Cambogia: Sei amici e una dose

Reportage nel mondo delle droghe chimiche

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


Nei sobborghi di Phnom Penh, tra baracche e immondizia, è venduta e comprata la droga sintetica. Molti ne fanno uso anche per non sentire le fatiche di una vita al limite. Le metanfetamine lasciano strascichi pesanti a livello psichiatrico. Il governo reprime sia spacciatori che consumatori.

Crystal meth, ice e yaba sono i nomi più comuni con cui è conosciuto un particolare tipo di metanfetamina in Cambogia. Come negli altri paesi della regione, anche qui quello della dipendenza da metanfetamina è un fenomeno che interessa un numero sempre maggiore di giovani. Negli ultimi anni la polizia cambogiana si è prepotentemente lanciata in massicce campagne anti droga che hanno portato all’arresto di migliaia di tossicodipendenti e spacciatori trattati alla stessa stregua davanti alla legge. Numerose organizzazioni umanitarie denunciano le ripetute violazioni dei loro diritti fondamentali, e intanto le carceri cambogiane continuano a registrare cifre record di detenuti.

Arun, Phirun, Bourey, Jack, Soumy e Munny sono amici di lunghissima data. Sono tutti nati e cresciuti a Mean Chey, un quartiere periferico di Phnom Penh, uno slum, un susseguirsi di baracche e palafitte che si ergono su una palude e un fiumiciattolo che confluisce nel Tonlé Sap, l’imponente fiume che
bagna la capitale. Nel fitto intreccio di viuzze che costituiscono Mean Chey, il sole difficilmente penetra, mentre la pioggia ad ogni temporale allaga le abitazioni dai tetti di plastica e lamiera.

Questi giovani, che hanno tutti un’età compresa tra i 23 e i 27 anni, si trovano di primo pomeriggio per farsi una fumatina di crystal meth. Lo fanno a casa di Arun, un’unica stanza con un lettone dove il giovane dorme con la madre e le due sorelle. «Dai – esclama l’ospite rivolgendosi a Phirun -, fa presto a cacciare la bottiglia e le cannucce, io ho già pronti stagnola e accendino. Dobbiamo sbrigarci prima che torni mia madre da lavoro, altrimenti dà di matto e per me sono guai». È al padrone di casa che spetta la preparazione della pipa ad acqua fatta di materiali facilmente reperibili. Al gruppetto di compari non rimane altro da fare che aspirare dalla cannuccia e attendere che il crystal meth faccia effetto.

Chi usa le droghe

Nel Sud Est asiatico, sono soprattutto i ceti più bassi a fare sistematicamente uso di metanfetamine. Ma anche la borghesia medio alta non ne è estranea. Droghe di questa famiglia, che si presentano sotto forma di piccoli cristalli, vengono assunte durante le serate in discoteca; dalle prostitute prima di iniziare ad accogliere i clienti; dagli operai e dai tassisti per lavorare il maggiore numero di ore possibile. Si tratta di potenti eccitanti che, se assunti per lungo tempo, possono portare a serie malattie psichiatriche spesso irreversibili.

In Cambogia il prezzo di una dose può variare dai 5 ai 10 dollari statunitensi, una cifra considerevole se si tiene presente che una buona fetta della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

Terminato il rituale, dopo aver bevuto qualche lattina di birra e Coca-Cola calda, i sei ragazzi si alzano ed escono per accomodarsi nell’atrio della catapecchia di Arun. Qui rimangono per qualche minuto in silenzio mentre osservano dei bambini, loro fratellini e cuginetti, che giocano a piedi nudi in una pozza d’acqua da un intenso colore blue cobalto. Attorno a loro, ovunque, ci sono rifiuti ed escrementi tra i quali galline e pulcini vengono lasciati liberi di girare. «Mean Chey – sentenziano unanimi i vecchi amici – è una pattumiera a cielo aperto, non c’è altro da aggiungere. E di posti come questo la Cambogia è piena».

Bourey, di professione conducente di moto taxi, è il primo dei sei ragazzi a sbottonarsi un po’: «Quando mi faccio di crystal meth, difficilmente mi accontento di una sola dose, e così ogni volta spendo fino a 20 dollari. Lo so, sono tanti soldi, ma lo faccio anche perché una volta che sono fatto ho più energie per lavorare tutta la notte. Questa roba mi piace perché mi fa sentire invincibile e quindi mi fa guadagnare di più. Il problema è quando finisce l’effetto. La testa non va più a mille e mi ritrovo qui, in mezzo a questo schifo. Non posso smettere, ci ho provato ma non ci riesco in alcun modo».

