Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)

testo di Angelo Fracchia |


Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.

In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.

Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.

Uno storico accurato

Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.

Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.

Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.

Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.

Aquila e Priscilla

I collaboratori

Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.

Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.

Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.

A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.

Formazioni incomplete

Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.

In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.

Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.

Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.

Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.

Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.

Rapporto con i poteri

L’Artemide di Efeso (© AfMC)

Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.

In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.

Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).

Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.

E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.

Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.

Angelo Fracchia
(17-continua)




Brasile. Vita di favela (con o senza virus)

testo e foto di Gianluca Uda |


Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.

Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.

In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.

È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.

Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.

La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.

Una mamma con i suoi quattro figli; il marito della donna lavora come taglialegna in Amazonia un lavoro considerato illegale; l’uomo rientra a casa ogni sei mesi circa. Foto di Gianluca Uda.

Favela Che Guevara

Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.

Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.

La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.

La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.

È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.

Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.

Ruth è una giovane ragazza mamma di due bambini; il marito è in carcere per violenza e aggressioni e la donna cerca di sopravvivere come può. Foto di Gianluca Uda.

In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.

Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.

Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.

Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.

Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.

Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.

Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.

Un’anziana signora piange ripensando alla sua vita sempre molto difficile; la donna vive in una sola stanza. Foto di Gianluca Uda.

Storia di Luiziana

Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.

I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.

Luiziane è stata una delle prime persone ad ammalarsi di Covid-19 nella favela Che Guevara, fortunatamente si è salvata; le sue radiografia ancora mostrano problemi a livello polmonare. Foto di Gianluca Uda.

Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.

Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.

Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.

Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.

Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.

George è un ragazzo con una grave patologia neurologica, i genitori sono stati costretti a creare un sorta di gabbia intorno al letto del ragazzo per evitare che si faccia male durante la notte. Foto di Gianluca Uda.

Chiese e famiglie

Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.

La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.

Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.

La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.

In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.

Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia,  spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.

La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.

Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.

Tre fratelli sono costretti a dormire nello stesso letto; la madre dei ragazzi è da sola ad occuparsi dei figli; le loro condizioni sono peggiorate con l’avvento del Covid-19. Foto di Gianluca Uda.

Storia di George

Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.

George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.

Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.

Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.

Gianluca Uda*

(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.

Due bambini davanti all’entrata della loro casa, il frigorifero alle loro spalle e stato trovato per strada e il padre dei ragazzi lo usa come un’armadio per i suoi attrezzi da lavoro. Foto di Gianluca Uda.




L’uomo e il virus: non è finita

testi di Rosanna Novara Topino |


In Italia e in Europa la pandemia ha allentato la morsa. Sul terreno sono rimasti migliaia di morti e grandi macerie. Il futuro rimane ancora incerto e i pericoli incombenti.

Quali sono state le misure adottate per contenere la pandemia? Le misure di contenimento sono variate da paese a paese. Si è passati da quelle molto leggere della Svezia al completo lockdown di altri paesi, come l’Italia. Nel nostro paese, nella cosiddetta «fase 1», durata dal 23 febbraio al 17 maggio (introduzione delle misure di contenimento e della gestione dell’emergenza epidemiologica della Covid-19 con decreto legge del 23 febbraio 2020), si sono interrotte le normali attività lavorative, fatta eccezione per quelle che permettevano il rifornimento dei generi di prima necessità alla popolazione, e le possibilità di movimento dei cittadini sono state limitate al rifornimento di generi alimentari, di farmaci e alle visite mediche con il limite di una sola persona per famiglia fuori casa, per favorire il distanziamento sociale ed evitare assembramenti. I controlli sui movimenti di persone all’aperto si sono intensificati, fino ad arrivare all’utilizzo di droni e di elicotteri.

Dopo la «fase 2» (18 maggio – 14 giugno), con la riapertura delle attività produttive e il progressivo ritorno a una maggiore libertà di movimento, dal 15 giugno al 14 luglio, l’Italia è entrata nella «fase 3», che ha consentito spostamenti tra regioni diverse (già dal 3 giugno), la partecipazione ai funerali senza il limite di 15 persone, gli esami di maturità in presenza, mentre sono rimaste sospese fiere, congressi, processioni, manifestazioni sportive con pubblico e tutte le altre forme di assembramento.

