La nostra salute e quella del pianeta


Le abitudini alimentari di ciascuno di noi producono sempre due tipi di conseguenze: sulla salute del nostro corpo e su quella della terra. Quali sono i cibi più dannosi per la salute? Quali sono quelli a maggiore impatto ambientale? Esiste una dieta sostenibile? A queste domande cercheremo di dare una risposta con una serie di articoli.

Testo di Rosanna Novara Topino

Quando mangiamo, di solito ci preoccupiamo (tuttalpiù) di cosa ci indicherà la bilancia il giorno dopo o del rimprovero che potrebbe farci il nostro medico alla lettura dei risultati nel nostro prossimo esame del sangue, ma difficilmente pensiamo a quanto la produzione di ciò che mangiamo sia costata in termini ambientali (energia consumata, occupazione del suolo, sofferenza umana e animale) e di inquinamento del pianeta, ovvero di quanto la nostra dieta sia sostenibile.

La Fao – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – dice che una dieta può essere considerata «sostenibile» se risponde a tre requisiti: convenienza, alto potere nutrizionale, basso impatto ambientale.

Ormai da decenni (dagli anni Sessanta del secolo scorso) lo sviluppo economico, l’urbanizzazione e l’aumento del reddito procapite si accompagnano ad una trasformazione delle abitudini alimentari via via che i paesi si sviluppano. Si assiste cioè a uno spostamento verso un maggiore consumo di cibi ricchi di zuccheri raffinati e di grassi (anche se forniscono calorie «vuote», cioè alimenti privi di altro nutrimento oltre all’apporto calorico) e di prodotti a base di carne, latte e uova. Questa tendenza ha ripercussioni sia in termini di salute con un incremento a livello globale di patologie come il diabete di tipo 2 (che viene già considerato dall’Oms un’epidemia globale), le malattie cardiovascolari e alcune forme tumorali, che per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente dell’allevamento e dello sfruttamento intensivo dei terreni agricoli.

Il peso (insostenibile) dell’allevamento

Secondo la Fao, la produzione globale di carne (riquadro a pag. 62) è destinata a più che raddoppiare, passando da 229 milioni di tonnellate nel periodo 1999-2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, in linea con l’aumento della popolazione mondiale, che si prevede sarà di 9 miliardi di persone. Inoltre, si stima che la produzione di latte passerà da 580 a 1.043 milioni di tonnellate.

Già attualmente l’impronta ecologica della produzione zootecnica è altamente impattante e le analisi dei diversi sistemi produttivi alimentari dimostrano che, se permane l’attuale trend, nel 2050 le emissioni di gas serra relative a questo comparto produttivo saranno più elevate dell’80% rispetto ai livelli attuali, mentre aumenterà ancora la distruzione degli habitat naturali per fare spazio ai terreni agricoli. Sempre secondo la Fao, l’allevamento produce attualmente circa l’80% delle emissioni di gas serra dell’intero comparto agricolo e il 18%  del totale complessivo a livello mondiale. In pratica, questo settore risulta più impattante di quello dei trasporti. L’allevamento provoca il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (CO2, soprattutto a causa degli incendi di foreste per fare posto a pascoli), il 37% di quelle di metano (si forma nel rumine dei bovini ed è 23 volte più impattante della CO2) e, per via delle deiezioni, il 65% di quelle dell’ossido di azoto (296 volte più impattante della CO2). Anidride carbonica, metano e ossido di azoto sono i tre gas serra responsabili del riscaldamento globale. A tutto ciò si aggiunge il rilascio del 64% delle emissioni totali di ammoniaca, che causa le piogge acide e l’acidificazione degli ecosistemi.

L’allevamento è – inoltre – responsabile dell’uso del 70% dell’acqua consumata sulla terra (acqua impiegata nelle coltivazioni di prodotti usati nella zootecnia, per lo più su terreni irrigati, in aggiunta a quella necessaria ad abbeverare gli animali e a quella usata per pulire le stalle) e di buona parte del suo inquinamento. Sebbene non ci siano stime a livello mondiale, negli Stati Uniti si stima che l’allevamento comporti il 55% dell’erosione dei suoli, il 37% dell’uso totale dei pesticidi, il 50% dell’uso di antibiotici e un terzo del carico di azoto e di fosforo nell’acqua potabile. Inoltre il 10% delle specie minacciate perde il proprio habitat a causa dell’allevamento, che è quindi corresponsabile della perdita di biodiversità.

I costi del cibo per gli animali allevati

Gli animali d’allevamento sono «macchine» (così – purtroppo – sono considerati negli allevamenti) poco efficienti in termini di conversione di proteine vegetali in proteine animali, perché consumano molte più calorie vegetali, di quante ne producono sotto forma di carne, latte e uova. Per produrre una caloria di origine animale, ne vengono consumate circa 15 di origine vegetale, sotto forma di mangimi.

