Perdenti 62. Silvio Pellico, cristiano e patriota


Patriota e scrittore piemontese conosciuto soprattutto per il suo libro «Le mie prigioni», pubblicato nel 1832, che contiene le sue memorie di dieci anni di carcere duro prima a Venezia e poi nel carcere dello Spielberg nella Repubblica Ceca (allora territorio dell’Impero austroungarico).

Litografia di Silvio Pellico Pubblicata da Pietro Marietti a Torino nel 1845

Identificato spesso nella memoria collettiva come «carbonaro», cioè come attivista per l’unità d’Italia contro ogni dominio straniero, Silvio Pellico in realtà fu molto di più: scrittore, drammaturgo, educatore e soprattutto un cristiano profondamente convinto e impegnato nel sociale.

Nato il 25 giugno 1789 a Saluzzo, nella provincia di Cuneo, dal piemontese Onorato Pellico e dalla savoiarda Margherita Tournier, aveva due fratelli e due sorelle. Tutti, fin dalla più tenera età, ricevettero una robusta educazione cattolica a opera della mamma.
Suo fratello Francesco diventò in seguito un gesuita, mentre le sue sorelle presero i voti. Il primogenito, Luigi, fu molto impegnato nella politica. Il padre era un commerciante di spezie con alterne fortune, che aveva aperto un negozio a Pinerolo e poi, fallito, si era trasferito a Torino.
La prima educazione di Silvio avvenne tra queste due città, ma la difficile situazione della famiglia lo costrinse a interrompere gli studi e fu mandato in Francia, a Lione, presso un parente per imparare da lui il mestiere del commerciante.

L’esperienza francese gli fece capire che non era tagliato per il commercio. Si appassionò invece di lingue, di studi classici e degli autori italiani allora emergenti, come Ugo Foscolo e Vittorio Alfieri. L’atmosfera post Rivoluzione francese e l’euforia dei nuovi tempi napoleonici, gli fecero mettere in secondo piano la sua formazione cristiana.

Quando il padre finalmente trovò un lavoro stabile a Milano, come impiegato del ministero della guerra del Regno d’Italia voluto nel 1805 da Napoleone, nel 1809 lasciò la Francia e si stabilì in quella città diventando insegnante di francese nel collegio militare.

Entusiasta di letteratura, frequentò i circoli letterari della città e diventò amico di Ugo Foscolo, che già ammirava, e altri letterati. Affascinato dalle tragedie, cominciò lui stesso a scriverne alcune. La sua seconda, Francesca da Rimini, ispirata a Dante, fu rappresentata il 18 agosto 1815 ed ebbe grande e inaspettato successo, e durò poi applauditissima sulle scene per oltre mezzo secolo.

Nel frattempo, il Regno d’Italia era caduto insieme a Napoleone nel 1814 e la Lombardia era tornata sotto il dominio dell’Austria.

Come sei sopravvissuto a Milano dopo il ritorno degli austriaci?

Grazie al successo della mia tragedia e di altri scritti che andavo pubblicando, sono stato assunto come precettore dei figli del conte Porro, e mi sono trasferito ad Arluno, vicino a Milano. Così ho potuto frequentare un gruppo vivace di letterati come Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi e Giovanni Berchet, come già facevo prima, appena arrivato a Milano, quando avevo stretto amicizia con letterati e scrittori come Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, che già ammiravo dai miei studi in Francia. Sono stato anche in relazioni con personaggi della cultura non italiana, come la scrittrice francese Madame de Staël e il filosofo tedesco Friedrich von Schlegel, considerato uno dei fondatori del Romanticismo.

Un circolo di letterati, non di agitatori politici. Com’è che ti sei fatto arrestare e addirittura condannare a morte?

Nel nostro circolo venivano sostenute e sviluppate idee tendenzialmente risorgimentali, volte alla possibilità di ottenere l’indipendenza totale dell’Italia da qualsiasi potenza straniera. Nel 1818 ci siamo anche avventurati nella pubblicazione di una rivista, «Il Conciliatore», di cui ero il direttore. La rivista non voleva avere posizioni radicali né in politica né in letteratura, ma di fatto eravamo di tendenza romantica e antiaustriaca. È stata un’esperienza breve perché nel 1819 la polizia ci ha obbligato a chiudere. Ero anche entrato in un gruppo carbonaro, chiamato «i Federati».

Ovviamente io e i miei amici eravamo dei sorvegliati e quando gli austriaci sono riusciti a intercettare alcune lettere compromettenti spedite da uno di noi, Pietro Maroncelli, siamo stati arrestati. Era il 13 ottobre 1820. Ci hanno rinchiusi prima nella prigione dei Piombi di Venezia e poi in quella di Murano, e il 21 febbraio 1822 siamo stati condannati a morte.

La sentenza è stata poi commutata a venti anni di carcere duro per Maroncelli e quindici per me, da scontare nella fortezza dello Spielberg, in quella che oggi è la Repubblica Ceca. Nel 1830 ci hanno graziati e siamo tornati in libertà.

In famiglia avevi ricevuto una forte formazione religiosa, ma in gioventù te ne eri allontanato. Che è successo in carcere che ti ha fatto tornare alla fede?

Il periodo francese e quello milanese, con tutti gli entusiasmi rivoluzionari e gli influssi romantici, mi avevano allontanato dalla pratica della fede. Ma in prigione sono stato costretto a riflettere e ho avuto la grazia di avere con me alcune persone sinceramente credenti, come il conte Antonio Fortunato Oroboni, compagno di sventura in quel carcere e sincero cristiano che era stato arrestato nel 1819 nel suo paese di Fratta Polesine dove aveva fondato uno dei primi gruppi carbonari. C’era anche il mio amico Pietro Maroncelli, anche lui credente convinto.

Dal carcere ho scritto a mio padre nel 1822: «Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m’aveva quasi rapito». È stata un’esperienza profonda. Ogni domenica partecipavo alla messa, meditavo assiduamente la Bibbia, avevo la possibilità di leggere libri devoti. La religione mi ha aiutato ad abbandonarmi alla volontà di Dio, a essere paziente nel sopportare le prove, e mi ha dato la capacità di perdonare e amare tutti.

Tornato in libertà hai scritto il libro «Le mie prigioni», che ti ha fatto conoscere in tutta Europa.

Volevo ringraziare la Provvidenza per l’esperienza che avevo vissuto e mi aveva cambiato la vita. Per questo ho concluso il libro con queste parole: «Ah! Delle mie passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e il male che mi sarà ancora serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti [sic] ch’ella sa adoprare a fini degni di sé».

«Le mie prigioni», che hanno visto la luce nel 1832, erano per me soprattutto la testimonianza del mio cammino interiore e di come la fede fosse stata la fonte della mia resilienza. Non volevo vendicarmi di nessuno o denigrare qualcuno, ma certo desideravo raccontare semplicemente la verità di quanto avevo vissuto, anche non proprio tutto.  Il libro è stato accolto con grande favore, oltre ogni mia aspettativa, soprattutto per l’attenzione e la correttezza che avevo avuto nel giudicare i miei stessi carcerieri e per la nitidezza dell’ambientazione, lontanissima dal vaporoso sentimentalismo allora di gran moda quando si trattavano questi argomenti.