In questo momento (luglio 2020), in Italia è notevolmente diminuito il numero dei pazienti Covid in terapia intensiva e molti reparti dedicati sono stati chiusi. Inoltre, i nuovi casi positivi non presentano più i gravissimi quadri clinici riscontrati tra febbraio e aprile. Questo tuttavia non è il momento di abbassare la guardia, perché potrebbe esserci una recrudescenza dei contagi, come è già avvenuto a Singapore per la Covid e come avvenne a San Francisco (Stati Uniti) nel 1918 per la spagnola. Eppure una ripartenza è necessaria, perché mesi di sosta forzata hanno portato a un tracollo economico in diversi settori. Molte persone sono finite in cassa integrazione e qualcuno ha perso il posto di lavoro. Purtroppo, c’è chi si è già suicidato e molti sono coloro che sono diventati vulnerabili sotto il profilo psicologico. Inoltre, è necessario tornare quanto prima alle lezioni scolastiche e universitarie in presenza, perché le lezioni a distanza hanno portato ad acuire la disparità tra studenti con più risorse e quelli con meno (non solo con riferimento al digital divide, cioè alla maggiore o minore disponibilità di mezzi informatici).

La popolazione anziana ricoverata nelle Rsa è stata duramente colpita dalla pandemia. Foto: Sabine van Erp – Pixabay.

La strage degli anziani

Quello che è stato chiaro fin dall’inizio della pandemia è che la Covid-19, nelle persone altamente suscettibili, è così aggressiva da portare nel giro di una settimana o poco più il paziente in una situazione allarmante, se non critica, con necessità di ricovero in terapia intensiva e di ventilazione meccanica. L’elevata contagiosità del coronavirus ha portato nel giro di un mese o poco più al collasso delle strutture sanitarie in diverse città del Nord Italia, tra cui Bergamo e Brescia, e il numero dei deceduti è stato così elevato da rendersi necessario il trasporto delle bare in altre città per la cremazione con mezzi dell’esercito.

In molte famiglie è scomparsa almeno una persona, se non di più. E solo dopo due mesi dall’inizio della pandemia, a seguito di indagini della magistratura, in tutta Italia è emerso chiaramente che, nelle case di riposo per anziani e nelle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), il numero degli ospiti e degli operatori sanitari positivi al coronavirus è stato elevatissimo. Secondo le stime dell’Iss (Istituto superiore di sanità), le morti per Covid nelle Rsa sono state tra 9mila e 10mila, ma il dato è approssimato per difetto, non essendo stato fatto il tampone a tutti. Peraltro lo stesso scenario si è presentato in tutta Europa: una strage di anziani. Inoltre, nella sola Italia sono morti sul campo 163 medici, 40 infermieri, 24 operatori socio sanitari e 14 farmacisti. E a loro si aggiungono 121 sacerdoti.

Farmaci e vaccini

A livello di prevenzione della Covid-19, sono allo studio diversi tipi di vaccini (preparati con virus attenuati o con parti di virus), ma nella migliore delle ipotesi ci vorranno non meno di 18 mesi prima di arrivare ad un vaccino, sempre che sia possibile realizzarne uno veramente efficace. Il fatto che, dopo 17 anni, non ci sia ancora un vaccino per la Sars del 2003, non è un buon segnale.

Per quanto riguarda le cure, anche in questo caso non ne esiste una specifica per la Covid-19. In alcuni ospedali stanno utilizzando con discreti risultati dei cocktail di farmaci antivirali già utilizzati nella cura di altre gravi malattie come l’Ebola. In alcuni casi in fase precoce sembra funzionare l’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico, anche se c’è ancora disaccordo tra i vari studiosi sui suoi possibili effetti collaterali e sulla reale efficacia, mentre per la prevenzione delle tromboembolie, che possono portare a embolia polmonare, ischemia cardiaca o cerebrale si fa ricorso, quando il rapporto rischio/beneficio lo consente, all’uso di eparina.

Recentemente all’Università di Oxford hanno ottenuto buoni risultati con l’uso del desametasone, un antinfiammatorio steroideo della famiglia del cortisone in grado di ridurre la mortalità del 35% dei pazienti intubati. Un altro metodo di cura, che si sta rivelando molto efficace è quello del plasma iperimmune donato dai pazienti guariti da Covid e contenente quindi gli anticorpi efficaci nel contrastare la malattia. Questo metodo ha trovato inizialmente parecchi oppositori, poiché il plasma non è brevettabile, non essendo un farmaco, e la sua donazione è totalmente gratuita, quindi non consente alcun giro d’affari.

