Nuova presenza dei Missionari della Consolata in Marocco


Dall’inizio di novembre i Missionari della Consolata hanno cominciato a rendere concreto un progetto da lungo sognato: un presenza in Marocco a servizio dei rifugiati sub sahariani.

Da alcuni anni i missionari della Consolata in Spagna stanno cercando un maggiore coinvolgimento nel lavoro degli immigrati. Soprattutto a Malaga, con la cura pastorale nella chiesa di Cristo Re e con il coinvolgimento sociale nella “Piattaforma di solidarietà con gli immigrati” e in altre forme, hanno iniziato ad aprirsi alla collaborazione con altre forze. Si è tenuto conto della situazione strategica delle città di confine, Ceuta, Melilla, Nador e Tangeri come indicato dalla Conferenza 2018 della Delegazione di Spagna e dal Consiglio Continentale dell’epoca.

La proposta del Vescovo: Oujda

Dopo tre visite da parte di gruppi di missionari della Consolata (missionari e laici insieme), a cui ho partecipato anche io, abbiamo ricevuto la proposta concreta del cardinale Crisbal Lopez, vescovo di Rabat, di assumerci la responsabilità di lavorare con gli immigrati a Oujda (Uchda, in spagnolo), una città marocchina nell’estremo orientale del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria e a circa 60 km a sud del Mediterraneo. Oujda è la capitale della regione orientale vasta circa 1.000 km2, uno dei 12 grandi territori amministrativi marocchini. Si tratta di un punto di passaggio di tante persone provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana, che qui arrivano con l’intenzione di raggiungere l’Europa dopo aver attraversato il deserto ed essere passati attraverso tante tribolazioni. Qui la lingua ufficiale è l’arabo, ma si parla anche il francese insieme al dariya, una variante dell’arabo.

Secondo il vescovo Christopher, da “Chiesa samaritana” che siamo, la parrocchia ha sentito il dovere di accogliere coloro che hanno bussato alla sua porta chiedendo aiuto. E per più di due anni, il parroco Antoine Exelmans, sacerdote francese “fidei donum” e attuale vicario generale della diocesi, ha organizzato questa attività che cerca, seguendo le linee guida di Papa Francesco, di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” gli immigrati.

In questa parrocchia di St. Louis, una chiesa del ventesimo secolo, viene offerto un servizio di accoglienza di emergenza tutto l’anno per i migranti in situazioni vulnerabili. Circa 1000 persone passano da qui ogni anno, ma nel 2020 sono già passate più di 2000 persone. Sono praticamente tutti subsahariani: più dell’80% proviene dalla Guinea Conakry, e altri provenienti da Camerun, Sudan, Madagascar, ecc. Molti di quelli accolti qui sono minorenni.

Il Consiglio della regione d’Europa dei Missionari della Consolata mi ha chiesto di coordinare il processo e la possibile presenza a Oujda. Dopo diversi mesi di corrispondenza con il Vescovo di Rabat, il 3 novembre sono arrivato a Rabat, e dopo alcuni giorni di introduzione alla realtà del Marocco e della chiesa qui con l’aiuto dello stesso vescovo, il 12 novembre ho iniziato questa esperienza a Oujda, a 530 km da Rabat, sede dell’arcidiocesi.

Principi di orientamento per la nostra presenza a Oujda

Fraternità

Anche se ero già stato qui in visita l’anno scorso, mi sono reso conto che l’arrivare fin qui è una bella esperienza impegnativa di vita di fede e di fraternità, che richiede di “conoscere la realtà dall’interno, anche con coraggiose opzioni di presenza…”

È una presenza di fraternità che si vive anche nella sua bellezza di realtà ecumenica ecumenico e fortemente interreligiosa con una convivenza pacifica in Marocco, un paese con più del 98% della popolazione che pratica l’Islam. Il re del Marocco Mohamed VI ha sottolineato a Papa Francesco nella sua visita apostolica in Marocco nel marzo dello scorso anno che “le religioni abramiche esistono per essere aperte e conoscersi, in una coraggiosa competizione per fare del bene l’una con l’altra”.

Legami con Malaga

Dopo la presentazione di cui sopra, è chiaro il rapporto che esiste tra la nostra presenza qui con l’Europa, e in particolare con la Spagna, o più in particolare ancora, con la nostra comunità a Malaga. A causa del nostro coinvolgimento in questo fenomeno a Malaga e del processo che culmina nella nostra installazione qui, considero questa presenza come un “allegato” alla comunità di Malaga, missionari e laici insieme.

Itineranza

È la caratteristica inarrestabile del fenomeno dell’immigrazione. Pertanto, nessuno sa quanto durerà la nostra presenza qui. Questa presenza comporta anche un certo “itineranza mentale”, cioè la flessibilità. Si tratta di una missione dinamica, corrispondente alla natura del fenomeno stesso, suscettibile di cambiamenti dovuti a fattori socio-politici, ecc. Inoltre, è essenziale tessere reti collaborative. Con la nostra comunità di Malaga, e con tutta la nostra regione Europa e BMI e l’intera congregazione. Naturalmente,  è importante anche l’appoggio e la collaborazione con altri organismi ecclesiali ed extra-ecclesiali.

Evangelizzazione e pastorale

Sappiamo che “la Buona Notizia è l’essenza e il contenuto di tutto ciò che siamo e facciamo come missionari” (PMC n. 86.1). Per parafrasare il vescovo emerito di Rabat, monsignor Vincent Landel, si può dire che “i cristiani sono l’unico Vangelo che leggono molti musulmani”. La Conferenza Episcopale della Regione del Nord Africa (CERNA) nella sua lettera pastorale del 2014 riconosce la presenza della Chiesa in queste terre come “servi della speranza” e quindi ci invita all'”apostolato dell’incontro”, come Maria, in questi “incontri dell’umanità”.

La presenza pastorale qui comprende anche l’accompagnamento alla comunità cristiana di circa 50 parrocchiani, la maggior parte dei quali studenti subsahariani, così come funzionari diplomatici, turisti, ecc. Allo stesso modo, per questo compito, aspetto con ansia l’arrivo di almeno altri due confratelli della Consolata.

Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri 2020, Papa Francesco ci invita a “tendere la mano ai poveri” ricordandoci che “tenere gli occhi sui poveri è difficile, ma molto necessario per dare alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione”. Speriamo di avere la cooperazione di tutti, che la saggezza del Signore ci accompagni, e contiamo sempre sull’intercessione della Madonna del Marocco.

Padre Edwin Osaleh
da Oujda, Marocco

(nostra traduzione da Consolata en Marruecos, nueva presencia, su www.consolata.org)




Kenya: Chiamata a ricostruire insieme la nazione


Lettera dei Vescovi del  Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020

“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)

Preambolo

Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.

In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.

Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.

Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.

Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.

Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.

Osservazioni sulla relazione BBI

Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.

Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.

La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:

  1. Riconciliazione e guarigione nazionale;
  2. Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
  3. La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.

Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.

l. Esecutivo ampliato

Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.

È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.

2. Un Parlamento gonfio

L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.

3. IEBC politicizzato

La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.

4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya

La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.

Lettura e discernimento della relazione BBI

Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.

Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato,  evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.

Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.

Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.

Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.

Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.

Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.

Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.

È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.

Dibattito sul Referendum

Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI,  vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e  proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.

Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:

  • Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
  • Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?

Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e  istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.

Ethos nazionale: formazione della Coscienza

Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:

  • Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
  • La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.

La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.

Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.

Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.

Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi  capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.

La nostra cultura come africani, kenioti

La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.

Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.

Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.

Conclusione

Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.

Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.

Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!

Mons Philip Anyolo
presidente della  Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay

Data: giovedì 12 Novembre 2020

(seguono le firme di tutti gli altri vescovi)
[nostra traduzione dall’originale inglese]




Camminiamo la speranza

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Papa Francesco conclude il primo capitolo della nuova enciclica «Fratelli tutti» con un invito: «Camminiamo nella speranza» (Ft 55). È un invito coraggioso e bello in questi tempi duri, sofferti e contraddittori in cui la tentazione è quella di gettare la spugna e prendere quel che si può senza preoccuparsi del futuro e degli altri.

Questa pandemia, con cui volenti o nolenti siamo costretti a fare i conti, se da una parte può essere l’occasione per tirar fuori il meglio di sé (come molti ci stanno dimostrando pagando anche con la vita), dall’altra fa emergere modi di essere e agire perlomeno discutibili e decisamente dannosi per tutti. Alcuni di questi atteggiamenti negativi sono cronici e fanno parte da sempre della nostra stessa fragilità umana. Altri invece sono nuovi, alimentati ad arte dalla concezione idolatrica e materialistica del mondo che oggi sembra dominare quasi ovunque.

La nuova enciclica elenca un numero impressionante di situazioni negative («Le ombre di un mondo chiuso») che abbracciano sia la dimensione personale che sociale. Partendo dai sogni andati in frantumi e dalla mancanza di progettualità, evidenzia tutte le «ombre» analizzando la «logica dello scarto» (che esclude bambini e anziani, alimenta il razzismo e specula sul costo del lavoro) ai «diritti umani non uguali per tutti» (la dignità  calpestata dei poveri e delle donne, la schiavitù e il traffico di persone), i «conflitti e paure» e la «globalizzazione del progresso fine a se stesso»; le «pandemie e flagelli» della storia e le «frontiere discriminanti», «l’illusione di una vera comunicazione» e le «sottomissioni culturali ed economiche», arrivando a sottolineare il «disprezzo e disistima dei poveri e dei marginali della storia e dell’economia».

È una lista di «ombre» dettagliata che non vi presento nella sua completezza perché riempirebbe da sola tutta questa pagina, ma che vale la pena di affrontare per svegliarci dal torpore e riconquistare la libertà di essere autenticamente uomini. Benché papa Francesco presenti un quadro duro e impietoso, non cede al pessimismo o alla rassegnazione, e reagisce invitando a camminare insieme nella speranza. Perché «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale […] per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».

Parole che mi hanno aperto il cuore, perché la speranza è l’anima della missione e ogni missionario (ogni discepolo) è un «camminatore di speranza».

 

E  la speranza non delude. È bello vedere in questi giorni persone audaci che continuano a non arrendersi alle «ombre», ma vivono fino in fondo la loro umanità, anche pagando di persona. Il nostro presidente Mattarella ha riconosciuto la bella testimonianza di Willy e don Roberto, ma accanto a loro ci sono le migliaia di infermieri e medici, insegnanti e volontari, sacerdoti e religiosi che si sono dedicati a servire gli altri e continuano a farlo con generosa dedizione anche a costo della propria vita. La loro testimonianza ci incoraggia ad andare avanti, anche se a piccoli passi. Noi oggi vinciamo «le ombre» non con azioni dirompenti, ma con la forza di innumerevoli piccole candele che brillano nel buio. Piccole candele di amore che ci permettono di guardare in faccia al nostro vicino («prossimo») per quello che è, chiamandolo per nome, creando relazione, scoprendolo come sorella o fratello, persona umana al di là degli stereotipi e degli slogan.

Camminare (nel)la speranza è scegliere e difendere la vita, soprattutto dei più indifesi e fragili come i bimbi non ancora nati e indesiderati e gli anziani. È accogliere ogni persona come persona, senza discriminazioni ed etichette (di «razza», di genere, di provenienza, di condizione sociale). È «gentilezza» e attenzione all’altro, passando dall’io al noi, senza mettere il «mio» diritto al primo posto sempre e a ogni costo. È fermarsi e staccare la spina dalla frenesia delle cose da fare e avere per essere all’altezza delle aspettative del mondo. È reagire all’informazione martellante, veloce, ossessiva, che gioca con i tuoi sentimenti e le tue paure invece di farti usare la testa.

