Due decenni vissuti appassionatamente – Con il cuore si vince
  • La repubblica democratica di Felix Tshisekedi

Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.

L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.

Rubriche

Faraja House

Noi e voi, dialogo lettori e missionari

Lettera su “verità e giustizia”.
Lettera dalal Faraja House in Tanzania.
Dalla Certosa di Pesio, un po’ di storia, i progetti gli incontri e le opportunità: tutto da scoprire.

Esodo – Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)

Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

 

Missione Reu 05 – Ricostruire persone e comunità

Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto
il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il
perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.

Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro. Vi andai e rimasi contento.

La chiamano economia – Carbone, petrolio, gas  vincono ancora

Un pezzo di carbone, combustibile fossile ad altissimo impatto ambientale. Foto Pavlofox-Pixabay.

I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.

Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.

I Perdenti special  – Beato Benedict Tshimangadzo Daswa

Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.

Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora

Cooperando – Rimesse e rifugiati

Il 16 giugno è la Giornata mondiale delle rimesse familiari, mentre il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Due occasioni per farsi un’idea dell’ampiezza di questi fenomeni e per riflettere sulla vita delle persone che vivono lontano da casa e sul contributo che danno alle comunità di origine e di soggiorno.

Secondo le proiezioni diffuse lo scorso novembre dalla Banca Mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti verso i paesi a medio e basso reddito avrebbero raggiunto nel 2021 i 589 miliardi di dollari, con un incremento del 7,3% rispetto al 2020, quando si erano attestate sui 549 miliardi. La ripresa del 2021, sottolinea la Banca, fa seguito alla tenuta osservata nei flussi del 2020, quando le rimesse si erano ridotte solo dell’1,7% rispetto all’anno prima, nonostante il pianeta si trovasse, a causa della pandemia da coronavirus, in una delle più profonde recessioni di sempre e le prime stime avessero indicato un possibile calo delle rimesse del 19,7%@.

Allamano – Un santuario al centro di una vita

Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».

Da due registi italiani e uno russo – Il mondo al pronto soccorso

Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico. A riveder le stelle, Ogni 90 secondo e Winter on Fire.

 

 

 




Ascoltare con il cuore nell’orecchio


A fine mese, il giorno dell’Ascensione, si celebrerà la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema, «Ascoltare con l’orecchio del cuore», può stupire: abituati a una comunicazione incalzante, infatti, rischiamo di scordare che l’ascolto è preliminare al comunicare. Tanto più oggi, quando i canali della comunicazione si moltiplicano creando una cacofonia che disorienta. La tentazione, da parte dell’utente, è quella di tapparsi le orecchie, o di lasciare filtrare frammenti disparati e senza logica, oppure di sintonizzarsi su un solo canale, una sola voce, escludendo tutti gli altri.

Succede anche nel campo più specifico dell’informazione: stampa, radio, Tv, siti web e social, fino a ieri erano dominati dal Covid-19, da fine febbraio, invece, dalla tragedia dell’Ucraina. Un tale diluvio di notizie ha una conseguenza: l’assuefazione al peggio e il disinteresse verso altri drammi, altrettanto e, a volte, più gravi.

Ecco allora perché è importante – come scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata – porre l’attenzione sul verbo «“ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo. In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile». Senza un vero ascolto rischiamo di perdere la visione globale e di concentrarci solo su quanto ci tocca «hic et nunc», qui e ora, facendo diventare quel problema l’unico e il più importante. Senza un vero ascolto, sentiamo solo quello che ci tocca da vicino, disinteressandoci del resto del mondo, come se non fosse il «nostro mondo».

Questo «disinteresse» si può quantificare. Ricordo un esercizio semplice di quando feci la scuola di giornalismo: cronometrare per una settimana il tempo dato alle singole notizie nei telegiornali. Lo facessi oggi, a parte l’Ucraina, raccontata con un pathos che tende a spingere l’opinione pubblica a non vedere alternative al riarmo, e qualche necessaria coda sul Covid-19, probabilmente non registrerei quasi niente riguardo alla Siria, con i suoi milioni di profughi (resi quasi invisibili), le drammatiche distruzioni di città e gli eccidi. Pochi minuti andrebbero al Libano, e niente allo Yemen di cui parlano solo i ripetuti appelli di Amnesty international, Amref o Medici senza frontiere. È sparito anche l’Afghanistan che pure l’estate scorsa per qualche settimana è stato al centro di tutti i notiziari. Poi, chi parla di Somalia, Mozambico, Sudan, Etiopia, Centrafrica, Congo Rd, Nigeria, Burkina Faso, Niger? Mai sentito parlare di ciò che succede in Venezuela, Colombia, Messico, Nicaragua? Quanti secondi sono stati dati al terremoto di Haiti dello scorso agosto? Qualcuno dedica tempo alla siccità che attanaglia molti paesi del Sud del mondo e alla fame che ne consegue? E questi sono solo alcuni degli esempi possibili.

Il recente viaggio di papa Francesco a Malta, ha messo in rilievo un’altra difficoltà di ascolto del nostro mondo, e non solo quello dei media: quella verso i migranti che attraversano il Mare nostrum, affogati, respinti o mal accolti.

Di fronte a tutto questo, ecco l’importanza di un ascolto vero. Un ascolto che non sia un semplice origliare, che sia antidoto al parlarsi addosso, che non si preoccupi degli «indici di ascolto», che non cerchi conferma di quanto già si sa, ma impari a discernere la verità, sia rispettoso della persona, favorisca l’incontro e la comprensione reciproca, diventi vero dialogo, trovi l’intuizione di strade diverse da proporre.

«L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza». E non solo per il buon giornalismo, ma per la vita di tutti i giorni.




Noi e voi, spazio di dialogo lettori e missionari


Dov’è Dio quando gli uomini sono in guerra?

La guerra è quanto di più tragico, disumano e folle possa accadere nel mondo. Lo possiamo constatare in questi giorni in cui
l’Ucraina è oggetto di occupazione e bombardamenti con innumerevoli morti tra i civili, fughe all’estero, ecc. Viene spontaneo chiedersi dove sia e che cosa faccia Dio di fronte alle ingiustizie e alle violenze a danno degli innocenti. Gli autori dell’Antico Testamento, per trascrivere l’esperienza del popolo d’Israele, hanno fatto ricorso al lessico e ai modelli culturali dell’ambiente mediorientale, compreso il fenomeno umano e storico della guerra; si trovano di frequente quindi episodi di eccidi, stermini e vendette senza limiti. Nella ricerca del volto di Dio è presente anche il titolo «Signore degli eserciti» (Is 10,24) e tra tutte le forme di conflitto vi è la «guerra santa» (Gl 4,9); si fa breccia, in ogni caso, la convinzione che Dio non corrisponda ai criteri elaborati dall’uomo, come avviene, ad esempio, nel libro di Giobbe, in cui si mette in dubbio l’idea che l’insuccesso sia dovuto all’abbandono divino, e nella letteratura profetica in cui si elabora l’idea che la giustizia di Dio non sia quella dei canoni umani. Il Nuovo Testamento rivela infatti un volto di Dio del tutto inatteso e, soprattutto, annuncia che Gesù, il Figlio, non rispondendo con la violenza alle accuse rivoltegli e accettando la morte, ha vinto definitivamente il male, in particolare il peccato. Dio non è all’origine del male e ha a cuore la vita (Gn 9,16), dinanzi alle gravissime derive causate dalle possibilità dell’uomo conseguenti alla sua libertà, interviene con l’incarnazione, la vita, la morte e resurrezione del Figlio Gesù, e propone un ideale (Mt 5,44), l’amore verso il nemico, che tanti martiri e santi hanno testimoniato nel corso dei secoli, non sminuendo in ogni caso il valore della lotta per la giustizia. Dio, che è vivo, sicuramente agisce con il suo Spirito ma in modo imperscrutabile; non interviene in modo magico e sostiene l’uomo che potenzia le sue «armi» quali l’impegno quotidiano nel superare i piccoli contrasti inevitabili, la pratica costante di azioni diplomatiche e politiche volte a mediare, la preghiera perseverante ed insistente. Dio soffre atrocemente per le vite interrotte con la violenza, i danni arrecati all’ambiente naturale e alle opere costruite dall’uomo, per l’uso delle armi sempre più sofisticate e l’incapacità di trovare intese durature, necessarie in quanto gli equilibri geopolitici non sono mai definitivamente risolti, è presente laddove si soffre, e «agisce» attraverso tutte le iniziative che l’uomo assume per porre rimedio ai conflitti, costruendo degli accordi, e attraverso coloro che, nella fede e nella grazia sacramentale, sono uniti intimamente a Cristo (Mc 11,24) nell’implorare la pace.

Milva Capoia
14/03/2022


Troppa popolazione?

In questi giorni sembra che sulla Terra abbiamo superato gli otto miliardi di abitanti. Eravamo 2.480 milioni a fine 1950, quindi in 71 anni siamo più che triplicati. È vero che in questi 71 anni non ci sono state guerre mondiali e neanche epidemie generalizzate: ma di una pandemia ci stiamo occupando adesso e sembra che Putin abbia voglia di trascinarci in una guerra mondiale per difendere il suo posto di padrone della Russia e magari diventarlo di tutto il mondo. In ogni modo, anche senza il suo aiuto non credo che la vecchia palla su cui viviamo sia in grado di reggere a lungo una popolazione che si triplica ogni 70 anni. Io ho avuto la possibilità di girarla tutta (e a forza di prendere sole mi son preso anche un tumore, ma tanto ho superato benissimo gli 80) e vi assicuro che è bellissima e che ha una popolazione meravigliosa che però si fa governare da troppi cialtroni e non pochi veri assassini.

Claudio Bellavita
24/03/2022

Grazie per le considerazioni e per l’amore alla nostra Terra. La questione della popolazione è ovviamente molto complessa e controversa. Di sicuro la soluzione non sta né nella pandemia né nella guerra, ma probabilmente neanche nelle «scelte di morte» che avvengono di fatto nel nostro mondo (figlio unico, aborto, messa in crisi della famiglia, esaltazione del gender, ecc.). Di fatto, e l’Italia ne è capofila, stiamo assistendo a un declino demografico preoccupante, come se non credessimo nel futuro. Invece la crisi che stiamo vivendo richiede un serio ripensamento degli stili di vita, dei consumi, dell’uso delle risorse del nostro pianeta e delle relazioni tra i popoli.


Tra guerriglia e sogni di pace

Carissimi amici,
riesco finalmente a raccontarvi un pezzo di vita della mia parrocchia in questi mesi del nuovo anno. Dopo la paura iniziale per il Covid-19, in questo ultimo periodo, qui a Solano la vita è ritornata quasi alla normalità.

In Colombia la distribuzione dei vaccini è iniziata dalle zone periferiche e ai confini con altri paesi come Perù ed Ecuador; quindi, possiamo dire che siamo stati privilegiati essendo stati tra i primi a essere vaccinati.

La situazione sociopolitica in Colombia è sempre più complicata nonostante l’accordo di pace avvenuto nel novembre 2016 tra il governo del presidente Santos e la Farc (guerriglia). Molti hanno lasciato le armi e, attraverso i programmi integrativi dello stato, si sono inseriti nella vita civile, ma molti altri hanno deciso di continuare la lotta armata ed è sorta la disidencia (dissidenza), mentre altri, dopo essersi consegnati, delusi per il mancato compimento delle promesse statali, sono ritornati alle armi.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia

Il 28 gennaio e 8 febbraio ho accompagnato tre giovani di Solano al seminario diocesano per un discernimento vocazionale: uno a San Vicente del Caguán, altri due a Florencia, il capoluogo della regione. Appena arrivato in canonica al mio rientro da Florencia, ricevo una chiamata: «Padre è tutto pronto». Mi reco al «Club Juvenil», punto d’incontro per le varie attività dei giovani costruito da padre Giuseppe Svanera, senza sapere perché richiedono la mia presenza. Entro e trovo davanti a me tre bare con i corpi di tre giovani fratelli che sono stati assassinati.

Viviamo in un territorio dove per sopravvivere si coltiva la pianta di coca da cui poi viene estratta la pasta basica per produrre la cocaina e, quindi, la violenza è fortissima.

Le bare. ancora aperte, sono poste sopra tavole di legno sostenute da casse vuote di birra. Attorno si brucia caffè per cercare di coprire l’intenso odore dovuto alla decomposizione dei corpi. Un giovane che è stato testimone dell’eccidio racconta la brutalità che i tre fratelli hanno subito: legati e uccisi con vari colpi alla testa e al torace da un gruppo di trafficanti di droga che si fa chiamare Sinaloa. Tutto risale al 5 febbraio.

I primi a parlare con me sono i padrini di battesimo di due dei giovani assassinati: sono molto addolorati e mi dicono che il papà sta sbrigando le pratiche con la giustizia. Hanno preso seriamente il loro impegno di padrini e sono una chiara testimonianza di fede per la gente del paese. Per questo li ringrazio. Mi presentano i genitori. La mamma già la conoscevo perché l’avevo aiutata economicamente comprando direttamente da lei alcuni dei suoi prodotti. Vive separata dal marito, e fa parte della «Iglesia evangelica pentecostal». Il papà, Pedro, desidera la messa cantata per il funerale dei figli.

Celebriamo il funerale in un ambiente militarizzato, con molta paura e tristezza. Durante l’omelia denuncio gli autori di questo assassinio, dicendo che non esiste nessun motivo per togliere la vita a qualsiasi persona: Dio dona la vita, non la toglie. Invito gli assassini a pentirsi del loro gesto e a non continuare con queste stragi che stanno colpendo molto duramente il nostro territorio, soprattutto contro i giovani.

Le tre salme sono caricate su tre mezzi e portate al cimitero in processione. Accompagno il corteo con la recita del rosario, benedico la tomba e durante la sepoltura alcuni giovani mettono musica colombiana, il «Vallenato», che esprime la disperazione che stanno vivendo.