Ma ti aspettavi che diventasse quasi la bandiera del patriottismo, prima in Italia e poi anche in altre nazioni?

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Il libro ha avuto in Europa parecchie ristampe e numerose traduzioni, suscitando ovunque simpatie e appoggi nei confronti del Risorgimento italiano e una generale ripulsa contro le potenze straniere che occupavano il nostro paese. Di ciò ben si è accorto il Cancelliere della Corte di Vienna, Klemens von Metternich, che invano ha tentato più volte di confutare la mia testimonianza vissuta in carcere e di far mettere all’Indice il mio libro. Certamente non hanno avuto torto coloro che hanno detto che esso aveva danneggiato l’Austria più di una battaglia perduta.

Con i tuoi scritti e con il tuo atteggiamento ti sei però tirato addosso le diffidenze dei cattolici reazionari e dei liberali più accesi.

In molti il patriottismo andava di pari passo con massoneria e anticlericalismo, cose che ovviamente non trovavano in me. I liberali poi si sono sentiti anche più maldisposti verso di me quando sono diventato amico e poi segretario dei marchesi di Barolo, che avevano fama di reazionari. Io però ho continuato la mia attività di scrittore e nel 1837 ho pubblicato due volumi di «Poesie inedite», sette cantiche e molte liriche, per lo più di argomento religioso; in quel periodo ho anche iniziato a scrivere, senza condurla mai a termine, la mia autobiografia.

Perché con i marchesi di Barolo?

Tornato in libertà, sono stato accolto dalla mia famiglia, ma non riuscivo a trovare un lavoro stabile e dignitoso. A un certo punto ho ricevuto l’offerta di andare a Parigi come istitutore del figlio del re Luigi Filippo, ma mi dispiaceva tantissimo lasciare i miei genitori proprio quando avevano più bisogno di me. Saputolo, la marchesa e il marito, di comune accordo, mi hanno offerto l’impegno di bibliotecario. Ho accettato con gioia. Con loro avevo una forte amicizia, la marchesa era stata una delle prime persone a congratularsi con me dopo la lettura de «Le mie prigioni», e condividevamo lo stesso spirito di fede e di impegno sociale per i più poveri. Per me erano «anime rare, sempre occupate di vera carità e di Dio».

I marchesi sono stati i fondatori delle Suore di sant’Anna, ancora oggi ben attive a Torino, e hanno avuto una attenzione particolare per l’assistenza alle carcerate e per il miglioramento delle loro condizioni di vita. Hanno promosso le scuole per i più poveri, aiutato i malati (durante il colera del 1835, il marchese stesso ne è stato contagiato) e dato sostegno economico a tante attività caritative e alla costruzione di chiese.

Nel 1851 Silvio Pellico e Giulia Colbert Faletti entrarono nel laicato francescano come terziari. Pellico si spense il 31 gennaio 1854. Le sue spoglie riposano nel Cimitero monumentale di Torino, fondato proprio dai marchesi di Barolo.

Don Mario Bandera




Carta versus digitale (con molte sorprese)


La carta è un prodotto che genera un forte impatto sull’ambiente. È meglio scegliere il digitale? Non è detto. Per valutare l’impronta ecologica di un dispositivo elettronico occorre infatti considerare il suo intero ciclo di vita.

Nel tentativo di ridurre la nostra impronta ecologica, talvolta rischiamo di fare delle scelte sbagliate a causa di una visione incompleta delle questioni ambientali. Uno dei luoghi comuni più frequenti è che leggere libri o riviste in formato digitale sia un modo di salvaguardare l’ambiente, perché in tal modo si riducono il consumo di legname e di acqua e le emissioni di gas a effetto serra. Ma è proprio così? Per rispondere a questa domanda è necessario confrontare l’intero ciclo di vita di libri e riviste cartacee da un lato e delle tecnologie digitali utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati (Ict) dall’altro. Il metodo da utilizzare è l’Lca (Life cycle assessment o analisi del ciclo di vita), che ci dà un’esatta valutazione dell’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio perché prende in considerazione tutte le fasi del ciclo di vita che lo riguardano, partendo dall’estrazione delle materie prime necessarie alla sua produzione fino allo smaltimento del prodotto finale.

Un triciclo carico di carta da riciclare in Vietnam. Foto Falco – Pixabay.

Il ciclo della carta

Per quanto riguarda la carta, essa, per essere prodotta, richiede il legname. Per fortuna, una quantità sempre maggiore di carta viene recuperata tramite la raccolta differenziata. Il riciclo però non è possibile all’infinito, perché ogni volta la lunghezza delle fibre, di cui è costituita la carta, si riduce un po’ (e questo è il motivo per cui anche la carta riciclata deve contenere una minima quantità di fibre nuove).

La produzione della carta, tuttavia è responsabile della deforestazione solo in minima parte. Secondo il Wwf, infatti, la deforestazione e il grave degrado delle foreste naturali sono dovuti a molteplici fattori, tra cui l’agricoltura intensiva, il disboscamento non sostenibile, l’attività mineraria, la costruzione di nuove strade e l’aumento del numero e dell’intensità degli incendi.

Del legname raccolto, il 50% viene usato per produrre energia, il 28% per le costruzioni, mentre per la produzione di carta viene impiegato circa il 13%. Nel mondo, l’area con certificazione di gestione forestale è passata da 18 milioni di ettari nel 2000 a 438 milioni nel 2014. Mentre le foreste naturali rappresentano il 93% dell’area boschiva mondiale, quelle piantate sono il 7%. Anche queste ultime, come le naturali, possono assorbire CO2 dall’atmosfera. La carta, come derivato del legno, rappresenta un magazzino di CO2 per tutto il suo ciclo vitale.

Per quanto riguarda le emissioni di gas a effetto serra, quelle dell’industria della carta si sono ridotte del 22% tra il 2005 e il 2013, e attualmente rappresentano l’1% del totale di quelle dell’industria manifatturiera (che rappresentano a loro volta il 29% delle emissioni di gas climalteranti a livello mondiale), contro il 6% dell’industria dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metallici, del 4,8% di quella del ferro e dell’acciaio, del 4,3% del settore petrolchimico, dell’1,4% di quella dei metalli non ferrosi, dell’1,1% della produzione del cibo e del tabacco e del 10,5% di altri tipi d’industrie.

Bisogna comunque considerare che alcuni tipi di carta, come quella dei giornali e dei materiali da imballaggio sono costituiti completamente da fibre riciclate. In Europa, nel 2020, la raccolta differenziata della carta si è attestata intorno all’81% con una lieve flessione di 3 punti percentuali dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19. Nello stesso anno, in Italia, la raccolta è stata del 70%, pari a 9,6 milioni di tonnellate.

Naturalmente, quando si considerano i consumi e le emissioni per produrre libri, giornali e riviste cartacei, bisogna tenere conto che per la produzione della carta sono necessari dei procedimenti che comportano sia l’utilizzo che l’inquinamento dell’acqua. Per quanto riguarda l’utilizzo di acqua necessario a produrre una tonnellata di carta, le significative innovazioni introdotte negli ultimi anni dall’industria cartaria italiana, per ottimizzare i consumi, hanno permesso di arrivare a un consumo attuale di soli 26 metri cubi di acqua dolce per tonnellata, contro i 100 della fine degli anni ‘70. Inoltre solo il 10% dell’acqua utilizzata nell’intero processo produttivo è costituito da acqua fresca, mentre il 90% è acqua di riciclo.