È dare tempo al silenzio e alla preghiera, all’ascolto della Parola di Dio, contro il rumore che ci assorda. È andare a messa la domenica come atto di amore agli altri e dichiarazione di libertà contro la dipendenza dai riti idolatrici del divertimento e consumismo che svuotano le tasche ma non riempiono il cuore. Forti della speranza che non delude, camminiamo insieme per costruire un mondo secondo il sogno di Dio.

 




Noi e voi, lettori e missionari in dialogo

L’indimenticabile padre Silvano

Domani (23/09) ricorrono sei anni dalla morte di padre Silvano Sabatini (nella foto, ndr.)!

A padre Silvano io devo molto: la sua amicizia, la sua visione d’insieme, la ricerca della verità, l’amore per l’alterità, per la missione, per le popolazioni indigene, per la sua famiglia missionaria, tutte cose che mi hanno aiutato a crescere e a trovare un equilibrio.

Una volta gli dissi che, andandolo a trovare all’ospedale di Venaria, in verità, non andavo a trovare lui, ma me stesso! Infatti, quando uscivo da lì, la «nebbia», che a volte si addensa nelle nostre menti, nei nostri cuori, si diradava e sentivo che quelle visite frequenti mi facevano bene. Silvano comunicava interesse, vita, dinamicità anche in un reparto di lungodegenza per anziani!

A Silvano devo il fatto che leggo la mia vita in modo «unitario»: giovane ragazzo ero entrato nei missionari della Consolata per diventare prete. Sono stato in Brasile e ho avuto la fortuna di vivere un anno a Roraima. Poi mi sono sposato, ho avuto una figlia. Il mio matrimonio è entrato in crisi, anni dopo ho incontrato in J. la mia «dolce metà» (così la chiamava Silvano!) … ebbene potrei leggere la mia vita, come tanti fanno, come «cassetti separati», e invece no, Silvano mi ha aiutato a scorgere negli avvenimenti della vita un «filo conduttore», a cominciare da quell’amore per la missione che mi accompagna sin da piccolo e non mi ha mai lasciato.

Padre Silvano, intercedi presso Dio per il Brasile, per le popolazioni indigene, per i tuoi confratelli perché oggi il momento storico è «terribile».

Paolo Guglielminetti
Torino, 22/09/2020

Eccoci! Ora spetta a noi…

[…] Noi riviste, siti e realtà editoriali impegnate nell’informazione e nell’animazione missionaria ci sentiamo interpellati dalle parole che Papa Francesco scrive nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2020. «Eccomi, manda me» è un invito che sentiamo rivolto in maniera particolare al nostro compito di comunicatori in questo momento in cui tanti fratelli e sorelle sono alla ricerca di una parola vera di speranza per alleviare tante paure e chiusure rese ancor più evidenti dalla pandemia.

«Eccoci, manda noi». A raccontare che davvero «siamo tutti sulla stessa barca». Il Papa lo ripete oggi a noi, riproponendo le parole da lui pronunciate la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta. Perché l’esperienza del Coronavirus ha reso evidente quanto una malattia possa renderci ugualmente fragili, da una parte all’altra del mondo. Ora spetta a noi il compito di far vedere che anche in questa grande tragedia che ha già portato via più di un milione di vite sono sempre i poveri a pagare il prezzo più alto. Come tocca a noi mostrare che anche per tanti altri mali che affliggono il mondo di oggi è così. Che anche le guerre alimentate dai profitti dell’industria delle armi, la povertà prodotta da uno sfruttamento iniquo delle risorse e del lavoro di fratelli e sorelle, il dramma della fame già da alcuni anni tornata a crescere in troppe aree del mondo, la distruzione del creato che, in nome del profitto di pochi, spoglia la vita di intere comunità, sono virus davanti ai quali nessuno può sentirsi davvero immune.

«Eccoci, manda noi». […] E allora tocca a noi mantenere aperto lo sguardo sulle strade nuove che lo Spirito continua ad aprire nelle periferie. Narrare la fede testimoniata a prezzo della vita sulle frontiere più sofferte, la speranza seminata sui banchi delle scuole di ogni latitudine, la carità che trasfigura ciò che agli occhi del mondo sembrava piccolo e inutile. Tocca a noi far sì che la testimonianza che ci arriva dalle Chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina scuota ancora le nostre comunità uscite quanto mai spaesate da un’esperienza che ci costringe a mettere da parte la comodità rassicurante del «si è sempre fatto così».

[…] Tocca a noi far scoprire che in missione, persone di culture e religioni diverse si incontrano per riconoscersi insieme figli e figlie dell’unico Dio. […] E che guardare negli occhi ogni persona è sempre il primo passo per costruire percorsi di riconciliazione anche là dove le ferite lasciate dai conflitti sono più profonde. […]

Dal messaggio dei Media missionari italiani (FeSMI)
 del 1° ottobre 2020

[testo integrale sul nostro sito e su quelli delle riviste associate alla Fesmi]

 




Gli Usa e il Mondo

testo di Piergiorgio Pescali |


Nella storia degli Stati Uniti, le guerre – a volte esplicite, ma più spesso non dichiarate – sono una costante. Una lettura attenta della politica estera di Washington, al di fuori del modello interpretativo repubblicani-democratici, porta però delle sorprese. In attesa della rielezione di Donald Trump o della vittoria del democratico Joe Biden.

Il 3 novembre gli Stati Uniti andranno a votare per il loro quarantaseiesimo presidente. Dopo un primo periodo in cui si sono succeduti candidati di diversi movimenti politici (federalisti, unionisti, whigs, democratici-repubblicani), dal 1869 ad oggi tutti gli inquilini della Casa Bianca sono stati rappresentanti di soli due partiti: quello repubblicano e quello democratico.

Secondo un’opinione diffusa e consolidata, in particolare in Europa, gli schieramenti ideologici dell’elettorato statunitense sono ben definiti: da una parte i progressisti, che trovano espressione nel partito democratico, e dall’altra i conservatori, raggruppati prevalentemente in quello repubblicano.

In realtà, la distinzione non è così netta. In particolare, con riferimento alla politica estera, i programmi delle amministrazioni democratiche e repubblicane trovano spesso ribaltamenti inaspettati che rispecchiano un Dna storico che vede un partito democratico espansionista e interventista, e un partito repubblicano più moderato.

L’imbarco di truppe statunitensi su un aereo. Foto: Skeeze-Pixabay.

Le radici storiche: nati da un unico tronco

Le radici dei due principali movimenti politici degli attuali Stati Uniti si rifanno a un unico tronco: quel «Partito democratico-repubblicano» (Pd-r) fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison in opposizione al Partito federalista (che si batteva affinché i poteri del governo centrale fossero più forti). Gli stati settentrionali dell’Unione erano dominati dai federalisti; quelli meridionali, gelosi della propria autonomia, rappresentavano le roccaforti dei democratico-repubblicani. In questo quadro, che gli storici chiamano Primo sistema partitico Usa, si fronteggiavano pertanto due grandi schieramenti: i federalisti di Alexander Hamilton, espressione della classe commerciale e aristocratica che guardava con simpatia al modello britannico, e il Partito democratico-repubblicano appoggiato dai contadini e dai pionieri, che ammiccava alla Francia rivoluzionaria. Lo stesso nome «democratico» fu un’aggiunta postuma suggerita da Edmond-Charles Genet, ambasciatore di Parigi negli Usa. In realtà, le convergenze del Pd-r verso la Francia erano dovute più all’astio dei suoi rappresentanti verso il Regno Unito, impegnato nelle guerre napoleoniche, che ad un vero e proprio atteggiamento politico. La contrapposizione Partito federalista (pro Londra) e Partito democratico-repubblicano (pro Parigi) all’interno del Congresso americano portò alla cosiddetta «Guerra del 1812» tra Usa e Regno Unito, appendice oltreoceano delle guerre napoleoniche europee. Oltre a decretare la vittoria statunitense (nel 1815) e la fine del movimento federalista, il conflitto fu il primo passo dell’espansionismo americano ai danni delle popolazioni indiane (appoggiate da Londra che così facendo sperava di mettere in difficoltà gli statunitensi) e del tentativo del presidente Thomas Jefferson di invadere e conquistare il Canada britannico (Upper Canada). Fu sempre a causa di questa guerra che gli Stati Uniti si convinsero che per sopravvivere avevano bisogno di una marina forte e potente. Ed iniziarono a costruirsela.

L’allora presidente John F. Kennedy all’Onu il 25 settembre 1961. Foto: UN Photo – Yutaka Nagata.

Lo schiavismo e la guerra civile

Tra il 1824 e il 1832, il Pd-r si scisse: una fazione, guidata da Andrew Jackson fondò il Partito democratico, mentre l’altra, guidata da John Quincy Adams e Henry Clay, si raccolse attorno al Whig Party riprendendo il nome dalla fazione progressista britannica che, tra il XVII e il XIX secolo, si contrappose ai tories conservatori. Jackson rafforzò il potere presidenziale, estese il suffragio universale ai maschi adulti di origine europea-americana. Tra i due partiti si accese una rivalità basata, ancora una volta, sull’equilibrio decisionale tra poteri periferici e potere federale centrale, e sulle barriere protezioniste. I whigs si opposero anche alla politica di espansione statunitense intrapresa dal presidente del Partito democratico James K. Polk, il primo presidente ad applicare la dottrina Monroe sulla cui formulazione, «L’America agli americani», venne puntellata l’egemonia degli Usa sull’intero continente dall’Alaska alla Terra del Fuoco.

Polk appoggiò l’ulteriore avanzata verso Ovest ai danni dei nativi americani, annesse agli Usa il Territorio dell’Oregon e, al termine di una guerra che imperversò tra il 1846 e il 1848, obbligò il Messico a cedere lo stato del Texas.

Fu la questione schiavista a far nascere il Partito repubblicano: il senatore democratico Stephen A. Douglas redasse il Kansas-Nebraska Act che allargava il diritto di schiavitù ai territori dei due stati che davano il nome alla legge. Il presidente Franklin Pierce, anch’esso democratico e antiabolizionista, appoggiò la nuova legge tracciando così la strada che portò alla Guerra civile americana.

Nuovi schieramenti

L’allora presidente Ronald Reagan all’Onu il 17 giugno 1982. Foto: UN Photo – Yutaka Nagata.

Ad opporsi al Kansas-Nebraska Act furono i whigs e i democratici abolizionisti che formarono il Partito repubblicano. Fortemente progressista, difensore dei diritti civili delle popolazioni afroamericane, unionista, favorevole al rafforzamento del potere federale, il nuovo movimento radunò ben presto attivisti e sostenitori tra gli Stati settentrionali che espressero la loro volontà di emancipazione e di democrazia in Abramo Lincoln, eletto alla presidenza sebbene avesse ottenuto solo il 40% dei voti elettorali.

Dopo la Guerra civile, i repubblicani, presenti in particolare nel Nord più industrializzato, iniziarono ad avere l’appoggio dei grandi gruppi industriali e il partito iniziò a spostarsi verso il conservatorismo e verso le élite delle classi più abbienti. La Casa Bianca restò in mano repubblicana fino al 1913 tranne che, per due mandati, tra il 1885 e il 1889 e tra il 1893 e 1897 (presidenza Cleveland). Fu verso la fine del XIX secolo, con l’emergere di politici come Theodore Roosevelt e di strateghi militari come Alfred T. Mahan, che i repubblicani abbandonarono la loro tradizionale neutralità per imbarcarsi, in stretta compagnia dei democratici, in una politica di supremazia globale.