Nel pomeriggio viene il papà dei tre giovani. È un antioqueño che ha lasciato la sua terra 36 anni fa in cerca di fortuna. È stato nel Caguán, a Remolino, dove ha conosciuto il padre Giacinto Franzoi, e ora si trova nel Yurilla, dove è proprietario di un piccolo negozio di alimentari e vende benzina. I figli vivevano in un villaggio più all’interno, nella foresta. Quando gli hanno comunicato della loro morte, superando il dolore con molta forza, ha coordinato tutto per portarli a Solano. Ha chiesto appoggio alle forze dell’ordine che gli hanno dato protezione e gli hanno consigliato di non ritornare da dove era venuto perché è a rischio la sua vita.

Gli chiedo: «Perché li hanno uccisi?», e lui ripete all’infinito: «Erano bravi ragazzi, non hanno fatto del male a nessuno. Io non posso lavorare perché sono anziano. Spesso andavo da loro e si chiacchierava e rideva, o loro venivano da me. Abbiamo passato momenti molto belli di amicizia, di fraternità e di gioia grande. Non mi spiego il perché».

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia

Prosegue: «Sono stato interrogato dall’esercito per più di due ore, e ho ripetuto che non abbiamo mai collaborato con nessun gruppo. Ho detto che quando venivano i guerriglieri mi chiedevano di trasportarli con la canoa. Non potevo dire di no e così davo loro le chiavi e la benzina. Mai ho guidato io l’imbarcazione. Loro andavano e me la riportavano. Chiedevano cibo e compravano la benzina, mai a loro abbiamo creato problemi. Ho anche dato all’esercito le coordinate dove poterli trovare, anche se i militari sono qui da più di un anno e non fanno assolutamente nulla, stanno a guardare. Padre, ho anche denunciato che l’anno scorso, quando è stato ucciso un dissidente della Farc, vi è stata una grande mobilitazione militare con barche ed elicotteri fino ad arrivare nel mio villaggio. Erano presenti circa 80 uomini del gruppo Sinaloa, ma l’esercito ha sparato verso le canoe dove c’erano i contadini, non a quelle dei guerriglieri. Sono arrivato alla conclusione che vi è una alleanza tra l’esercito e i Sinaloa, e che forse questo gruppo è stato creato dallo stesso esercito con ex combattenti della Farc per combattere la dissidenza».

Qualche giorno dopo il signor Pedro viene a chiedermi il certificato di sepoltura dei suoi tre figli perché vuole denunciare lo stato. È intenzionato ad andare a Bogotá per parlare con i mezzi di comunicazione a livello nazionale e internazionale. È arrabbiato e triste. Mi dice: «Non voglio che muoiano altri giovani, molti ne sono stati già uccisi. Dobbiamo fermare questa strage. Oggi la barca di linea portava più di cento persone che scappavano dal territorio dopo aver visto trucidare i miei tre figli senza alcun motivo».

Lo avviso che oggi passerà a Solano la Croce Rossa internazionale e che sarebbe importante mettersi in contatto con loro perché appoggiano questi casi di violazione dei diritti umani.

Vedo che si fa sempre più urgente un lavoro con gli adolescenti e i giovani. Già in parrocchia lo stiamo attuando, non solo con attività religiose di catechismo e con gruppi giovanili, ma con una presenza a tappeto nelle varie scuole e collegi del territorio dove operiamo, attraverso un accompagnamento di formazione sul progetto di vita e sui valori in cui credere per costruire il proprio futuro.

Approfitto per ringraziare le varie associazioni e persone che hanno collaborato in questi anni nell’appoggio economico delle varie attività realizzate nella parrocchia e a livello del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano (come il progetto di Amico, luglio 2019). Qualche frutto lo abbiamo visto in giovani che si sono inseriti nella società come lideres. A livello ecclesiastico abbiamo quattro giovani nel seminario.

Da quando sono arrivato il 3 dicembre del 2017 abbiamo diviso questo immenso territorio in tre parrocchie e come zona ci troviamo una volta al mese qui nella parrocchia madre. Siamo un bel gruppo: tre sacerdoti, sette suore, due seminaristi e una laica Missionaria della Consolata. Un gruppo di missionari/e molto giovani che, guidati dalla forza dello Spirito del Signore, vogliamo accompagnare i vari popoli che vivono in questo territorio amazzonico minacciato dalla violenza e dalla distruzione per interessi di potere e di soldi.

Grazie per la vostra vicinanza, sempre vi ricordo nell’Eucaristia che sta al centro della mia giornata e della mia vita.

Il beato Giuseppe Allamano (oggi è la sua festa) e la nostra madre Consolata siano di appoggio nel nostro cammino missionario per le strade del mondo.

Padre Angelo Casadei
da Solano, Colombia, 16/02/2022


Nuovo ausiliare a Caracas

È con gioia, e ringraziando Dio e la Vergine, che i Missionari della Consolata (Imc) in generale, e quelli del Venezuela in particolare, hanno ricevuto, il 23 dicembre 2021, la bella notizia della nomina di padre Rivas Durán Lisandro Alirio, fino ad allora rettore del Pontificio collegio missionario internazionale «San Paolo apostolo» di Roma, come vescovo ausiliare di Caracas.

L’ordinazione episcopale di mons. Lisandro e mons. Carlos Márquez è stata conferita dal cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Caracas, nella chiesa di san Giovanni Bosco nella capitale, con la partecipazione di molti vescovi del Venezuela, più alcuni vescovi di Rito greco e due vescovi Imc dalla Colombia.

Nella sua omelia, il cardinale, riferendosi al testo biblico del «Buon Pastore», ha ricordato ai vescovi eletti che sono «scelti, preferiti e sostenuti dal Signore» e che «il Signore li ha chiamati per nome perché sono di Dio» e li ha esortati a essere dei buoni pastori sull’esempio di Gesù.

Domenica 13 marzo 2022, monsignor Lisandro ha celebrato la sua prima messa come vescovo ausiliare nella parrocchia di San Joaquín e Santa Ana di Carapita, nell’area pastorale che è stato incaricato di accompagnare nella periferia della città.

Ha presentato il Vangelo come suo programma pastorale e ha sottolineato che sul suo emblema episcopale c’è la Bibbia aperta su cui sono incise A e Ω con il motto «Perché in Lui abbia vita». Ha espresso la volontà di dare il meglio di sé al servizio del popolo di Dio affidato alle sue cure.

adattato da «Vida nuestra», aprile 2022

Riportiamo in breve questa notizia, riservandoci di pubblicare quanto prima un’informazione più completa sull’avvenimento e sulla situazione pastorale di Caracas.

Foto di gruppo dopo la consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio




Ucraina. Aggressione e resilienza


Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Un paese giovane con una storia secolare

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.

Tra «Russkij mir» e democrazia

Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).

Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.

Profughi ucraini accolti in un rifugio temporaneo organizzato in un ex edificio storico della stazione ferroviaria di Cracovia, in Polonia, il 28 marzo 2022. Foto Beata Zawrzel – Anadolu Agency – AFP.

La questione Donbass

L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.

Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.

Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.

Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.

Civili in attesa di essere evacuati dalla città martire di Mariupol, quasi rasa al suolo dai militari russi e dai separatisti (26 marzo 2022). Foto Anadolu Agency – AFP.

Il casus belli di Putin

Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.

Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.

Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.

Le milizie ucraine di estrema destra

Stemma del «Battaglione Azov», formazione ucraina neonazista.

Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.

Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.

Che significa neutralità?

Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.

Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.

Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».

La crisi dei migranti

Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.

La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?

Claudia Bettiol*

(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).


La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa

Putin e il patriarca Kirill alla cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo, la principale cattedrale delle forze armate russe, in occasione di una commemorazione, Kubinka (Mosca), 22 giugno 2020. Foto Aleksey Nikolskyi / Sputnik / AFP.

Kirill, il patriarca con l’elmetto

Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.

Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).

Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.

Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).

La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).

Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.

I cattolici ucraini

I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.

Paolo Moiola


Mappa dell’Ucraina con evidenziate le regioni contese: il Donbass e la Crimea.

Ucraina, alcuni dati

  • Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
  • Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
  • Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
  • Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
  • Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
  • Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
  • Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
  • Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
  • Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
  • Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
  • Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
  • Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
  • Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).

(a cura di Paolo Moiola)




Le Queens, regine del campo


In un mondo di relazioni sempre più disumane, una squadra di calcio formata da donne – richiedenti asilo, rifugiate e operatrici sociali – sfida violenza, pregiudizi e maschilismo. Accade a Torino.

In una sera estiva del 2017, in una Torino afosa e deserta, è nata l’idea delle Queens. Una squadra di calcio femminile per dare la possibilità a donne richiedenti asilo e rifugiate, supportate dalle operatrici della cooperativa sociale Progetto Tenda, di andare oltre gli schemi, senza curarsi di ciò che gli altri credevano possibile o impossibile.

«Come ogni estate, Balon Mundial aveva promosso il campionato dilettantistico tra le squadre delle comunità di migranti – racconta Anael, operatrice tra le fondatrici della squadra -. Dato che, da alcuni anni, c’era anche un torneo femminile, pensammo che il calcio avrebbe potuto essere lo strumento giusto per metterci in gioco».

Una vera sfida nella sfida: uno sport quasi esclusivamente maschile, con un pubblico in grande maggioranza maschile, da proporre a donne che si sforzavano di riprendere in mano la propria vita, dopo anni di viaggi, violenze e percorsi travagliati e traumatici.

«Sentivamo – prosegue Anael – il bisogno di mettere in gioco le nostre capacità in modo nuovo e inaspettato, indirizzando la nostra energia in qualcosa da costruire insieme, cucendolo sulla nostra pelle ferita. Partendo da una passione condivisa per il calcio, abbiamo quindi messo tutto il nostro entusiasmo nella creazione della squadra».

Le giocatrici delle Queens si allenano con tiri verso la porta difesa dalla nigeriana Esosa. Foto Davide Casali.

L’anno dell’esordio: Nigeria, Somalia, Italia

Così, quasi per caso, donne richiedenti asilo e operatrici si sono ritrovate in un gruppo pieno di desideri, un gruppo che avrebbe saputo affrontare insieme vittorie e sconfitte, sempre coeso, con condivisione e fiducia reciproca nonostante le differenze culturali, etniche, linguistiche, di esperienze di vita.

Nonostante solo una delle giocatrici avesse esperienza in questo sport, tutte si sono cimentate nella scoperta e conoscenza delle regole e delle tecniche calcistiche e nei vari ruoli, partecipando con dedizione agli allenamenti e alle partite.

C’era Mary che ha rispolverato i tacchetti abbandonati in Nigeria iniziando così la carriera di bomber delle Queens. C’era la connazionale Esosa che si è lanciata da neofita in questa avventura diventando una giocatrice versatile e preziosa per le sue compagne. C’era Suleqa, giovane donna somala, che ha giocato ogni partita con il velo e che, con determinazione, ha difeso a spada tratta la sua squadra. C’era Rebecca, educatrice giovane e impetuosa (quanto si è arrabbiata quando abbiamo perso le prime partite!). C’era Anael, la «saracinesca», prima portiera delle Queens. C’era Monica che è venuta a lavorare per due settimane con il segno dei tacchetti sul polpaccio. E poi c’erano: Marta che sventolava bandiera e distribuiva bottiglie d’acqua, sorrisi e incoraggiamento; Alessandra con la sua dirigenza esperta e la sua passione e, ultima ma non ultima, Mathilde (belga), vera e propria «tuttofare» della squadra. «Ed è stato così che le educatrici e le donne ospitate nelle strutture si sono confuse in un unico abbraccio sudato – continua Anael -. Tutte insieme abbiamo partecipato al torneo del Balon Mundial. Tra sconfitte e vittorie, ci siamo classificate al quarto posto: un piccolo miracolo!».

Ragazze delle Queens durante un allenamento. Foto Davide Casali.

L’apertura a tutte: una pioggia di adesioni

L’esperienza del primo anno delle Queens ha dimostrato a tutte come lo sport condiviso possa essere davvero uno spazio di emancipazione, inclusione, gioia e libertà.

Per questo la squadra, dal 2018, ha deciso di aprirsi al territorio, dando la possibilità a tutte le donne interessate a partecipare. «Sono arrivate tante adesioni – raccontano dalla cooperativa – siamo rimaste sorprese dal numero di donne che avevano fatto esperienze pregresse o che avevano sempre desiderato giocare, ma non avevano trovato spazio o coraggio».

Grazie all’arrivo di nuove giocatrici, donne di varie nazionalità, tra cui molte italiane, con storie e situazioni differenti, le Queens sono cresciute e oggi le educatrici della cooperativa si possono dedicare al tifo dalla panchina. Poi, alla fine del torneo estivo del Balon Mundial 2019, si è presentata un’altra grande occasione di crescita: l’associazione organizzatrice del torneo si è voluta avvicinare alla squadra, proprio per quei valori che ogni giorno essa cerca di promuovere (inclusione, equità, empowerment, crescita personale).

È nata così una partnership, in cui le donne hanno iniziato a essere seguite dagli educatori sportivi dell’associazione. A ogni allenamento essi cercano di lavorare sulle competenze personali delle giocatrici. Competenze che le donne possono sviluppare in campo, ma che sono utili anche fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni: comunicazione, lavoro di squadra, fiducia in sé stesse, spirito di adattamento.

Zuleika, ragazza somala, rincorre il pallone con il velo sul capo. Foto Davide Casali.

Il cartellino rosso del Covid

Negli ultimi due anni, purtroppo, l’emergenza sanitaria ha messo a dura prova gli allenamenti della squadra e la possibilità di continuare a vedersi. Per le donne che vivono in comunità partecipare agli allenamenti (tenuti su vari campi della città) è diventato impossibile. La responsabilità di tutelare, oltre che la propria, anche la salute delle altre ospiti e del personale ha impedito loro di continuare ad allenarsi.

Durante il primo lockdown, grazie alla collaborazione con i coach di Balon Mundial, le donne hanno avuto la possibilità di incontrarsi sulla piattaforma Zoom per allenamenti settimanali, ma per molte di loro questa modalità non era abbastanza. Mancava quel contatto umano e quella libertà di correre in campo che aveva permesso loro di dimenticare, almeno per alcune ore a settimana, traumi e sofferenze e ritrovare la fiducia in se stesse. Anche in questo caso l’emergenza causata dal Covid ha colpito più duramente le persone più fragili e vulnerabili.