Per l’utilizzo zootecnico, negli Stati Uniti vengono impiegati il 70% degli alimenti vegetali (cereali e semi oleosi), in Europa il 55%, mentre in India solo il 2%. Gli allevamenti intensivi competono per il cibo con gli umani, considerando che il 50% dei cereali e il 75% della soia prodotti nel mondo vengono destinati agli animali allevati. Una persona con una dieta ad elevato consumo di carne attualmente necessita di circa 4.000 metri quadri di terreno per la produzione di foraggio e cereali per nutrire gli animali necessari, mentre per un vegetariano bastano 1.000 metri quadri. Attualmente si stima che siano disponibili circa 2.700 metri quadri di suolo coltivabile a testa a livello mondiale, ma per l’aumento della popolazione nel 2050 tale disponibilità pro capite sarà di 1.200-2.000 metri quadri.

Oltre all’impiego di almeno la metà dei suoli fertili dell’intero pianeta per la produzione di cereali, semi oleosi, proteaginose (colture industriali a elevato tenore proteico per la produzione di mangimi) e foraggi, poiché per produrre più carne è indispensabile puntare all’ottimizzazione delle rese agricole, l’allevamento industriale comporta un enorme uso di fertilizzanti, diserbanti e pesticidi. Negli Stati Uniti l’80% di tutti gli erbicidi viene impiegato nei campi di mais e di soia destinati all’alimentazione animale.

In Italia l’atrazina (erbicida) utilizzata nelle coltivazioni di mais e bandita 25 anni fa per la sua cancerogenicità è ancora presente nell’acqua del Po e si pensa che ci vorranno ancora parecchi anni per eliminarla. Nel bacino del Po sono contaminate le acque superficiali e buona parte di quelle sotterranee.

I costi della produzione della soia

In Sud America ci sono forse le conseguenze più gravi da allevamento intensivo. Qui, in soli tre paesi – Brasile, Paraguay e Argentina – viene prodotto il 95% della soia mondialmente esportata. Questa monocoltura è responsabile della deforestazione di una parte rilevante della foresta amazzonica sia per ricavarne terreni agricoli, sia per la costruzione di reti stradali per il trasporto del prodotto ai porti principali. Inoltre, poiché la soia coltivata in questi paesi è in buona parte Ogm, essa è responsabile del massiccio uso del Roundap (glifosato) della Monsanto, un pesticida probabilmente cancerogeno secondo l’«Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro»(Iarc). In particolare, a esso sarebbe associato il linfoma non-Hodgkin. I danni provocati da questo erbicida sono ingenti non solo per l’ambiente, ma anche per i contadini e per le loro famiglie, che si ammalano sempre di più, dal momento che lo spargimento sui campi avviene per mezzo di aerei. Un’altra conseguenza della monocoltura di soia è l’accaparramento del terreno da parte dei latifondisti, con l’esproprio (spesso tramite l’uso delle armi) delle popolazioni rurali, che sono costrette ad abbandonare la terra abitata da generazioni e ad andare ad aumentare il numero di presenze nelle periferie delle grandi città. Infine questa monocoltura comporta il massiccio uso di acqua fossile per irrigazione e provoca lisciviazione e progressiva desertificazione del terreno (fenomeno comune a ogni tipo di coltivazione intensiva in cui ci sia uso di grandi quantità di fertilizzanti e di irrigazioni con acqua di falda ricca di sali minerali). In Italia la soia viene utilizzata negli allevamenti (dopo la proibizione dell’uso delle farine animali, a seguito della crisi della «mucca pazza») e quella d’importazione dai paesi sudamericani (quindi prevalentemente Ogm) ammonta al 95% del totale.

Il consumo di energia fossile

Per quanto riguarda il consumo espresso in Kcal di energia fossile necessaria per la produzione di 1 Kcal di alimento, il rapporto più sfavorevole riguarda la carne di agnello con 57:1, seguito da quella di manzo con 40:1, 39:1 per le uova, 14:1 per il latte e la carne di suino, mentre per il grano il rapporto è di 2:2.

È evidente che è necessario ridurre i consumi di carne, sia per salvaguardare la nostra salute, che per un minore impatto ambientale, ma anche per salvaguardare la salute e i diritti di popolazioni, che vengono espropriate dei loro terreni e a cui viene impedito di coltivare piante per la loro sussistenza, nel rispetto della biodiversità, che invece va persa.

Per non parlare del fatto che è assolutamente sbagliato considerare gli animali come macchine per produrre cibo, prive di sensibilità e di consapevolezza di sé, infliggendo loro le peggiori sofferenze, quando ormai sono moltissimi gli studi di etologia che hanno dimostrato esattamente il contrario. Sono innumerevoli gli esempi di grande intelligenza e di sensibilità nel mondo animale, di cui comunque l’essere umano fa parte. Invece di avere pretese di superiorità sugli altri animali e trattarli come merci piuttosto che come esseri viventi, dovremmo prendere esempio dai grandi carnivori, che predano esclusivamente quando hanno fame, non sprecano nulla e solitamente si nutrono di animali per lo più già deperiti.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

 

Approfondimento

Il consumo di carne

Negli ultimi vent’anni i consumi di carne hanno subito un incremento a livello globale e sono destinati a crescere in futuro. Probabilmente di molto, in considerazione del loro aumento nei paesi emergenti.