Dopo «L’America agli americani», Washington iniziò a guardare oltre i propri orizzonti: il trampolino di lancio per l’espansione nel Pacifico e in Asia, iniziato nel 1854 (quando il commodoro Perry obbligò il Giappone ad aprire i suoi porti al commercio con gli Usa), fu completato nel 1898, con l’annessione delle isole Hawaii. Da allora la presenza statunitense in Oriente divenne una costante in ogni amministrazione a prescindere dal colore politico. Fu invece la società civile a contrastare la politica militare: l’occupazione delle Filippine, Guam, Cuna e Porto Rico, avvenuta al termine della guerra ispano-americana del 1898, suscitò un’ondata di indignazione inducendo il senatore repubblicano George S. Boutwell a fondare la Lega anti-imperialista.

Dalle bombe nucleari alle Nazioni unite

L’allora presidente Bill Clinton all’Onu nel 1993. Foto: UN Photo – Milton Grant .

A partire dal XX secolo i candidati presidenziali inclusero nei loro programmi capitoli sempre più importanti riguardanti la politica estera e il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero ricoperto nel mondo.

L’interventismo militare dell’amministrazione democratica di Woodrow Wilson (1913-1921) segnò l’inizio della nuova era per gli Usa: prima di entrare nella Prima guerra mondiale contro la Germania, Wilson aveva già spedito le sue truppe ad Haiti, in Messico, nella Repubblica Dominicana, Cuba, Nicaragua e Panama dove nel 1914 era stato inaugurato il canale. Subito dopo, lo stesso Wilson inviò truppe militari in aiuto all’Armata bianca russa nell’intento di contrastare le truppe bolsceviche.

L’influenza degli Stati Uniti divenne sempre più ingombrante e, dopo il secondo conflitto mondiale, complice la Guerra fredda, le varie amministrazioni iniziarono a intraprendere una politica di aperto interventismo militare.

Fu il democratico Harry Truman, dopo aver ordinato il lancio delle due bombe nucleari sul Giappone, a sfruttare per primo il predominio statunitense nelle Nazioni Unite come ombrello politico al fine di muovere le sue pedine sullo scacchiere internazionale.

La guerra di Corea (1950, amministrazione Truman, democratica), l’intervento in Libano (1978, amministrazione Carter, democratica e Reagan, repubblicana), la guerra nel Golfo Persico (1990, amministrazione Bush Sr, repubblicana), quella di Bosnia (1992, amministrazione Clinton, democratica), e i plurimi interventi in Libia (2011, amministrazione Obama, democratica) furono fatti su mandato Onu, ma dietro richiesta della Casa Bianca.

Ancora sotto un’amministrazione democratica (questa volta Kennedy), i militari Usa intervennero a Cuba nel tentativo disastroso della Baia dei Porci, di rovesciare il governo di Fidel Castro. Sempre Kennedy fu il presidente che diede il la per la Seconda guerra d’Indocina inviando i primi contingenti in Vietnam. L’incidente del Golfo del Tonchino (2 agosto 1964) permise al suo successore, il democratico Lyndon Johnson di coinvolgere appieno gli Stati Uniti nella regione asiatica, la cui eredità passò al repubblicano Nixon, a cui spettò il compito di intavolare i negoziati di pace e di compiere il definitivo ritiro dal Sud Est asiatico.

Discorso di Donald Trump dallo studio ovale della Casa Bianca in occasione della 75.ma Assemblea generale dell’Onu, lo scorso 23 settembre. Foto: UN Photo – Eskinder Debebe.

Dialoghi e bombe

A corollario della sua politica internazionale, fu ancora Nixon a ristabilire i rapporti diplomatici con la Repubblica popolare cinese di Mao Zedong. Una peculiarità, quella del dialogo con governi di ispirazione socialista o comunque fortemente biasimati dagli Usa, che rimase una costante nelle amministrazioni repubblicane. Infatti, mentre le direzioni democratiche hanno prevalentemente preferito risolvere i conflitti internazionali con le armi (guerra di Bosnia-Clinton, Libia-Obama, Siria-Obama), quelle repubblicane sono state le più impegnate nel dialogo. Reagan (nel secondo mandato) con Gorbaciov, Trump con la Corea del Nord e, recentemente, con i Talebani, sono le battaglie diplomatiche che hanno avuto più successo.

E se, da una parte, è facile identificare nelle amministrazioni repubblicane di Bush padre (1989-1983) e figlio (2001-2009) quelle che più di tutte si sono impegnate ad aprire nuovi fronti bellici, non altrettanto immediata è la sensazione di quanto identicamente deleteria e dispensatrice di bombe sia stata un’amministrazione generalmente considerata positivamente come quella di Obama (2009-2017).

A essa, nonostante il Nobel per la pace (2009) assegnato alla sua guida, si deve la destabilizzazione dell’intera area mediterranea mediorientale e nordafricana, gli interventi in Somalia e Yemen, l’aumento di truppe in Afghanistan e la chiusura degli spiragli di dialogo con la Corea del Nord.

L’ex presidente Barack Obama con Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca 2020. Foto: Pixabay.

Trump-Biden: diversi, ma non su tutto

In questi primi giorni di novembre gli elettori statunitensi sceglieranno il loro nuovo presidente. Lo sfidante democratico Joe Biden ha già annunciato che, se eletto, sarà disposto anche a ordinare interventi militari contro Iran e Corea del Nord nel caso i leader di questi paesi non ottempereranno alle richieste Usa, aumenterà la presenza di truppe statunitensi nella penisola coreana e prenderà misure contro Pechino se questa non farà pressione su Pyongyang sul disarmo nucleare.

La politica estera Usa rischia di tornare ad essere dominata da due slogan dopotutto molti simili tra loro: «We are America, second to none» (Biden) e «Make America great again» (Trump).

Entrambi, nella loro megalomania, hanno dimenticato che Stati Uniti e America non sono la stessa cosa.

Piergiorgio Pescali




Mali: «Per terminare il lavoro»

Testo di Marco Bello |


Il paese è sprofondato in una crisi socio politica acuta. La società civile e l’opposizione hanno formato un fronte unico contro il regime di Keita. Ecco che i militari ne approfittano e fanno saltare il banco. E il popolo sembra apprezzare. Ma si apre la difficile stagione della transizione.

È la mattina del 18 agosto, a Bamako. Si odono spari provenienti da Kati, poco fuori città, sede della più grande caserma del paese. Un gruppo di militari si impossessa della radio televisione e altri arrestano il presidente Ibrahim Boubakar Keita. Questi sarà costretto ad annunciare le sue dimissioni in diretta Tv.

Keita è stato eletto nel 2013 dopo la transizione seguita a un altro colpo di stato militare, quello ai danni di Amadou Toumani Touré, nel 2012, guidato dal tenente colonnello Amadou Sanogo (cfr. MC giugno 2017). Ha poi instaurato un «sistema» di governo che si è perpetrato con la rielezione del 2018, avvenuta in modo risicato e seguita da contestazioni per brogli.

Ma quest’ultimo golpe, ennesimo nella storia del paese, prende forma in un contesto particolare. È preceduto da mesi di manifestazioni di piazza e dalla nascita di un vero e proprio movimento anti governativo. Si tratta del M5-Rfp (movimento 5 giugno – raggruppamento delle forze patriottiche) e contesta la corruzione e la gestione del potere del gruppo di Ibk (come è chiamato il presidente dalla gente, dalle iniziali del nome).

«È un fronte molto ampio, dove troviamo tutta la classe politica di opposizione ma anche molte organizzazioni della società civile. È sicuramente uno dei movimenti più organizzati che ha avuto il Mali negli ultimi tempi. Il gruppo al potere ha cercato in tutti i modi di dividerlo, con diverse strategie e tentativi di corruzione, ma loro sono rimasti uniti». Chi parla è il quadro maliano di una Ong, profondo conoscitore delle dinamiche nel suo paese. «Una delle particolarità di questo movimento è che ha come mentore l’imam moderato Mahmoud Dicko».

Dicko è un intellettuale, capo religioso, equilibrato, e molto noto e rispettato, anche perché è stato presidente dell’Alto consiglio islamico del Mali per diversi anni. Conosce inoltre la vita politica del paese e i suoi attori. Non ha un ruolo ufficiale nel movimento, in quanto non fa neppure parte del Comitato strategico, ma di fatto ne è leader e riferimento morale. «Anche per questo motivo, tutti i tentativi del regime di sgonfiare il movimento e dividere l’organizzazione sono andati a vuoto».

La corruzione è grande

Ma cerchiamo di capire perché una contestazione così forte. Ancora il nostro uomo: «Il regime di Ibk era arrivato a una fase nella quale non rispondeva più alle attese dei maliani. La corruzione era molto cresciuta, e la situazione della sicurezza peggiorava ogni giorno (a causa degli attacchi jihadisti, ndr)». E continua: «Ibk di fatto non gestiva più il paese, era piuttosto la sua famiglia, ovvero la moglie e i figli, che controllava le leve del potere. Si è scoperto che addirittura imitavano la firma del presidente, che è malato, per documenti sensibili del paese».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le ultime elezioni legislative, tra marzo e aprile 2020, nelle quali il regime ha praticamente imposto alcuni deputati: «Non abbiamo partecipato a un’elezione ma piuttosto alla nomina di deputati. Diversi candidati parlamentari, eletti anche in zone sensibili, sono stati confermati dal ministero dell’Amministrazione territoriale, ma al passaggio alla Corte costituzionale per la validazione finale, sono state trovate delle scuse, per dire che c’erano state delle frodi, e sono stati eliminati. Così la Corte costituzionale ha messo da parte deputati eletti e ha fatto salire deputati favorevoli al regime».

(Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

I militari ne approfittano

In questo clima si inseriscono i militari, per «terminare il lavoro iniziato dalla piazza», dicono. «Dopo tutte queste manifestazioni, che sono durate dei mesi, il regime era a terra. Il Mali non aveva governo, ma neppure l’Assemblea nazionale (il parlamento, ndr) perché era contestata. Tutto questo ha fatto sì che il potere si sia molto indebolito. Molti responsabili hanno cominciato a ritirarsi dai posti chiave. Il mattino del 18 agosto un gruppo di giovani ufficiali si sono radunati nel Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp), hanno preso il potere, e hanno cominciato a negoziare con M5 per mettere in piedi delle nuove istituzioni».

L’esercito approfitta della situazione e forza il cambiamento, come è già avvenuto varie volte nella storia del paese saheliano, che lo scorso 22 settembre ha festeggiato i primi sessanta anni d’indipendenza. Le istituzioni internazionali condannano l’accaduto: la Francia (ex potenza coloniale con ancora molti interessi nel paese, e un contingente di 5mila uomini per la lotta al terrorismo), l’Unione europea, ma soprattutto gli organismi sovranazionali africani, Unione africana e Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao). Quest’ultima impone sanzioni economiche e la chiusura delle frontiere, condizioni che in un paese senza sbocchi sul mare equivale a un lento soffocamento.

I militari vorrebbero instaurare una transizione di tre anni, per arrivare poi a nuove elezioni, ma gli organismi internazionali impongono che sia di 18 mesi e, soprattutto, che sia a guida civile e non militare.

La giunta militare – così viene chiamato il Cnsp -, il cui capo è il colonnello Assimi Goïta, deve però negoziare con l’altra forza presente nel paese, il M5-Frp, che, come detto, ha un largo seguito popolare, e vuole dunque partecipare alla transizione. Questa sarà retta da una «Carta di transizione» che ha ancora molti punti contestati dai vari settori del paese e attori internazionali.