Attualmente gli allenamenti sono ripresi, pur rispettando tutte le norme e le indicazioni di sicurezza. Finalmente le Queens sono tornate tutte insieme in campo, pronte per il prossimo torneo e le nuove avventure che le aspettano.

Impegno, entusiasmo, voglia di divertirsi e di mettersi alla prova in un nuovo contesto, sono stati e sono gli ingredienti di questo mix energico chiamato Queens.

«Per un calcio oltre i confini, per un calcio oltre il genere», per dirla con le parole del loro slogan.

Bianca Orazi e Sara Lopresti
(operatrici Progetto Tenda)

Momenti (concitati) di gioco durante una partita. Foto Davide Casali.


Accoglienza e solidarietà

I miracoli del pallone

Due Onlus di Torino – Progetto Tenda (1999) e Balon Mundial (2012) –  hanno         trasformato il gioco del calcio in uno strumento per superare la violenza dei     confini e dei generi.

Cultura dell’accoglienza e della solidarietà, inclusione sociale, educazione al fair play, rispetto delle regole, risoluzione dei conflitti. Sembra essere soltanto un elenco di belle parole e buone intenzioni. Eppure, soprattutto di questi tempi, è fondamentale mantenere obiettivi alti che superino le miserie dell’oggi. A tutto questo ambiscono due Onlus di Torino.

Progetto tenda

Progetto Tenda – si legge su progettotenda.net – è una cooperativa sociale nata nel 1999 con l’obiettivo di occuparsi di percorsi d’inserimento nella società dei soggetti più fragili, con una particolare attenzione alle donne. Negli anni la cooperativa – attualmente guidata da Cristina Avonto, Valentina Melchionda e Cristina Apicella – ha sostenuto i percorsi di richiedenti asilo, rifugiati, donne vittime di tratta, mamme con bambini, famiglie in povertà, donne e uomini senza dimora, minori stranieri non accompagnati.

Ogni giorno le addette di Progetto Tenda lavorano per accogliere persone in difficoltà e diffondere la cultura dell’accoglienza e della solidarietà.

La sua mission è migliorare la vita delle persone in difficoltà e più fragili promuovendo percorsi di comunità per sostenere l’incontro tra le persone, nativi e migranti, donne e uomini, senza alcuna discriminazione, sostenendo ogni percorso individuale, ogni scelta e orientamento sessuale, religioso, di appartenenza etnica o politica e permettendo a ogni individuo di autoderminarsi nella costruzione del proprio percorso di vita.

La filosofia di Progetto Tenda è così riassunta sul sito dell’associazione: «Crediamo che la comprensione della diversità, più che l’integrazione in un predefinito modello culturale, sia la chiave per realizzare il nostro obiettivo: una società più pacifica, più aperta e più giusta, in cui siano garantiti uguali diritti a tutti quanti».

Come suggerisce il nome, la Tenda offre in primis servizi di prima necessità (vitto, alloggio e sportello lavoro), ma ha in essere anche attività lavorative proprie come un catering («Mondi a tavola») e una gelateria («Gelateria popolare+»). Il progetto delle Queens è nato nel 2017, trovando, due anni dopo, un socio in un’altra grande realtà di Torino: Balon Mundial.

Balon mundial

L’Associazione sportiva dilettantistica Balon Mundial Onlus è una realtà abbastanza recente: ha compiuto 10 anni lo scorso gennaio, essendo nata nel gennaio del 2012. Le attività dell’associazione torinese si concentrano sullo sport e, in particolare, sul calcio inteso come strumento capace di abbattere ogni tipo di barriera e pregiudizio.

«Il calcio – si legge su balonmundial.it – è uno sport universale. È lo sport più praticato al mondo. Davanti a un pallone non importa quale sia il colore della tua pelle, la tua religione, che tu sia uomo o donna. Davanti ad un pallone siamo tutti e tutte uguali».

«Metti in gioco le differenze» è lo slogan che descrive il metodo di lavoro di Balon Mundial. Significa confrontarsi con gli altri, saper mettere in discussione le proprie conoscenze e certezze ma, soprattutto, saper ascoltare per imparare da chi propone un pensiero diverso. «Un insegnante è una persona che spiega le cose. Un educatore è una persona capace di essere un esempio».

Balon Mundial Onlus – attualmente guidata da Tommaso Pozzato e Luca Dalvit e da un gruppo di coach, formatori, educatori, mediatori e project manager – organizza vari tornei e «la Coppa del mondo delle comunità migranti» tra squadre composte da migranti provenienti dalla stessa nazione residenti a Torino. L’ultima edizione, quella del 2019 (poi è arrivato il Covid), ha sancito la vittoria del Perù in campo maschile e dell’Italia Avis in quello femminile.

Paolo Moiola

I SITI WEB:
www.progettotenda.net
www. balonmundial.it

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Una foto per cambiare il mondo


Ha incontrato la fotografia per caso. Così come i suoi primi soggetti: i migranti. Ora vede il suo lavoro come una missione. Al centro c’è l’essere umano, con la sua storia. E non come mezzo per fare soldi o diventare famosi.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Vive a Roma, dove lavora come addetto stampa per un viceministro, ma è originario della Calabria: «Sono nato a Corigliano Calabro, ho vissuto 22 anni a Palermo e ora sono a Roma per lavoro, ma in realtà non sento di appartenere a nessun luogo specifico. Stando sempre in giro, i posti in cui vivo sono come dormitori, appartengo a tutti i mondi che ho raccontato e non a uno in particolare», racconta Francesco.

È impegnato da oltre vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano il nostro continente.

Un lavoro svolto in un contesto spazio temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di una Europa sempre più blindata e difficile da raggiungere via terra o via mare. Da molti anni collabora con l’Unione europea, varie agenzie di stampa internazionali, come Associated Press, nonché organizzazioni internazionali quali Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni).

Un incontro

L’incontro con la fotografia è stato casuale. Si potrebbe dire – per usare le sue parole – che è stata la fotografia a «sceglierlo». Da sempre appassionato di immagine in senso lato, non aveva sviluppato una vera consapevolezza oltre la passione.

Ricorda se stesso ragazzo quando, a 14 o 15 anni, internet non c’era e la sua finestra sul mondo erano le riviste, che sfogliava e dalle quali strappava gli articoli contenenti notizie e immagini che lo colpivano particolarmente. Francesco, infatti, è sempre stato attratto dall’immagine, dalla sua potenza evocativa, specialmente quando è unita a una storia che va oltre la foto.

Poi un giorno la fotografia è entrata a far parte della sua vita, trasformandosi in un lavoro.

Francesco paragona questo incontro a un altro, altrettanto casuale e altrettanto carico di significato: quello con il primo soggetto delle sue fotografie.

Si trovava in Puglia, al porto di Brindisi, quando ha assistito a  uno sbarco di albanesi in fuga dalla dittatura. Era una coda del grande esodo iniziato nel 1991.

Francesco si è sentito immediatamente attratto da quella moltitudine di persone che, scappando, aveva deciso di inseguire un sogno di libertà.

Per questo, da oltre vent’anni, la sua fotografia è legata quasi interamente – ma non esclusivamente – alla documentazione dei flussi migratori in tutta Europa e paesi limitrofi lungo le rotte di terra e di mare.

La migrazione, lo spostamento, sono tratti peculiari della natura umana. L’umanità è da sempre in movimento, e questo movimento assume tratti tanto più drammatici quanto più si cerca di ostacolarlo amplificando paure e posizioni illogiche e anacronistiche. Gli scatti di Francesco recano testimonianza delle migrazioni e del loro evolversi concentrandosi sui loro protagonisti. Ogni scatto è il racconto di una storia. Ogni storia, un tentativo di salvare la peculiarità della vita ritratta, sfuggendo alla logica spersonalizzante che presenta le migrazioni come «fenomeni idraulici» e anonimi. L’obiettivo di Francesco è, infatti, rendere omaggio a un’umanità caparbia che, un passo alla volta, guadagna centimetri di libertà.

La fotografia necessaria

Davanti a quello sbarco di albandesi, a quell’umanità disperata e disorientata, Francesco non ha potuto far altro che porsi delle domande fondamentali.

«Chi sono queste persone? Perché scappano? Che storia hanno alle spalle? Perché fanno una scelta così importante come lasciare la propria terra e la propria casa? Cosa li spinge a muoversi verso l’ignoto rischiando così tanto?».

Francesco ha capito che l’unica cosa che poteva fare era approfondire: «Guai se un fotografo si muove in un qualunque posto del mondo senza saperne la storia profonda. È necessario studiare, confrontarsi, andare a fondo nelle storie e nella vita delle persone per poter poi raccontare con la giusta cura e il giusto approfondimento, altrimenti si rischia l’approssimazione, che equivale a una mancanza di rispetto».

Francesco ha iniziato così a studiare: cultura, usi, pensiero, politica, modo di vivere. Tutto ciò che caratterizzava la realtà che desiderava conoscere e raccontare.

Pur amando e apprezzando tutti i generi di fotografia, perché ognuno è una forma d’arte e, come tale, importante, ritrarre gli esseri umani, per lui, è l’unico tipo di fotografia necessaria, anzi fondamentale. Attraverso un «frame», infatti, si congela un attimo di un’intera esistenza, ma se insieme alla fotografia si trova il modo giusto per raccontare la storia che le sta alle spalle e la giusta informazione, allora quello scatto diventa eterno, e può fare la differenza.

Le storie che i fotogiornalisti raccontano sono tutte diverse l’una dall’altra, come diverse sono le identità delle persone raccontate. Questo ci tiene a sottolineare Francesco. Egli, infatti, dedica la stessa cura, la stessa attenzione e lo stesso amore a ogni storia raccolta.

L’identità di ogni individuo è al centro della sua fotografia. Allo stesso tempo Malavolta ha capito che, sebbene le storie di migrazione siano tutte diverse, condividono qualcosa di fondamentale: il dolore, la perdita, la mancanza.

Egli, con la sua macchina fotografica, cerca di raccontare «la verità più vicina alla verità», per usare le sue parole, e lo fa partendo dalle origini della storia raccontata.

Questo implica un enorme sacrificio, perché significa immergersi totalmente in ogni storia. Aprire ogni canale possibile per dare e ricevere. Il fine ultimo è quello di restituire al pubblico che vedrà le sue immagini la storia più completa, chiara e dettagliata possibile, al netto di preconcetti e disinformazione.

Definendo se stesso, Francesco parla di sé come «un mezzo», nulla di più. Una sorta di amplificatore in grado di divulgare storie che altrimenti finirebbero nel silenzio.

Una missione

Per portare avanti questo mestiere, che è prima di tutto passione e missione vera e propria, Francesco tiene incontri nelle scuole o in qualunque ente sia interessato a comprendere come i popoli si muovono e perché.

I flussi migratori, infatti, vengono spesso narrati in maniera contorta, sbagliata. Si concentra il racconto su uno spazio temporale che va dall’emergenza – la barca in difficoltà, i morti, il salvataggio – alle polemiche successive allo sbarco, senza però concentrarsi su ciò che avviene prima.

In questo modo le persone che si muovono per via terrestre, spostandosi da un punto A a un punto B, difficilmente si vedono.

Francesco ha lavorato principalmente nel bacino del Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, nello stretto di Gibilterra, nel Mar Egeo e sulle terre più vicine, quindi Italia, Spagna, le isole greche e i confini terrestri come la rotta balcanica. Ma ha reputato necessario spostarsi poi nei paesi di partenza dei flussi migratori come l’Etiopia, lo Sri Lanka, il Senegal, il Burkina Faso.

Racconta le migliaia di sfollati interni che spesso non arrivano alle coste europee e che sono, in realtà, la gran parte delle persone in movimento. Di loro spesso non si sa nulla.

Alcune storie hanno richiesto a Francesco molta energia come quelle raccolte in Burkina Faso, dove si è trovato a documentare i giovani sfruttati per trovare oro scavando nella roccia a 20-25 metri di profondità.

Calati in miniere, con l’utilizzo di semplici corde, totalmente sprovvisti di sicurezza, fanno un lavoro usurante e sfinente che permette loro appena di sopravvivere. Non è difficile allora immaginare il motivo che li spinge a cercare una vita migliore.

Muoversi, fuggire, cercare un’altra possibilità, è qualcosa di strettamente legato all’animo umano, alla necessità, e non avviene solo in tempi di guerra, ma anche quando la vita diventa impossibile e intollerabile.

Il fine ultimo

Il reportage non è morto, come non è morto il fotogiornalismo, ma sempre di più l’editoria ha problemi a resistere. Oggi il contenitore principale dal quale trarre foto del mondo è il web e bisogna spesso accontentarsi di immagini fatte approssimativamente. Eppure, nell’ultimo decennio il numero di persone che si sono avvicinate al fotogiornalismo è maggiore rispetto a qualsiasi altro momento.

Francesco continua a credere fortemente nel potere del buon fotogiornalismo e porta come esempio ciò che è avvenuto dopo la famosa fotografia di Alan Kurdi: è tato per quell’immagine che la Germania ha aperto i propri confini a oltre mezzo milione di siriani e poi anche ad altri profughi.

C’è una cosa però a cui Francesco tiene particolarmente: il fine ultimo.

«Ai giovani fotografi che decidono di avvicinarsi alla fotografia giornalistica dico sempre di non avere fretta, e di tenere chiaro in mente l’obiettivo finale del proprio lavoro che non è diventare fotografi di successo, ma creare una narrazione che possa cambiare le cose. Non fare foto fini a se stesse per ottenere premi, mostre o pubblicare un libro. Quelli non sono punti di inizio o di arrivo, ma possono essere una distrazione se diventa l’unico fine della propria fotografia.