Tra i maggiori inquinanti rilasciati con le acque reflue dall’industria cartaria c’è il mercurio, che viene trasformato dai microrganismi degli strati superficiali dei sedimenti marini in metilmercurio, una forma estremamente tossica del metallo, che entra nella catena alimentare attraverso il plancton, percorrendola interamente fino ai pesci di grossa taglia, i grandi predatori, in cui si concentra in maggiore quantità, a causa del processo di biomagnificazione.

Anche gli inchiostri utilizzati per la stampa contribuiscono all’inquinamento sia delle acque, durante la loro produzione, che dell’aria, durante il loro uso, per via dei solventi in essi presenti.

Bisogna inoltre considerare il trasporto sia della carta alle case editrici, che dei prodotti stampati ai punti di vendita o a casa dei lettori, nel caso della distribuzione attraverso le grandi piattaforme di vendita on line.

Il corretto smaltimento dei cellulari (e dei rifiuti elettronici in generale) è possibile ma costoso. Foto Fairphone.

L’impronta digitale

La lettura di testi per mezzo di un dispositivo elettronico come un e-reader, un tablet o un pc sembrerebbe essere molto più «leggera» per l’ambiente, rispetto alla carta stampata, perché un dispositivo può contenere migliaia di testi, questi si possono scaricare in un attimo e non devono essere trasportati, quindi apparentemente non c’è inquinamento. Nemmeno per spostarsi con un mezzo di trasporto per il loro acquisto, dal momento che esso può essere effettuato su internet. Inoltre i testi sono dematerializzati, quindi non si contribuisce alla deforestazione. Apparentemente la lettura dei testi digitali sembra rivoluzionaria per l’ambiente, ma un attento esame dimostra che la sua impronta ecologica è piuttosto elevata e non si discosta da quella della carta stampata. Questo perché non possiamo considerare solo i consumi del nostro dispositivo elettronico, ma dobbiamo innanzitutto considerare i consumi e gli scarti relativi al suo intero ciclo di vita e quelli di tutta la tecnologia necessaria per fare arrivare i testi fino al nostro dispositivo. In pratica, dobbiamo tenere conto delle materie prime utilizzate per la costruzione del nostro dispositivo, tra cui le terre rare, come il coltan, estratte con procedimenti e in luoghi rischiosi per i lavoratori, soprattutto perché spesso teatro di guerre per la loro appropriazione. Dobbiamo, inoltre, considerare il quantitativo di energia necessario sia per la sua costruzione, che per il suo trasporto fino a noi da luoghi lontanissimi e che per tale trasporto sono necessari mezzi ad altissimo consumo energetico come navi mercantili o aerei e autotreni. Certo non possiamo comparare il consumo di energia per la costruzione di un dispositivo elettronico con quella per la produzione di un singolo libro o rivista o giornale. Come dicevo prima, il nostro dispositivo può contenere fino a qualche migliaio di libri e, se siamo dei lettori particolarmente assidui, almeno in considerazione di questo fatto, potremmo pensare ad un risparmio energetico con la lettura di testi digitali. Il nostro dispositivo però ha bisogno di corrente per funzionare, mentre se leggiamo di giorno basta la luce solare.

Una caratteristica dei dispositivi elettronici è che la loro vita è piuttosto breve, sia perché le batterie al litio, di cui sono dotati, durano pochi anni, sia perché caratterizzati dall’obsolescenza programmata. Dopo un po’, infatti, pc, tablet ed e-reader non riescono più a effettuare i necessari aggiornamenti per adeguarsi ai nuovi sistemi operativi e alle nuove app (applicazioni), che hanno bisogno di una memoria sempre più ampia per funzionare. La batteria esaurita e l’obsolescenza programmata ci portano, quindi, a cambiare i nostri dispositivi dopo pochi anni di uso, anche se ancora funzionanti e a doverli smaltire come Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).

lo smaltimento

Il corretto smaltimento di questa tipologia di rifiuti è un processo multifase, lungo e costoso, che prevede il recupero e il riutilizzo di buona parte dei componenti. Tuttavia, non sempre questi rifiuti tecnologici vengono smaltiti correttamente, con il rischio che le sostanze tossiche contenute nei loro componenti, se gettati in discariche e non trattati in modo adeguato, possano inquinare l’ambiente.

È quello che sta capitando in molti paesi a basso reddito, dove viene effettuato in modo illegale e non tracciato lo smaltimento dei nostri rifiuti tecnologici, come ad esempio in diverse regioni o città africane, che si stanno trasformando in discariche a cielo aperto di rifiuti tecnologici dei paesi occidentali. Questo avviene perché gli impianti per il corretto trattamento dei rifiuti elettronici sono all’avanguardia, ma costosi. Si stima che già nel 2006, in Europa siano stati prodotti tra 8-12 milioni di tonnellate di Raee, ma attualmente si pensa che la loro percentuale rispetto al totale dei rifiuti solidi urbani sia equivalente a quella degli imballaggi in plastica. Il loro tasso di crescita è infatti elevatissimo. È evidente che smaltire un libro è molto più semplice ed economico: la cosa migliore da fare è donarlo oppure, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo alla raccolta differenziata e riciclarlo.

Il peso dei data center

Ciò che ho descritto fino a qui però riguarda solo il nostro dispositivo personale. Quindi, molto meno dei reali consumi legati alla fruizione on line di libri, riviste, giornali (oltre che di video, film, podcast, ecc.), perché tutto ciò di cui possiamo fruire è formato da dati che si trovano in qualche gigantesco data center, da cui partono i servizi digitali che utilizziamo.

L’insieme dei data center è un sistema, che identifichiamo con il cloud, rappresentato da quella eterea nuvoletta, che vediamo nell’icona corrispondente, ma che ha ben poco di etereo. Si tratta in realtà di un insieme di strutture fisiche costituite da fibre ottiche, router, satelliti, cavi posizionati in fondo all’oceano, giganteschi centri di elaborazione dati pieni di computer. Tutto questo consuma un’enorme quantità di energia, anche perché molte di queste strutture necessitano, per funzionare bene, di impianti di raffreddamento.

Gli utenti finali non si rendono minimamente conto di questo grandissimo dispendio energetico, perché pagano esclusivamente la piccola quantità di energia consumata dai loro dispositivi, gli abbonamenti ai fornitori di contenuti e i gigabyte di traffico ai loro operatori telefonici. È evidente, quindi che anche le letture online pesano parecchio sull’ambiente e probabilmente non ci sono vantaggi in termini di risparmio energetico totale e di riduzione dell’inquinamento, rispetto alla carta stampata.