I militari creano un Collegio per la designazione degli organi di transizione. Ne fanno formalmente parte, oltre al Cnsp, i sindacati principali, alcuni rappresentanti della società civile, il M5-Frp e la Cma (Coordinamento dei movimenti dell’Azawad, la parte dei gruppi armati che, nel 2015, ha firmato la pace di Algeri con il governo). «La giunta ha invitato anche la chiesa cattolica a partecipare, ma la conferenza episcopale, di concerto con i protestanti, con i quali collabora molto, ha deciso che non era il suo ruolo parteciparvi», ci spiega l’abbé Timothée Diallo, già responsabile dei media cattolici e oggi parroco di Sainte Monique. «La Chiesa cattolica, con i Protestanti e l’Alto consiglio islamico, hanno partecipato alle Concertazioni nazionali, durante i mesi agitati che hanno preceduto il golpe. Gli obiettivi erano la riconciliazione e l’uscita dalla crisi». Da notare che, dopo il golpe, gli uomini della giunta hanno fatto due visite all’arcivescovo di Bamako, «alla prima ho partecipato anche io – ci confida l’abbé Diallo -, e sono venuti per presentarsi e parlare dei motivi del loro atto».

(Photo by MALIK KONATE / AFP)

Un presidente di transizione

A un giorno dalla scadenza data dalla Cedeao, il 21 settembre, la giunta nomina presidente di transizione Bah N’Daw, e vicepresidente lo stesso Assimi Goïta. L’M5 contesta le modalità della nomina, che di fatto non avviene tramite il Collegio. Secondo il nostro quadro: «Il Cnsp non voleva coinvolgere altri nella scelta di presidente e vicepresidente di transizione. Ha fatto un protocollo che ha condiviso, ma in fondo sapeva già chi designare. Su questi due punti, non voleva discutere con M5 o altri».

Bah N’Daw, 70 anni, è un ufficiale in pensione, che è stato poi ministro della Difesa con Ibk, ma si è dimesso per critiche alla gestione. Ha pure collaborato con Moussa Traoré (il presidente-dittatore, 1968-91, recentemente scomparso il 15 settembre), anche in quel caso si era dimesso. «Nessun politico, nessun partito contesta la sua figura, solo il M5 protesta per non essere stato coinvolto nella scelta – ci dice il giornalista Moussa Balla Coulibaly, contattato telefonicamente -. Il vicepresidente Goïta, anche lui è abbastanza conosciuto, per il suo impegno come militare nella lotta al terrorismo».

Cruciale e delicata sarà la definizione dei poteri tra presidente e vicepresidente nella carta di transizione. Su questo anche la Cedeao è molto attenta.

Il quadro della Ong ci confida: «Penso che il gioco di questi militari sia molto opaco, non riusciamo a leggere qual è il loro intento, spesso danno impressione di volere tenere il potere, altre volte, sotto pressione della Cedeao, accettano di condividerlo. Ma con questa nomina è chiaro che non sono venuti per cedere facilmente il potere alla classe politica.

C’è però un consenso sulla persona che è stata scelta come presidente. La sua onestà e conoscenza delle regole di governance in Mali sono un dato di fatto. Ma resta comunque un militare, anche se in pensione». Un militare travestito da civile, si potrebbe dire, che però non ha trovato ostacoli nella Cedeao, la quale apprezza anche il primo ministro (nominato dal presidente il 28 settembre) Moctar Ouane, un politico con carriera internazionale. I negoziati Cnsp – M5, portano alla creazione del governo il 5 ottobre. I militari ottengono quattro ministeri chiave (Difesa, Sicurezza, Amministrazione territoriale e Riconciliazione). Non ci sono grossi nomi della politica e M5 ottiene tre ministeri (Comunicazione, Impiego e Rifondazione). Agli ex gruppi ribelli ne vanno tre, mentre in tutto le donne sono quattro.

«Personalmente ho molta speranza che la transizione vada a buon fine – ci racconta l’abbé Diallo – questo perché il presidente scelto è un uomo integro, sincero, ho molta fiducia in lui. È un uomo che ha sempre rifiutato la corruzione, per cui è la persona giusta per lottare contro questa piaga che è uno dei principali problemi del governo appena rovesciato».

BAMAKO, MALI – Stringer / Anadolu Agency

Embargo e crisi economica

Le sanzioni, imposte dalla Cedeao, già dopo il primo mese, creano problemi economici: «Sentiamo già, a livello delle entrate del fisco e delle dogane, un deficit a causa dell’embargo. Ma anche nel carrello della spesa delle famiglie, si vedono tanti prodotti che sono aumentati improvvisamente di prezzo, in particolare quelli che arrivano dall’estero. La giunta sta cercando di non trovarsi tra il martello della Cedeao e l’incudine della popolazione, spingendo per ottenere l’annullamento o almeno l’allentamento delle sanzioni, affinché il clima sociale maliano non si degradi ulteriormente con l’acuirsi della crisi economica». Nei giorni della nomina del presidente, si stava realizzando nel paese la visita del mediatore della Cedeao, Goodluck Jonathan, già presidente della Nigeria. Jonathan è rimasto anche durante l’investitura, avvenuta con una breve cerimonia, del presidente di transizione Bah N’Daw. E questo è stato letto come un segnale positivo.

Il 6 ottobre, vista anche la pubblicazione della Carta di transizione che impedisce al vice presidente di prendere il posto del presidente, la Cedeao annuncia la fine dell’embargo.

Altre forze vive della nazione vogliono dire la loro sulla transizione. È il caso della Cma.

«All’inizio, la Cma ha visto con favore l’arrivo della giunta, perché questi gruppi sono frustrati dalla mancata applicazione degli accordi di Algeri del 2015 (cfr. MC giugno 2017), totalmente disattesi e boicottati dal regime di Ibk. Questi non aveva né voglia né i mezzi per applicare gli accordi. La Cma resta tuttavia molto prudente per vedere se la giunta si smarcherà da questo sistema e quale sarà l’avvenire degli accordi del 2015», ci dice il quadro dell’Ong.

In effetti la Cma sta negoziando affinché l’applicazione degli accordi sia inserita nella Carta di transizione. «Sì, perché si sentono discorsi sulla modifica degli accordi di Algeri, che, secondo alcuni, non sarebbero realizzabili. Ma la Cma vuole che gli accordi siano applicati così, come sono stati firmati. Attualmente, non essendoci stata applicazione, la situazione si degrada sul terreno ogni giorno e nessuno vuole prendersi le sue responsabilità».

Ma la gente comune, cosa ne pensa di questo nuovo, brusco, cambiamento di regime? Continua l’intellettuale: «Abbiamo delle speranze, perché pensiamo che non possiamo vivere peggio di quanto abbiamo già vissuto con Ibk e il suo governo. Quindi pensiamo che stiamo rialzandoci, anche se magari ci vorrà del tempo. Occorre fare tornare una certa fiducia, tra governanti e governati, affinché i maliani si parlino tra loro, e si costruisca la nazione, perché le prospettive erano davvero catastrofiche».

Secondo un’analisi del giornalista Balla sui social media «circa l’80% delle persone attive posta testi e video in cui si chiede che la si faccia finita con la corruzione, si sostiene la giunta e il regime di transizione che deve ancora venire, per un’uscita dalla crisi e un vero cambiamento».

Transition Mali President Bah Ndaw  (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

Gli jihadisti non si fermano

Il Mali dal 2013 è teatro di una guerra tra gruppi radicali islamisti (cfr. MC giugno 17) e Forze armate maliane (Fama), appoggiate dal contingente francese dell’operazione Brarkhane (circa 5mila uomini), dalla Missione delle Nazioni unite (Minusma, circa 10mila la missione che ha inflitto più perdite ai caschi blu nella storia), da contingenti europei, tra cui tedeschi e italiani (nella task force Takuba, creata nel luglio di quest’anno) e dalla forza G5-Sahel.

Il capo della giunta Assimi Goïta, nel discorso del sessantesimo dell’indipendenza, ha fatto appello all’«unione sacra» dei maliani nella lotta al terrorismo, chiedendo alla popolazione di sostenere le Fama, ma anche i partner stranieri. Si erano infatti verificate manifestazioni di contestazione antifrancese e anti straniera nei giorni precedenti.

Chiediamo ai nostri interlocutori cosa può succedere con il cambio di regime.

«Non penso che il cambiamento avrà un impatto su questi gruppi, perché le loro rivendicazioni sono chiare e non cambiano in funzione del regime: vogliono l’instaurazione della legge islamica. Quello che speriamo oggi è che, con l’arrivo della giunta al potere, l’esercito maliano sia meglio organizzato e abbia più mezzi, per combattere i gruppi terroristi. Perché avevamo l’impressione che i nostri militari non avessero abbastanza mezzi e i responsabili non avessero le mani libere per fare tutto il possibile nella lotta anti terrorista», ci dice il quadro.

Ancora, secondo Balla: «Da quando è caduto Ibk, abbiamo visto una maggiore copertura aerea dei nostri militari sul terreno, che ha portato a una maggior efficacia dell’esercito nella lotta al terrorismo».

Bisogna dire che il Mali resta un paese di fatto tagliato in due. Il grande Nord, due terzi del territorio, poco abitato perché diventa Sahara, è quasi un paese a parte. Il nostro interlocutore viaggia spesso a Gao: «Nel Nord il cambiamento di regime lo sentiamo alla televisione e alla radio, ma non ha nessun impatto sulla vita. Sarà anche perché l’apporto dello stato non è sentito dalla popolazione, che sia positivo o negativo. Così anche se il regime cambia, non lo sentiremo molto a Gao, perché lo stato è qualcosa di molto lontano e non ne beneficiamo direttamente».

Marco Bello

Musulmani in preghiera a Bamako (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)




Tra persecuzioni e rinascite

testo di Giorgio Bernardelli |


Dall’Henan nel 1870 a Canton oggi. La missione che più di ogni altra ha segnato la storia del Pime (Pontificio istituto missioni estere) compie 150 anni. Dalla Cina colonia di allora alla Cina colonialista di oggi, seminare il Vangelo è sempre una sfida tra difficoltà e persecuzioni.

Mai come durante questo 2020 la Cina è stata al centro dell’attenzione del mondo: dalle notizie legate al Covid-19 fino allo scontro tutto digitale su 5G e Tik Tok, la geopolitica ha passato ai raggi X ogni mossa di Pechino. Mentre il duro confronto con i giovani dei movimenti pro democrazia a Hong Kong ha mostrato tutte le contraddizioni del modello cinese.

In Cina da 150 anni

In questi stessi mesi, anche il Pontificio istituto missioni estere si è trovato a guardare alla Cina, ma da un altro punto di vista: nel 2020 cadono, infatti, i 150 anni dall’arrivo dei primi quattro missionari dell’istituto nella Cina continentale.

Dall’Henan – la regione «a Sud del fiume (Giallo)», immenso territorio nell’area interna considerata la culla della civiltà cinese – cominciò, infatti, nel 1870, la missione che più ha segnato la storia del Pime. Un tessuto di uomini, strutture, diocesi create quasi da zero, ma soprattutto di relazioni con le persone che nel giro di qualche decennio diedero vita a quel legame profondissimo tra il Pime e la Cina che nemmeno il Calvario durissimo vissuto dai cristiani in questo grande paese durante tutto il Novecento sarebbe riuscito a interrompere.

Passando per Wuhan

Era stata Propaganda Fide a chiamare nel vicariato apostolico dell’Henan l’allora Seminario lombardo per le missioni estere, il primo nucleo milanese del Pime, fondato da mons. Angelo Ramazzotti nel 1850.

La guida ecclesiale di quel territorio era stata affidata al trentottenne padre Simeone Volonteri, un missionario cresciuto nella Milano dei fermenti risorgimentali e con una prima conoscenza del mondo cinese alle spalle, maturata in dieci anni di missione a Hong Kong, dove il Pime era già arrivato nel 1858.

Con lui, per la nuova missione nella Cina continentale, partirono anche padre Angelo Cattaneo, bergamasco, padre Vito Ruvolo, di origini campane, e il siciliano Gabriele Cicalese.