Bisogna fotografare pensando prima di tutto di ascoltare, raccogliere la storia con responsabilità verso gli altri e verso noi stessi. Se vogliamo fare fotogiornalismo, questo ci deve guidare: la voglia di cambiare le cose, nel nostro piccolo. La fotografia è politica, e può accendere una fiammella là dove il buio avanza e sembra fagocitare tutto».

Francesco ha diversi ricordi di immagini che non avrebbe voluto vedere, fotografie che non avrebbe voluto scattare. Una su tutte è quella delle 368 bare del naufragio di Lampedusa nell’ottobre del 2013. Da quell’immagine in poi, molte saranno le bare che Francesco si troverà a fotografare. Vite disperate, vite stroncate.

È per questo che oggi a 46 anni di cui 44 vissuti in riva al mare, non riesce più a guardare quella distesa di acqua così familiare e così amata con lo stesso sguardo che aveva da ragazzo. Il mare Mediterraneo, con i suoi 40mila morti negli ultimi 20 anni, gli appare come un grande cimitero e pur amandolo, oggi non riesce più a farsi un bagno senza pensare a ciò che «c’è sotto», come ci dice.

Francesco nelle sue presentazioni, mostre, incontri, parla con tutti, ma in particolare ama parlare con i bambini. Nella loro ingenuità, nella loro purezza non vedono differenze tra le persone, e ogni volta che parla con loro, la prima cosa che dice è che devono proseguire proprio su quella strada, su quell’idea di fratellanza che vede le differenze di usanze, tradizioni, luoghi di origine, come ricchezze e non come motivi di discriminazione.

I profughi dell’Ucraina

Dall’inizio del conflitto Russia – Ucraina, Malavolta è impegnato a documentare le migliaia di profughi in fuga dalla guerra sui confini di Polonia, Ungheria e Slovacchia. «Questo conflitto ci mette a dura prova perché in questo nuovo secolo in Europa nessuno si sarebbe aspettato una tale violenza così vicina. Ci sentiamo in pericolo. Vedo una gara di solidarietà incredibile verso i profughi ucraini, questo perché li sentiamo molto più vicini a noi in quanto bianchi e cristiani. Allo stesso tempo mi rendo profondamente conto di quanto altre guerre, come ad esempio quella in Siria, in Afghanistan, in Yemen, non vengono guardate con la stessa attenzione. Proprio lo scorso novembre al confine tra Polonia e Bielorussia, un bimbo siriano è morto assiderato senza che la sua famiglia potesse salvarlo. Non ci sono gli stessi riguardi verso chi viene dalla parte “sbagliata” del mondo».

La speranza di Francesco per il futuro è poter finalmente scattare immagini di luoghi senza muri. Vorrebbe poter fotografare mari senza dover raccontare persone disperate aggrappate a relitti, mentre tendono le mani per essere salvati.

Spera, in futuro, di fotografare persone felici accolte negli aeroporti, con un passaporto in mano.

Valentina Tamborra

 




Afghanistan. I nuovi Talebani

Sommario

 

 


Ritorno a Kabul

«Maometto è il suo profeta»

Il nostro collaboratore Angelo Calianno è tornato in Afghanistan dopo la riconquista del potere da parte dei Talebani. Questo è il suo racconto.

Kabul. Avevo lasciato l’Afghanistan nel 2018. Avevo lasciato un paese devastato dagli attentati dei Talebani che cercavano di destabilizzare il governo. Avevo lasciato un paese dove i clan dei signori della droga si contendevano il dominio sui campi di oppio.

Kabul era un susseguirsi di checkpoint, andirivieni di elicotteri americani, strutture blindate e soldati armati a guardia di banche, ministeri, alberghi. Nonostante questo, nonostante la corruzione dilagante, il paese aveva fatto molti passi in avanti. Molte Ong e compagnie straniere avevano cominciato a investire, le donne erano finalmente più presenti nella politica e nei media, pur rimanendo, quella afghana, una società estremamente patriarcale.

Atterrando a Kabul oggi, la sensazione è surreale. L’aeroporto è semideserto, a parte la presenza massiccia dei Talebani, schierati in ogni angolo. Capelli e barba lunga, uniforme assemblata con capi d’abbigliamento di diverse nazioni, e armi semiautomatiche americane, sono i Talebani a occupare tutti i checkpoint che, prima di agosto 2021, erano presenziati dall’esercito regolare. La bandiera bianca, con la scritta: «Sono testimone che nessuno merita di essere adorato se non Allah, sono testimone che Maometto è il suo profeta», ha ovunque soppiantato il tricolore nazionale afghano.

Talebani a un check point, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Quei giovanissimi «soldati di Allah»

Nei primi incontri, quelli per ottenere i permessi giornalistici e nei posti di blocco, i Talebani si mostrano molto cordiali. Mi offrono del tè e mi chiedono di quali temi voglia occuparmi.

«Mi raccomando, parla bene di noi. Scrivi che, da quando siamo tornati al comando, l’Afghanistan è un posto sicuro». È una delle frasi che più sento pronunciare ogni qual volta vengo fermato o mi trovo a intervistare qualcuno delle forze di sicurezza.

Durante un pranzo, dei giovanissimi Talebani, forse appena diciottenni, con un buon inglese e armati fino ai denti si siedono al mio tavolo.

«Da dove vieni?», mi chiedono. «Sai chi siamo noi?». «Conosco il gruppo a cui appartenete», rispondo. «Vi posso chiedere da quanto tempo vi siete uniti ai Talebani? E com’è stato il vostro addestramento?». «Abbiamo iniziato quando avevamo dieci anni, sulle montagne nella provincia di Helmand. L’addestramento è molto duro. Ci insegnano a sparare, combattere, si marcia al freddo e sulle montagne, a volte per mesi», raccontano.

«E se qualcuno non volesse più far parte dei Talebani e non volesse più combattere?». Mi guardano stupiti. Sorridono come se avessi chiesto qualcosa di estremamente stupido. «Siamo soldati di Allah, non smetteremo mai di combattere».

«Siete soddisfatti ora che gli americani sono andati via e ci siete voi al comando del paese?», insisto. «Ora siamo contenti. Gli americani sono il male. Prima di noi c’era solo degrado, la gente si ubriacava, c’era corruzione ovunque. Sei il benvenuto qui, che Allah ti protegga».

In realtà, nessuno di questi ragazzi aveva mai visto Kabul prima di agosto. A loro la capitale era stata descritta come un luogo fuori controllo, fatto di vizi e perdizione. Prima di andare via i due giovani mi chiedono se posso regalare loro del credito telefonico per usare internet. «Le giornate nei posti di blocco sono molto lunghe e ci annoiamo tanto», mi confessano.

Ci metto poco però a capire che la situazione è tutt’altro che migliorata come i Talebani vorrebbero farmi credere. I principali attentatori in passato erano Talebani. Con loro al comando ovviamente gli attentati sono diminuiti. Le esplosioni, che spesso si odono in giro per le città principali, sono quelle causate dagli ordigni piazzati dai miliziani dell’Isis-k (la fazione afghana dello Stato islamico), oggi principali oppositori del regime talebano.

Camminando per Kabul, più di metà di quelli che erano affollatissimi negozi, caffè, sale da tè, ora sono chiusi o deserti. Il numero di chi chiede l’elemosina per strada, soprattutto bambini, è decuplicato. Fuori dalle banche ci sono file dal mattino presto: è possibile prelevare un massimo di 200 dollari al mese, ma solo fino ad esaurimento del contante. Molto spesso quando arriva il proprio turno, non ci sono più banconote. È così da agosto. Le code più lunghe, chilometriche, si trovano fuori dall’ambasciata iraniana e pakistana. Centinaia di persone provano a chiedere un visto per fuggire in uno dei paesi confinanti.

Uomini in preghiera fuori dalla moschea di Shah-e Doh Shamshira, a Kabul. Foto Angelo Calianno.

L’amarezza del professore

Scuole e università sono vuote. In una di queste incontro Mohammed, professore di ricerca ed educazione linguistica all’Università di Kabul. «Fino ad agosto – mi racconta – insegnavo a 160 studenti, di cui il 65% erano donne. Quando sono arrivati i Talebani, non hanno avuto bisogno di vietare nulla. La gente era talmente spaventata che, chi non è fuggito verso l’aeroporto, si è chiuso in casa senza uscire per settimane. Io ho ancora il mio posto di lavoro, anche se, come vedi, agli studenti non è ancora permesso frequentare le lezioni. Abbiamo provato a contattare le autorità talebane, dicendo di essere disposti a dividere le classi tra donne e uomini, anche in giorni diversi. La loro risposta è stata: “Vedremo”. Ma sono già passati vari mesi senza nessuna comunicazione».

«Cosa pensi di tutte le persone che sono fuggite? Tu vorresti andare via?». «Non posso biasimare chi è scappato – risponde il professore -. Le persone, soprattutto i giovani, vogliono un futuro che qui non si vede più. Non si gioca con il futuro. Mi rattrista molto che, soprattutto le menti più brillanti, i giovani più istruiti, siano fuggiti. Io personalmente non andrei mai via per due ragioni: la prima è che non ho più l’età per farlo. Trasferirsi in un paese straniero, ricominciare la propria vita da zero, è una cosa che puoi fare solo se hai molti anni da vivere davanti a te. La seconda è che io amo l’Afghanistan, non voglio lasciare i miei studenti, se me ne andassi io, chi ci sarebbe per loro? Che punto di riferimento avrebbero?».

Gli chiedo se sia possibile un futuro senza Talebani. «Arrivati a questo punto, non so come potrebbero andare via. Molto probabilmente per sovvertirli ci vorrebbe un altro conflitto ma questo paese ha già sofferto abbastanza, generazioni sono cresciute vedendo solo guerra e occupazione».

«Che soluzione potrebbe esserci allora?», insisto. «Io penso che l’unico scenario possibile sia quello in cui le forze internazionali facciano pressione sui Talebani affinché includano nel governo, tutte le minoranze attualmente escluse: Sciiti, Hazara, Uzbeki, Tagiki. L’altro aspetto fondamentale da tenere vivo è quello dell’istruzione. Senza scuola, se non ci sono fondi e soldi per gli insegnanti, non c’è possibilità di cambiare le cose. Una persona istruita può avere un effetto positivo anche sui Talebani. Io ho constatato personalmente molta differenza tra quelli che sono da qualche mese a Kabul e quelli che sono ancora nelle zone rurali. Il contatto con la società, con persone che hanno un’istruzione, potrebbe farli ragionare e, magari, aprire nuove possibilità».

Una vista dall’alto di Kabul, la capitale dell’Afghanistan. Foto Angelo Calianno.

Verso l’Iran, l’Uzbekistan o il Pakistan

Non tutti però riescono ad accettare la realtà di oggi, l’obiettivo principale di quasi tutti gli afghani che incontro rimane quello di andare via. Ci sono pochi voli disponibili in uscita, circa due a settimana, al momento operati solo da due compagnie aree (Qam air e Ariana) e solo per due destinazioni: Islamabad in Pakistan e Dubai negli Emirati arabi. I costi, poi, sono esorbitanti per chi vive qui con uno stipendio di settanta dollari al mese. Un biglietto aereo, di sola andata, costa attorno ai mille dollari, sempre che si possegga un visto o un permesso valido per il paese di destinazione. Per molti, quindi, l’unica soluzione è uscire dal paese via terra. Legalmente, oggi ci sono tre possibilità: l’Iran, l’Uzbekistan (che, però, apre e chiude continuamente il valico per ragioni di sicurezza) e il Pakistan.

In questi giorni, il passaggio uzbeko è nuovamente chiuso. Quindi, decido di andare verso l’unico valico possibile per me: il corridoio di Torkaham verso il Pakistan.

Partendo da Kabul con un taxi condiviso, attraverso Jalalabad proseguendo verso Est. L’atmosfera e l’approccio nei miei confronti, da parte dei Talebani, cambia totalmente rispetto a Kabul.

In queste zone molti di loro sono nati e cresciuti tra le montagne, non sanno leggere o scrivere, non parlano altra lingua che non sia il pashtun (la lingua ufficiale in Afghanistan è il daari), e sono estremamente sospettosi e aggressivi.

La zona a Est di Jalalabad, ovvero la provincia del Nangarhar, è conosciuta per molti motivi. Luogo nevralgico per tutti gli scambi commerciali in entrata e uscita (incluso l’oppio) verso Est, in passato è stato la regione di provenienza della maggior parte dei seguaci di Bin Laden e, prima ancora, di molti mujaheddin che combatterono contro i russi negli anni Ottanta. Per anni, il Nangarhar è stato teatro di scontro tra le forze armate governative e i Talebani. Oggi, nuovamente, è uno dei principali campi di battaglia tra Talebani e Isis-k. Già una dozzina di chilometri prima del valico, è possibile vedere una coda di centinaia di camion: sono fermi lì da un mese aspettando il permesso di poter passare. Gli autisti vivono tra la cabina del loro mezzo e l’asfalto, stendendosi su un tappeto per mangiare e riposare.

Talebani in uno dei check point di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

In coda al confine, in balia delle guardie

Visto che, con gli stranieri, i Talebani si comportano diversamente per dimostrare che sono «cambiati», decido di fingermi tagiko per testimoniare cosa accade su questo confine alle persone «comuni». Cominciando l’attraversamento del corridoio di uscita, nessuno mi chiede documenti (probabilmente perché nessuno di questi Talebani sa leggere). Siamo migliaia, divisi in due file indiane di cui non si vede la fine. Le famiglie affittano delle grandi carriole di legno per appoggiarvi i bagagli, i bambini, o far riposare gli anziani.

Parlo con alcuni ragazzi in coda con me: «Ci vogliono giorni per percorrere questi due chilometri che ci separano dal Pakistan. Molto spesso arrivati quasi al cancello, ci rimandano indietro perché non abbiamo i documenti in regola, così c’è gente che è in coda da una settimana».

I Talebani qui sono molto violenti, prendono a bastonate chiunque si sporga fuori dalla fila, o provi a scavalcare un paio di posizioni. Un ragazzo tira fuori un telefono, una guardia dei talebani lo prende, controlla alcune foto sullo schermo e comincia a picchiarlo con pugni sulla testa. Il ragazzo cade e viene trascinato fuori dalla fila, lasciato poi a lato del marciapiede.