I servizi offerti dagli strumenti digitali costano (e molto) anche in termini ambientali. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Digitale e problemi fisici

Nella scelta tra un modo di leggere e l’altro pesano diversi fattori, tra cui l’età dei lettori (le persone anziane non sempre hanno dimestichezza con i mezzi informatici), la necessità di risparmiare spazio (la carta pesa e occupa grandi volumi), la possibilità di facilitare la lettura regolando le dimensioni dei caratteri offerta dai dispositivi elettronici, le esigenze dell’insegnamento a distanza, per cui è necessario che i due sistemi continuino a coesistere.

È però importante considerare che un’eccessiva esposizione agli schermi dei dispositivi elettronici può portare alla «sindrome da visione al computer» o Cvs (Computer vision syndrome), una condizione sempre più diffusa che interessa tra il 70-90% delle persone che passano diverse ore davanti ad uno schermo. I sintomi di questa sindrome sono variabili e sono di tipo visivo, neurologico e muscolo-scheletrico. Non è detto che si presentino tutti insieme e possono variare da una persona all’altra, in base alle abitudini di lettura allo schermo. Frequentemente, dopo alcune ore allo schermo, si presentano bruciore agli occhi, affaticamento e talora sdoppiamento della visione, mal di testa e dolori al collo, per la posizione assunta.

Molti problemi legati a una lunga esposizione a uno schermo sono dovuti al fatto che gli schermi di computer, tablet e smartphone emettono luce blu, che ha effetti negativi su uno dei nostri pigmenti visivi, la rodopsina, portando a un più rapido invecchiamento della vista. Inoltre, la luce blu influenza negativamente il sonno e la concentrazione, in particolare se l’esposizione avviene nelle ore serali, perché rallenta la produzione di melatonina, l’ormone che induce il sonno, provocando insonnia, irritabilità e ansia. Oltre a questo, un’esposizione costante alla luce blu può danneggiare la retina, che non ha sufficienti schermature per questa lunghezza d’onda. A differenza delle altre gamme di luce, che vengono assorbite dalla cornea e dal cristallino, quella blu-viola penetra in profondità nell’occhio e arriva alla zona centrale della retina, la macula, che elabora le nostre informazioni visive.

Infine, la luce blu è capace di influenzare i neurotrasmettitori del tratto retino-ipotalamico, responsabile della regolazione del nostro ritmo circadiano, che è alla base dei nostri processi biologici, tra cui sonno-veglia e produzione ormonale, con alterazioni sia fisiche, che comportamentali.

In conclusione, con un occhio alla salute del pianeta e uno alla nostra, scegliamo il supporto che più ci è confacente.

Rosanna Novara Topino

Quanto inquina l’Internet?

Sebbene sia difficile quantificarlo, secondo una recente ricerca di Greenpeace, il consumo energetico di internet è circa il 7% dell’energia elettrica mondiale. Il suo rilascio di CO2 sarebbe di circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno, cioè circa 400 grammi per ciascun utente di internet. E l’energia utilizzata dai grandi data center è «pulita» o «sporca», cioè deriva da fonti rinnovabili o no? Secondo un altro report del 2017 di Greenpeace, che ha preso in considerazione i grandi data center e una settantina tra siti web e applicazioni, per quanto riguarda l’utilizzo di energia pulita, per le loro operazioni negli Usa, al primo posto si trova Apple con l’83% di energia pulita, seguita da
Facebook con il 67%, Google con il 56%, Microsoft con il 32%, Adobe con il 23% e
Oracle con l’8%. La restante parte di energia usata è fornita da gas naturale, centrali a carbone e nucleare.

RTN




Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale


Sul mercato gli individui non sono tutti eguali. La soluzione non è però il «capitalismo compassionevole». È compito dello stato correggere le distorsioni con l’imposizione fiscale. Soltanto così è possibile perseguire la giustizia sociale.

La generosità è un valore, ma quanto è sano affidare la soluzione dei problemi sociali alla libera generosità dei cittadini? È una domanda che vale la pena porsi perché si fa sempre più marcata la tendenza a trasformare la solidarietà in un optional.

L’optional ci piace, ci dà un senso di libertà che ci imprime leggerezza. Del resto, questo è il sogno che il mercato ci trasmette: i mercanti offrono, i consumatori scelgono. In piena libertà. Se vogliono prendono, altrimenti lasciano. Almeno così va l’adagio. In realtà, c’è anche la situazione in cui si vorrebbe comprare, ma non si può perché non si hanno i soldi per farlo. Questo tipo di impossibilità materiale, al mercato non interessa. Eppure, è proprio questa non libertà, altrimenti chiamata miseria, che dobbiamo prefiggerci di eliminare tramite ciò che Rousseau ha chiamato «Contratto sociale»: la rinuncia da parte di tutti di un frammento di libertà individuale per costruire una libertà collettiva più ampia. La libertà più ampia si chiama «giustizia sociale». Il frammento di libertà individuale ridotta si chiama «imposizione fiscale».

Ricchi e poveri

L’umanità, almeno quella occidentale, ci ha messo qualche millennio per guardare ai poveri come a persone ferite nella loro dignità. Fino a qualche secolo fa eravamo talmente barbari da considerare legittima la schiavitù e la servitù della gleba. Complici le espressioni religiose, compresa quella cristiana, che per vari secoli ha avallato l’ordine costituito comprendente la schiavitù.

È famoso l’invito contenuto nella terza lettera di Paolo ai Colossesi: «Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Posizioni riprese da importanti esponenti ecclesiastici successivi che invitavano i poveri ad accettare con rassegnazione la propria posizione di sofferenza. Nel contempo, però, si rivolgevano anche ai ricchi affinché sapessero essere caritatevoli.

Una combinazione comportamentale poco comprensibile sul piano sociale, forse con una sua giustificazione escatologica se concepiamo la miseria, e più in generale la sofferenza, come un’opportunità di prova al servizio di un tribunale celeste la cui funzione principale è quella di giudicare l’umanità. Ognuno secondo la propria posizione: i miseri messi alla prova rispetto alla capacità di accettare la sofferenza, i benestanti messi alla prova rispetto alla capacità di attivare sentimenti di pietà. Da cui l’imperativo ai miseri di accettare la propria condizione di sofferenti e ai benestanti di destinare parte delle proprie fortune in beneficienza per sollevare le sorti dei miseri. Impostazione che, nel Medioevo, permise la crescita di ospedali, mense, ricoveri, gestiti dalla Chiesa con i soldi messi a disposizione dalla nascente classe mercantile che aveva incluso la beneficienza nei propri bilanci economici sotto la voce «conto di messer Domeneddio». Primordi di quel capitalismo compassionevole che la tradizione protestante rafforzerà ulteriormente.

È un mondo costruito attorno ai soldi. Foto Pixabay.

L’affermazione dei diritti

L’idea di liberazione totale dalla miseria, e più in generale dalla sofferenza, inizia a farsi strada a fine Settecento quando l’illuminismo introduce il concetto di diritto. Una condizione positiva e inviolabile che deve essere garantita ad ogni essere umano per il fatto stesso di esistere. Un principio che, essendo stato coniato dalla classe borghese, inizialmente era limitato ad alcuni diritti civili: libertà di pensiero, proprietà privata, tutela giuridica. Più tardi, però, i movimenti socialisti riuscirono ad estendere il concetto di diritto anche ad aspetti sociali. E la completezza si raggiunse nel 1948 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu che all’art. 25 recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Affermati i diritti, la domanda che dobbiamo porci è chi deve garantirli. Di sicuro, non la solidarietà individuale per sua natura incerta e precaria. I diritti si pretendono dalla comunità, la quale deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Esattamente come prevede la nostra Costituzione, che nello stesso articolo, il numero 2, richiama i diritti e istituisce il dovere di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E poiché viviamo in un sistema basato sul denaro, uno degli strumenti cardine della solidarietà è quello fiscale a cui «tutti devono concorrere in ragione della propria capacità contributiva».