L’8 febbraio 1870 lasciarono Hong Kong alla volta di Shanghai; da lì, poi, risalito per un primo tratto lo Yangtze – il «fiume Azzurro» -, sbarcarono nell’Hubei, nel porto di Hankow, che è poi la parte più antica di Wuhan, la città che la pandemia di questi mesi ci ha fatto conoscere.

Fino a Jingang

Hankow a quel tempo era l’ultimo porto di approdo per i piroscafi e, per questo motivo, era il grande crocevia per quanti si addentravano nelle province interne della Cina. Da lì, dunque, i missionari italiani impiegarono altri venticinque giorni di navigazione sul fiume Han, un’affluente dello Yangtze, per raggiungere l’Henan. Lo fecero a bordo di due piccole barche trascinate da terra con le funi per risalire controcorrente, mentre loro trascorrevano il proprio tempo sottocoperta studiando il cinese.

Solo il 19 marzo sarebbero infine sbarcati a Lahoekou, da dove raggiunsero Jingang, la cittadina nei pressi di Nanyang dove aveva sede la missione ereditata dai missionari Lazzaristi.

Un’antica comunità

Che cosa trovarono allora i missionari del Pime nell’Henan?

Un territorio immenso, abitato da 30 milioni di persone tra i quali esisteva già una piccolissima comunità di circa tremila cristiani.

Erano stati i gesuiti nel XVII secolo a tornare in questa regione dopo che a Matteo Ricci era stato raccontato che, per secoli, a Kaifeng (a circa 300 km da Nanyang, ndr.), sempre nello Henan, erano rimasti degli «adoratori della croce», verosimilmente discendenti dei missionari siriaci giunti già nel VII secolo nel cuore del Celeste Impero (come testimoniato dalla celebre stele di Xi’an).

Nel Settecento, poi, ai Gesuiti erano subentrati i Lazzaristi che, nel difficile contesto cinese dell’epoca – ostile al cristianesimo per reazione ai tentativi di penetrazione coloniale delle potenze europee -, avrebbero pianto nell’Henan due martiri: Francesco Regis Clet nel 1820 e Giovanni Gabriele Perboyre nel 1840.

Nel 1860 la Francia, con la Convenzione di Pechino, aveva ottenuto dall’ormai debole dinastia Qing la libertà per la Chiesa di predicare e battezzare in tutto l’impero. Ma nelle province come l’Henan, lontane da Pechino, a dettare legge restavano amministratori e milizie locali il cui atteggiamento nei confronti dei cristiani non era mutato.

Un contesto difficile

I missionari dell’allora Seminario lombardo per le missioni estere sapevano quindi che la missione alla quale erano stati chiamati non sarebbe stata facile.

Vestiti con abiti cinesi, con la testa rasata e il codino secondo l’usanza locale, vivevano una vita poverissima: «Tre orride pareti di terra e paglia insieme impastate e una quarta di pura carta formata da me stesso, costituiscono la mia, per altro, cara stanza – scriveva da Jingang padre Angelo Cattaneo -. Eppure, sono arcicontentissimo, né cangerei per tutto l’oro del mondo».

Un altro dei primi missionari, padre Vito Ruvolo, sarebbe morto di tubercolosi a soli 28 anni a pochi mesi dal suo arrivo.

Da stranieri si trovavano inoltre a fare i conti con l’ostilità aperta dei letterati confuciani, incattiviti dalle mire coloniali delle potenze europee: padre Volonteri stesso, nel 1873, dovette affrontare una pubblica umiliazione quando, recatosi a Kaifeng per discutere con le autorità di una casa acquistata dai Lazzaristi a Nanyang, ma mai utilizzata a causa dell’avversione dei funzionari locali – si ritrovò in mezzo agli insulti di una folla minacciosa, sobillata dalle stesse autorità.

Carità e saggezza

In un contesto così difficile, fu il cuore generoso dei missionari a scardinare i pregiudizi.

Accadde in particolare durante una terribile carestia scoppiata nel 1877: le ancora povere strutture delle missioni diventarono rifugio e soccorso per tutti, grazie anche a una sottoscrizione promossa in Italia. Fu questo a cambiare radicalmente l’atteggiamento dei mandarini locali, oltre alla saggezza di Volonteri – dal 1873 ufficialmente vescovo della regione – che ebbe sempre molta cura nel tenere le giuste distanze dall’abbraccio ingombrante e pericoloso delle potenze coloniali. Per esempio, fu tra i primi vescovi cattolici in Cina ad alzare la voce contro la piaga del commercio dell’oppio, alimentato dagli interessi europei. Il missionario arrivò persino a scrivere a Propaganda Fide chiedendo un pronunciamento chiaro di condanna da parte della Santa Sede; una presa di posizione che sarebbe però arrivata solo dopo qualche anno.

Nello Shaanxi

Parallela a questa prima presenza nell’Henan, se ne aggiunse poi presto un’altra nel vicino Shaanxi. Una missione legata, questa volta, al Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere, l’istituto romano fondato da mons. Pietro Avanzini che, nel 1926, Pio XI avrebbe unito al Seminario lombardo, dando vita al Pontificio istituto missioni estere.

Questo secondo gruppo di missionari giunse nel vicariato di Hanzhong nel 1887, sempre con il compito di far crescere una Chiesa dal volto cinese.

I primi martiri

Nello Shaanxi sarebbe però cominciata per il Pime anche l’esperienza del martirio in Cina. Capitò nel contesto della rivolta dei Boxer che nel 1900 scatenò in tutto il paese un’ondata gravissima di violenze contro i cristiani. Nel vicariato di Hanzhong fu colpito a morte padre Alberico Crescitelli, missionario campano originario di Altavilla Irpina, giunto in Cina dodici anni prima, e che sarebbe figurato tra i 120 martiri cinesi canonizzati da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2000. Una morte violenta che non fermò la dedizione del Pime al popolo cinese. Al contrario: le chiese, le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali realizzati a servizio della gente, continuarono a crescere, accompagnati dall’attenzione alla formazione di sacerdoti e catechisti locali capaci di incarnare il Vangelo dentro la propria cultura, e anche da uno sguardo attento alla bellezza della cultura e delle tradizioni cinesi, come testimoniano – ad esempio – le splendide fotografie di padre Leone Nani, che ha lasciato con le sue lastre uno spaccato straordinario della Cina rurale dell’inizio Novecento.

Uccisi ed espulsi

Accanto a Crescitelli anche altri missionari del Pime in Cina sarebbero stati chiamati a donare la propria vita per il Vangelo: padre Cesare Mencattini nel 1941 nell’Henan, e poi mons. Antonio Barosi, vescovo di Kaifeng, nel 1942, ucciso insieme ai padri Girolamo Lazzaroni, Mario Zanardi e Bruno Zanella, straziati e gettati ancora vivi in un pozzo. E padre Emilio Teruzzi, sempre in quello stesso 1942, anno drammatico per la presenza del Pime in Cina.

Tutti e sei questi missionari caddero vittime di quella miscela esplosiva creata dall’intreccio tra la guerra civile combattuta tra nazionalisti e comunisti, l’invasione giapponese, e le scorribande di milizie sbandate che semplicemente approfittavano della situazione.

Uccisi prima della prova che sarebbe poi arrivata con la vittoria di Mao e della Cina comunista.

All’inizio degli anni Cinquanta, infatti, per tutti i missionari del Pime in Cina, arrivò il tempo più difficile: la persecuzione, i processi popolari, le violenze fisiche e psicologiche in carcere. Fino alle espulsioni a frotte tra il 1951 e il 1954.

Erano quelli gli anni in cui padre Ambrogio Poletti, missionario del Pime nella zona della diocesi di Hong Kong più vicina al confine tra l’ex colonia britannica e la Cina continentale, si recava quasi quotidianamente al ponte di Lo Wu ad accogliere i missionari di ogni congregazione e nazionalità scacciati dai comunisti. «Ne ho accolti più di tremila», avrebbe scritto nelle sue memorie ricordando quell’esodo.

I frutti che rimangono

Con il 1954 si chiuse dunque la presenza fisica del Pime nella Cina continentale. Ma che cosa sarebbe rimasto di quanto seminato dai 263 missionari dell’istituto che avevano svolto il loro ministero nelle province dell’Henan e dello Shaanxi nei 74 anni trascorsi dall’arrivo di padre Volonteri e dei suoi compagni?

Nonostante il tentativo del regime comunista di cancellare le tracce degli «stranieri», e la persecuzione ancora di più dura patita dai cristiani negli anni della Rivoluzione Culturale, i frutti della loro testimonianza non svanirono.

I primi ad accorgersene sono stati i confratelli che, a partire dagli anni Ottanta, quando da Pechino sono cominciate a giungere le prime aperture per le comunità cristiane, sono potuti tornare a visitare l’Henan e lo Shaanxi.

Figure come padre Giancarlo Politi (scomparso lo scorso anno) e padre Angelo Lazzarotto, con i loro viaggi, hanno potuto toccare con mano quanto, nonostante la tempesta immane abbattutasi su queste Chiese, la memoria dei missionari fosse rimasta viva.

Con emozione, per esempio, il Pime ha potuto apprendere che nella cittadina di Zhoukou – dove in un pozzo secco erano state nascoste le spoglie dei quattro missionari dell’istituto uccisi insieme nel 1942 -, i cristiani locali avevano costruito una nuova chiesa proprio in corrispondenza di quel luogo di cui non si era persa la memoria. Esattamente come nella Roma degli inizi del cristianesimo si costruivano altari sulle reliquie dei primi martiri.

Uscire dalle catacombe

La missione del Pime in Cina negli anni più recenti è stata quella di accompagnare nelle poche modalità concretamente possibili la vita delle comunità che, un passo alla volta, provavano a uscire dalle catacombe. Ad esempio attraverso il racconto delle storie dei tanti sacerdoti, religiosi e laici cinesi che avevano subito ogni sorta di persecuzione nel furore ideologico della Rivoluzione Culturale, ma anche aiutando la Santa Sede a ricostruire la fotografia di ciò che restava delle diocesi cinesi; premessa indispensabile per quel cammino di unità tra i cattolici in Cina che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno auspicato e che l’accordo voluto da Francesco con il governo di Pechino sulla nomina dei vescovi, pur con tutte le sue difficoltà, sta faticosamente cercando di promuovere.

Le suore di San Giuseppe

Anche dentro la cosiddetta «Chiesa ufficiale» – pienamente riconosciuta da Pechino – ci sono segni che parlano dell’eredità lasciata dai missionari del Pime.

Ne è un esempio la congregazione delle Suore Missionarie di San Giuseppe, un istituto femminile fondato nell’Henan da un missionario del Pime – padre Isaia Bellavite -, che quest’anno ha festeggiato il suo centenario.

Queste religiose, in origine, erano un gruppo di donne che nella zona di Anyang nel 1920 si erano prodigate per il servizio a chi aveva perso tutto durante un’alluvione devastante del fiume Giallo. In quel frangente, padre Bellavite intuì quanto preziosa sarebbe potuta essere per l’evangelizzazione una congregazione di suore cinesi: un ordine religioso locale, in grado di arrivare anche là dove il missionario straniero non avrebbe mai potuto accedere. Quando arrivarono gli anni della repressione comunista con l’espulsione dei missionari, le suore furono disperse, e ciascuna tornò alla propria famiglia; ma alcune di esse, in maniera nascosta, sono rimaste fedeli per decenni alla propria vocazione, e quando è stato possibile, hanno ridato vita alla loro comunità.

A quel punto la sorpresa dello Spirito è stata vedere anche giovani ragazze cinesi unirsi a loro.

Così oggi le Suore Missionarie di San Giuseppe sono una congregazione locale della diocesi di Anyang, un ordine che conta 127 religiose, impegnate nella pastorale ma anche nel servizio agli ammalati in una piccola clinica oftalmica che avevano aperto già negli anni Trenta e che è stata loro restituita dalle autorità locali.