Passano 15 ore solo per fare i primi 500 metri. Quando i Talebani aprono il cancello tra un settore e l’altro, ci picchiano con i bastoni dietro le ginocchia. La gente corre, cade, viene calpestata dagli altri. I bambini perdono la mano dei genitori e piangono sommersi dalla folla. Arrivati al cancello successivo, ci si ferma di nuovo.

Una donna si registra per ricevere un sacco di farina al centro distribuzione del World food program, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Botte per tutti (ma in nome di Allah)

Una donna viene rispedita indietro, le vengono lanciati via i bagagli, i suoi figli piangono. Prova a protestare contro una delle guardie, questa la colpisce con il calcio del fucile. La donna prova rialzarsi ma cade a terra e viene trascinata via. Alcuni dei Talebani, per tenere a bada la folla, sparano in aria. Tutti ci sediamo per terra e, dopo pochi minuti, queste scene ricominciano daccapo, così per ore.

Un ragazzo accanto a me dice: «I Talebani prendono la nostra voglia di andare via come un tradimento. Pensavano che, arrivati loro al comando, le persone li avrebbero osannati, che a pochi sarebbe venuto in mente di scappare perché scappare è come rinnegare la loro autorità. Loro sono davvero convinti di essere nel giusto, di agire in nome di Allah e, quindi, noi che cerchiamo un futuro senza di loro siamo come dei disertori di un esercito. Ecco perché agiscono così, perché ci prendono a bastonate e a calci».

L’attesa continua. La notte fa molto freddo, siamo a metà percorso ora, in un tunnel fatto di lamiera e rete metallica. C’è ghiaccio ovunque, impossibile dormire, ci stringiamo l’uno all’altro avvolgendoci con coperte di lana. Alcuni ragazzini passano vendendo tè caldo e qualcosa da mangiare. Sono passate 24 ore dall’inizio della mia fila. Approfittando del buio e di alcuni buchi nella recinzione, dalle colline intorno arrivano uomini e ragazzi che provano a passare illegalmente. La gente è solidale con loro, fanno spazio serrando le fila. Qualcuno non è abbastanza veloce e viene visto, picchiato e trascinato via, ributtato al di là della rete.

Un gruppo di giovani Talebani di pattuglia al centro di Kabul. Foto Angelo Calianno.

Stanchezza, fame, freddo, sonno

Dopo 33 ore, raggiungo l’ultimo cancello. Qui devo mostrare la mia identità. Tiro fuori il passaporto e il permesso giornalistico, ma il Talebano di guardia non riconosce i documenti: comincia a urlare. Provo a spiegare di essere un reporter, ma lui parla solo pashtun, allora comincia a picchiarmi con un bastone. Provo a proteggermi, cado. Un altro soldato mi riporta all’inizio della fila per motivi che non comprendo.

Passano altre tre ore, io e altre centinaia di afghani siamo bloccati a un passo dal Pakistan. La gente è agitata, è stanca, ha freddo, sonno, fame. Comincia una calca che le due guardie al cancello non riescono a contenere: sfondiamo l’ultimo blocco passandogli sopra. Cadiamo, ci rialziamo, in una delle cadute un ragazzo su una sedia a rotelle mi passa sopra una caviglia. La gente corre verso l’ultimo cancello, esausta.

Ci vuole ancora qualche ora per sbrigare le pratiche di ingresso in Pakistan. Rivestiti i panni del cittadino europeo, le mie sono abbastanza veloci. In totale ho impiegato 40 ore per attraversare il confine, senza dormire, senza bagni, con quel poco cibo venduto per strada. Per migliaia di afghani, invece, la tortura continua in Pakistan. Molti arrivano con documenti non validi e vengono rispediti dall’altra parte del confine dove, per giorni, continueranno a provare il passaggio. Ancora e ancora.

Donne nella sala d’aspetto dell’Ospedale di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Coperte, bicchieri e il sogno di tornare

Le persone conosciute e con cui ho parlato durante le interminabili ore dell’uscita verso il Pakistan sono state tante.

Cosa si porta con sé quando si va via per sempre? Alcuni avevano solo le proprie coperte, bellissime coperte afghane di lana cucite a mano. Altri una confezione di bicchieri di vetro, altri un piccolo zainetto con un cambio, i bambini un giocattolo a testa.

A un uomo, in fila con la sua famiglia accanto a me, quando gli ho chiesto cosa avesse deciso di portare, mi ha risposto: «Nulla, se non il necessario per sopravvivere in questi giorni di attraversamento. Dentro di me porto la bellezza dell’Afghanistan, i suoi colori. I miei figli sono troppo piccoli e non ricorderanno cosa stanno lasciando. Io sono troppo vecchio e non penso riuscirò mai a tornare, ma loro sì, sono sicuro che lo faranno. Ecco perché non sto portando niente se non un tasbih (il rosario musulmano), il Corano con la parola di Allah, ma soprattutto l’amore per il mio paese che cercherò di raccontare ai miei figli. Possano loro tornare qui, in un paese finalmente in pace».

Angelo Calianno

Donne sedute per strada in attesa di ricevere un sacco di farina e legumi, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.


Gli invisibili

Hazara e profughi, un futuro oscuro

Oltre alla storica minoranza sciita degli Hazara, altri gruppi della popolazione afghana non sono considerati dai Talebani. Come i rifugiati interni (Idp), residenti in villaggi senza nome.

Kabul. L’Afghanistan, soprattutto nella sua storia recente, è stato luogo di continui stravolgimenti politici e sociali: invasioni, guerre interne, regimi estremisti, missioni militari e, per ultimo, un ulteriore ritorno dei Talebani. In tutti questi cambi sono quasi sempre le stesse categorie di persone ad avere la peggio, fettei della popolazione totalmente tagliate fuori da qualsiasi scenario, anche dall’ultimo, quello nato nell’agosto 2021.

Le minoranze etniche come gli Hazara, musulmani sciiti, già bersaglio storico dei Talebani, vivono oggi ai margini della società, venendo arrestati con i pretesti più assurdi e sperimentando una situazione di costante terrore.

Gli Hazara sono vittime di un vero e proprio genocidio già dal 1880, quando è cominciato il dominio delle tribù pashtun. Per anni i massacri si sono susseguiti fino a portare il loro numero dall’80% al 20% della popolazione del paese. Uno dei capitoli più tristi nella storia di questa minoranza sciita, è stato scritto proprio con i Talebani al comando nel 2001, quando decine di Hazara sono stati giustiziati per le strade di Bamiyan. Nel momento in cui i Talebani sono tornati al potere, a Kabul il quartiere sciita si è chiuso su se stesso per settimane. Ricordando le stragi del passato, gli Hazara si sono nascosti nelle proprie case chiudendo mercati, negozi e qualsiasi attività pubblica.

Bambini e uomini per le strade del villaggio numero 52. Foto Angelo Calianno.

Un afghano non è soltanto afghano

Nel quartiere sciita incontro Hassan (nome di fantasia), che è uscito da poco di prigione. I Talebani lo hanno arrestato semplicemente perché stava facendo un filmato con il telefonino a una fila in banca. È stato picchiato e lasciato senza cibo per tre giorni.

«Io gestivo un hotel a Bamiyan, al Nord. Gli affari andavano abbastanza bene fino all’arrivo dei Talebani. Con una ruspa essi hanno abbattuto le colonne d’entrata e il muro circostante, chiudendo poi l’hotel. Il pretesto è stato che l’albergo aveva un nome inglese sull’insegna. Quindi, mi hanno accusato di gestire una discoteca o una casa d’appuntamenti per infedeli. Ovviamente sapevano benissimo che non era così, ma contro gli Hazara, usano qualsiasi scusa».

Chiedo ad Hassan: «La vostra etnia è stata sempre la più perseguitata in Afghanistan. Credi che possano ricominciare stragi come quelle di venti anni fa?». «Non lo sappiamo ancora – risponde -. Non riusciamo a capire cosa davvero abbiano in mente. Io penso che stiano cambiando modo di agire, sono sicuro ci odino ancora in quanto sciiti e hazara, questo non cambia. Forse però hanno capito che sterminarci, ucciderci per strada, attira troppa attenzione mediatica. Per noi è impossibile però dimenticare che, soltanto fino allo scorso agosto, i Talebani facevano saltare in aria le nostre scuole, moschee, mercati. Siamo stati sempre il loro bersaglio principale, la notte spesso si aggirano qui per queste strade con la scusa di pattugliare e cercare sovversivi. Con loro al comando siamo tutti terrorizzati».

«Si stanno organizzando soccorsi e mobilitazioni internazionali sia per provare a fare arrivare degli aiuti, sia per far uscire e offrire asilo a chi è in pericolo. Qual è la situazione della vostra etnia?». «Per molti – spiega Hassan -, in Occidente, un afghano è un afghano e basta. Non capiscono quanto qui la situazione sia divisa tra etnie, religioni, clan. A noi non arriva nulla. Molto spesso gli aiuti che vengono dai paesi occidentali devono avere il nullaosta dei Talebani per essere distribuiti. Quindi, noi non abbiamo diritto a nulla. Come ti ho detto, forse hanno cambiato metodo, ma i Talebani che vedi per le strade, sono gli stessi che fino ad agosto volevano cancellarci dalla faccia della terra».

Peraltro, i Talebani non sono l’unica fonte di preoccupazione, nel quartiere sciita di Kabul. Anche l’Isis-k, la fazione afghana dello Stato islamico, rivale dei Talebani, essendo sunnita ha giurato guerra agli Hazara, mettendo a segno i principali attentati degli ultimi mesi.

Sherin Safi (al centro, vestito di scuro), il capo del villaggio «numero 52» degli Idp, posa insieme ad alcuni dei suoi abitanti. Foto Angelo Calianno.

Villaggio «numero 52»

Oltre agli Hazara, ci sono altri gruppi relegati ai margini del nuovo ordine che i Talebani hanno promesso di costruire. Migliaia sono infatti gli afghani isolati nelle zone rurali e gli Idp (Internal displaced people), i rifugiati interni. Gli Idp sono profughi nel proprio paese, persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, spesso perché nel mezzo dei conflitti o perché in aree al centro delle lotte per il controllo dei campi di oppio. Oggi, in Afghanistan gli Idp sono 250mila. Vivono in villaggi di fortuna nelle periferie di città più grandi. Le abitazioni sono fatte con mura di fango e tetti in lamiera. Già prima di agosto queste comunità sopravvivevano a stento e solo grazie al lavoro di alcuni di loro e all’aiuto di alcune Ong. Con la fuga della maggior parte delle organizzazioni internazionali e l’economia pressoché ferma, questa gente rischia di essere decimata, soprattutto in inverno, quando nevica e la temperatura, di notte, scende anche a dieci sotto zero. Si pensi che questi villaggi non hanno nemmeno un nome: vengono contrassegnati con un numero.

Il villaggio in cui mi trovo porta il numero 52. Ad accogliermi c’è Sherin Shafi. «Da quanto sei il capo del villaggio? Chi ti ha eletto?», gli chiedo. «Occupo questo posto ormai da 13 anni. Vengo eletto dagli abitanti, sono loro che scelgono da chi farsi rappresentare».

Sommergo Sherin con le mie domande. E lui, con pazienza, risponde: «Siamo circa 300 persone. Come vedi, queste sono le condizioni in cui viviamo. Ci siamo sempre arrangiati, abbiamo un pozzo per l’acqua, generatori per l’elettricità, ma continuiamo a vivere in tende e case di fango. Ora, visto il raddoppio del prezzo di tutto, compreso il gas, non so come potremo riscaldarci. Qui il freddo è un grande nemico. Fino a poco tempo fa alcuni di noi lavoravano in città, ma ora è quasi tutto fermo. Al momento non riceviamo nessun aiuto, e anche i Talebani, qui non si sono mai visti».

Sherin Shafi mi guida attraverso le viuzze del villaggio, stradine che non hanno asfalto ma solo terra battuta e fango. Tra questi vicoli ci sono anche delle scuole: piccole strutture con insegnanti volontari che insegnano a ragazzi dai 6 ai 14 anni le materie principali. Le classi sono divise tra uomini e donne in orari diversi.

È qui che incontro Sayed, uno dei maestri: «Ho studiato in Pakistan quando ero giovane. Lì ho imparato anche un po’ di inglese. Insegno quasi a titolo gratuito. Fino all’arrivo dei Talebani, le famiglie mi davano quel che potevano, spesso mi pagavano con del cibo. Adesso, nessuno più lavora, questa gente è abbandonata. Pochissimi si interessavano a loro già prima dei Talebani, ora che anche quasi tutte le organizzazioni umanitarie sono andate via, non so che futuro potranno avere. Io continuerò a insegnare. L’istruzione, il sapere, la conoscenza, sono tra le poche cose che non ti possono togliere, le uniche che possono dare una speranza. Per questo continuo a insegnare, e lo faccio con ragazzi di tutte le età, con chiunque voglia imparare, come vedi in questa classe».

Reparto pediatrico dell’Ospedale centrale di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

A Kandahar, in fila per la farina e i legumi

Sono ancora tanti gli «invisibili», quelli che non sono rientrati nei piani di evacuazione di agosto e che non potranno, comunque, mai permettersi il denaro per poter andare via. In alcuni luoghi in particolare, come a Kandahar, la situazione è drammatica.

Kandahar è – e lo era anche prima del ritorno dei Talebani – una delle province più conservatrici dell’Afghanistan. Qui è quasi impossibile vedere una donna adulta che non abbia il viso coperto dal burqa. Anche a Kandahar per muoversi e intervistare qualcuno, ho bisogno di permessi speciali rilasciati dal capo locale dei Talebani che, pure qui, si dimostra particolarmente cordiale nei miei confronti, raccomandandomi di fargli fare «bella figura» quando scriverò.