Basti ricordare che nel 2011, anno in cui la disponibilità mondiale di carne è stata di circa 300 milioni di tonnellate, poco meno della metà è stata utilizzata nel solo continente asiatico. Esistono però sostanziali differenze nei consumi tra le varie regioni del mondo. Sebbene i paesi asiatici siano i maggiori consumatori in volume di carne, tuttavia risultano tra quelli con il valore pro capite inferiore (pur se decisamente in crescita a partire dagli anni Ottanta). I paesi del Nord America presentano il consumo più alto rispetto a quello degli altri continenti. Qui il consumo pro capite è 4 volte quello medio africano. In Italia il consumo apparente, secondo i dati della Fao, è di 230 g di carne al giorno, mentre quello reale è di 110 g, per un totale annuo a testa di circa 40 Kg. La differenza tra consumo apparente e reale è dovuta agli scarti rispetto alla carne commestibile.

R.N.T.

 




Lo stato e il suo finanziamento


Diritti della persona e beni comuni non possono essere tutelati dal mercato, essendo quest’ultimo uno strumento che esclude chi non può pagare. Soltanto una comunità organizzata in una «casa comune» (come lo stato) può raggiungere lo scopo. Per poter funzionare, la casa comune ha però bisogno di essere finanziata. Le imposte servono a questo.

Siamo abituati a pensare che l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni sia tramite l’acquisto, ma in realtà abbiamo a disposizione anche altri canali, di cui due usati abitualmente. Il primo è «il fai da te», che ci permette di provvedere da soli a ciò che ci serve. Situazione che ricorre, ad esempio, quando cuciniamo, riordiniamo la casa, laviamo i nostri panni, ripariamo la nostra bicicletta. Il secondo canale è «l’azione collettiva» che significa mettersi insieme per raggiungere un obiettivo comune. Le modalità sono tante e vanno dal gruppo di amici che si dividono i compiti per un’attività a beneficio di tutti, agli abitanti di una località che uniscono le forze per un evento comune, fino alle forme più organizzate di servizi pubblici.

L’umanità ha sempre avuto ben chiaro che da soli non si va da nessuna parte e da sempre, a tutte le latitudini, si sono sviluppate forme di organizzazione comunitaria. Non di rado anche di tipo deviato come mostrano le monarchie, il feudalesimo, le dittature e ogni altra forma di gestione del potere statuale basato sul sopruso e la prepotenza. E sono proprio queste forme di degenerazione che spesso ci fanno vivere la dimensione pubblica come un nemico che ci opprime piuttosto che come una comunità che ci accoglie. Ma dobbiamo convincerci che senza dimensione comunitaria la nostra vita è fortemente compromessa soprattutto per ciò che concerne i diritti e i beni comuni. E se in tema di beni comuni sembra esserci un consenso diffuso sulla necessità di tutelarli, rispetto ai diritti si ha la sensazione di trovarci di fronte a un’idea che sta passando di moda. Un risultato forse dovuto all’insinuarsi sempre più in profondità della cultura individualista indotta dal mercantilismo crescente. Ma forse dovuto anche a una insufficiente riflessione sul concetto di diritto che vale la pena rispolverare.

I diritti, la nostra seconda pelle

I diritti non sono un optional. I diritti sono la nostra seconda pelle. Ci appartengono come il nostro nome e cognome. Ci appartengono per il fatto stesso di esistere, perché si riferiscono ai bisogni fondamentali che ciascuno di noi deve poter soddisfare indipendentemente se ricco o povero, maschio o femmina, giovane o vecchio. Nasciamo col diritto a respirare, a nutrirci, a coprirci, a proteggerci, a curarci, a istruirci, a muoverci, a comunicare, a vivere in sicurezza.

Per fortuna non c’è ancora nessuno che affermi che solo i ricchi debbono poter bere o mangiare, il che ci permette di stabilire subito, con certezza, che i diritti non possono appartenere al mercato. E non per pregiudizio ideologico, ma per constatazione pratica. Da un punto di vista dell’offerta il mercato è ineguagliabile, con i suoi milioni di imprese di ogni dimensione e settore. Beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra: non c’è prodotto che il mercato non sia in grado di procurare. Ma la regola base del mercato è la vendita che esclude automaticamente chi non può pagare. Esclusione e diritti sono principi inconciliabili. Per questa unica ragione, il mercato, una macchina organizzata per escludere, non può occuparsi di diritti.

