Brasile. Vita di favela (con o senza virus)

Reportage dalla periferia di Belém

testo e foto di Gianluca Uda |


Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.

Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.

In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.

È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.

Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.

La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.

Una mamma con i suoi quattro figli; il marito della donna lavora come taglialegna in Amazonia un lavoro considerato illegale; l’uomo rientra a casa ogni sei mesi circa. Foto di Gianluca Uda.

Favela Che Guevara

Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.

Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.

La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.

La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.

È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.

Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.

Ruth è una giovane ragazza mamma di due bambini; il marito è in carcere per violenza e aggressioni e la donna cerca di sopravvivere come può. Foto di Gianluca Uda.

In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.

Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.

Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.

Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.

Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.

Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.

Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.

Un’anziana signora piange ripensando alla sua vita sempre molto difficile; la donna vive in una sola stanza. Foto di Gianluca Uda.

Storia di Luiziana

Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.

I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.

Luiziane è stata una delle prime persone ad ammalarsi di Covid-19 nella favela Che Guevara, fortunatamente si è salvata; le sue radiografia ancora mostrano problemi a livello polmonare. Foto di Gianluca Uda.

Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.

Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.

Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.

Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.

Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.

George è un ragazzo con una grave patologia neurologica, i genitori sono stati costretti a creare un sorta di gabbia intorno al letto del ragazzo per evitare che si faccia male durante la notte. Foto di Gianluca Uda.

Chiese e famiglie

Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.

La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.

Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.

La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.

In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.

Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia,  spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.

La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.

Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.

Tre fratelli sono costretti a dormire nello stesso letto; la madre dei ragazzi è da sola ad occuparsi dei figli; le loro condizioni sono peggiorate con l’avvento del Covid-19. Foto di Gianluca Uda.

Storia di George

Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.

George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.

Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.

Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.

Gianluca Uda*

(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.

Due bambini davanti all’entrata della loro casa, il frigorifero alle loro spalle e stato trovato per strada e il padre dei ragazzi lo usa come un’armadio per i suoi attrezzi da lavoro. Foto di Gianluca Uda.

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