Così afferma l’articolo 53 della Costituzione, che aggiunge: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un criterio che potrebbe essere riassunto con la massima: quanto più guadagni, tanto più devi essere disponibile a pagare aliquote più alte.

Nel secondo dopoguerra, quando la scena era dominata da un forte movimento operaio, in tutta Europa venne raggiunto un alto livello di welfare finanziato da un sistema fiscale che colpiva in maniera particolare le classi ricche. Perfino negli Stati Uniti nel 1963 l’aliquota oltre i due milioni di dollari (rivalutati ad oggi) era al 91%. In Italia la riforma fiscale del 1974 organizzò l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) su 32 scaglioni con l’ultima aliquota al 72% oltre i 258mila euro. Ma non passò molto tempo che già si cominciò ad attenuare la progressività riducendo gli scaglioni e modificando le aliquote fiscali con innalzamento di quelle sui redditi medio bassi e riduzione su quelli alti.

Patrimoniale? «Sì, grazie»

Ormai stava soffiando un nuovo vento, il vento neoliberista, riassumibile in tre parole chiave: più mercato, più profitti, meno stato. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati nove, con l’aliquota più bassa al 18% e quella più alta al 65%, nel 2007 gli scaglioni li troviamo a cinque con l’aliquota più bassa al 23% fino a 15mila euro e la più alta al 43% oltre 75mila euro.

La conclusione è che su un reddito di 3 milioni di euro (secondo il valore di oggi) nel 1974 lo stato si sarebbe preso 1 milione e 713mila euro (57,1%), oggi se ne prende solo 1 milione e 283mila (42,7%). Da una ricerca condotta da Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), si apprende che fra il 1983 e il 2017 i favori accordati alle classi ricche hanno procurato allo stato un mancato incasso stimabile in 146 miliardi. Ammanco che ha prodotto due risultati: aumento del debito pubblico e meno diritti.

Ad esempio, nel suo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 2021, l’Istat certifica che «tra il 2010 e il 2018, l’offerta ospedaliera è andata modificandosi, con una riduzione delle strutture e dei posti letto. In particolare, il numero di questi ultimi è diminuito in media dell’1,8% l’anno, fino ad arrivare, nel 2018, a una dotazione di 3,49 posti letto – ordinari e in day hospital – ogni 1.000 abitanti».

A giudicare dall’intensità con cui si raccolgono fondi, la ricerca sembra uno dei settori meno sostenuti dalla mano pubblica. Ogni anno la Rai indice la settimana di raccolta fondi per Telethon, la fondazione che finanzia la ricerca a favore delle malattie rare. Identicamente anche la fondazione Firc-Airc s’inventa ogni sorta di iniziativa per raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. La rivista Vita che elabora i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali, stima che nel 2019 l’insieme delle donazioni versate dagli italiani, ammonti a 5,3 miliardi di euro, che rappresenta quasi il 3% del gettito Irpef incassato dallo stato.

Basterebbe aumentare di qualche punto l’aliquota sui redditi alti e lo stato potrebbe incassare ciò che serve per garantire i fondi ad attività essenziali come la ricerca, il miglioramento della sanità, l’assistenza a fasce fragili oggi lasciate alla benevolenza. E ancora di più potrebbe essere raccolto se si introducesse una patrimoniale, ossia una tassazione sull’insieme della ricchezza posseduta. Che è una proposta fatta nel dicembre 2020 da alcuni parlamentari di Leu e del Pd che prevedeva l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, l’aliquota sarebbe dovuta salire allo 0,5% al raggiungimento di un milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Percentuali tutto sommato modeste, che però non hanno trovato il consenso del parlamento che ha bocciato l’intera proposta.

Dollari. Foto Rabe-Pixabay.

Paradisi e perdite fiscali

Perfino l’Ocse, l’istituto dei paesi occidentali addetto alle analisi economiche, ammette che disuguaglianze e dissesto sociale sono fenomeni aggravati da un sistema fiscale sempre più accomodante con i ricchi. E cita al riguardo la tassazione dei redditi d’impresa scesa mediamente dal 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Non contente molte imprese globali ricorrono ai paradisi fiscali per occultare i propri guadagni e non avere da pagarci sopra un bel niente. Tax justice network stima che lo spostamento di profitti e ricchezze nei paradisi fiscali abbia provocato agli stati una perdita fiscale di 427 miliardi di dollari nel 2020. E in prima fila, fra i furbetti dell’evasione (tax avoidance, per dirla all’inglese), si trovano i colossi del web, gli stessi che permettono ai propri amministratori delegati di comparire ai primi posti per donazioni: Jeff Bezos patron di Amazon, MacKenzie Scott moglie dello stesso, Jack Dorsie patron di Twitter, Charles Schwa patron di Netflix. Aziende queste che, tra l’altro, non brillano neanche per rispetto dei diritti dei lavoratori.

Strana logica quella di arricchirsi alle spalle dei lavoratori e delle casse pubbliche e poi mostrarsi buoni versando qualche briciola in beneficienza. Strana in una prospettiva morale, ma perfettamente coerente in una prospettiva di potere. Perché, alla fine, di questo si tratta: mostrare un po’ di bontà di facciata con il duplice scopo di ottenere consenso attorno a uno dei peggiori sistemi economici che l’umanità abbia partorito e controllare punti strategici del sistema.

Tipico quello dei vaccini, su cui la fondazione Bill Gates (ex patron di Microsoft) ha investito somme altissime, e quello delle Nazioni Unite finanziata a piene mani da privati fra cui Ted Turner (cofondatore della Tv globale Cnn). Del resto, il secondo finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità è proprio la Fondazione Bill Gates che contribuisce per il 10% circa. «Dopo tutto – per dirla con le parole di Nicoletta Dentico, autrice di Ricchi e buoni? (si veda Dietro la bontà del capitalismo, MC gennaio-febbraio) – una mano lava l’altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì».

Francesco Gesualdi

 




Aria di miracolo

Nel mese di marzo scorso, è stata celebrata a Roraima (Brasile) l’inchiesta diocesana sulla guarigione «miracolosa» di Sorino Yanomami (un indigeno della foresta amazzonica), ottenuta attraverso la preghiera e l’intercessione del nostro beato Fondatore. I superiori generali dei missionari/e della Consolata hanno scritto: «Questo è un “miracolo missionario” molto in sintonia con lo spirito dell’Allamano per il quale santità e missione vanno insieme, sono facce della stessa moneta, nella missione la santità trova una casa, nella santità la missione trova il suo significato e i propositi più profondi. La speranza è che questo miracolo, così significativo per noi, sia riconosciuto dalla Chiesa e sia uno stimolo per noi e per tutti a crescere nell’amore per la missione ad gentes che il nostro Fondatore ci ha indicato come finalità specifica dei nostri Istituti e loro ragione di essere».