La lezione

A giugno abbiamo assistito a una ricomparsa della Covid in Cina, con un nuovo focolaio nel mercato dell’umido di Pechino. La situazione è diventata estremamente preoccupante nei paesi dell’America Latina, soprattutto in Brasile e Perù, dove intere comunità di popolazioni indigene stanno rischiando la loro sopravvivenza più di chiunque altro per le enormi difficoltà di raggiungere gli ospedali e per la continua esposizione al virus legata alla presenza dei cercatori illegali d’oro e di pietre preziose nella foresta amazzonica (si veda MC di luglio e questo numero a pp. 51-56). Altrettanta preoccupazione è data dall’aumento repentino dei casi e dei decessi in India. In Africa, gli stati maggiormente interessati dalla Covid attualmente sono l’Egitto, l’Algeria, il Sudafrica, il Marocco e la Nigeria, ma complessivamente questo continente sembra il meno colpito dopo l’Oceania, anche se le cifre sono sottostimate per la difficoltà di effettuare screening corretti in molti paesi. Tuttavia, qui l’epidemia è ancora in aumento e ciò che desta maggiore preoccupazione è la presenza di soli 5mila posti di terapia intensiva in tutto il continente (in Italia sono stati raggiunti 6.100 posti nel mese di marzo). Tutto questo dovrebbe almeno insegnarci che l’uomo non è al di sopra o al di fuori del regno animale, di cui fa parte, e che ogni sua azione contro di esso e più in generale contro l’ambiente può avere gravi ripercussioni e rivelarsi un boomerang dalle conseguenze incontrollabili. Proprio come l’attuale pandemia.

Rosanna Novara Topino
(terza parte – fine)


I test

Alla ricerca di anticorpi

Per quanto riguarda i controlli sanitari, il test più utilizzato è quello del tampone naso-faringeo, che permette una prima analisi della presenza del virus mediante tecnica Pcr (Polimerase chain reaction) per l’identificazione dell’Rna virale. Un test più accurato è quello della raccolta di campioni biologici dalle basse vie respiratorie (espettorato, aspirato endotracheale, lavaggio bronco-alveolare). Per monitorare la presenza del virus nei vari distretti corporei si effettua la raccolta di campioni biologici aggiuntivi quali sangue, urine e feci. L’analisi del siero consente – inoltre – di valutare la quantità di anticorpi per il Sars-CoV-2 e grazie ad essa è possibile osservare l’innalzamento dei valori di immunoglobuline M (IgM, indicanti un’infezione allo stato iniziale) e di immunoglobuline G (IgG, infezione in stato avanzato). Oltre al prelievo rapido di una goccia di sangue mediante il pungidito, metodo che dà un risultato istantaneo, ma non sempre attendibile, attualmente la raccolta del siero viene effettuata con prelievo di sangue in vena e l’analisi viene condotta con metodo Elisa, i cui risultati sono più attendibili, soprattutto perché alcuni kit diagnostici testano gli anticorpi diretti contro la proteina spike (dominio S1), la regione più specifica e meno conservata del coronavirus della Covid-19. Altri kit individuano gli anticorpi contro la proteina N del nucleocapside del virus, una proteina più duratura e comune anche ad altri coronavirus, che infettano comunemente l’uomo (come quello del raffreddore), quindi sono possibili delle cross-reattività che danno dei falsi positivi. Per ottenere un risultato il più possibile attendibile, in alcuni laboratori hanno iniziato a testare non solo le IgM e le IgG, ma anche le IgA, gli anticorpi presenti nelle secrezioni, che hanno un ruolo fondamentale nel creare una prima risposta immunitaria al virus a livello delle mucose, tra cui quella dell’apparato respiratorio.

(RNT)

Nuovo coronavirus. Foto: Leo2014-Pixabay.


Italia, 35mila morti: com’è stato possibile?

La catena degli errori

Sicuramente è stato un grave errore, commesso peraltro da moltissimi altri paesi, sottovalutare la pandemia e non preparare per tempo un adeguato numero di posti di terapia intensiva, nonostante la Covid fosse già presente in Cina da diversi giorni. E il ritardo da parte dell’Oms nel dichiarare la Covid-19 una pandemia non ha certo aiutato a prendere per tempo le necessarie contromisure. Si è arrivati alla sospensione dei viaggi da e per la Cina troppo tardi, quando ormai erano giunte nel nostro paese troppe persone contagiate, a cui non è stato fatto alcun controllo sanitario. In ogni caso un buon numero di cinesi (o di italiani di rientro) è comunque riuscito ad eludere la chiusura dei voli diretti in Italia, arrivando in altri aeroporti europei e raggiungendo il nostro paese per via di terra, dopo essere stati a festeggiare il capodanno cinese nelle loro città natali.

Per quanto riguarda i tamponi, poiché era impossibile farli a tutta la popolazione, per mancanza di reagenti e di laboratori, inizialmente sono state seguite le indicazioni dell’Oms, che dicevano di farli solo alle persone asintomatiche, paucisintomatiche o con sintomatologia compatibile con Covid, quindi febbre alta e difficoltà respiratorie, che avessero avuto rapporti con persone provenienti dalla Cina o che fossero esse stesse provenienti da località asiatiche. In tale modo sono stati esclusi molti casi positivi, che, inconsapevoli di esserlo, hanno continuato a circolare liberamente diffondendo il virus.