Come a Kabul, anche a Kandahar la percezione che si ha per le strade non suggerisce una situazione tranquilla. Decine di checkpoint con guardie armate, centinaia di persone in coda ad aspettare gli aiuti: un sacco di farina, un sacchetto di legumi. Le Ong internazionali rimaste qui, a lavorare sono pochissime. Sono ancora presenti la Croce Rossa internazionale e il World food program. Altre organizzazioni come Emergency e Medici senza frontiere cercano di inviare aiuti direttamente negli ospedali ancora funzionanti.

Mi reco al centro di distribuzione del World food program dove una dozzina di uomini scaricano grandi sacchi di farina destinati ai bisognosi.

Abdullah, il responsabile, racconta: «Lavoro qui come volontario da sei anni, ma non ho mai visto così tanta gente aver bisogno di cibo come in questo momento. Le donne che vedi fanno la fila per ricevere un aiuto. Noi le registriamo in modo che nessuno prenda il cibo due volte o prima del proprio turno. Possiamo distribuire un sacco di farina per 250-300 persone al giorno. Al mese sono migliaia, ma continua a non bastare. Sono felice di fare questo lavoro, sto aiutando il mio paese e ne sono orgoglioso, mi chiedo però, senza aiuti come questo del World food program, cosa avrebbe da mangiare questa gente. E, in ogni caso, la sola farina non basta: molti ormai mangiano quasi sempre e solo pane. Vai all’ospedale centrale, lì potrai farti un’idea della gravità della situazione».

Un bambino recita il Corano in una scuola coranica di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Fame e malnutrizione

L’ospedale principale di Kandahar è pieno come mai prima d’ora, chiedo il perché al direttore,

Mirawais: «Prima del ritorno del regime, le strade che collegavano Kandahar a molti villaggi, erano impossibili da praticare perché teatro di scontri tra il governo e i Talebani, o tra Talebani e Isis. Ora queste strade sono riaperte, quindi, tutte quelle persone che non riuscivano a raggiungerci fino a poco tempo fa, ora si riversano qui di continuo, tanto che non abbiamo, come hai visto, più posti letto. Uno dei problemi principali lo abbiamo nel reparto pediatrico, tutti i bambini che vedrai sono ricoverati per problemi dovuti alla malnutrizione. Questa gente non mangia. I genitori hanno cominciato a razionare il cibo, quasi sempre derivati della farina, ma mancano proteine e vitamine».

Entro nel reparto pediatrico accompagnato da un’infermiera. La ragazza batte due colpi alla porta per avvertire le mamme dei bambini di coprirsi testa e volto. I letti sono pochi, alcuni bambini devono dividerlo con altri piccoli pazienti e le loro mamme. Alcuni sono piccolissimi, causa la malnutrizione. Alla nascita sono sviluppati pochissimo. L’odore è tremendo, è sangue rappreso: «Un bambino ha avuto una forte emorragia. Siamo così in emergenza che non abbiamo nemmeno il tempo di pulire», mi confessa un’infermiera.

Secondo il World food program, una persona su tre in Afghanistan soffre la fame e due milioni di bambini vivono in un pericoloso stato di malnutrizione.

Angelo Calianno

Ragazzini nella scuola del villaggio degli Idp, il «villaggio numero 52», fuori Kabul. Foto Angelo Calianno.


Le donne

La forza e il coraggio delle escluse

Le donne afghane sono le più colpite dal ritorno dei Talebani al potere. A parte la questione del burqa, alla maggior parte di loro non è più permesso lavorare.

Kabul. La data del 15 agosto 2021 ha cambiato la vita di molte persone in Afghanistan. Tra le persone a cui è stata totalmente stravolta, ci sono sicuramente le donne. Ricordando quello che accadeva con il regime talebano venti anni fa, ovvero l’obbligo del burqa, le esecuzioni pubbliche, le lapidazioni, le donne sono state le prime ad essere terrorizzate dal ritorno degli estremisti. Molte sono le donne e ragazze, soprattutto attiviste, che hanno trovato rifugio nei paesi europei, Stati Uniti e Canada, ma tante altre sono ancora qui con la voglia di lottare e la paura per la propria vita.

A quasi nessuna di loro è più permesso lavorare: insegnanti, avvocatesse, parlamentari, giornaliste. Di recente, i Talebani hanno dato il via libera (ma soltanto per necessità) al reintegro di alcune di loro in alcuni campi: medici e infermiere nei reparti femminili e pediatrici, ai cancelli di sicurezza per la perquisizione delle donne. Ad altre, come ad esempio negli uffici ministeriali, è permesso entrare solo indossando il burqa (che, almeno per ora, non è obbligatorio sempre e comunque).

Che il cambiamento dei Talebani del 2022 sia falso lo si è visto lo scorso 23 marzo quando le ragazze delle scuole superiori sono state rimandate a casa, producendo sconcerto e lacrime tra le studentesse.

Arzo Amiri, fisioterapista e giocatrice di pallacanestro, al lavoro presso il Centro di riabilitazione della Croce rossa internazionale a Kabul. Fot Angelo Calianno.

Il divieto della pratica sportiva

Ho intervistato diverse donne, ma l’ho sempre dovuto fare in segreto, fingendomi un amico di famiglia che andava a trovarle nelle loro case, spesso accompagnato da altri uomini, ad esempio i fratelli.

Prima del ritorno del regime talebano, le donne afghane eccellevano anche negli sport. In particolare, la squadra femminile di pallacanestro su sedia a rotelle, aveva ottenuto moltissime vittorie nei campionati asiatici. Lo sport aveva dato una seconda occasione a queste ragazze, donne e disabili in un contesto patriarcale. Il successo nello sport, i viaggi per raggiungere i tornei, rappresentavano una grandissima occasione di riscatto. Ora, come per tante altre attività, alle donne non è più permesso praticare sport. Arzo Amiri ha 24 anni. Arzo ha perso una gamba quando era piccola a causa della polio. Oggi è una fisioterapista presso il centro di riabilitazione della Croce Rossa internazionale e, inoltre, una delle migliori giocatrici della squadra di pallacanestro in carrozzina.

«Arzo, fortunatamente tu puoi continuare a lavorare. Essendo la Croce Rossa un’organizzazione internazionale, non devi sottostare alle regole dei Talebani». Arzo conferma: «Sì, è vero. Mi ritengo molto fortunata, soprattutto in questo momento di profonda crisi dove la gente non ha da mangiare, avere ancora un posto di lavoro è un dono». Le chiedo della pratica sportiva che è stata vietata alle donne. «Sono molto triste di non poter praticare più la pallacanestro. Lo sport mi faceva dimenticare di essere disabile. Lì sul campo, tutte su una sedia a rotelle, siamo tutte uguali. E poi, la nostra squadra era molto forte, abbiamo vinto molto e viaggiato per tutta l’Asia».

Arzo e la sua famiglia mi invitano a entrare in casa. Abitano in una parte estremamente povera di Kabul, dove fa molto freddo e i vicoli sono pieni d fango, ghiaccio e neve. Ci sono solo due stanze, una di queste viene usata per tutto: come sala da pranzo, sala da tè e, la notte, con le coperte sul tappeto, diventa una delle camere da letto. Non c’è riscaldamento e spesso manca la corrente. La stanza è illuminata da una lampada a kerosene che funge anche da stufa.

«Ci sono dei momenti in cui mi sento molto depressa – confessa Arzo -. Vivo con i miei genitori, sorelle e fratelli, siamo in dodici. In questo momento sono l’unica a guadagnare qualcosa, dall’arrivo dei Talebani tutti nella mia famiglia hanno perso il lavoro». «Che futuro vedi per te e per i tuoi familiari? Vorresti andare via?», le chiedo. «L’Afghanistan è un paese bellissimo, io però vorrei andare via se ne avessi la possibilità. Non vedo futuro qui e, soprattutto, per me lo sport è una parte fondamentale della mia esistenza e senza il quale non riesco a immaginare la mia vita».

Donna e bambino in attesa di alimenti al centro di distribuzione del Wfp, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.

L’esempio di Mahbouba Seraj

Sicuramente in Afghanistan una delle voci femminili più potenti è quella di Mahbouba Seraj, principale attivista per i diritti delle donne afghane e, secondo il settimanale Time, una delle cento donne più influenti al mondo.

Nata a Kabul nel 1948 e nipote del re Khan, Mahbouba Seraj e suo marito vengono arrestati nel 1978, quando la Russia invade il paese. Fugge così negli Stati Uniti, nazione che le dà asilo. Nel 2003, a due anni dalla caduta del regime talebano, decide di tornare in Afghanistan per fondare il primo rifugio dedicato a donne e bambini vittime di violenza. Prima del suo ritorno, la violenza domestica non era nemmeno considerata reato. Incontro Mahbouba Seraj a casa sua.

«Mahbouba, lei era rifugiata negli Stati Uniti, ha un passaporto Usa, cosa l’ha spinta a tornare qui nel 2003?». «Ricordo esattamente il momento in cui ho preso la decisione di tornare. Ci sono state due scene in televisione: una quella della distruzione dei grandi Buddha di Bamiyan. La seconda, atroce, quella di una donna, giustiziata in strada con un colpo di pistola alla testa. Dopo quelle scene, non potevo più rimanere negli Stati Uniti. Appena ho potuto, sono quindi tornata Kabul come donna che voleva proteggere le donne afghane».

«Mahbouba, si sarebbe mai aspettata che i Talebani potessero riprendere il paese così in fretta?». «Debbo essere sincera: no, assolutamente non me lo aspettavo. Per me è stato incredibile. Non sono riuscita a realizzare subito quello che davvero stava accadendo». Le chiedo se abbia intenzione di rimanere qui. «Sì, rimarrò qui. Ora più che mai ci sono tantissime persone che hanno bisogno di me, di organizzazioni come la mia». Domando se si senta in pericolo, se abbia ricevuto delle minacce. «No – risponde -, non mi sento in pericolo e non ho ricevuto alcuna minaccia. Penso di essere ormai un nome troppo conosciuto fuori del paese. Danneggiare me vorrebbe dire attirare troppa attenzione mediatica, soprattutto ora che i Talebani vogliono dare al mondo un’immagine diversa di sé».

«Lei crede che siano davvero cambiati?». «È difficile dirlo. Come si può dimenticare che, chi è al comando ora, è lo stesso gruppo che, fino ad agosto scorso, uccideva migliaia di civili con i suoi attentati? Io non penso che siano cambiati, ma sicuramente sono cambiate le cose. Ora il mondo ha gli occhi su di noi: internet, reporter, social media, fin quando sarà così, per i Talebani sarà impossibile tornare a fare quello che facevano 20 anni fa».

Un bambino paraplegico durante la riabilitazione nel centro della Croce rossa internazionale, a Kabul. Foto Angelo Calianno.

Joe Biden e Ashraf Ghani, delusioni presidenziali

«Torniamo un attimo ai giorni della riconquista talebana. Cosa è accaduto qui, come si è sentita?». «Sono stati giorni folli, soprattutto le prime 48 ore. La gente correva verso l’aeroporto calpestandosi. Sembravano polli a cui avevano tagliato la testa: impazziti. Per me è stato tremendo, soprattutto sentire le parole di Biden, è stato come uno schiaffo in faccia. In una delle sue conferenze stampa, Biden ha detto che il suo istinto gli suggeriva che lasciare l’Afghanistan era la cosa giusta da fare. Quindi, noi ci stiamo giocando la vita e il futuro per il suo “istinto”? È una cosa assurda. Un’altra cosa vorrei aggiungere, prendendomene la responsabilità: il nostro presidente Ashraf Ghani si è comportato da codardo, fuggendo e mettendosi da parte immediatamente. È una cosa che non gli perdonerò mai».

Domando a Mahbouba cosa pensi lei delle migliaia di persone scappate dal paese. «Non la trovo una cosa giusta, è come arrendersi e consegnare il paese nelle mani del regime. Ognuno però è responsabile per la propria vita, non sta a me giudicare quanta paura si può provare in quei momenti. Quello che mi consola – e di cui sono sicura – è che tante persone fuggite non hanno dimenticato l’Afghanistan e anche a distanza, stanno facendo e faranno tanto per aiutare chi è rimasto qui».

«Qual è la situazione delle donne ora e come procede il suo lavoro di attivista dopo questi mesi caotici?». «Purtroppo, al momento non c’è nessun lavoro sul fronte dell’attivismo, nel senso che le priorità sono altre. La gente non ha da mangiare, non ha vestiti per l’inverno, dobbiamo prima di tutto pensare a questi beni essenziali. Io al momento ospito 120 persone nelle mie case rifugio e con il mio team cerchiamo di consegnare cibo e qualcosa di caldo a chi è rimasto nelle zone rurali».

Le chiedo come si possa aiutare l’Afghanistan per provare a cambiare le cose. «Quello che si può fare e continuare a chiedere, ognuno al proprio governo, di monitorare l’Afghanistan e di avere una propria rappresentanza qui: diplomatici, giornalisti, Ong. In questo momento, questa è l’unica speranza che abbiamo per poter arrivare a qualche cambiamento».

«Mahbouba, come vede il futuro della donna afghana?». «È difficile dire che futuro abbiano le donne, soprattutto adesso che a molte di loro è vietato lavorare. Di una cosa però sono sicura: le donne rimaste in Afghanistan e anche le afghane che sono andate via, sono istruite, competenti e coraggiose. Sono certa che, per questo paese, il prossimo cambiamento, la prossima rivoluzione partirà proprio da loro».

Angelo Calianno

Primo piano di Raziya Masumi, afghana rifugiata in Olanda. Foto archivio Raziya Masumi.


Dall’Olanda, Raziya Masumi

Il burqa è la cancellazione dell’identità

Sono tante le donne afghane che vivono all’estero e che si stanno battendo per aiutare le afghane rimaste in patria. Raziya Masumi è una di queste. Avvocatessa, Raziya è andata via da Kabul per studiare, tre anni fa. Oggi vive all’Aia, dove si occupa dei diritti delle donne e soprattutto, in questo momento, di dare sostegno e aiuto a chi non è potuto scappare. Contatto Raziya tramite internet.