L’ambito naturale dei diritti è la comunità che si organizza per garantirli a tutti in maniera gratuita attraverso un patto di solidarietà. Chiede ad ognuno di contribuire per quanto può, affinché ognuno possa ricevere per quanto ha bisogno. Un principio che non è estraneo ai nostri ordinamenti, ma che oggi è sotto attacco perché toglie spazio al mercato. Eppure, il riconoscimento dei diritti è lo spartiacque tra umanità e animalità. È l’affermazione che la convivenza non va organizzata sulla forza e la prepotenza, ma sul riconoscimento di un livello di uguaglianza e di rispetto per tutti che nessuna forza può oltrepassare. Nella misura in cui questo patto è rispettato, avremo la civiltà, altrimenti sarà la barbarie.

In concreto dovremmo rafforzare e riformare la dimensione comunitaria in modo da costruire una grande casa comune dentro la quale tutti possano trovare rifugio e sicurezza. In tre campi dell’esistenza: in primo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, cibo, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia; poi la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la qualità della nostra esistenza dipende da un ambiente in buono stato; infine, la garanzia di un lavoro affinché tutti possano sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Il finanziamento della «casa comune»

Chiarite le funzioni della dimensione comunitaria, si tratta di capire come farla funzionare. Le soluzioni possono essere varie. Ad esempio, potremmo far funzionare i servizi collettivi, mettendo tutti una parte del nostro tempo a loro disposizione. Oppure potremmo organizzare delle attività produttive per fabbricare, in forma collettiva e monopolistica, dei beni destinati alla vendita e col ricavato finanziare i servizi pubblici.

Per una serie di vicende storiche, la formula che più si è fatta strada è quella della tassazione della ricchezza prodotta individualmente. In pratica ognuno versa allo stato una parte di ciò che guadagna e col ricavato lo stato acquista beni e lavoro, utili a garantire servizi e assistenza. Una modalità di finanziamento semplice come principio, ma complessa nella sua attuazione pratica perché la questione fiscale trascina con sé varie altre problematiche su cui spiccano l’esigenza di efficacia e di equità. Efficacia intesa come capacità reale dello stato di impossessarsi della ricchezza dei cittadini. Equità intesa non solo come tentativo di fare pagare di più a chi più ha, ma anche come tentativo di livellare la ricchezza dei cittadini. Solitamente il primo obiettivo è raggiunto tassando la ricchezza nelle sue varie espressioni, il secondo tramite la progressività. L’analisi della situazione italiana ci può aiutare a capire meglio come funzionano entrambi.

Le imposte in Italia (e il «cuneo fiscale»)

In Italia, la pressione fiscale, ossia la quantità di ricchezza rastrellata dallo stato, ammonta grosso modo al 42% del prodotto interno lordo e fornisce un gettito che, nel 2016, è stato di 717 miliardi di euro. Un ammontare raggiunto attraverso tre vie contributive: contributi sociali per il 31%, imposte dirette per il 35%, imposte indirette per il 34%. I contributi sociali, che gravano in parte sui lavoratori, in parte sui datori di lavoro, sono prelievi effettuati sulle attività produttiva per finanziare la previdenza dei lavoratori. Sommati ad altre forme assicurative obbligatorie (per gli infortuni, per esempio) e alle imposte sui salari, rappresentano il cosiddetto «cuneo fiscale».

Le imposte dirette sono prelievi su ciò che ognuno guadagna (reddito) e sulla ricchezza che ognuno ha accumulato (patrimonio). A seconda della fonte, i redditi si distinguono in redditi da lavoro, redditi da fabbricati (affitti), redditi da capitale (interessi e dividendi), redditi da impresa (utili). L’Irpef è l’imposta sul reddito più conosciuta. Quanto ai patrimoni, si usano distinguere in mobiliari e immobiliari. I mobiliari comprendono depositi bancari, titoli, quote societarie; gli immobiliari: case, palazzi, terreni. L’Imu è l’imposta sul patrimonio più conosciuta.

L’articolo 53: la progressività disattesa

Riuscire ad intercettare tutto ciò che i cittadini guadagnano è impresa piuttosto ardua, perciò accanto alle imposte dirette, che colpiscono la ricchezza quando viene incassata, lo stato ricorre anche alle imposte indirette che colpiscono la ricchezza quando viene consumata. L’Iva è l’imposta indiretta più nota. Come regola si può dire che una forte incidenza delle imposte indirette denota scarsa volontà perequativa da parte dello stato, perché le imposte indirette colpiscono i redditi in forma decrescente. Poiché chi guadagna poco consuma tutto, finisce per pagare imposte indirette sul 100% del proprio reddito. Chi guadagna molto, invece, pur conducendo una vita più agiata, evita di consumare tutto, finendo per pagare tasse indirette solo su una parte del suo reddito. A causa di questo meccanismo, una forte preponderanza di imposte indirette denota che lo stato preferisce colpire gli strati medio bassi piuttosto che quelli ricchi. Il che è contrario allo spirito della Costituzione che all’articolo 53 afferma: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» ed aggiunge che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Tradotto significa che la ricchezza non deve essere tassata tutta allo stesso modo, ma in forma crescente al crescere del reddito. Un modello di progressività è l’imposta differenziata per scaglioni di reddito. Ad esempio, si potrebbe prevedere un’aliquota (quota di tassazione) nulla sulla prima fascia di reddito fino a 10.000 euro all’anno, del 5% sui successivi 5.000 euro, del 7% sui successivi 4.000, del 10% sui successivi 3.000 e avanti di questo passo.