Per molto tempo, pur essendo chiaro che stava aumentando in modo anomalo, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti, il numero di anziani deceduti nelle Rsa, nessuno ha mai pensato di fare i tamponi agli ospiti e al personale sanitario di queste strutture. Solo adesso si stanno facendo i tamponi in tutte le Rsa e case di riposo, quando ormai i loro ospiti sono deceduti in gran numero. Tra l’altro, tali decessi spesso non sono stati conteggiati come Covid, non essendo state compiute le analisi su queste persone prima della morte. E questo è uno degli elementi per i quali si ritiene che il numero totale dei decessi per Covid sia sottostimato. Sicuramente è stato un grave errore la decisione di trasferire dei pazienti Covid in terapia sub intensiva in alcune Rsa, per fare spazio negli ospedali, senza tenere conto del pericolo di contagio (circolare del ministero della Salute del 25/03/2020). Oltre a questo, agli operatori sanitari sono stati forniti i dispositivi di protezione individuale (Dpi) con grande ritardo, per non parlare del fatto che alcuni di loro hanno riferito di avere ricevuto pressioni per non indossare le mascherine in pubblico, allo scopo di non creare allarmismo.

La pressione a cui è stato sottoposto il sistema sanitario nel nostro paese per tentare di fare fronte all’epidemia, ha portato a mettere in secondo piano i malati di altre patologie, con interventi chirurgici già programmati rimandati, visite specialistiche spostate di mesi e così via. Tutto questo per alcuni pazienti può rappresentare un pericolo. Secondo uno studio dell’Università di Birmingham pubblicato sul British Journal of Surgery, a causa della Covid potrebbero essere stati cancellati finora oltre 28 milioni di interventi chirurgici programmati al mondo (3 su 4, cioè il 72,3%). In Italia, le nuove diagnosi di cancro, dall’inizio dell’emergenza, si sono ridotte del 52%, gli interventi chirurgici hanno subito ritardi nel 64% dei casi e le visite specialistiche sono diminuite del 57%. I tumori e le patologie cardiovascolari non sono certamente meno gravi della Covid e tutti questi ritardi nella diagnosi e nella cura rischiano di compromettere la possibilità di sopravvivenza di molte persone, che diventerebbero perciò vittime collaterali dell’epidemia.

Uno dei più gravi errori commessi dal nostro governo è stato quello di emanare una disposizione (circolare n. 15.280 del 2 maggio 2020 del ministero della Salute) secondo la quale, nei casi conclamati di Covid, non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie e riscontri diagnostici. Fortunatamente in alcuni ospedali come il Sacco di Milano e il Giovanni XXIII di Bergamo le autopsie sono comunque state eseguite e si è così compreso che il danno maggiore da Covid non è a carico dei polmoni, ma del sistema circolatorio con formazione di trombi, che rallentano la circolazione del sangue, il quale una volta giunto ai polmoni non consente più una ventilazione corretta. La Covid sarebbe così una malattia infiammatoria del sangue. Quindi, i farmaci che prevengono la formazione dei trombi, come l’eparina possono dare un valido aiuto. Il risultato ottenuto dalle autopsie ha pertanto evidenziato che è stato un errore prima di tutto ospedalizzare i pazienti solo quando ormai giunti alla situazione di «fame d’aria» e, quindi, intubarli per la ventilazione meccanica. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal basata sui dati del Ssn britannico, il 58,8% dei pazienti Covid intubati è morto. A New York risulta deceduto l’88% dei 320 pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. Secondo uno studio del Policlinico di Milano pubblicato da Giacomo Grasselli sul Journal of American Medical Association quasi un paziente Covid intubato su due muore, questo perché la ventilazione meccanica può peggiorare il preesistente danno polmonare.

(RNT)

 




Burj El Barajneh

testo e foto di Daniele Romeo |


È uno dei campi profughi più pericolosi del Libano. Dove rifugiati palestinesi e siriani sono «incarcerati» e abbandonati senza speranza.

Entrato nel campo da una delle poche strade principali, mi ritrovo in un labirinto di vicoli bui. Allungando le braccia posso toccare gli edifici su entrambi i lati. I vicoli creano un senso di intimità e di comunità. Camminando tra le viuzze, posso ascoltare conversazioni, musica e il suono dei televisori. La notizia dell’arrivo di uno sconosciuto corre velocemente. Insieme al senso di comunità è forte anche il senso del controllo sociale.

un murales bellissimo di un martire

Palestinesi e siriani

Burj El Barajneh è un campo profughi palestinese situato nella periferia Sud di Beirut, la capitale del Libano. Fu fondato nel 1948 dopo la «Nakba», termine che in lingua araba significa «catastrofe», quando i palestinesi furono costretti a fuggire dalle loro case e dai loro villaggi. Costruito su un chilometro quadrato di terra per ospitare 10mila rifugiati, oggi ne ospita circa 50mila, compresi alcune migliaia, soprattutto donne e bambini, fuggiti dalla guerra in Siria.