Nel segno della carità

Nel segno della carità si inserisce anche un altro legame tra il Pime e la Cina continentale cresciuto negli ultimi anni: l’amicizia con Huiling, un’ong al servizio dei disabili, fondata e animata da una donna cattolica cinese, Teresa Meng Weina, e oggi indicata come un modello dalle stesse autorità cinesi.

In oltre trent’anni, Huling ha infatti aperto più di cento centri in tredici metropoli cinesi, con trecento operatori che assistono oltre mille disabili. Un cammino che i missionari del Pime da Hong Kong hanno costantemente sostenuto, in alcuni casi anche tornando per lunghi periodi in Cina a condividerne l’esperienza.  Da questa collaborazione sono nati anche progetti particolarmente significativi per la promozione della cultura della disabilità: una fattoria dove i portatori di handicap di Huiling lavorano alla periferia di Guangzhou (la città che in Occidente chiamiamo Canton), o una compagnia teatrale che porta in tutta la Cina il messaggio di questa realtà.

Per questo motivo, proprio al cammino di Huiling il Pime ha voluto che fosse legato il ricordo dei suoi 150 anni in Cina, attraverso una raccolta fondi intitolata «AvviCINAbili senza barriere» promossa in Italia. Un modo concreto per andare oltre la retorica sulla Cina come grande potenza, e per ripartire invece dal volto di chi è fragile, il più adatto a gettare ponti anche nei contesti più difficili.

Per tornare a incontrare – anche in un contesto così segnato da paure e contrapposizioni – un’altra Cina, più vicina al tesoro straordinario scoperto nel 1870 dai primi missionari nell’Henan, e provare a scrivere insieme alle comunità cristiane locali una nuova pagina di speranza per il mondo intero.

Giorgio Bernardelli




Messico: Un Progetto per la vita


testo e foto di Ramón Lázaro Esnaola |


Nello stato di Jalisco, nel centro del paese, l’associazione Mati e i missionari della Consolata  hanno ideato un progetto di accompagnamento psicologico, famigliare e giovanile.


Il progetto è sostenuto dagli AMICI MISSIONI CONSOLATA.
Il supporto di altri amici è benvenuto.


I missionari della Consolata sono arrivati in Messico nel dicembre 2008, e vi hanno creato due comunità: una a Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, nel Sud del paese, e l’altra a San Antonio Juanacaxtle, nello stato di Jalisco, nel centro Ovest.

Il Messico è un paese pieno di contrasti. Le persone sono amichevoli, accoglienti e generose. Orgogliose della loro identità culturale. Tuttavia, la realtà strutturale del paese è molto violenta, con più di ottanta omicidi al giorno. A ciò si aggiunge la situazione dei migranti centroamericani che l’attraversano per raggiungere gli Stati Uniti, e degli stessi migranti messicani che vivono quotidianamente tragedie al confine con il loro vicino del Nord (cfr. MC luglio 2019). Il machismo e l’alcol sono abitudini che aggravano ulteriormente la convivenza familiare e sociale.

San Antonio Juanacaxtle è un quartiere (qui si chiama rancho) situato a circa 25 km da Guadalajara, la capitale dello stato di Jalisco.  Secondo  il  censimento  del  2010,  attualmente  conta  poco  più  di  1.300  abitanti.  La maggior parte della popolazione è dedita all’allevamento del bestiame, e pratica l’apicoltura. Altri si occupano di agricoltura, soprattutto di mais e sorgo. Ci sono poi anche molti artigiani, ma sono persone che vivono di lavori occasionali, mentre solo un numero molto limitato ottiene un contratto.

Molte famiglie hanno parenti negli Stati Uniti che grazie alle rimesse danno un importante contributo anche per l’economia locale.

I missionari della Consolata lavorano anche nella colonia Atlas a Guadalajara, dove hanno una piccola sede per l’accompagnamento psicologico e spirituale. Due missionari di questa comunità, infatti, sono psicologi di formazione.

Le altre zone d’intervento sono Villas Andalucia, El Faro, La Esperanza e La Aurora. Le prime due sono agglomerati di edilizia popolare, creati appena sette o otto anni fa, molto popolati, con più di diecimila famiglie in totale. Le altre sono centri abitativi più vecchi e meno popolati. Siamo presenti qui per l’accompagnamento pastorale, familiare e giovanile a cui si dedica la comunità Imc, che a San Antonio Juanacaxtle non ha la responsabilità di una parrocchia, con la collaborazione dell’associazione Mati.

L’associazione della società civile Mati è nata dalla preoccupazione di alcuni professionisti, di diverse discipline, che hanno osservato nelle famiglie diverse situazioni di vulnerabilità, come la violenza di genere e domestica, la perdita di una persona cara, il cambiamento o la perdita del lavoro, il divorzio, la perdita di senso della vita e dei valori, la mancanza di identità personale, familiare e lavorativa, e altri ancora.

Queste situazioni riflettono problemi psicologici, sociali ed economici, nonché carenze affettive che limitano l’azione di queste famiglie le quali non hanno la possibilità di lavorare in profondità su questi problemi.

Mati fornisce consulenza e formazione, lavora per rafforzare l’identità delle persone e dare un significato nuovo alle storie di vita, alla ricerca di un benessere integrale, sostenere la resilienza e soprattutto curare, proteggere e sostenere le donne vittime di violenza.

L’associazione mette a disposizione di chi frequenta i suoi corsi di formazione, uno spazio in cui vengono forniti gli strumenti per il proprio sviluppo individuale. Offre un processo di apprendimento graduale in diversi ambiti del sapere, per una continua riflessione e crescita, con l’obiettivo dell’autorealizzazione personale e professionale.

Il progetto si propone, nel corso di un anno, di generare la consapevolezza della cura e della responsabilità verso le donne, la famiglia e la società.

Promuove, come prioritarie, le quattro dimensioni dell’essere umano  (psicologica, sociale, biologica e spirituale), in modo che ogni persona stabilisca o rafforzi il proprio progetto di vita come fondamento della propria stabilità emotiva e fisica e quindi della propria trasformazione sociale. Il progetto ha l’obiettivo di lavorare con cinquecento famiglie. Considerando che ogni nucleo familiare è generalmente composto tra le cinque e le sette persone, si vogliono raggiungere, in media 3mila individui.

I missionari della Consolata si occuperanno dell’identificazione delle famglie più vulnerabili, mentre l’associazione Mati realizzerà i corsi.

Questo progetto vuole fornire ai singoli e alle famiglie strumenti per una maggiore conoscenza di sé, per poter gestire i propri conflitti e i propri lutti e per cercare soluzioni a situazioni di violenza di genere e di violenza domestica.

La speranza è che le persone e le famiglie non solo sapranno ricostruire la propria vita, ma diventeranno anche un solido e supporto per altre famiglie che vivono esperienze di disagio simili a quelle che hanno vissuto loro.

Ramón Lázaro Esnaola

Gli Amici Missioni Consolata

sono impegnati a sostenere questo progetto con un contributo di 15mila euro anche se quest’anno – per la prima volta in oltre 30 anni – non è possibile fare la tradizionale «Mostra di solidarietà dell’Immacolata».
Chi volesse sostenere il progetto «Promuovi la vita difendi la donna», può dare il suo contributo con un versamento tramite Missioni Consolata Onlus. Grazie. Muchas gracias!






Le perdite allo stato, i profitti ai privati

Testo di Francesco Gesualdi |


Nelle privatizzazioni, la lotta è tra statalisti e liberisti. Nella realtà, il ragionamento dei liberisti è più opportunista: «no» all’intervento dello stato quando le cose vanno bene, «sì» quando le cose vanno male. La vicenda Autostrade-Benetton.

La vicenda del Ponte Morandi ha riacceso i riflettori sulle privatizzazioni, anche se alla fine tutto si è trasformato in un processo alla famiglia Benetton, piuttosto che in una riflessione sul principio in sé delle privatizzazioni. Privatizzare, la parola stessa lo dice, significa «rendere privato ciò che è pubblico». Un concetto di per sé semplice, ma complicato dal fatto che le modalità di passaggio ai privati sono molteplici e che la stessa privatizzazione si presta a molteplici interpretazioni. Volendo schematizzare, il termine può riferirsi a tre diversi scenari: la privatizzazione totale, la privatizzazione parziale, la privatizzazione ombra, di cui, però, parleremo meglio nella prossima puntata.

Liberisti e interventisti

La privatizzazione totale si ha quando lo stato vende definitivamente una sua proprietà o una sua attività a un soggetto privato totalmente indipendente. Se lo stato debba gestire o meno servizi e attività produttive ha sempre rappresentato un tema di grande contesa che ha diviso economisti e forze politiche in schieramenti contrapposti: di qua i liberisti, che vogliono limitare la presenza dello stato ai soli ambiti che tutti hanno interesse a mantenere collettivo (magistratura, polizia, difesa dei confini, anagrafe); di là gli interventisti, che pretendono di estendere la presenza dello stato a tutti quegli ambiti che condizionano la dignità dei cittadini: sanità, istruzione, alloggio, acqua, rifiuti, trasporti e molti altri. Così in teoria. Di fatto i liberisti hanno sempre avuto un atteggiamento oscillante (e opportunista): di assoluta opposizione all’intervento dello stato quando le cose per loro vanno bene, ma di richiesta di protezione in caso di mala parata. Della serie: «privatizziamo i profitti, socializziamo le perdite».

Nascita e morte dell’Iri

Quando nel 1929 le economie di tutto il mondo entrarono in crisi con fallimenti a catena di banche e imprese produttive, tutti invocarono l’intervento dei governi per salvare il salvabile. Richiesta accolta anche da Mussolini che, nel 1933, istituì l’«Istituto per la ricostruzione industriale», in sigla Iri, incaricato di sottrarre al fallimento i principali gruppi bancari e industriali che spaziavano dalla siderurgia alla produzione energetica, dalle costruzioni navali a quelle automobilistiche. Quando lo stato italiano si ritrovò proprietario dei maggiori stabilimenti industriali, pensava di detenerli in maniera transitoria, tanto quanto sarebbe bastato per superare la burrasca. Invece, la situazione si stabilizzò e nel dopoguerra il fondo venne rafforzato attribuendogli l’incarico di pilotare lo sviluppo economico del paese. In particolare, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno e potenziare la viabilità ritenuta fondamentale per la crescita dell’economia italiana. Non a caso, nel 1950, venne costituita la Società autostrade che, partendo dall’autostrada del Sole, costruì l’intelaiatura autostradale italiana. Negli anni Settanta, l’Iri fu chiamato nuovamente a svolgere funzioni di salvataggio di imprese in crisi e si indebitò in maniera pesante. Il che fu poi usato come pretesto per avviare un processo di smantellamento dell’ente che si concluse nel 2000 con la sua liquidazione. Così tornarono in mani private aziende che, oltre a svolgere servizi importanti come la telefonia e la gestione autostradale, garantivano rendite sicure dal momento che erano in una posizione di monopolio, ossia di operatori senza concorrenti che, oltre ad avere un mercato sicuro, potevano fare i prezzi che volevano. Tesi confermata dalla Corte dei Conti che, in un rapporto del febbraio 2010, segnala come, nel caso delle utilities (energia, trasporti, telecomunicazioni), «l’aumento della profittabilità delle imprese regolate sia attribuibile in larga parte all’aumento delle tariffe» piuttosto che a investimenti migliorativi.