E il vescovo di Roraima, dom Mário Antônio da Silva, nella messa conclusiva dell’intensa settimana del «Processo diocesano», con commosso entusiasmo del cuore (e della voce), così ha ricordato: «Rivolgiamo lo sguardo al beato Giuseppe Allamano, ringraziando Dio per il dono della sua vita, della sua vocazione, e della sua opera missionaria. Egli, pur restando sacerdote diocesano a Torino, ha fondato gli istituti dei missionari e missionarie della Consolata. Molte volte mi hanno chiesto quante volte l’Allamano fosse venuto a Roraima e ho dovuto rispondere che storicamente non è mai arrivato fin qui. Ma lui è stato presente a Roraima per mezzo dei suoi missionari e missionarie per più di 70 anni, con il carisma, l’amore, l’impegno per la vita dei più poveri, dei popoli indigeni, dei popoli delle regioni più interne o che vivono lungo i fiumi, ai bordi delle strade e della periferia delle nostre città…

E questo “sacerdote diocesano” mi ha toccato il cuore, quando ho letto nei suoi scritti: “Maria, la Consolata, con la sua tenerezza penetra nelle intenzioni del suo Divino Figlio, sa quanto gli costiamo, sa che Gesù vuole la salvezza di tutti. Per questo, il desiderio più ardente della Madonna è che tutte le persone siano salvate; ed è per questo che Gesù è venuto nel mondo e lei, che è sempre stata unita a Lui, non può desiderare altro. E la Consolata – ci insegna ancora il beato Allamano – è nostra madre tenerissima che ci ama come la pupilla dei suoi occhi». Cos’è la tenerezza? La tenerezza è la capacità di amare, risvegliare la gioia nella persona amata, senza interesse, nella gratuità, nella vicinanza, nella docilità e – perché no? – nella gioia e nella santità».

padre Giacomo Mazzotti

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Tesoriere e segretario della Consolata

Per la rubrica «Cammino di santità» continueremo ad attingere ai numerosi e approfonditi scritti di padre Francesco Pavese, scomparso il 3 maggio 2020.

L’Allamano, più di una volta si è autodefinito «segretario» e «tesoriere» della Consolata. Ovviamente, sono termini che vanno presi in senso analogico, perché il tono con cui sono stati pronunciati era decisamente familiare. Esprimono, però, una convinzione dell’Allamano stesso, che possiamo capire dal suo pensiero sulla Madonna e poi dal contesto nel quale si è espresso parlando sia ai missionari che alla gente.

Non c’è dubbio che l’Allamano abbia vissuto un’intensa spiritualità mariana. Sapeva partecipare interiormente a tutti i misteri riguardanti Maria, e ogni sua festa, anche la più popolare, diventava motivo di riflessione e di incoraggiamento per impegnarsi nel bene.

La dottrina che sta alla base della sua spiritualità mariana risente molto della sua esperienza al Santuario della Consolata. Parlando della Madonna, infatti, ha spesso valorizzato la liturgia della festa della Consolata, e in particolare la colletta della messa, nella quale si leggono queste parole: «Signore Gesù Cristo, che nella tua ineffabile provvidenza hai disposto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria, tua SS. Madre, concedici benigno (ecc.)».

L’Allamano ha illustrato le parole di questa orazione richiamandosi alla mariologia di san Bernardo: «La Madonna, dice san Bernardo, è un acquedotto e una fontana. Una fontana perché tutte le grazie ci vengono di lì. “Hai voluto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria”. E poi un acquedotto perché tutto deve passare di lì. La Madonna è questo canale che porta a noi la grazia di Dio».

In altra occasione, parlando sullo stesso argomento, si espresse con termini simili: «Nessuna grazia il Signore ha voluto che venisse a noi, se non per mezzo di Maria, essa è tesoriera e dispensatrice». Ecco, per la prima volta, il termine «Tesoriere», ma riferito alla Madonna. Secondo l’Allamano, Maria è «tesoriera», in quanto ha l’incarico, per esplicita volontà di Dio, di dispensare le grazie ai fedeli.

Giuseppe Allamano credeva di avere un rapporto privilegiato di collaborazione con Maria, quasi prolungando questa sua funzione di dispensare i favori di Dio. La sua attiva e prolungata presenza di primo responsabile al Santuario, forse corroborata dall’esperienza personale di grazie ricevute, probabilmente lo induceva a convincersi che tra la Consolata e lui si erano come create un’intesa e una collaborazione speciali.

Si noti, però, che l’Allamano per lo più faceva precedere al titolo di «Tesoriere» quello di «Segretario», forse proprio per precisare questa sua funzione di totale subordine. In pratica, pensava di aiutare la Consolata a concedere i favori alla gente, prendendo nota delle varie necessità.

I contesti nei quali l’Allamano ha parlato di sé come «Segretario» e «Tesoriere» della Consolata aiutano a capire che cosa intendesse usan- do questi termini.

Nel 1922, durante la novena della Consolata, l’Allamano chiese alle suore che pregassero la Madonna per due intenzioni che in quel periodo gli stavano a cuore: perché la Santa Sede approvasse il miracolo per la beatificazione dello zio Giuseppe Cafasso e, perché approvasse definitivamente le Costituzioni dell’Istituto.

Ecco le sue parole, che sembrano quasi uno sfogo a motivo del ritardo che gli pareva di notare: «Pregate la Madonna che ci faccia questo regalo. Del resto, non perderemo la pace per quello se la Madonna non crede di darcelo. In sostanza io son qui [al santuario] tesoriere, segretario, e dovrei avere il diritto di prendere le grazie principali ed invece… Tutti vengono a dire: Io ho ricevuto questa grazia…; io ho avuto questa… Ed io? Io registro sempre, ma pregate che il Signore faccia la sua santa volontà: è poi tutto lì, vedete!». Come appare evidente, è un santo che si confida alle sue figlie, preoccupato sì, ma totalmente affidato alla volontà di Dio.

Due anni dopo, nel notiziario della Casa Madre inviato alle sorelle in missione, scrivendo sul miracolo del Cafasso che, a Roma, aveva avuto esito favorevole, si legge: «19 febbraio: giornata eucaristica alla Consolata per il ven. Cafasso. Tutti gli allievi e allieve di Casa Madre portano il loro contributo di preghiere fiduciosi di vedere presto innalzato agli onori degli altari il caro Venerabile.

L’amatissimo Padre [Allamano] lo troviamo così sollevato e lieto. Ci dice di averli già fatti lui i patti con la Madonna: “Tutte le preghiere – le ho detto – che oggi i missionari e le missionarie faranno per don Cafasso, rivolgetele a loro e fateli santi subito, incominciando dagli ultimi entrati, e credo che la Madonna avrà fatto così. Io sono il suo segretario, il suo tesoriere ed ho il diritto di essere ascoltato prima degli altri”. E noi ci siamo presentate alla Madonna sicure che la sua benedizione feconderà i nostri sforzi costanti per corrispondere ai grandi desideri dell’amato Padre». Questa volta, il suo rapporto privilegiato con la Madonna lo valorizzò in favore della qualità dei suoi figli e figlie che, in realtà, erano quanto di più prezioso egli avesse.