Burj El Barajneh è un campo profughi a lungo termine. Le strade sono vicoli drappeggiati da un groviglio di fili elettrici e tubature dell’acqua. I bambini giocano e vanno a scuola sotto questo «tetto» pericolosamente intrecciato sopra le loro teste e molto spesso ad altezza uomo. Ci sono decine di decessi ogni anno per elettrocuzione.

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

L’accesso al campo

Gli stranieri hanno bisogno di un permesso speciale per entrare nel campo. La Ong palestinese che mi ha invitato, me lo ottiene facilmente dal Mukhãbarãt, il servizio di intelligence dell’esercito. Questo mi permette di muovermi liberamente in entrata e uscita. Il sistema dei permessi scoraggia i curiosi e aiuta le autorità a monitorare la popolazione. Nello stesso tempo fa percepire il campo come una grande prigione a cielo aperto nel bel mezzo di una città cosmopolita come Beirut. Controlli di accesso rigorosi e sorveglianza costante riducono le visite di amici e familiari e ricordano ai rifugiati che la loro vita non è interamente loro.

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

Crisi senza fine

In Libano, la crisi (o meglio la lunga serie di crisi) è in atto dal 1948. Più di un milione di siriani e 450mila palestinesi vivono in dodici campi ufficiali e centinaia di insediamenti informali. I campi più antichi come Burj El Barajneh, una volta considerati temporanei, ospitano rifugiati di terza e quarta generazione. Non si tratta di campi tendati, ma di spazi di cemento e asfalto, agglomerati urbani in un continuo stato di emergenza i cui abitanti vivono in condizioni precarie e in piccoli appartamenti sovrapposti l’uno sull’altro.

Secondo l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), due rifugiati palestinesi su tre in Libano vivono in condizioni di povertà. Circa il 60% dei rifugiati è disoccupato e i posti di lavoro che ricoprono sono quasi sempre non qualificati. A causa dell’insufficiente accesso all’istruzione e alle poche opportunità di crescita personale, è estremamente difficile per loro ottenere le competenze di cui hanno bisogno. Il Libano proibisce ai rifugiati palestinesi di lavorare nelle 72 professioni più importanti, dalla medicina all’ingegneria. Molte famiglie fanno affidamento sui fondi di parenti all’estero e i giovani sognano di emigrare. Questa situazione rende i rifugiati molto vulnerabili e ciò è particolarmente vero per le donne all’interno del campo, che affrontano abitualmente discriminazioni di genere e trovano particolarmente difficile ottenere opportunità di lavoro retribuito.

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

Campo di «battaglia»

Il campo è disseminato dei segni di battaglie e guerriglie passate. Proiettili e fori da armi pesanti fanno da monito sulle facciate di decine di edifici, mentre poster di leader politici e «martiri» coprono pareti come cartelloni pubblicitari. Molti murales raffiguranti giovani uomini armati, insieme a emblemi che indicano alleanze e lealtà, segnano i confini territoriali delle diverse fazioni politiche. Simboli di Fatah, Hamas e bandiere gialle di Hezbollah dominano nel campo e ancora oggi ci sono ovunque immagini di Yasser Arafat, dai poster retrò del giovane leader palestinese con gli occhiali da sole ai murales del presidente, capo della Anp. Una preoccupazione recente è la possibilità che Da’esh possa infiltrarsi e minacciare l’equilibrio della comunità, poiché il campo ospita sia nuclei sciiti palestinesi che cristiani.

Mariam Shaar mentre mi porta in giro per il campo e mi racconta della sua vita e della vicenda palestinese

Le donne del campo e il progetto Soufra

Campo profughi di Burj El Barajneh a Beiurut, Libano

Le immagini di queste pagine fanno parte di un più ampio reportage realizzato nel maggio 2018 per documentare la condizione di vita di un gruppo di donne del campo e, in particolare, un progetto legato alla loro formazione ed emancipazione tramite la cucina. Il reportage è stato realizzato in collaborazione con la Ong palestinese Women Program Association (Wpa) e con quella svizzera Cuisine sans frontières.