Raziya, in questi giorni si è parlato molto dello sport femminile. Ho parlato con alcune sportive a cui non è permesso più praticarlo. Quali sono le motivazioni secondo te?

«Il contesto afghano è molto maschilista. A parte i Talebani, è una società dove il ruolo della donna è sempre stato secondario. I Talebani, così come molti uomini, estremizzano una condizione già esistente. Per loro, come accade per molti lavori, lo sport deve essere un campo esclusivamente maschile. Quindi, vedono la donna come qualcuno che cerca di invaderlo. Negli ultimi 20 anni c’era stata una grande ripresa. Il numero delle donne che studiava è stato crescente di anno in anno. Oggi, di nuovo, sembra che i Talebani vogliano cancellare quasi l’identità della donna afghana. Il burqa, ad esempio: forzare qualcuno a coprire interamente il volto è un tentativo di omologare tutte le donne nello stesso ruolo, senza alcuna distinzione, individualità o identità».

Purtroppo, molte persone sono scappate. Cosa hai pensato quando hai visto, dall’estero, tutta quella gente che correva per salire su un aereo. Pensi che un giorno, una parte di quelle persone vorrà o potrà tornare?

«Le immagini di quei giorni di agosto a Kabul, rimarranno per sempre nella memoria di tutti. È stato un evento tragicamente storico. Ti assicuro però che nessuna di quelle persone avrebbe voluto lasciare l’Afghanistan, noi amiamo il nostro paese. Tutta quella gente si è sentita costretta a scappare per disperazione, per paura. Quelle persone in quel momento non hanno visto nessuna alternativa. Sono sicura che, con le condizioni giuste, quindi se ci fosse la pace e le basi per costruire un futuro, tutti torneremmo in Afghanistan».

L’altra grande migrazione dall’Afghanistan si è avuta durante l’invasione da parte dei russi. Che differenze trovi tra oggi e quei tempi?

«Sono casi molto diversi. Molti di quelli che sono fuggiti 40 anni fa, non avevano nessuna istruzione. Oggi dall’Afghanistan fuggono ingegneri, professori, attivisti, giornalisti. Un altro aspetto importante rispetto a 40 anni fa è l’accesso alle comunicazioni: con i social media e internet oggi tutti possono raccontare la propria storia, mentre sappiamo pochissimo delle persone che sono fuggite in passato».

Sei molto impegnata per la causa delle donne afghane. Come le stai aiutando nel concreto?

«Ricevo decine e decine di telefonate ogni giorno. Cercare di fare qualcosa oggi è molto complicato, anche perché i canali classici di aiuto, come i bonifici bancari o la presenza di Ong sul campo, sono tutti sospesi. Ho creato un podcast che sto trasmettendo qui in Olanda. Ho raccolto la voce di alcune donne che mi raccontano la propria storia. Pian piano, con il mio gruppo, stiamo traducendo queste registrazioni in modo da poterle trasmettere ovunque in Europa, almeno per cominciare. In maniera più immediata poi, stiamo creando una campagna di raccolta fondi online. I fondi raccolti serviranno prima di tutto per beni di prima necessità, in secondo luogo vorremmo supportare gli insegnanti e poter offrire loro uno stipendio e materiale scolastico per gli studenti. I soldi, anche se in maniera lenta, possono adesso essere ricevuti in Afghanistan con Western Union, MoneyGram, ecc. In loco poi abbiamo diversi volontari che si occuperanno della distribuzione».

An.Ca.

Quadro dimostrativo delle varie componenti di una protesi presso il Centro di riabilitazione della Croce rossa internazionale, a Kabul. Foto Angelo Calianno.


 

Ha firmato questo dossier

Angelo Calianno – Laureato in storia antica, è reporter e fotografo freelance. Ha viaggiato in America Latina, Africa, Asia e Medio Oriente, specializzandosi in conflitti riguardanti l’estremismo islamista. Collabora con molte riviste italiane tra cui Missioni Consolata. All’estero lavora soprattutto per Byline Times. Il suo sito è: www.senzacodice.com.

Dossier a cura di Paolo Moiola.

Un gruppo di uomini si riposa dopo aver scaricato centinaia di sacchi di farina destinati ai bisognosi presso il centro di distribuzione del Wfp. Foto Angelo Calianno.

La bandiera ufficiale dei Talebani, tornati al potere in Afghanistan.




Un luogo dove vivere (Es 23,20-24,18)


Il libro dell’Esodo è il racconto dell’uscita d’Israele dalla «casa di schiavitù», dall’Egitto, per diventare un popolo libero. Esso ci mostra che per ottenere tale libertà, non basta essere liberati dall’oppressore, come si scopre strada facendo. Dio, dopo aver portato il popolo nel deserto, gli ha proposto un legame personale definitivo, «sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (la citazione è di Lv 26,12, ma è il senso di Es 19,5-6). Questo legame, che in qualche modo era regolamentato dal decalogo, è stato ripreso e chiarito in modalità che ora vederemo e che ci permetteranno di evidenziare alcuni elementi importanti. Oltre a una terra da cui uscire, infatti, c’era anche bisogno di una terra in cui vivere, e questa è stata promessa, anche se la promessa non riguarda solo la terra, ma allude a tante altre cose.

Un angelo davanti a te (Es 23,20)

«Se ci fosse Dio» è una frase che abbiamo sentito o ci siamo trovati a pensare molte volte. Molto spesso, la frase esprime quello che noi pensiamo che faremmo se fossimo noi Dio. Si tratta di una tentazione, a cui, in qualche modo, questo testo risponde: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato».

Dio promette che un «messaggero» (questo è il significato della parola «angelo») condurrà il popolo nella terra promessa. A chi si deve pensare? A un essere invisibile, non umano? A un intervento miracoloso? Nel Primo Testamento si parla spesso di «angeli», ma sembra sempre un modo per indicare l’intervento divino senza nominare Dio apertamente. Quasi mai leggiamo di interventi «magici» che risolvono le questioni. Normalmente gli uomini devono mettersi in gioco, conquistarsi la fiducia, interpretare e rischiare.

Sembra, insomma, che l’«angelo» di cui si parla sia un uomo. E non sembra che questi sia Mosè, altrimenti non verrebbe usato il futuro (peraltro, Mosè non arriverà nella terra promessa).

Dio invita il popolo ad avere fiducia: Lui interverrà. Ma non lo farà direttamente, bensì attraverso persone, delle quali bisognerà vagliare l’affidabilità, decidere se sono degne di fiducia.

È la presentazione della vita umana che non offre certezze ma invita a mettersi in gioco anche soltanto per valutare di chi fidarsi.

In tutta la storia dell’umanità occorre aspettarsi che Dio intervenga tramite persone umane che però potrebbero essere ingannevoli. Bisognerà, quindi, continuamente mettersi in gioco, cercare di capire, scommettere, fidarsi.

Il sogno di un legame

Il modo con cui Dio immagina la relazione con il suo popolo sembra davvero sognante: «Terrò lontana da te la malattia, non ci sarà donna che abortisce o sterile, ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni» (Es 20,25). Nell’originale ebraico tante parole sono tipiche della poesia, non di un trattato legale.

Il motivo si può cogliere nell’insistenza con cui Dio chiede che il popolo gli sia fedele, senza volgersi ad altri dèi.

Il richiamo alla fedeltà e il tono poetico (poco adatto a un trattato legale) ci possono fare avvicinare all’interpretazione più verosimile del passo: Dio non sta firmando un contratto, ma sta impegnandosi in un legame. Il paragone più vicino non è l’acquisto di una casa, ma un matrimonio. Dio sogna di essere amato, di vivere sempre insieme al suo popolo. Non è un legame di convenienza, ma di amore.

Ecco perché il testo insiste sul tenersi lontano dall’idolatria, sulla gelosia divina. L’immagine è precisa: Dio non vuole altri, perché è innamorato del suo popolo. Lo lega in un rapporto alla pari, perché lo ama. Con l’umanità non stipula un contratto di assicurazione, ma un legame di cuore per sempre, come uno sposo che sogna la sua vita insieme all’amata.

L’espulsione degli altri

Se da un lato Dio chiede al popolo di discernere chi sono i suoi angeli e di fidarsi di loro, da parte sua, sembra impegnarsi a scacciare chi occupa la terra che gli è destinata. Lo fa con attenzioni graduali e sorprendenti, affinché i nuovi occupanti non trovino poi una terra desolata e invasa da bestie selvatiche (23,29-30).

La nostra sensibilità moderna si stupisce e scandalizza: perché la salvezza di un popolo deve significare la morte o l’espulsione di altri?

Una prima risposta ha la sua radice nella mentalità semitica antica. Per quella cultura, chi si impegna in un compito deve innanzitutto dimostrare di esserne capace, di esserne all’altezza. Dio non può promettere agli ebrei che vivranno nella terra destinata a loro, se non è capace di fare piazza pulita di chi ci abita adesso. Noi amiamo vedere delicatezza e dolcezza, persino commozione e fragilità, anche nei potenti; la cultura che scrive queste righe, invece, voleva che il garante assicurasse di avere la forza necessaria per garantire.

Ma poi, strisciante, si insinua un’altra spiegazione appena andiamo a indagare più da vicino i nomi degli espulsi. In Gen 10,15-18 e 1Cr 1,13-16 troviamo elenchi più ampli, che arrivano a una dozzina di popolazioni. Qui ne troviamo «solo» tre, che ci lasciano un po’ perplessi: degli Ittiti sappiamo tanto, compreso il fatto che non si sono mai stabiliti in Palestina; i Cananei, invece, resteranno nella terra anche secoli dopo l’insediamento ebraico, continuando, soprattutto al Nord, a essere i vicini di casa, a volte più tollerati e a volte più odiati. Gli Evei, stranamente, non hanno lasciato alcuna traccia di sé se non in questi elenchi. Quando andiamo a controllare anche le liste più ampie, troviamo di nuovo popolazioni che avrebbero continuato a vivere insieme agli ebrei per lunghi secoli (Amorrei, Gebusei, Aramei) oppure altre di cui non abbiamo traccia se non in questi elenchi (Gergesei, Architi, Sinei, Semariti, Amatiti).

Agli archeologi e biblisti, dopo lunghe analisi, è venuto il sospetto che i nomi delle popolazioni che non hanno lasciato traccia di sé (in un territorio piccolo e arido come quello della Palestina) siano forse stati inventati. Come se Dio, innamorato del suo popolo, abbia esagerato il numero delle alternative a cui aveva rinunciato per la sua unica amata.

Non ci sembri irrispettoso. A noi pare che nella Bibbia debba trovare spazio solo ciò che è rigorosamente storico, secondo i nostri criteri moderni. Ma la storia, di fatto, ci dice che gli ebrei si infiltrarono quasi di soppiatto nella terra di Canaan, senza cancellare chi ci viveva già prima. In realtà questi testi che stiamo considerando sembrano più scritti poetici e retorici, che documenti storici. Storiograficamente potremmo ritenere falsa questa presentazione delle popolazioni scacciate, e considerarla invece come un tenero tentativo di ribadire al popolo d’Israele quanto il suo Dio ne è innamorato. Nel genere del canto d’amore, i particolari possono essere inventati, il contenuto di affetto, no.

Sul monte

Normalmente solo Mosè parlava con Dio, come ripete anche Esodo 24,2: «solo Mosè si avvicinerà al Signore». Di fatto, però, salgono sul monte anche Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani (24,9). E il loro messaggio sarà poi trasmesso a tutto il popolo.

Se è vero che, riprendendo anche l’umanissima tradizione della lontananza di Dio dall’umano, Esodo immagina che l’uomo non possa avvicinarsi al Signore senza morire (Es 20,19), qui però un’ampia rappresentanza del popolo lo incontra senza conseguenze (24,10-11). Da una parte Dio rimarca la sua distanza e alterità rispetto al mondo, dall’altra vuole incontrarsi con i suoi, e non sopporta di tenerli lontani o fare loro del male.

Sempre di più il comportamento di Dio si mostra comprensibile e affascinante se lo pensiamo diverso da un assicuratore, un legislatore o un condottiero, se lo vediamo come un innamorato che vuole mantenere la propria distanza e dignità ma, nello stesso tempo, e molto di più, non vuole in alcun modo perdere o fare del male al suo amato popolo.

Un’alleanza

In diverse occasioni, nel Primo Testamento, Dio viene ritratto nel gesto di stringere un’alleanza con gli uomini (Gn 6,18; 9,9-17; 15; 17,2-21; Es 6,4-5 …). In tutte queste situazioni il modello di alleanza è quello paritario. Dio, cioè, non stringe un patto con gli uomini tenendoli in condizione subalterna, come fossero dei sudditi.

Spesso noi non riusciamo a cogliere tutti i sottintesi di riti antichi che sicuramente erano meglio noti ai primi lettori dell’Esodo di venticinque secoli fa, ma qualcosa capiamo lo stesso. Il sangue, ad esempio, è simbolo della vita e dice la serietà del patto: idealmente, chi lo viola sarà tenuto a effondere il sangue proprio, in punizione. Ma è interessante che (in Es 24,6-8) il sangue venga sparso mezzo sul popolo e mezzo sull’altare: Dio non si tira fuori, non si ritiene superiore, anzi, minaccia anche se stesso di vendetta e punizione se violerà l’accordo.

I riti di iniziazione spesso calcano la mano sul rischio di morte, perché l’accordo è questione importante che va presa sul serio: questo vale anche, simbolicamente, nell’iniziazione cristiana, come si intuisce dal fatto che in greco il verbo «battezzare» significava «affogare». Qui, però, Dio si mette in gioco allo stesso modo: la sua natura è diversa da quella dell’uomo, ma lui accetta di «scendere» al livello umano, per un accordo che sia di vera reciprocità.

È significativo il fatto che non riusciamo a capire con precisione quale sia il contenuto di questa alleanza: è il decalogo (Es 20,1-17)? È il corpo legale più ampio (Es 20,22-23,19)? È qualcos’altro che non ci viene raccontato?