Questa autodefinizione dell’Allamano ci porta a credere che noi, missionari e missionarie della Consolata, abbiamo l’esperienza della continua ed efficace intercessione del nostro Padre Fondatore presso Dio e la SS. Consolata. Il suo benevolo aiuto ci fu stato assicurato da lui stesso, quando ci disse: «Per voi dal Paradiso farò più di quanto ho fatto sulla terra».

Questa non è stata solo la nostra esperienza. Quando era in vita, molti ricorrevano a lui, perché fosse lui stesso ad intercedere direttamente presso la Consolata. Padre Giuseppe Giacobbe, sacerdote dottrinario che riceveva le confidenze dell’Allamano, disse ai suoi confratelli che l’Allamano era un «Santo che consola e porta la Consolata in saccoccia».

padre Francesco Pavese


Processo di canonizzazione del beato Allamano

Dal 7 al 15 marzo 2021, si è svolta a Boa Vista (Brasile), nella diocesi di Roraima, la fase diocesana della causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, per il riconoscimento della guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, attribuita all’intercessione del beato.

Domenica 7 marzo, l’evento è iniziato nella parrocchia della Consolata di Boa Vista con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo diocesano di Roraima, dom Mário Antônio da Silva.

Alle 10 si è svolta la sessione pubblica di apertura del processo. Il collegio del tribunale era composto dal vescovo dom Mário Antônio da Silva, padre Lucio Nicoletto, vicario generale della diocesi, padre Raimundo Vantuir Neto, cancelliere della curia, padre Michelangelo Piovano, missionario della Consolata, notaio, Elizabete Sales de Lucena Vida, segretaria della curia e il dottor Augusto Affonso Botelho Neto, medico.

Oltre al collegio erano presenti padre Giacomo Mazzotti, missionario della Consolata, postulatore per la causa di canonizzazione del beato, il diacono Augusto Monteiro e le suore, missionarie della Consolata, Renata Conti postulatrice Mc e Maria José.

Iniziando la sessione, dom Mário si è detto onorato nell’aprire il tribunale diocesano per le cause dei santi con il compito di svolgere le necessarie indagini sulla causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Padre Giacomo Mazzotti ha quindi presentato ufficialmente la petizione per aprire il processo sul presunto miracolo della guarigione di Sorino Yanomami, attribuito al beato Allamano.

Di seguito ha avuto luogo il giuramento dei componenti il collegio tribunalizio e, chiudendo la sessione, Dom Mário ha chiesto l’aiuto della preghiera a tutti coloro che avrebbero seguito il processo.

L’attività della Corte è proseguita per tutta la settimana con l’ascolto dei testimoni e ha avuto come momento particolare l’adorazione eucaristica e il canto dei vespri con il clero, i religiosi e le religiose locali, venerdì 12 marzo.

Lunedì 15 marzo, alle 8,30 si è svolta la sessione pubblica di chiusura del processo e alle 19 la celebrazione finale di ringraziamento nella cattedrale.

Ora, gli atti sono stati trasmessi alla Congregazione per le Cause dei santi, in Vaticano.

Suor Maria da Silva Ferreira

«È un momento davvero emozionante – racconta sr. Maria, missionaria della Consolata portoghese e testimone del presunto miracolo, avvenuto 25 anni fa -. Per certi aspetti si tratta di una data storica. Naturalmente, nessuno ha in animo di anticipare i tempi della canonizzazione di Giuseppe Allamano, ma vale la pena fin d’ora di raccontare le circostanze della presunta guarigione miracolosa. Era il 7 febbraio di 25 anni fa. L’indigeno Sorino, nella foresta, venne assalito da un giaguaro, che con forza gli strappò il cuoio capelluto. Ricordo che si ruppe in parte la scatola cranica, ci fu una fuoriuscita di materiale cerebrale e Sorino perse la vista. Furono momenti di grande concitazione, chiamammo i medici e non si pensava di poterlo salvare. Iniziava in quei giorni la novena del beato Giuseppe Allamano e lo invocammo per la guarigione di questa persona. Fu trovato improvvisamente guarito e già allora si gridò al miracolo».

All’epoca, i missionari e le missionarie della Consolata erano molto presi dall’attività con il popolo Yanomami e, stranamente, nessuno ha pensato di andare avanti con il riconoscimento della guarigione. Il Sinodo per l’Amazzonia è stato importante per risvegliare il ricordo di questo fatto. Tra il popolo Yanomami non ci sono quasi cristiani, e il riconoscimento del miracolo sarebbe anche un riconoscimento dal Cielo della nostra pluridecennale attività al fianco di questa etnia, nel nome del dialogo e della promozione umana. In ogni caso, il beato Allamano diceva di fare le cose “bene, senza rumore e senza fretta”. Ed è quello che accade con questa causa».

Don Lucio Nicoletto

missionario fidei donum padovano, vicario generale della diocesi di Roraima, e delegato episcopale nell’inchiesta diocesana sul presunto miracolo di Sorino Yanomami, conosce bene i missionari e le missionarie della Consolata e conferma: «Roraima è cresciuta assieme ai padri e alle suore, grazie alle loro istituzioni educative. Sono stati dei missionari a tutto campo per cui, domenica 7 marzo, inizio del processo diocesano, in una certa maniera si è celebrato un riconoscimento della presen-za dell’Istituto, si è vissuto un atto di fede; per noi “miracolo” non è un fatto fuori dal normale, è riconoscere l’azione di Dio nella vita di ogni giorno, che agisce quando trova il cuore aperto delle persone. La gratitudine si esprime anche attraverso questo segno, che ora viene analizzato e comprovato.

Sorino, infatti, pur non conoscendo il messaggio cristiano, riconosce il bene che ha ricevuto, soprattutto grazie alle cure e all’attenzione delle suore che lo hanno sostenuto e hanno pregato per lui, dandogli così la possibilità di riprendere la vita che conduce-va prima dell’incidente, dopo che il giaguaro gli aveva fracassato il cranio». Un fatto sul quale, dopo 25 anni esatti, si indaga, per scoprire se davvero Dio ha visitato, guarito e salvato Sorino, umile e fiero abitante dell’immensa foresta amazzonica brasiliana.

padre Sergio Frassetto




Tra Italia e Africa


Un giallista torinese che indaga luoghi e quartieri abitati da un’umanità di poveri e immigrati. Un libro intervista che attraversa l’Italia in 10 delle sue ferite ambientali grazie alla voce di altrettanti sacerdoti. Una raccolta di reportage africani firmati dal compianto Raffaele Masto.

Gialli tra migranti

Uno dei grandi meriti di Andrea Camilleri è di avere creato, grazie al suo commissario Montalbano, una vera e propria «scuola italiana della letteratura gialla». Camilleri ha indicato una strada e tanti autori di casa nostra hanno provato a percorrerla. Alcuni con ottimi risultati.