Reprimere anziché curare

Negli ultimi anni la polizia, assistendo a un netto aumento del fenomeno, ha lanciato delle energiche campagne antidroga che sulla carta prevedono l’arresto di trafficanti e consumatori e l’inserimento, per questi ultimi, in centri di riabilitazione. In realtà ci sono stati solo una miriade di arresti arbitrari e odiosi abusi. Ogni anno si contano circa 10mila arresti.

L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) ha espresso la propria preoccupazione in merito alla parità di trattamento riservata a spacciatori e tossicodipendenti, indipendentemente dalla quantità di droga con cui si viene colti in flagrante, e alla scarsa assistenza medica dopo l’incarcerazione dovuta alla mancanza di fondi. In un suo recente rapporto, l’Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti (Incb) del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite, descrive la Cambogia come un hub regionale per il traffico di eroina, cocaina e metanfetamine, e avverte che la produzione casalinga di crystal meth per il mercato interno è in aumento. Da parte sua, il Centro cambogiano per i diritti umani (Cchr) parla di sovraffollamento delle carceri e di tempi biblici in attesa anche solo della prima udienza davanti a un giudice.

«Col tempo – illustra Ouk Tha della Rete cambogiana per le persone che fanno uso di droghe (Cnpud), che conosce molto bene i ragazzi di Mean Chey – abbiamo raccolto un gran numero di prove a favore dell’innocenza dei tossicomani da noi assistiti e contro i metodi brutali di cui la polizia si serve, ma raramente ci viene data occasione di depositarle in tribunale. Ciò che più ci preoccupa è la difficoltà che i tossicodipendenti hanno ad accedere alle cure sanitarie, e questo anche perché le autorità giudiziarie si prendono lunghissimi tempi prima di fare la cernita tra spacciatori e soggetti con problemi di dipendenza da droga».

La storia di Jack

Jack è assorto tra i suoi pensieri. «Non è più lo stesso – racconta Arun, con il volto triste – da quando sua moglie è stata arrestata». Da alcuni mesi la donna, anch’essa tossicodipendente, si trova in carcere perché sorpresa dalla polizia mentre acquistava una dose di crystal meth.

Jack torna in sé e prende la parola: «In quella retata hanno portato via sia lei che lo spacciatore. Di solito acquistavo io la roba per entrambi. Ma quella volta ha voluto fare tutto lei perché era in astinenza, aveva avuto una crisi. Da quando me l’hanno portata via sono sconvolto e faccio sempre più uso di questa schifezza. Ho iniziato pure con la ketamina con la speranza di alleviare il dolore, di distrarmi, ma continuo a stare malissimo. Un giorno mi fermerò. E devo farlo al più presto. Se continuo così, non avrò più denaro per comprare il latte a nostro figlio che ora è in carcere con mia moglie».

Le recenti crociate della polizia contro le metanfetamine hanno portato all’abbattimento di numerose abitazioni dentro le quali avvenivano reati legati al consumo di queste sostanze. Case ubicate nelle numerose baraccopoli di Phnom Penh dove le forze dell’ordine sono determinate più che mai a mostrare i muscoli per arginare la diffusione del crystal meth tra i giovani.

Palafitte

Trapaing Chhouk, nel distretto periferico di Sen Sok, è uno slum come tanti nella capitale cambogiana. Un labirinto di passerelle di legno traballanti che collegano circa duecento fetide palafitte che, chissà come, rimangono in piedi su un putrido laghetto. Qui vivono circa mille persone. A meno che non ci si voglia arrischiare ad attraversare distese di rifiuti di dubbia natura, per addentrarsi nel ghetto di Trapaing Chhouk, l’unico modo è percorrere una delle due strettissime passerelle presenti. «Grazie a queste passerelle – spiega Sek, cinquantenne del posto -, quei delinquenti tenevano facilmente sotto controllo tutti i movimenti. Quando sospettavano stesse per verificarsi una retata dei poliziotti, era sufficiente un fischio e in pochi secondi la droga veniva nascosta».