Il caso autostrade

Complessivamente, dal 1991 al 2001, la vendita delle proprietà pubbliche ha fruttato allo stato 97 miliardi di euro. Sarà stato davvero un affare per il popolo italiano? I sostenitori del «sì» ritengono che sia stato conveniente perché ci siamo sbarazzati di aziende in perdita che procuravano soltanto debiti e perché abbiamo raggranellato qualche soldo per ripagare il nostro debito pubblico. Ma non tutte le aziende dismesse erano in perdita, mentre l’effetto sul debito pubblico è stato solo del 7%. Purtroppo, non si può fare a meno di constatare che, dietro al fenomeno delle privatizzazioni, c’è stata anche una buona dose di scelta ideologica. In effetti a partire da fine anni Settanta del secolo scorso, l’idea statalista cominciò a retrocedere per fare posto a quella liberista che vuole il mercato protagonista assoluto del sistema economico e perfino sociale. Prova ne sia che il processo di privatizzazione coinvolse l’intero mondo industrializzato con il suo apice nel 1999, anno in cui gli introiti da vendite delle proprietà pubbliche, raggiunsero i 140 miliardi di dollari a livello mondiale. Purtroppo, anche l’Unione europea spinse in questa direzione pretendendo dai paesi membri l’applicazione di trattati europei fondati su regole che antepongono i meccanismi di mercato all’interesse collettivo.

In Italia, l’ubriacatura liberista risucchiò nel tritacarne delle privatizzazioni molti beni e molti servizi. Fra i pochi sfuggiti, le infrastrutture stradali che sono rimaste di proprietà pubblica: le autostrade, infatti, appartengono al governo centrale per il tramite del ministero dei Trasporti. In effetti, la Società autostrade, che l’Iri mise in vendita nel 1999, ormai era solo una società di gestione, la quale, per esercitare la propria attività, doveva ottenere una concessione da parte del governo che continuava a possedere il bene autostradale. E fu così che, contestualmente alla privatizzazione totale della società, avvenne la privatizzazione parziale del bene, per la possibilità concessa alla società privatizzata di gestire gran parte della rete autostradale. In seguito, la concessione venne rinnovata più volte secondo modalità fortemente criticate dalla Corte dei Conti che, in un suo rapporto dell’ottobre 2019, parla di scarsa trasparenza, scarsa correttezza giuridica, scarsa correttezza economica. Il risultato è che, su un totale di 6.700 km di rete autostradale, oltre l’85% sono stati affidati a società private e solo il 15% sono rimasti in carico ad Anas, la società di proprietà pubblica adibita alla cura delle strade. Le società concessionarie private che gestiscono circa 5.700 km, oggi sono 25, ma la parte del leone la fa «Autostrade per l’Italia», che da sola controlla oltre il 50% della rete in concessione, fra cui l’Autostrada del Sole, l’Autostrada Adriatica, la Firenze-Mare.

Oltre a precisare l’ambito delle autorizzazioni, le concessioni definiscono i diritti e i doveri dei concessionari compresi gli investimenti che devono realizzare ai fini migliorativi e gli innalzamenti tariffari che possono operare per recuperare il capitale investito e garantirsi un guadagno. Come segnala la stessa Corte dei Conti, i rendimenti inseriti nelle concessioni autostradali sono stati fissati a livelli molto alti, in certi casi addirittura oltre il 10%, provocando una costante lievitazione delle tariffe e quindi dei profitti delle società concessionarie. E si vede. Nel 2017, l’anno prima che il Ponte Morandi crollasse, Autostrade per l’Italia aveva realizzato ricavi per quasi 4 miliardi di euro, di cui 2,5 utilizzati per spese di gestione, 465 milioni versati allo stato per il canone di concessione e più di un miliardo distribuito agli azionisti come profitti. Ed è qui che entrano in scena i Benetton che, per il tramite di Atlantia, detengono l’88% di Autostrade.

Le autostrade sono un simbolo del fallimento delle privatizzazioni in Italia. Foto: Schwoaze-Pixabay.

Lo stato e i Benetton

Nel 1999, quando la società venne messa in vendita, i Benetton si limitarono a comprarne il 30%, non avendo altri soldi da spendere. La quota restante la comprarono nel 2003 a debito, dopo che una riforma del diritto societario aveva introdotto un meccanismo che permette di comprare le aziende a debito potendosi sbarazzare del debito stesso. Il meccanismo si chiama leverage buyout, in tutto e per tutto un gioco di prestigio finanziario. L’imprenditore che intende effettuare l’acquisto lo fa attraverso una società creata ad hoc che, oltre a rappresentare lo strumento giuridico della compra-vendita, ha anche il compito di raccogliere prestiti presso terzi. Poi, ad acquisto avvenuto, la società acquirente viene fusa con la società acquistata, per cui il debito passa a quest’ultima con tutti gli obblighi che ne derivano. Nel caso specifico la famiglia Benetton creò la società NewCo28 per raccogliere prestiti pari a 6,5 miliardi di euro necessari a completare l’acquisto di Autostrade per l’Italia. Ad acquisto effettuato, NewCo28 venne incorporata in Autostrade e il debito lo stanno ancora pagando gli automobilisti attraverso i pedaggi.

Dopo la caduta del Ponte Morandi molti hanno capito che andava processato non solo chi si era reso colpevole di negligenze, ma l’intero sistema delle concessioni decisamente troppo a favore delle società di gestione. Invece di riconoscere questa necessità e proporre una riforma complessiva sul modo di gestire le autostrade, il governo ne ha fatto una questione di mala gestione da parte dei Benetton e ha annunciato di voler revocare la concessione rilasciata a loro favore, forse con l’intento di correggere almeno le storture più eclatanti. Se si fosse riusciti a togliere la concessione ai Benetton, così era il ragionamento, il governo avrebbe potuto indire una nuova gara e stipulare una nuova concessione su basi totalmente diverse con il nuovo concessionario.

Fin da subito si è però capito che la revoca era una strada impraticabile per le enormi penali che lo stato avrebbe dovuto pagare. Così, per due anni non è successo nulla, almeno in apparenza. In realtà, dietro le quinte governo e impresa hanno continuato a interloquire per trovare un’altra soluzione: il ridimensionamento dei Benetton in Autostrade, in modo da fare passare il potere decisionale a nuovi soggetti disposti a rivedere i termini della concessione. A luglio 2020 è arrivato l’annuncio: i Benetton hanno accettato di vendere una parte cospicua delle loro quote in Autostrade a una cordata diretta da Cassa depositi e prestiti, banca controllata dal ministero del Tesoro e finanziata dal risparmio postale. Tuttavia, i particolari dell’accordo, compreso il prezzo di vendita, non sono stati annunciati: saranno pattuiti in privato fra le parti. Dunque, ci sarà ancora da attendere per capire se l’operazione si tradurrà in una bacchettata ai Benetton o in un ennesimo regalo a loro favore. Visti i trascorsi, è meglio non farsi troppe illusioni.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

 




La plastica è nel nostro piatto


Il problema più grave è quello non visibile a occhio nudo: le microplastiche. Ormai esse si trovano ovunque: nelle acque, nei terreni, nelle nevi ad alta quota. Nei prodotti d’igiene. E nel nostro cibo.


*la prima parte di questo articolo è in MC aprile 2020


La visione di ammassi di plastica galleggianti in acqua o dispersi per terra, solitamente suscita più clamore di una forma d’inquinamento molto più insidiosa, quella da microplastiche. La loro dispersione nell’ambiente è legata principalmente a due diverse fonti.

Una è rappresentata dalla manifattura di prodotti plastici, che usa come materia prima piccoli granuli di resina chiamati «pellets», «nibs» e «microbeads». Questi ultimi possono essere dispersi accidentalmente nell’ambiente durante il trasporto, a seguito di un uso inappropriato dei materiali da imballaggio o per deflusso diretto dagli impianti di trasformazione. In seguito al dilavamento dei terreni dovuto alle piogge, questi materiali possono finire negli ecosistemi acquatici.

La seconda fonte sono i rifiuti in plastica abbandonati nell’ambiente e soggetti a vari tipi di degradazione: la fotodegradazione ad opera della radiazione solare; la biodegradazione compiuta da organismi viventi, soprattutto microbi; la degradazione termossidativa a temperatura modesta, quella termica ad alta temperatura e l’idrolisi dovuta alla reazione con l’acqua.

I principali composti chimici presenti nelle plastiche sono il polietilene, il polipropilene, il polistirene, il polietilene tereftalato e il polivinilcloruro, costituenti di oggetti come le bottiglie, le posate e le stoviglie di plastica, i contenitori per il cibo, le reti da pesca, le pellicole.

Micro e nanoplastiche

Poiché le microplastiche e le nanoplastiche a occhio nudo non le vediamo, siamo portati a considerarle come insignificanti, mentre in realtà sono molto più insidiose per la nostra salute delle plastiche di maggiori dimensioni. Esse si trovano praticamente ovunque nelle acque di ogni latitudine, sul terreno e nelle nevi in alta quota. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è stata recentemente condotta (settembre 2019) una campagna di campionamenti delle nevi valdostane da parte dell’European research institute (con la Cooperativa Erica e la società VdATralier). La ricerca ha evidenziato come ogni anno precipitino sulle montagne valdostane, a causa degli eventi atmosferici, 200 milioni di frammenti di plastica (equivalenti a circa 25 Kg) di cui 80 milioni sono microplastiche. Questo valore è probabilmente sottostimato, considerando che parte delle nevi fondono, quando si alza la temperatura, riversando il loro contenuto nei ruscelli. È quindi chiaro che le microplastiche e le nanoplastiche in tal modo possono raggiungere tutti i bacini idrografici intermedi fino ad arrivare al mare. Lo stesso viaggio viene intrapreso prima o poi da tutti i minuscoli frammenti sparsi sul terreno, ogni volta che si verificano delle precipitazioni. A questi si aggiungono le microplastiche e le microfibre riversate quotidianamente nelle acque di scarico di ogni centro abitato e quelle generate direttamente in mare dalla frantumazione e degradazione delle reti e delle attrezzature da pesca, oltre che dei rifiuti in plastica gettati dalle imbarcazioni e di quelli giunti attraverso i fiumi. Quindi, il mare è ricchissimo di microplastiche e microfibre derivanti dagli oggetti che comunemente usiamo nella nostra vita quotidiana e nelle nostre attività. Ad esempio, la nostra lavatrice mediamente provoca a ogni normale lavaggio il rilascio di circa 1.900 microfibre per ogni capo d’abbigliamento sintetico, corrispondenti a circa 100 fibre/litro per il lavaggio di tutti i capi, quantitativo che costituisce il 180% delle fibre di un analogo abbigliamento in lana. Durante la stagione invernale, inoltre, utilizzando più indumenti, il rilascio di microfibre aumenta del 700%. A quelle rilasciate in acqua, si devono aggiungere quelle depositate al suolo. Secondo una ricerca condotta nel 2016 dall’Università di Parigi Est, sull’area cittadina (circa 2.500 Km2), ogni anno, cadono al suolo 3-10 tonnellate di microfibre provenienti dagli abiti sintetici. I microbeads e i frammenti spigolosi di polietilene sono invece contenuti in prodotti di uso quotidiano come lo scrub facciale, alcuni tipi di shampoo e di saponi, il dentifricio, l’eyeliner, le creme solari, i detergenti esfolianti, in quantità che talora raggiungono il 10% del peso del prodotto e che, negli ultimi anni, hanno sostituito i tradizionali ingredienti naturali, come le mandorle tritate, la farina d’avena e la pomice. È stato calcolato che ogni persona produce circa 2,4 mg di microplastiche al giorno.

Negli ecosistemi acquatici le microplastiche riescono a espletare tutto il loro potenziale distruttivo. Esse possono causare danni fisici come il soffocamento degli invertebrati filtratori. Oltre a questo esse sono responsabili dell’assorbimento e del bioaccumulo di sostanze fortemente tossiche con proprietà mutagene, cancerogene e teratogene come gli ftalati, i Pcb, il bisfenolo A, le organoclorine e i metalli pesanti. Purtroppo i fr ammenti di plastica in acqua si comportano come delle spugne, assorbendo le sostanze tossiche disciolte e può succedere che un piccolo frammento riesca a concentrare su di esso una quantità di sostanze tossiche pari a un milione di volte quella presente nelle acque circostanti.