Mariam Shaar è nata da genitori palestinesi all’interno del campo ed è qui che attualmente vive. È un’assistente sociale da quasi vent’anni e dirige la Wpa. Mariam è stata la mia guida. Mi ha ospitato nella casa dei suoi genitori in un appartamento del campo. Ha raccontato la sua storia, quella del suo popolo, la tragedia della deportazione prima e dei rifugiati siriani poi; le guerre, le speranze, i suoi sforzi per aiutare le donne della comunità.

La Wpa ha filiali in nove dei dodici campi profughi palestinesi in Libano, incluso il campo di Burj El Barajneh. L’organizzazione offre formazione professionale per le donne, microcredito ai membri della comunità e opportunità di impiego attraverso il progetto Soufra, una start up di catering fondata dalla stessa Mariam nel 2013.

Grazie agli investimenti di alcune Ong internazionali, Wpa è riuscita a realizzare un film documentario sulla vita di Mariam, diretto da Susan Sarandon, che ha permesso di finanziare il primo progetto sostenibile di food truck in Libano: un’unità di ristorazione del progetto Soufra gestito completamente da donne palestinesi. «I rifugiati come noi sanno che la carità non è abbastanza. Ne siamo stanchi. È necessario fare in modo che le persone, le donne del campo, siano autosufficienti. Bisogna insegnare loro come pescare. Questo è ciò che il progetto Soufra e il nostro food truck rappresentano per noi».

Sono questi il pensiero e la filosofia che spingono Mariam a lottare quotidianamente per le donne del campo. A seguito delle richieste della comunità e al supporto di numerose organizzazioni internazionali, la Wpa è anche riuscita ad aprire nel campo di Burj El Barajneh la scuola materna Nawras che offre l’opportunità di istruzione a bambini palestinesi e siriani.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it

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Turismo e Covid-19, un’estate in salita

testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |


La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.

Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.

Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).

Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.

Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.

A Bagamoyo, Tanzania, sull’Oceano Indiano

La perdita di posti di lavoro

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.

Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.

A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:

  • nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
  • Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
  • Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.

La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.

Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.

Il traghetto a Likoni, Mombasa, Kenya

La situazione nei Paesi meno sviluppati

All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.

Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.

Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.

L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.

Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.

Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.

Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.

Vedutadel Monte Kenya

Prima adattarsi e poi ripartire

Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.

In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.

A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.

A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.

Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.

Competizione per fuoristrada nei dintorni di Nairobi, Kenya

Solo danneggiati o anche danneggiatori?

Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.

I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».

E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.

La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.

Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.

Veduta del Monte Kilimanjaro dal Kenya

Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.

In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».

Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.

La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.

Chiara Giovetti

Il Fort Jesus a Mombasa, Kenya




I Perdenti 55. Hadewijch d’Anversa, beghina, mistica e poetessa

testo di Don Mario Bandera |


È interessante notare come alcuni termini che all’origine avevano un loro un preciso significato, ora ne abbiano un altro ben diverso. È il caso del sostantivo femminile «beghina» (mentre il corrispondente maschile – bagardo – non è mai stato popolare) che «nell’uso comune – scrive il vocabolario Treccani – [si riferisce a una] donna che ostenta una devozione puramente esteriore e formale; bigotta, bacchettona».

Questo termine, a partire dal XII secolo, fu utilizzato per indicare membri di associazioni religiose femminili formatesi al di fuori della struttura ufficiale degli ordini monastici e religiosi con lo scopo di una rinascita spirituale della persona e di un rinnovamento della Chiesa. A tali associazioni si univano donne nubili o vedove, donne pie, fortemente religiose, ma volutamente non monache. Si consacravano al Signore e vivevano in comunità (beghinaggi) o in piccoli gruppi, ma non abitavano nei conventi. Contraevano voti simili a quelli degli ordini religiosi, però privilegiavano la libertà individuale, non rinunciavano ai loro beni e si impegnavano a vivere del lavoro manuale e a distribuire il superfluo. Si affidavano a un consigliere spirituale, ma senza rispondere direttamente alle autorità ecclesiastiche.

Questi movimenti sorsero soprattutto nelle Fiandre (oggi parte del Belgio) intorno al 1150 e si diffusero largamente in Germania e in Francia, e, in misura minore, in Italia, avendo séguito proprio in tempi in cui nascevano i grandi ordini religiosi, come i francescani, i domenicani, i cistercensi. Il tempo di massima fioritura fu il XIII secolo, a cui seguì un periodo di declino con una ripresa nel XVII secolo che neppure la Rivoluzione francese riuscì a spegnere. Le ultime beghine erano ancora attive in Belgio negli anni ‘70 del secolo scorso.