Cose da innamorati

Sembrerebbe che il cuore dell’accordo sia l’accordo stesso. Come, di nuovo, tra innamorati, a Dio pare interessare soprattutto stringere un accordo alla pari con un popolo di cui è innamorato. I contenuti dell’accordo sembrano secondari e riformabili (Dio li riformerà tante volte lungo la storia). Quello che non cambia pare essere solo la sua intenzione di continuare a relazionarsi con l’essere umano.

Si direbbe quasi che la vera terra che Dio promette è la relazione tra sé e l’uomo, tramite il popolo ebraico.

Un innamorato che fantastichi di vivere con la sua amata in una bella casetta solitaria sui monti, vivendo di allevamento e scaldandosi a legna, quando poi si trovasse a vivere in un appartamento con riscaldamento centralizzato e lavoro d’ufficio, potrebbe ritenere di avere compiuto il proprio sogno comunque: il sogno infatti è quello di vivere con la propria amata, non i dettagli del modo in cui vivere insieme.

E Dio sembra essere interessato soprattutto, o meglio solo, a continuare a vivere con il suo popolo. L’unico ostacolo immaginabile a tale sogno è il (possibile) rifiuto del popolo ad accogliere la piena comunione di vita con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 14 – continua)




Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?


La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).

Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.

Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.

Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.

Mali

È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.

I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).

È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.

La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.

(Photo by Issouf SANOGO / AFP)

Golpe su golpe

Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.

«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.

Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.

Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.

Colonello Assimi Goita in conferenza stampa, Mali, 19 agosto 2020. (Photo by MALIK KONATE / AFP)

Via i colonialisti

Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.

Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).

La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.

Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.

«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.

A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.

La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.

«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.

Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.

Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.

Mali. (Photo by Michele Cattani / AFP)

Repubblica di Guinea

Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.

I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.

«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.

Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.

«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.

Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.

Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.

Guinea, Colonello Mamady Doumbouya. (Photo by Cellou BINANI / AFP)

Una speranza

La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».

Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).

Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.

Burkina Faso

Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.

Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.

Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.

Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.

Il tenente collonello Paul-Henri Sandaogo Damiba, Presidente del Burkina Faso. (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

Il sociologo ex ministro

Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.

«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.

Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».

E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».

L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».

E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».

Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.

Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».

Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».

La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».

Dimostranti in Ouagadougou in Burkina Faso. (Photo by Olympia DE MAISMONT / AFP)

Democrazia a rischio?

«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.

Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.

Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».

E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».

E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».

Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.

«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».

Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».

Marco Bello


Processo Sankara

Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.

Conakry, Guinea, 18 settembre 2021. (Photo by JOHN WESSELS / AFP)

 




Mondo, fabbrica di disuguaglianze


Un tempo le disuguaglianze interessavano soprattutto le classi sociali, oggi riguardano anche le nazioni. Allora si riferivano soltanto a reddito e patrimonio, oggi includono anche alcuni parametri ecologici. Con una certezza: i ricchi sono inviolabili. Sempre e ovunque.

L’uguaglianza è una delle aspirazioni più antiche dell’umanità, ma a giudicare da come stanno andando le cose, abbiamo ancora molta strada da fare. L’8 dicembre scorso, a firma del World inequality lab, è uscito il Rapporto 2022 sulle disuguaglianze mondiali e le notizie non sono incoraggianti. Il rapporto certifica che le disuguaglianze vanno crescendo a tutti i livelli. Un tempo ci si limitava ad analizzare le differenze esistenti nella distribuzione del reddito e del patrimonio, con l’esplodere della crisi ambientale si dedica molta attenzione anche alle disparità esistenti nell’ambito dell’impronta di carbonio e, più in generale, di quella ecologica.

Le disuguaglianze non parlano direttamente della condizione delle persone, quanto delle differenze che esistono fra loro.  Quando i mondi erano chiusi, i raffronti avevano senso solo all’interno delle singole realtà territoriali. Nei tempi antichi avremmo potuto studiare le differenze esistenti all’interno dell’impero egizio, dell’impero babilonese, dell’Impero Romano, o di quello di Carlo Magno. Raffronti allargati non avrebbero avuto molto senso perché le realtà sociali e geografiche erano poco comunicanti tra loro.

Nord e Sud

A partire dal 1500, l’Europa iniziò però ad andare alla conquista del resto del mondo per appropriarsi delle sue ricchezze. In un primo tempo, lo fece per servire le necessità belliche dei propri sovrani, poi quelle economiche delle proprie imprese. In quell’epoca accanto alle differenze tra classi, iniziarono anche quelle tra le nazioni.

Sul finire della Seconda guerra mondiale, quando la struttura coloniale era ancora in piedi, il mondo era formato da una ristretta cerchia di paesi localizzati nel Nord, con una buona capacità produttiva e tecnologica, che convivevano con una massa di paesi del Sud senza alcun tipo di infrastruttura e di capacità produttiva se non quella agricola e mineraria al servizio delle esigenze economiche del Nord del mondo.

Benché si vadano restringendo, le differenze costruite in quel tempo sono ancora ben visibili a livello di produzione e consumi. Basti dire che il Nord del mondo, che ospita appena il 16% della popolazione complessiva, assorbe tutt’ora il 38% di tutta l’energia impiegata a livello mondiale.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Il reddito pro capite

Volendo, invece, fare una fotografia più particolareggiata del livello di ricchezza raggiunto da ogni paese, ha senso utilizzare come parametro il reddito pro capite, che si ottiene dividendo la ricchezza annuale prodotta per il numero di abitanti presenti nel paese. Un esercizio matematico che, pur non essendo di alcun aiuto per conoscere la reale distribuzione della ricchezza, dà un’idea di massima della ricchezza disponibile in rapporto alla popolazione. Da questo punto di vista, la Banca mondiale divide il mondo in quattro gruppi: paesi a basso reddito, a reddito medio basso, a reddito medio alto, a reddito elevato.

Al primo gruppo, anche detto Quarto mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In tutto 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. All’ultimo gruppo, anche detto Primo mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite superiore a 12.696 dollari. In tutto 77 nazioni localizzate principalmente in Europa e Nord America, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone corrispondenti al 16% della popolazione mondiale. Ai due estremi il Burundi con meno di 800 dollari pro capite all’anno e il Lussemburgo che supera i 122.000 dollari pro capite all’anno.

Tutto ciò indica quanto sia ancora profonda la ferita inflitta dal colonialismo al Sud del mondo e quanto pesi ancora sulla incapacità di molti paesi di rimettersi in piedi da un punto di vista   economico, umano e sociale. Anche perché, a un certo punto, è finito il colonialismo inteso come occupazione straniera, ma non è finito il dominio economico che, anzi, si è riorganizzato attorno a nuove alleanze che hanno portato all’emergere di una inedita classe mondiale comprendente super ricchi di ogni nazionalità.

La ricchezza

Per ragioni di tipo metodologico, il rapporto del World inequality lab ha preferito depurare la popolazione mondiale dei bambini in modo da concentrarsi solo sugli adulti stimati in 5,1 miliardi. Ha poi stabilito che, in base alle condizioni di vita, la popolazione può essere suddivisa in tre fasce d’appartenenza: la classe povera, quella media e la ricca.

La classe povera corrisponde al 50% del totale (2,5 miliardi di adulti), quella media al 40% (2 miliardi) e quella ricca al 10% (517 milioni). Il rapporto segnala come è distribuita la ricchezza fra i tre gruppi precisando che la ricchezza ha due facce: quella del reddito e quella del patrimonio.

Il reddito si riferisce agli introiti incassati tramite il lavoro o i profitti in un certo periodo di tempo. Il patrimonio si riferisce a tutto ciò che si è accumulato nel tempo sotto forma di beni durevoli (case, auto, elettrodomestici) e di valori finanziari. Nel 2021, il reddito complessivo, a livello mondiale, è stato calcolato in 86mila miliardi di euro, di cui solo l’8% è stato goduto dal 50% più povero. La quota più alta è stata goduta dal 10% più ricco che ha intascato il 52% del reddito complessivo. E il brutto è che, nel corso del tempo, la situazione è addirittura peggiorata. Considerato che, nel 1820, il 10% più ricco si appropriava del 50% del reddito prodotto a livello mondiale e il 50% più povero intascava il 14%, se ne conclude che, nel 1820, il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte. Disparità che si riflettono anche rispetto al patrimonio. Nel 2021 il patrimonio privato complessivo ammontava a 377mila miliardi di euro ed era distribuito in maniera ancora più iniqua del reddito: solo il 2% risultava di proprietà del 50% più povero, mentre il 10% più ricco possedeva il 76% di tutto il patrimonio esistente.

Se vogliamo, la situazione è ancora peggiore perché, nella classe ricca, c’è una casta ristretta, corrispondente all’1% di tutti gli adulti, che da sola si appropria del 19% del reddito mondiale. E se concentriamo l’attenzione sul patrimonio, scopriamo che appena 56,2 milioni di adulti possiedono il 45,8% di tutto il patrimonio privato, qualcosa come 3,4 milioni di dollari a testa.

L’inquinamento dei ricchi e quello dei poveri

Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10% più ricco è responsabile del 49% delle emissioni di anidride carbonica, con l’1% più ricco che contribuisce da solo al 15%. Per contro il 50% più povero è responsabile solo del 7%.

Le statistiche non dicono quale sia la nazionalità degli appartenenti al 50% più povero, ma considerato che il loro reddito medio si aggira sui 2.700 euro all’anno è probabile che risiedano quasi totalmente nei paesi del Sud del mondo. Invece, conosciamo la nazionalità dell’1% più ricco, i famosi 56,2 milioni di adulti che siedono all’apice della «piramide della ricchezza». Ce la rivela il Credit Suisse col suo Global wealth report. Come c’era da aspettarsi, la fetta più ampia di super ricchi ha un passaporto statunitense (39%), seguita da quelli con un passaporto europeo (31%), precisando che quelli di nazionalità italiana sono 1.480, pari al 3% del totale mondiale. Un tempo al terzo posto venivano quelli di nazionalità giapponese, ma ora sono stati sorpassati da quelli di nazionalità cinese che rappresentano il 9% del totale. Fra le altre nazionalità, oltre a quella canadese, sudcoreana, taiwanese, compaiono quella russa, indiana, brasiliana, messicana, saudita.

Se abbandoniamo il livello mondiale e scendiamo nel dettaglio delle singole nazioni, troviamo che il paese più iniquo, fra quelli con dati disponibili, è il Sudafrica dove il 10% più ricco si appropria del 66,5% del reddito prodotto e detiene l’86% del patrimonio privato. In questo paese la ricchezza detenuta dal 50% più povero ha addirittura segno negativo, indice del fatto che i poveri possiedono solo debiti.

Il paese più equo, invece, sarebbe la Slovacchia dove il 10% più ricco assorbe il 28% del reddito prodotto e detiene il 43% del patrimonio privato. Su valori simili si trova anche l’Italia dove il 10% più ricco si prende il 32% del reddito prodotto e detiene il 48% del patrimonio privato.

Fra le ragioni per cui le disuguaglianze continuano a crescere, due meritano particolare menzione: la globalizzazione selvaggia e una politica fiscale accomodante con i ricchi.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Lo stato a difesa dei redditi dei ricchi

Uno degli effetti della globalizzazione è stata la riscrittura della geografia mondiale del lavoro. Libere di spostare la produzione dove il lavoro costa meno, molte imprese hanno chiuso i loro stabilimenti nel vecchio mondo industrializzato per rifornirsi presso contoterzisti sorti come funghi in Cina, India, Bangladesh, Indonesia.

Ad un tratto tutti i lavoratori del mondo si sono ritrovati uno contro l’altro: quelli italiani contro quelli polacchi, quelli spagnoli contro quelli bengalesi, tutti pronti a vendersi per un salario più basso in modo da conquistare il lavoro tanto agognato. Ed è successo che la quota di prodotto nazionale lordo andato ai salari si è ridotta ovunque. Mediamente a livello mondiale è diminuita del 9% passando dal 72%, nel 1982, al 63%, nel 2017.

L’Italia rispecchia esattamente questa media. L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore degli stati tramite il sistema fiscale. Ma – ahinoi – anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di una seria imposta sul patrimonio. E l’Italia non fa eccezione. Basti dire che l’ultima legge di bilancio riduce ulteriormente le aliquote sull’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche, che da cinque passano a quattro, dove la prima rimane ferma al 23% per i redditi fino a 15mila euro e l’ultima rimane ferma al 43%. La riforma è stata presentata come una scelta di equità perché la tassazione del 43% è stata abbassata a 50mila euro, mentre prima si applicava oltre i 75mila euro. Ma il vero scandalo non sanato è che chi guadagna centinaia di migliaia di euro all’anno paga come chi guadagna 50mila euro. Non così nel 1974, quando l’imposta sulle persone fisiche fece la sua prima comparsa. A quel tempo gli scaglioni erano 32, con l’ultimo al 72% sui redditi oltre 258mila euro. Somma che, rapportata ai prezzi di oggi, corrisponde a 3,3 milioni di euro. Redditi da capogiro che ben pochi raggiungono. Eppure, nessuno vuole toccarli. Per adulazione? Per calcolo politico? Per paura di ritorsioni? Forse per tutto un po’, ma di certo c’è che oltre ad acuire le disuguaglianze, l’inviolabilità dei ricchi priva le casse pubbliche di introiti importanti che rendono i governi sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna.

Lo stato e la vendita dei beni comuni

Questa situazione di penuria genera anche un altro fenomeno: lo spogliamento degli stati di ogni tipo di proprietà, perché la necessità di far cassa li induce a vendere tutto ciò che è bene comune: strade, edifici, terreni, attività produttive. Nei primi anni Ottanta, i governi dei paesi occidentali possedevano fra il 15 e il 30% della ricchezza complessiva presente nei loro paesi, oggi molti di loro registrano una quota pari allo 0%. In alcune nazioni il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil.

Tutto questo, però, non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato, se ciascuno di noi lo vuole. E lo vorremo nella misura in cui rafforzeremo le nostre convinzioni morali e la nostra volontà di partecipazione.

Francesco Gesualdi