Disastro marino

Non c’è più alcuna zona dell’oceano, inteso come insieme di tutti i mari terrestri, che non sia contaminata dalle microplastiche, anche laddove non si vedono rifiuti plastici galleggianti, come nel passaggio a Nord Ovest nel mare Artico, dove una serie di campionamenti delle acque ha rivelato la presenza di smog di microplastiche e di nanoplastiche. Le ricerche condotte in questo mare hanno messo in evidenza il fatto che le microplastiche qui trovate non derivano da processi di degradazione in loco di rifiuti in plastica di maggiori dimensioni, ma sono state trasportate dalle correnti oceaniche, quindi provengono dai continenti in cui la plastica viene prodotta e dispersa in acqua. Tra l’altro i sistemi di depurazione e filtraggio delle acque (laddove esistono) non riescono a trattenere le microplastiche e le nanoplastiche, per via delle loro ridottissime dimensioni. Tutti i campionamenti effettuati in diverse parti dell’oceano hanno evidenziato come solo l’8% dei frammenti trovati è più grande di un chicco di riso.

Date le loro ridottissime dimensioni, le microplastiche e le nanoplastiche entrano a fare parte della catena alimentare, rilasciando le sostanze tossiche che trasportano, le quali sono caratterizzate da un processo di bioaccumulo o biomagnificazione, cioè il loro quantitativo all’interno degli organismi aumenta man mano che si sale lungo la catena alimentare. Frequentemente gli animali a vita bentonica, cioè viventi sui fondali marini si nutrono delle microplastiche, con tutto il loro contenuto di sostanze tossiche. Tra questi animali vi sono le cozze e le vongole, che spesso finiscono nei nostri piatti, i crostacei cirripedi (balani), gli invertebrati detritivori come oloturie, isopodi, anfipodi e policheti. Le nanoplastiche possono essere ingerite invece dagli organismi planctonici, che sono il cibo per elezione della balenottera comune (Balaenoptera physalus) e dello squalo elefante (Cetorhinus maximus), animali di grossa taglia che in tal modo accumulano nel loro tessuto adiposo quantità rilevanti di ftalati (mediamente 45 ng/g di grasso nella balenottera) derivanti dal plancton contaminato. I pesci sovente ingeriscono microplastiche, contaminandosi con le sostanze tossiche trasportate e quelli predatori, che si nutrono delle specie più piccole, accumulano nel loro tessuto adiposo ingenti quantità di tali sostanze.

Un piatto «ben» condito

Secondo la Coldiretti, in Italia consumiamo mediamente 25 Kg a testa di pesce all’anno, mentre il leader europeo del consumo di pesce è il Portogallo con 56 Kg procapite all’anno. È logico pensare che, attraverso il cibo, ci ritroviamo nel piatto la plastica, che abbiamo disperso in mare qualche anno prima, per giunta condita dalle sostanze tossiche che è riuscita ad assorbire, oltre a quelle di cui è normalmente costituita. Tra le prime possono figurare anche il Ddt e i pesticidi, finiti più o meno accidentalmente in acqua. Tra i costituenti della plastica, quelli che vengono maggiormente trasferiti dalle microplastiche e che risultano particolarmente pericolosi per la nostra salute sono gli ftalati. Queste sostanze trovano impiego nella fabbricazione delle materie plastiche in Pvc, perché ne migliorano la modellabilità e la flessibilità. Essi hanno inoltre diversi altri impieghi poiché consentono la persistenza dello smalto sulle unghie, quella del profumo nei deodoranti e quella della pigmentazione delle vernici. Data la loro elevata tossicità, la loro concentrazione nei giocattoli e negli articoli di puericultura, spesso messi in bocca dai bambini piccoli, a livello europeo non può superare lo 0,1% (Dir. 2005/84/Ce). Tra gli ftalati più pericolosi per la salute riproduttiva, in quanto interferenti endocrini, ci sono il Dehp o ftalato di bis (2-etilesile) e il prodotto della sua idrolisi o Mehp, cioè mono (2-etilesile) ftalato. Inoltre, il Dbp o ftalato di dibutile e il Bbp o ftalato di butilbenzile.

Gran parte delle bottiglie di plastica finiscono nelle acque. Foto: Kate Ter Haar.

La biomagnificazione

Pericolosissimo è il cosiddetto effetto cocktail dovuto sia al bioaccumulo, causa di una maggiore concentrazione, sia alla mescolanza di più sostanze tossiche, che comportano una tossicità ancora più marcata. In molti organismi marini sono stati riscontrati alterazione riproduttiva e dello sviluppo e diminuzione della sopravvivenza.

La prima osservazione dell’ingestione di microplastiche da parte di sei differenti specie di pesci risale al 1990. Le specie maggiormente colpite da questo fenomeno sono quelle planctofaghe. Sono stati rinvenuti frammenti plastici nel 35% delle specie ittiche pelagiche del Pacifico settentrionale e nel 36% delle specie mesopelagiche e demersali costiere (come halibut e platessa) dell’Atlantico. Particolarmente problematici dal punto di vista del ritrovamento di microplastiche e microfibre nello stomaco dei pesci si sono rivelati gli estuari dei fiumi. In queste aree, i pesci bentonici, che si nutrono dei sedimenti sui fondali, risultano le specie più colpite. In questi ambienti sono particolarmente accentuati i rapporti di predazione, con l’inevitabile conseguenza del fenomeno della biomagnificazione, per trasferimento degli inquinanti tossici dalle specie di piccola taglia ai predatori di maggiori dimensioni.

Tra le specie di pesci, che compaiono comunemente sulle nostre tavole, sono risultate contaminate da ftalati le sardine (Sarda sarda), le acciughe europee (Engraulis encrasicolus), le triglie di scoglio (Mullus surmuletus), i merlani comuni (Merlangius merlangus).

Naturalmente il processo di biomagnificazione continua in tutte le specie di uccelli, rettili e mammiferi che si nutrono di pesci contaminati. Sono state rinvenute fibre plastiche nell’apparato digerente e sostanze tossiche nel tessuto adiposo di orsi polari, foche e cetacei.

Poiché all’apice della catena alimentare ci sono i grandi predatori e tra questi l’uomo, era inevitabile trovare prima o poi le microplastiche e nanoplastiche nei nostri organi e tessuti.

Un team di ricerca dell’Università statale dell’Arizona, grazie ad una tecnica di imaging chiamata spettrometria -Raman, per la prima volta ha analizzato 47 campioni prelevati da diversi organi di persone decedute, tra cui fegato, polmoni, milza e reni, trovandoli tutti positivi per la presenza di microplastiche e di nanoplastiche. Al momento non sappiamo ancora quali siano gli effetti della presenza delle microplastiche e delle nanoplastiche sulla salute umana, ma le problematiche come infertilità, infiammazione e cancro riscontrate nei modelli animali non fanno presagire alcunché di buono.

 

Misure  insufficienti

È evidente che non possiamo più limitarci al riuso della plastica, alla raccolta differenziata e al suo riciclo (che non può proseguire all’infinito, come quello del vetro o dei metalli). È indispensabile limitarne la produzione, sostituendola con materiali completamente biodegradabili, perché per quanto siano stati messi a punto dei metodi di cattura delle plastiche galleggianti nei fiumi, per impedire che esse raggiungano il mare e di eliminazione delle microplastiche (peraltro ancora a livello sperimentale) dalle acque, non sarà mai possibile ripulire le acque e i fondali di tutto l’oceano (anche perché ancora in gran parte inesplorati). Sicuramente ciascuno di noi può fare la sua parte, a cominciare dalle scelte che facciamo al momento dell’acquisto, dando la preferenza a prodotti in altro materiale, a cibi venduti sfusi, senza packaging in polistirolo o plastica, ad abiti in fibra naturale e a calzature in pelle e cuoio. È inoltre di fondamentale importanza educare i nostri ragazzi ad un minore consumo di plastica. Solo scegliendo prodotti alternativi si può influenzare il mercato e, di conseguenza, la produzione della plastica.

Rosanna Novara Topino
(Fine)

*la prima parte è in MC aprile 2020


La pandemia ha portato sul mercato prodotti monouso che hanno evidenziato l’inciviltà di troppi. Foto: Ecogreenlove-Pixabay.

L’incomprensibile ritorno dell’«usa e getta»

Tonnellate di rifiuti sanitari

La riapertura delle scuole in tempo di Covid ha portato il ministero dell’Istruzione alla decisione di imporre l’uso a tutti – docenti, operatori scolastici e studenti – delle mascherine chirurgiche monouso, per la massima tutela, secondo gli esperti del Comitato tecnico scientifico incaricato dallo stesso ministero, della salute di tutti coloro che si trovano nell’ambiente scolastico. In pratica, ogni istituto scolastico dovrà fornire giornalmente una mascherina chirurgica monouso a tutti. Secondo tale piano si dovrà giungere a una fornitura quotidiana di 11 milioni di mascherine chirurgiche per tutte le scuole italiane.
Perché la scelta della mascherina chirurgica usa e getta? Secondo gli esperti del Comitato tecnico, perché la mascherina chirurgica è certificata in base alla sua capacità di filtraggio e risponde alle caratteristiche richieste dalla norma Uni En Iso 14683 – 2019, per quanto riguarda la capacità di barriera contro i microbi di ogni tipo. Le mascherine di stoffa lavabili e riciclabili, nella maggior parte dei casi non rispondono a tale norma. In realtà però esistono in commercio anche mascherine riutilizzabili e certificate, le cui prestazioni sono del tutto analoghe a quelle delle mascherine chirurgiche. Sarebbe sufficiente cambiare tipo di fornitura.
Gli esperti del comitato tecnico non hanno tenuto conto del fatto che 11 milioni di mascherine usa e getta giornaliere corrispondono a 44 tonnellate di rifiuti in più da smaltire mediante incenerimento, l’unico modo corretto di smaltimento dei rifiuti sanitari.
Siamo proprio sicuri che questa sia la migliore forma di tutela della salute? Anche perché le mascherine chirurgiche contengono sostanze plastiche, essendo realizzate in polipropilene o poliestere (che costituiscono il «tessuto-non tessuto» o Tnt di cui sono fatte) e l’incenerimento delle materie plastiche è senza dubbio fonte di sostanze tossiche, come le diossine, che rappresentano un rischio certo per la salute pubblica, a differenza di quello potenziale da Coronavirus. Tutto ciò si aggiunge alla già elevata quantità di mascherine e guanti monouso abbandonati per terra o in mare da persone che dimostrano in tal modo il loro grado di inciviltà.
C’è poi da dire che non è corretto indossare la stessa mascherina chirurgica per più di quattro ore, altrimenti essa perde completamente la sua efficacia perciò, nelle scuole a tempo pieno dove la permanenza è di otto ore, ciascuno dovrebbe avere a disposizione un paio di mascherine al giorno. È evidente che tutto questo rappresenta una spesa enorme per le casse dello stato ed un peso enorme per l’ambiente, che si potrebbero evitare ricorrendo alle mascherine lavabili, che tra l’altro possono anche essere sterilizzate in casa mediante bollitura, mentre le chirurgiche non sono quasi mai sterili.
Oltre a questo va detto che la scuola, che dovrebbe insegnare ai ragazzi a rispettare l’ambiente, obbligandoli ad indossare le mascherine monouso, fa esattamente l’opposto. A conti fatti, questo provvedimento risulta altamente diseducativo. Anziché abituare i ragazzi al riuso e al riciclo, per diminuire l’impronta ecologica, proprio la scuola li abitua a un inutile spreco di materie prime.

R.N.T.