Sebbene influenzate dalla vivacità religiosa del tempo e dalla voglia di rinnovamento che condividevano con i nuovi ordini mendicanti, queste associazioni presto caddero in sospetto di eresia a causa di interpretazioni molto personali e a volte esclusivamente letterali delle Sacre Scritture. Questo era dovuto al fatto di non avere una regola scritta, uni-forme e approvata, all’eterogeneità dei gruppi e alla larga diffusione tra il popolo, e all’essere spesso confuse con movimenti ereticali come Manichei, Catari, Osservanti, Albigesi, Flagellanti e Fratelli del Libero Spirito.

Il termine «beghina» ha un significato incerto e «deriverebbe dal verbo beggen (cfr. ingl. to beg) “pregare” e insieme “mendicare”, o dal francese antico bege (mod. beige), ossia dai “panni bigi” di rozza lana di cui si vestivano» (enc. Treccani). Probabilmente è stato utilizzato anche con connotazioni dispregiative e derisorie da parte dei membri delle istituzioni ecclesiali più antiche che guardavano con sospetto la nascita in seno alla Chiesa di simili movimenti.

Noi abbiamo voluto saperne di più colloquiando con Hadewijch d’Anversa, una delle rappresentanti di spicco del movimento delle beghine di quei secoli.

Carissima, di te conosciamo solo il nome e gli scritti che ci hai lasciato, parlaci un po’ della tua vita.

Sono nata nei pressi di Anversa da una famiglia aristocratica, e ho vissuto tra le Fiandre e il Brabante, tra la fine del 1100 e la metà del 1200, più o meno contemporanea o poco più giovane di san Francesco d’Assisi. Durante il mio periodo di «beghinaggio» misi per iscritto molte mie meditazioni.

Tra le tue opere c’è un gruppo in liriche di stile provenzale, ispirate non dal tuo amore di donna per un uomo o viceversa, bensì dal tuo immenso amore di donna per Dio.

Ho scritto molto nella mia lingua locale, il neerlandese, anche se conoscevo bene sia il latino che il francese. Ho lasciato quarantacinque Poesie Strofiche (Strofische Gedichten), frutto del mio amore per Dio. Ho scritto anche trentuno Lettere (Brieven) a carissime amiche che potevano capire e intendere il mio stato d’animo, e a cui raccontavo le mie pene e le mie gioie di innamorata di Dio.

Abbiamo anche la descrizione delle tue visioni, nelle quali, con più immediatezza, descrivi le tue mirabili esperienze mistiche.

Ho lasciato il racconto di quattordici Visioni (Visoenen) e ho scritto anche un testo definito la Lista dei perfetti (Lijst der volmaakten) dedicato a persone per me sante, oltre un gruppo di sedici Poesie miste (Mengeldichten), definite anche come «lettere in rima».

I miei scritti, soprattutto le poesie, vengono riconosciuti come esempio del vertice letterario (scritti da una donna tra l’altro!) raggiunto dalla letteratura mistica delle Fiandre e del Brabante nei XII e XIII secoli.

Dai tuoi scritti capiamo che il tuo cammino di ascesi mistica è stato un percorso esaltante che ti ha portata a vivere esperienze quasi impossibili da raccontare.

Tutto ciò che l’uomo può pensare di Dio o comprendere, e comunque immaginare, ebbene questo non è Dio. Perché se l’uomo potesse intenderlo e comprenderlo con i suoi sensi e i suoi pensieri, Dio sarebbe meno dell’uomo e noi avremmo finito di amarlo. La stessa cosa avviene con gli uomini senza profondità, presso i quali l’amore è presto alla fine.

La mia è stata come un’avventura interiore, una «fiera cavalcata» alla ricerca dell’Amato. Perché l’Amore è tutto, e ciò che conta è soltanto amare, senza preoccuparsi dei dogmi e della gerarchia ecclesiale.

Come hai vissuto il tuo amore per Dio?

Antico manoscritto delle visioni di Hadewijch d’Anversa

Possiamo dire che la vera ragione dell’amore è un’onda che cresce sempre, senza arrestarsi mai. Ciò che appartiene alla ragione è in opposizione con quel che soddisfa la vera natura dell’amore: la ragione non può infatti portar via nulla all’amore, né a sua volta può dargli alcunché.

Prima di possedere l’Amato – lo esprimo con il linguaggio simbolico della poesia provenzale del mio tempo -, bisogna fargli la corte per conquistarlo, agendo sempre cavallerescamente e con generosità, in tutte le cose e con qualsiasi persona, sconosciuta o meno che sia, secondo la dignità dell’Amato, per l’alta fama e per il bene che l’amante avrà presso di lui. Perché lui intende bene la cortesia: quando conosce le grandi pene e il duro esilio che ha sofferto la sua amante, nonché i suoi nobili sacrifici, allora non può non rispondere con l’amore e dare tutto se stesso. Ecco come si corteggia l’Amato!