Tra coloro che hanno appreso, e bene, la lezione di Camilleri, ce n’è uno torinese i cui libri meritano, a mio avviso, grande attenzione. Prima di tutto per la loro capacità di caratterizzarsi e rendersi originali all’interno di un genere letterario in sé molto lineare: trovare l’assassino.

Gioele Urso, che nella vita fa il giornalista, è autore di Calma & Karma. Torino rosso sangue, uscito nel novembre scorso per Golem Edizioni. Il titolo è l’unico particolare poco azzeccato: sembra il viatico alla lettura di un libro splatter. Invece no. Urso ha scritto una storia degna di nota. Delicata, profonda, socialmente rilevante.

Due anni fa aveva esordito con Le colpe del nero per le Edizioni del Capricorno. Titolo, questa volta, più che centrato.

Protagonista di entrambe le storie è il commissario Riccardo Montelupo (due omaggi in un solo nome: Montelupo è nel carattere, nelle movenze, nel metodo investigativo, un po’ il Ricciardi di De Giovanni e un po’ il Montalbano di Camilleri).

Il commissario di Urso è in forza alla questura di Torino, ha radici siciliane e una idiosincrasia innata per le ingiustizie sociali.

Accanto a Montelupo compare, sia nel primo che nel secondo libro, il giovane videogiornalista Gianni Incerti, con un fiuto da cronista di razza e una grande passione per il Milan degli olandesi. Per la cronaca, Urso è milanista, oltre che reporter.

Fin qui siamo quasi nella norma. Ciò che però rende, a mio avviso, il lavoro di Urso più interessante di altri, sono i contesti sociali nei quali si sviluppano le trame: nel primo era il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, di corso Brunelleschi, nel secondo l’ex Moi, le palazzine di via Giordano Bruno costruite per le olimpiadi invernali del 2006, poi occupate da rifugiati.

I torinesi hanno ben chiaro che tipo di ferite sono stati quei due luoghi per la città. Il tema migratorio, le storie delle persone arrivate a Torino, in genere per essere sfruttate, abusate, usate, sono il cuore del racconto.

Non ricordo altri giallisti che abbiano scelto strutturalmente quel mondo per raccontarlo (e denunciarlo) nei loro libri.


Preti verdi

S’intitola Preti verdi, è uscito per Edizioni Terra Santa. Lo ha scritto il giornalista toscano Mario Lancisi, al quale si devono già diverse apprezzatissime pubblicazioni su don Milani.

È un libro che possiamo tranquillamente definire «necessario», e la ragione è racchiusa, prima di tutto, nel suo sottotitolo: L’Italia dei veleni e i sacerdoti simbolo della battaglia
ambientalista.

Mario Lancisi ha incontrato e raccontato la vicenda di dieci territori dall’ecosistema devastato e di altrettanti sacerdoti che hanno speso e spendono la propria vocazione per sanare la ferita inferta alle persone che quel territorio lo vivono.

Si tratta di don Palmiro Prisutto, don Giuseppe Trifirò, padre Nicola Preziuso, padre Maurizio Patriciello, don Marco Ricci, don Michele Olivieri, padre Guidalberto Bormolini, don Albino Bizzotto, don Gabriele Scalmana e padre Bernardino Zanella.

Il libro traccia un viaggio doloroso, quasi una Via Crucis che, dalla Sicilia, passando per Taranto e «la terra dei fuochi», porta al Veneto.

A segnare le tappe di questo terribile Giro d’Italia senza bicicletta sono le migliaia di morti provocate dalla devastazione ambientale. Bambini, donne, uomini, comunità intere decimate da forme tumorali le cui cause sono da ascrivere alla voracità di gruppi industriali e organizzazioni mafiose.

La dedica del libro è chiara: «A tutti i morti di tumore per l’inquinamento e i veleni provocati da uno sviluppo economico che mette al centro il profitto e non l’uomo».

A dare il via a questo coraggioso lavoro di Lancisi è l’enciclica Laudato si’ che rimette al centro del dibattito ecclesiale la tutela dell’ambiente, il rispetto del creato, i danni (spesso irreparabili) che ricadono su popolazioni inermi e incolpevoli.

E poi c’è la pandemia. Anch’essa è stata, per l’autore di Preti verdi un elemento nodale. «A noi interessa un’ipotesi di lavoro, che affiora anche in questo viaggio: forse c’è un nesso causa-effetto tra inquinamento della terra e coronavirus. Forse. Non è questa la sede per discuterne. Preme sottolineare che la dicotomia “salute e lavoro” che caratterizza il libro ha attraversato anche l’anno del Covid-19. Viene prima la borsa o la vita?».


L’Africa riscoperta

Cambiamo genere. Passiamo alle inchieste giornalistiche di un grande reporter che, purtroppo, il 28 marzo del 2020 ci ha lasciato: Raffaele Masto.

Raffaele è stato uno dei più attenti cronisti di «cose africane».

Come responsabile esteri della storica emittente milanese Radio Popolare, per oltre 20 anni, ha percorso l’Africa da Nord a Sud, e ne ha raccontato la vita, la sofferenza, le speranze puntualmente tradite. Ha scritto una dozzina di libri sul continente, alcuni tradotti in mezzo mondo.

I racconti di Raffa, come lo chiamavano gli amici, aveva un particolare marchio di fabbrica: non esprimevano amore per i potenti. La sua Africa era sempre letta attraverso gli occhi di un profugo che ha perso tutto, di una donna che prende l’acqua al pozzo, di un bambino che ha perso le gambe scambiando una mina per un giocattolo, di un autista di taxi, di un contadino in attesa della pioggia che non arriva mai.

A 12 mesi dalla scomparsa di Masto, i colleghi e gli amici di una vita hanno pubblicato, a firma di Raffaele, L’Africa riscoperta. Memorie di un reporter, una raccolta di alcuni dei suoi reportage più belli arricchita con una serie di post tratti dal suo blog «Buongiorno Africa!».

Quello che offre questo «libro di libri» è un diario di viaggio potentissimo. Chi ha letto qualcosa di Ryszard Kapuściński, tra queste pagine si sentirà a casa.

Raffaele Masto è stato un giornalista di razza, che lasciava la scrivania e andava a lavorare sul campo. Soprattutto girava al largo dai luoghi comuni.

Pochi mezzi, pochi soldi, ma idee chiare e un obiettivo ben definito: vedere con i propri occhi, se possibile, cercare di capire, e poi raccontare.

Esiste un sito dedicato a Masto, www.amicidiraffa.it. È nata anche un’associazione, è stato istituito un premio che porta il suo nome, e creato un centro di
documentazione. Il lavoro di Raffaele, la sua testimonianza, non devono andare perduti.

Sante Altizio




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Mar, 1 giugno 2021 – IX del Tempo ordinario

Tb 2,9-14; Sal 111; Mc 12,13-17

Saldo è il cuore del giusto che confida nel Signore

Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano

GIUGNO – Nostra Signora della Consolata, è “nostra” in modo speciale. Per questo noi siamo “consolatini”. Dobbiamo sentirci orgogliosi che il nostro Istituto si chiami della Consolata.

Il Crocefisso è un’arma potente contro le tentazioni e le insidie del demonio. Ed è anche un’arma efficace per convertire le anime.