La progressività si basa sulla constatazione che il reddito risponde a bisogni diversi via via che cresce: le quote più basse non possono essere toccate o devono essere toccate poco perché servono per i bisogni fondamentali. Viceversa, le quote che si aggiungono servono per consumi sempre più di lusso, per cui si possono tassare sempre di più senza paura di compromettere la vita delle famiglie, ma anzi migliorandola perché si arricchiscono di servizi pubblici. Ma la progressività serve anche a ridurre le disuguaglianze e ad attivare il principio di solidarietà fra chi ha molto e chi ha poco.

Tuttavia, per essere reale la progressività ha bisogno non solo di aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito, ma anche di cumulabilità dei redditi. Ci sono categorie di persone che hanno una sola fonte di reddito. È il caso della maggior parte dei lavoratori dipendenti. Ma ci sono categorie più benestanti che ottengono redditi da più fonti. Può succedere al libero professionista che oltre ad ottenere redditi da lavoro autonomo, ottiene introiti per affitti, per interessi su depositi bancari e altro. Se ogni tipo di reddito è tassato separatamente, le aliquote più alte non scattano mai e la progressività rimane azzoppata.

Nella prossima puntata esamineremo più in dettaglio alcune caratteristiche del sistema fiscale italiano per capire da che parte sta veramente.

Francesco Gesualdi

 




I Perdenti 41. I Santi Martiri Canadesi


Con il titolo «Santi Martiri Canadesi» veneriamo un gruppo di otto missionari francesi (sei sacerdoti e due religiosi professi) della Compagnia di Gesù, uccisi nelle aree a cavallo dell’attuale confine tra Canada e Usa dagli indigeni Irochesi mentre svolgevano il loro ministero presso gli Uroni tra il 1642 e il 1649.

Questi i nomi dei martiri:

  • fratel René Goupil (1608-1642);
  • padre Isaac Jogues (1607-1646);
  • fratel Jean de La Lande (1615-1646);
  • padre Antoine Daniel (1601-1648);
  • padre Jean de Brébeuf (1593-1649);
  • padre Gabriel Lalemant (1610-1649);
  • padre Charles Garnier (1605-1649);
  • padre Noel Chabanel (1613-1649).

Furono proclamati beati da papa Pio XI il 21 giugno 1925 e dichiarati santi dallo stesso pontefice il 29 giugno 1930. La loro memoria liturgica è il 19 ottobre.

Fu la devozione popolare a riunire in un unico gruppo gli otto missionari gesuiti martirizzati in quella che allora era chiamata la Nuova Francia (un territorio allora ancora largamente inesplorato) e a coniare per loro il nome di «martiri canadesi». La chiesa rispettò tale indicazione beatificandoli e canonizzandoli tutti insieme.

Tuttavia, questa denominazione non sarebbe la più esatta dal momento che i confini fra Stati Uniti e Canada non corrispondono più a quelli del XVII secolo. René Goupil, Isaac Jogues e Jean de La Lande, infatti, subirono il martirio nell’attuale territorio statunitense mentre gli altri cinque in quello canadese. Di conseguenza, negli Stati Uniti la denominazione più diffusa è quella di «martiri nordamericani» e talvolta addirittura «martiri americani». Del resto, gli stessi testi liturgici della loro commemorazione parlano di «borealibus Americae regionibus» (regioni boreali dell’America).

Per conoscere meglio la loro storia abbiamo parlato con padre Jean de Brébeuf, nato in Normandia, Francia, nel 1593 e ucciso presso il Lago Huron in Canada nel 1649.

Come mai tu e i tuoi giovani compagni gesuiti sceglieste di svolgere la vostra azione evangelizzatrice proprio in Canada?

Da seminaristi eravamo affascinati dai primi missionari che dopo aver vissuto per anni negli immensi territori del Nord America, ritornando in Europa, ci entusiasmavano con i loro racconti. Posti di fronte alla responsabilità del primo annuncio del Vangelo in terre sconosciute, pregando molto e facendoci coraggio l’un l’altro, chiedemmo ai nostri superiori di poter essere inviati nel continente americano. In quel territorio, che ai miei tempi era chiamato «Nuova Francia», come ardenti neofiti missionari volevamo portare la Buona Notizia del Vangelo ai popoli nativi.

