«Naufragio nel Mediterraneo, minori annegati», «Spari sui migranti», «La strage», «Migranti, 139 morti», «Corpi di bimbi sulla spiaggia», titoli come questi sono di casa sui nostri quotidiani o alla Tv. Sono titoli rivelatori di una sofferenza infinita nel mondo, di abusi e sfruttamento, di lacrime e sangue. Sono titoli che non ci toccano più, perché ormai ci siamo abituati alla sofferenza dei poveri, alla loro morte.
«Dobbiamo scrollarci di dosso l’indifferenza e l’abitudine alle cose, anche l’abitudine alla morte.
Abituarsi alla morte è la cosa più terribile. La gente sta morendo, e sono migliaia e migliaia di persone che muoiono e a noi non interessa. Sono altri, sono diversi, non sono dei nostri. Questa è nostra colpa e responsabilità. […] Ma noi aspettiamo il prossimo naufragio e poi sappiamo che ce ne sarà un altro. Questo è terribile, perché […] nessuno più se ne sente responsabile. Fa paura. Stiamo diventando gente senza cuore. Non riusciamo più a commuoverci. Io sono amareggiato e preoccupato, perché è come se la società di oggi dovesse per forza dividersi in due: i buoni e ricchi (da una parte) e i poveri [e i] cattivi (dall’altra). Ma una società come questa, quale futuro avrà?».
Queste sono parole del cardinal Francesco Montenegro, già arcivescovo di Agrigento dal 2008 fino all’inizio del 2021, in un’intervista con il direttore della rivista Nigrizia, Filippo Ivardi, in occasione della Giornata internazionale del mar Mediterraneo, l’8 luglio scorso.
Il cardinale offre poi una provocazione a noi cristiani: «Qui entra in ballo anche la Chiesa. Purtroppo c’è una Chiesa che tace, una Chiesa che sembra non abbia niente da dire, rassegnata. Ma la rassegnazione non è una virtù del Vangelo. Quando uno si rassegna, ammazza il Vangelo, perché il Vangelo parla di speranza, parla di Pasqua, e una Chiesa che non desidera la Pasqua per gli altri è una Chiesa che non sta più vivendo la sua fedeltà. Allora assistere a queste scene di morte, adattarsi a queste situazioni, è aver perso umanità».
Poi una provocazione forte. «È più facile mettersi davanti all’Eucarestia, che non parla, non si muove, dove soltanto io posso dire e divento protagonista dell’incontro, e il Signore è costretto a tacere e ad ascoltarmi. È più difficile mettersi dinanzi all’altro sacramento. Perché il Signore ha scelto questi [due] sacramenti per rappresentarlo: l’Eucarestia e i poveri». Così, però, il Vangelo perde il suo senso e diventa un libro di racconti, una storia da insegnare. Ma il Vangelo non è soltanto qualcosa che si insegna, «perché il Vangelo è l’incontro con Qualcuno. E questo qualcuno purtroppo è inquietante, perché ha scelto delle strade che a noi non piacciono. Lui ce l’ha detto, chi lo vuol seguire deve prendere la sua croce, deve essere pronto a seguire una strada diversa. E il povero è la strada diversa che ci propone». E non basta dare l’elemosina che ci permette di sentirci buoni, perché «il povero è colui che ci giudica. Domani, alla porta del paradiso troveremo i poveri, quelli che cercavano il pane, l’acqua, il vestito, e saranno loro a decidere quale sarà la nostra sorte futura». Sarebbe importante, allora, annunciare forte questo messaggio, invece spesso lo sussurriamo soltanto. Il Signore ci ha detto che dovremmo salire sui tetti a gridare, ma noi preferiamo le nostre nenie nel chiuso delle nostre case e chiese. Invece lui ci ha detto che preferisce l’odore di uomo che quello dell’incenso.
Conclude con una costatazione amara il cardinale: al centro della nostra società «non c’è l’uomo, ma il denaro». Per questo «noi ricchi abbiamo bisogno dei poveri, perché senza di loro non potremmo stare in piedi. Allora inventiamo la povertà, anche se poi la nascondiamo».
Così, la lista dei titoli si allunga: «Licenziati in 422 con una email», «Congo RD, bambini schiavi del coltan», «Capo Delgado, 600mila in fuga nella lotta per il controllo delle risorse», «Amazzonia in fiamme», «Invasione di garimpeiros nelle terre indigene», «Caporalato e sfruttamento», «Aumento dei prezzi di beni di prima necessità», «Ilva e inquinamento», «Meno manutenzione, più profitti», «Eswatini in fiamme», «Eswatini, arresti, morti, incendi e violenze». Chissa se riusciamo a farci toccare da qualcuno di essi («Eswatini? mai sentito nominare!»), specialmente in questi tempi di Covid-19 ed emergenza climatica che hanno visto l’aumento esponenziale della povertà e l’arricchimento scandaloso di pochi. Chissà se i cosiddetti potenti della terra (e i dittatori palesi e mascherati in aumento) hanno ancora orecchie per sentire e cuore per cambiare.
È urgente tornare a mettere l’uomo al centro. Tutto l’uomo, ogni uomo, il più povero per primo.