La prima cosa che balza agli occhi dei visitatori di Trapaing Chhouk è l’imponente mole di cannucce di plastica che si trovano sparse ovunque per terra. «Dove ci sono degli spazi vuoti – continua Sek -, fino a poche settimane fa c’erano delle case. Sono state tutte rase al suolo dai poliziotti perché lì ci vivevano i drogati o ci facevano i loro loschi affari gli spacciatori. A dimostrazione di ciò, sul terreno, rimangono tutte queste cannucce con cui si fuma la metanfetamina nelle bottigliette piene d’acqua. Saranno migliaia e migliaia. Capito quanta droga è passata e continua a passare da queste parti? E se si presta attenzione, si noterà che tra le cannucce ci sono anche delle siringhe. I drogati si iniettano quella roba anche in vena».

Preoccupa l’aumento dei soggetti che assumono metanfetamine tramite iniezione e che contraggono l’Hiv. Il governo nazionale, sostenuto dalle Nazioni unite, ha da tempo avviato l’iniziativa «90-90-90». Questa prevede che entro la fine del 2020, il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà conoscere la propria diagnosi; il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà ricevere un valido trattamento; il 90 per cento delle persone con l’Hiv che riceve una terapia antiretrovirale dovrà raggiungere e mantenere la soppressione virale. Secondo le autorità sanitarie cambogiane, nel paese il 25 per cento di tossicomani che si inietta droghe è malato di Aids.

Metodi drastici

«Senza droga – confida Pol, una donna sulla sessantina, mentre vende cibo fatto in casa sull’uscio della sua baracca – viviamo più tranquilli. Prima dell’intervento della polizia, qui a Trapaing Chhouk regnava il caos. Schiamazzi, liti e baccano sia di giorno che di notte. Non si riusciva a dormire. A parte questo, noi gente per bene non abbiamo mai avuto problemi con quei drogati, non hanno mai rubato a casa nostra o dato particolari noie. Piazzavano come vedette dei ragazzini esterni al ghetto, nel caso in cui arrivasse la polizia. La nostra paura più grande era che potessero coinvolgere i nostri figli o che questi potessero essere scambiati per spacciatori dai poliziotti e quindi arrestati».

«Tremo – è il turno di Chea, coetanea e vicina di casa di Pol – se penso a quando avvengono le demolizioni. Utilizzare qui le ruspe è impensabile e così fanno tutto a mano con picconi e pale. Un rumore infernale che ti entra nel cervello. Hanno arrestato almeno una settantina di giovani, quasi tutti sotto i trent’anni. Vivevano qui da diverso tempo perché ritenevano Trapaing Chhouk un luogo sicuro. E in effetti così era: da tanti anni eravamo finiti nel dimenticatoio delle autorità, nessuno si sognava di mettere piede qui. Poi all’improvviso il problema della droga è diventato una priorità per la polizia e così, suo malgrado, Trapaing Chhouk ha attirato l’attenzione di molti».

Una delle polemiche sorte attorno alle demolizioni che avvengono a Trapaing Chhouk è che le case abbattute non erano di proprietà di tossicodipendenti e spacciatori, bensì di persone che abitano al di fuori del ghetto. Sono pochi i casi in cui i locatori sono stati segnalati alla polizia per essere stati a conoscenza di ciò che avveniva dentro le baracche. Numerosi invece i proprietari che hanno chiesto dei risarcimenti alla municipalità. «Non credo – dice Chea – che sia stato giusto abbattere case di proprietà di persone che non hanno commesso quei crimini. Non erano presenti, secondo me non potevano sapere che cosa accadeva al loro interno. So che hanno esposto le loro rimostranze alla municipalità ma non hanno ancora ricevuto risposta».

«L’intervento della polizia – dice infine Sek – è stato positivo. La polizia antidroga ora controlla tutto, ha eseguito delle indagini nelle case dove si faceva uso di droghe e dove la gente veniva ad acquistarne. Seguivano i clienti, li fermavano, li arrestavano, li interrogavano e raccoglievano informazioni. Così in breve tempo hanno potuto individuare le case incriminate e demolirle. In generale ci riteniamo soddisfatti perché qui non circola quasi più droga, i nostri giovani sono più al sicuro e non subiamo più alcun tipo di molestia. Ora possiamo cominciare a tirare un bel sospiro di sollievo».

Luca Salvatore Pistone*

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*Sul tema delle droghe l’autore ha già pubblicato: Filippine: la (sporca) guerra della droga, MC marzo 2019;
Come il fisico, così lo spirito, MC maggio 2020.
Sulle droghe si veda anche Chiara Giovetti alle pp. 64-67 di questo numero.

 

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