Eravate coscienti dei pericoli ai quali andavate incontro, stabilendovi fra tribù indigene spesso in lotta fra di loro? È vero che alcuni di voi avevano lucidamente previsto, e in coscienza accettato, la probabile prospettiva del martirio?

È vero. Io stesso avevo fatto voto di non tirarmi indietro davanti al martirio. Fin dall’inizio eravamo preparati e attenti per annunziare il Vangelo nel pieno rispetto della cultura delle tribù locali: Algonchini, Uroni, Irochesi e altre.

Una volta stabiliti in Nordamerica, incominciammo a vivere con loro, imparando le loro lingue, i loro usi e costumi, dando testimonianza del vivere cristiano nella quotidianità di ogni giorno. Non esitammo un solo momento a mettere a rischio la nostra stessa vita per portare avanti questo compito che ci era stato assegnato. Era mio desiderio «farmi tutto a tutti per guadagnarli a Gesù Cristo», come dice san Paolo, conquistando il loro cuore.

Ero più che mai convinto che Gesù Cristo fosse la nostra vera grandezza. Perciò nel seguire quei popoli, dovevamo cercare solo Lui e la Sua Croce. Perché se avessimo cercato qualcos’altro, avremmo trovato solo afflizioni fisiche e spirituali. Ma se hai trovato Gesù Cristo e la Sua Croce, allora hai trovato le rose nelle spine, la dolcezza nell’amarezza, il tutto nel nulla.

Ma la tua prima esperienza in quelle terre fu breve.

Arrivai in quello che oggi è il Canada, nel 1625. Avevo 32 anni. Dopo un breve periodo di «apprendistato» con gli Algonchini, mi mandarono tra gli Uroni, che da tempo avevano buone relazioni con i francesi con i quali avevano intensi scambi commerciali.

Rimasi con loro fino al 1629 imparando la loro lingua e costumi. Fu un periodo di grande impegno. Imparai bene la loro lingua tanto da scrivere un dizionario per aiutare gli altri missionari. Scrissi anche un catechismo. Quei due testi sono diventati una delle poche testimonianze rimaste della lingua e cultura degli Uroni dopo il loro annientamento avvenuto qualche decennio più tardi.

Fui poi richiamato a Québec per un nuovo incarico.

Proprio quando la città di Québec e la colonia francese furono occupate dagli inglesi e i missionari cattolici a malincuore dovettero lasciare il Canada e ritornare in patria.

Infatti. Anch’io fui rispedito in Francia quando, nel 1629, gli inglesi conquistarono la città con un colpo di mano. Però, dopo un accordo di pace con l’Inghilterra (nel 1632), la Francia riebbe quella parte del Canada e anche i Gesuiti ritornarono nelle loro missioni. Rientrai nel 1633 e fui mandato fra gli Uroni per condividere la loro esistenza molto semplice e continuare così l’opera di evangelizzazione appena abbozzata.

Se non vado errato tra il 1634 e il 1639 ci furono violente epidemie di vaiolo, dissenteria e influenza che colpirono voi e decimarono la popolazione locale.

Noi missionari fummo i primi a essere colpiti da quelle malattie portate dall’Europa. Anche se privi di forze, debilitati e convalescenti, ci demmo da fare in ogni modo per aiutare tutti, nonostante l’avversità degli stregoni, che ci ritenevano responsabili dell’epidemia e aizzavano la gente contro di noi.

Va detto che avevano tutte le ragioni per accusarci, ma in quel tempo nessuno sapeva che eravamo noi stessi i portatori di quelle malattie che erano completamente sconosciute agli indigeni, malattie che si diffusero rapidamente tra gli Uroni causando moltissimi morti e decimando la popolazione.

E tu come vivesti quegli eventi?

Quello fu uno dei momenti più difficili della mia vita missionaria. Da parte mia sopportavo con infinita pazienza, e sempre con il sorriso sulle labbra, gli insulti, le offese, le botte e le ferite che gli Uroni mi infliggevano, aizzati dai loro stregoni. Lungo le giornate cercavo di essere sempre il primo per svolgere i compiti più gravosi, mi alzavo la mattina presto per accendere il fuoco che sarebbe poi stato utilizzato dalle diverse famiglie nelle loro tende, così come alla fine della giornata mi coricavo per ultimo dopo essermi assicurato che nel villaggio tutto fosse in ordine. Ma fu molto duro, e più volte corremmo il rischio che la missione fosse distrutta.

Nonostante l’ostilità degli stregoni e le calunnie nei vostri confronti, voi continuaste la vostra presenza nella confederazione delle tribù degli Uroni.