Ma come è possibile arrivare a questi livelli?

L’aquila fissa il sole senza mai arretrare, come l’anima interiore guarda Dio senza distogliere mai lo sguardo da lui. L’evangelista Giovanni è il capostipite di questa spiritualità, di questo modo di amare Dio, dove non si pensa né ai santi né agli uomini, ma affidandosi completamente alle mani del Signore, si vola semplicemente nelle altezze divine. Quando l’aquilotto non può fissare il sole, viene gettato fuori dal nido. Così farà l’anima sapiente, la quale rigetta tutto ciò che può oscurare lo splendore dello Spirito, poiché all’anima – al pari dell’aquila – non si addice il riposo, bensì il volo incessante verso l’altezza sublime.

Perciò, secondo il tuo modo di vedere, Dio esercita nel più piccolo dei suoi doni tutte le sue più grandi virtù.

Le ricchezze di Dio sono molteplici; Dio è molteplice nell’unità e semplice nella molteplicità. Poiché Dio è questo, tutti i suoi figli conoscono le sue copiose delizie, davvero tutti, l’uno più dell’altro.


La mistica teologica della Hadewijch, rappresentante dell’affascinante mondo della mistica femminile del Medioevo fiammingo, è un esempio significativo di un fedele connubio tra esperienza mistica (da lei chiamata «conoscenza sperimentale») e contemplazione della Parola. Su Hadewijch d’Aversa non è ancora detta l’ultima parola. Per conoscerla meglio si deve soprattutto leggere la sua opera. Le sue Lettere ci restituiscono l’immagine di una donna colta, intelligente, sensibile, soprattutto rivolta a filtrare le sue abbondanti grazie mistiche alla luce del Dio trinitario. Una figura più attuale che mai. Possiamo dire che Hadewijch rappresenta un unicum nella storia della prosa e letteratura neerlandese: la somma maestria con cui ha saputo esprimersi nella sua lingua volgare, ci ha fornito un’opera magnifica. Un’opera pervasa dall’amore, concetto chiave della sua vita. La sua vita, infatti, è una continua ricerca dell’amore per poter soddisfare l’amore e con esso Dio. Le sue esperienze personali, raccontate alle sue amiche, dovevano guidarle alla pienezza dell’amore. Concludendo possiamo dire che la mistica dell’amore in quei secoli lontani ha preparato il terreno a una pedagogia ascetica che è presente ancora oggi nella vita della Chiesa.

Don Mario Bandera

 


NOTA BIOGRAFICA

(da https://it.wikipedia.org/wiki/Hadewijch)

Hadewijch d’Anvers (fine XII secolo – inizio XIII secolo) è stata una mistica e poetessa fiamminga, vissuta probabilmente nel ducato di Brabante (nel quale allora erano incluse città come Bruxelles, Anversa, Lovanio e Breda). Legata al nascente movimento delle «Beghine», fu tra le principali figure della letteratura volgare europea sviluppatasi in quel periodo. Scrisse anche opere in prosa. Non si posseggono notizie certe riguardanti la scrittrice, al di fuori delle indicazioni contenute nelle sue opere, tramite le quali ci ha svelato gli aspetti più intimi della sua anima. Confidò di essere stata conquistata dal «divino amore» all’età di dieci anni, che l’ha accompagnata per tutta la vita. Le sue opere furono incentrate sull’amore, sulle sofferenze e le estasi che produce all’anima. Nelle Brieven (Lettere), chiarì la sua dottrina mistica, costituita da una miscela di razionalità e passionalità sublimata. Ancora più significative furono le Strophische Gedichten (Poesie strofiche), realizzate riadattando gli schemi della lirica provenzale alla sua forte espressività, e ruotanti attorno al tema dell’Assoluto, dell’amore frutto della trasposizione dell’ideale cavalleresco, dell’umiltà come condizione di grazia e della contrapposizione tra quest’ultima e la fierezza.

 




Con cuore grande, facendo del bene

a cura di Sergio Frassetto |


Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.

Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.

Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!

L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.

Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.

padre Francesco Pavese

Devoto figlio di Giuseppe Allamano

Ricordo di padre Francesco Pavese

Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.

Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.

Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.

Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.

Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.

Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.

Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.

(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)


Non voglio morire «sfaccendato»

Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.

Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.

Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.

E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.

Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.

Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.

A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:

  1. essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
  2. essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
  3. essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.

E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.

E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.

Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.

Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.

Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».

A cura di Sergio Frassetto


Il tesoro dello scriba

Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.

Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.

E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.

Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.

Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…

Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».

Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!

Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.

Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:

  • – Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
  • – Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
  • – L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
  • – Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
  • – Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.

Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.

Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.

padre Piero Trabucco