Dopo le epidemie noi continuammo e intensificammo la nostra presenza tra gli Uroni e fondammo nuove missioni, intraprendendo viaggi avventurosi e rischiosi sia per l’ostilità degli «uomini medicina» (che noi spesso liquidiamo come stregoni) che per le razzie degli Irochesi. Durante uno di questi viaggi ebbi una brutta caduta sul ghiaccio e così fui costretto a restare nella missione centrale a Québec dove mi diedero il compito di coordinare i rifornimenti. Impegno non facile perché spesso i nostri convogli venivano attaccati e depredati da razziatori Irochesi, sempre più aggressivi, che rubavano i rifornimenti e le pellicce raccolte dagli Uroni. Sono nel 1644 potei tornare nelle terre degli Uroni a tempo pieno.

Ma quando le razzie degli Irochesi si trasformarono in una vera guerra contro gli Uroni, per voi cambiò tutto.

Negli anni 1647-48 tra le due popolazioni indigene scoppiò una vera e propria guerra «di sterminio», che terminò con l’annientamento quasi totale degli Uroni e di conseguenza con l’apparente annullamento della nostra opera missionaria.

Le guerre tribali non erano una novità tra i popoli di quelle regioni, ma quest’ultima fu particolarmente feroce per varie ragioni. Le tribù Irochesi (Mohawk, Cayuga, Oneida, Onondaga e Seneca) avevano stretti rapporti commerciali con gli Olandesi a cui vendevano soprattutto pellicce. Ma l’uccisione sconsiderata dei castori aveva portato alla loro quasi totale estinzione nei loro territori. Gli Irochesi, quindi, avevano bisogno di conquistare nuove aree per continuare i loro commerci. In più gli Olandesi, al contrario dei Francesi, non si facevano scrupolo a vendere armi da fuoco agli Irochesi, per cui questi, meglio armati e istigati dagli Olandesi e Inglesi (alleati e protestanti, che volevano mandare via i Francesi, competitori nella colonizzazione e per di più cattolici), ebbero facilmente la meglio sugli Uroni, con poche armi da fuoco e già decimati dalle epidemie che avevano dimezzato la popolazione.

Fu proprio nel contesto di questa sanguinosa guerra fra i due gruppi di tribù che si collocò la nostra storia con il conseguente sacrificio di noi Gesuiti francesi che, fatti prigionieri, fummo sottoposti ad prolungate e feroci sevizie, secondo l’uso degli Irochesi di torturare i loro nemici per ore e ore, a volte addirittura per giorni interi sino alla morte.

Il vostro eroismo nel sopportare le torture e nell’andare incontro alla morte pregando per i vostri torturatori, impressionò gli Irochesi, tanto che vi strapparono il cuore per mangiarlo e diventare partecipi del vostro coraggio.

Per voi questo è certo un risvolto macabro e disgustoso, ma se lo guardiamo dal punto di vista della storia della Missione possiamo dire che un po’ del cuore dei martiri restò davvero nell’anima degli Irochesi. Infatti, l’esperienza cristiana non si estinse completamente, anzi, nei decenni successivi, riprese vigore e fiorì di nuove opere, che dal sangue dei martiri traevano insostituibile linfa.

Il 16 marzo 1649 la nascente missione di sant’Ignazio fu assalita da oltre mille Irochesi che uccisero moltissimi Uroni, altri furono torturati senza pietà e un gran numero di donne e bambini furono rapiti per essere assimilati e schiavizzati nella tribù dei vincitori. Catturarono i padri De Brébeuf e Gabriel Lalemant. Strapparono loro le unghie e li legarono a un palo, con delle scuri incandescenti legate al collo che bruciarono loro il dorso e il petto, mentre una cintura di corteccia con pece e resina incendiate cingeva i loro fianchi. Li «battezzarono» con acqua bollente e trafissero con aste arroventate, strappando loro brandelli di carne e divorandola davanti ai loro occhi. I torturatori, infuriati perché padre Jean invece di gridare dal dolore continuava a pregare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua, gli ruppero le mascelle, ficcandogli in gola tizzoni ardenti; poi finalmente sazi di tanta crudeltà, gli aprirono il petto e gli strapparono il cuore, lo mangiarono e ne bevvero il sangue, convinti – secondo le loro credenze – di assimilarne così il coraggio.

Con il passare degli anni l’evangelizzazione seminata da padre Jean de Brébeuf e dai suoi compagni, cominciò a dare i primi frutti, al punto che nel 1649, anno in cui egli fu ucciso, gli Uroni battezzati erano quasi settemila.

Come dicevano i cristiani dei primi secoli: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani», così il sacrificio dei martiri canadesi non fu inutile, perché nei decenni successivi, la comunità cattolica riprese vigore e si affermò saldamente in quei vasti territori, donando alla Chiesa altri santi come Kateri (Caterina) Tekakwitha (+1680).

Don Mario Bandera

 




Deserto, il test della finitezza

La prima coppia umana è lì, in quel giardino colmo di vita da gustare. Tutto è promessa di pienezza, predisposto per il bene dell’uomo e della donna. Dio plasma il creato e lo dona loro. E li istruisce per distinguere gli alberi commestibili dagli altri, l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male, che coltiveranno senza cibarsene.

Si fonda lì la loro libertà: sulla distinzione tra ciò che è disponibile al loro appetito e ciò che non lo è, sull’esperienza del limite, sulla presenza nella sazietà di un buco che rimanda ad altro, che fa sorgere il desiderio, che è il luogo nel quale si manifesta la promessa. E sull’amicizia con Dio.

La prima coppia umana è lì. Anche il serpente è lì: il più astuto tra gli animali. Egli non genera il dubbio, che è parte del desiderio, ma insinua il sospetto, che è anzitutto un taglio di fiducia, un tarlo di relazione che trasforma il desiderio in brama. Basta un attimo, e la conoscenza del bene e del male è divorata. Il limite rimane tale, ma è rifiutato. La libertà è compromessa.

L’uomo e la donna si nascondono, ora. Si vergognano di ciò che sono, della loro nudità. E il Signore inizia lì la sua ricerca. Come uno sposo che cerca la sua innamorata nella notte per coprirla con una veste tessuta dalle sue mani e riportarla nel suo amore.

Gesù è nel deserto. Sta al di là del Giordano, come Israele sotto la guida di Mosè prima di entrare nella terra promessa per dare vita al suo regno. Regno di uomini costruito sul sangue, quello d’Israele, Regno di Dio sotto il segno della debolezza, quello che Gesù realizzerà.

Sta nel deserto quaranta giorni Gesù. Sospinto dallo Spirito santo, vi sperimenta il limite dell’uomo, ciò che gli è indisponibile, la sua finitezza. Prova fame, ma pur essendo figlio di Dio non trasforma la pietra in pane, prova rabbia per il sangue sparso dalle guerre e dalle ingiustizie, ma non trasforma il mondo in un paradiso terrestre, prova pena per gli uomini persi dietro chimere inconsistenti, ma rifiuta di attirarli a sé tramite uno spettacolo di potenza divina.

Gesù sta lì. Abita il limite, non lo divora. Lo ama. Ama la libertà giocata nella condizione umana. Ama l’uomo, la finitezza dell’uomo che è la dimora dell’infinita possibilità d’affidarsi.

Non di solo pane vive l’umanità, ma di una promessa già realizzata e non ancora, e rinnovata da Lui, il crocifisso risorto.

Buon cammino nel deserto, buona Quaresima,

da amico.

Luca Lorusso


Pennellate di Kenya

Padre Nicholas Muthoka ci manda dal suo Kenya una foto del paese e della Chiesa locale. Come in ogni foto, le ombre mettono in risalto le forme e i colori.

Sono in modalità vacanza, tranquillo, senza pensieri e, onestamente, alla ricerca di un po’ di svago.

È l’imbrunire ed esco dalla nostra tranquilla casa regionale dei missionari della Consolata a Westlands, Nairobi, per fare una passeggiata.

La capitale del Kenya è una città caotica, popolatissima e inquinata all’ennesima potenza. La gola si irrita quando esci di casa.

Cammino per strada. Ci sono macchine che corrono e gente che attraversa in modo disordinato e spesso pericoloso. Noto un ragazzino sui 13 anni che gioca, da solo, sul bordo della strada. Fa le capriole e altra ginnastica. Si diverte. È sporco e nessuno lo guarda, e neanche lui si lascia guardare.

Ragazzi di strada

È uno dei tanti ragazzi di Nairobi cresciuti in strada, duri e pericolosi, almeno all’apparenza. Ho paura, perché ho con me un nuovo cellulare che un parrocchiano mi ha regalato a Natale e non vorrei che questo qui me lo rubasse, ma mi si stringe il cuore. Che un bambino di quell’età viva in quelle condizioni mi sembra disumano. Poi mi viene in mente la parabola del buon samaritano, di quel malcapitato sulla strada verso Gerico, dei tre personaggi che gli passano accanto, e mi interrogo.

Ho paura, ma vorrei anche aiutarlo, e non so cosa decidere. «D’altronde – mi giustifico -, ci sono migliaia e migliaia di altri ragazzi di strada così per la città, posso mica aiutarli tutti». Alla fine, vado in un fast food lì vicino, compro delle patatine fritte e gliele porto.

Mi guarda incuriosito e le prende. Mentre mangia, facciamo due parole. Gli chiedo il nome: James.

Ricchi e poveri nella stessa chiesa

Mi sono riproposto di andarlo a trovare altre volte e mettermi in contatto con qualche organizzazione o casa di accoglienza per ragazzi di strada. Come missionari ne abbiamo una proprio qui a Nairobi, «Familia ya ufariji».

Accanto a questo ragazzo, passavano macchine grosse, attorno a lui grattacieli modernissimi, tanta gente, ogni persona con i suoi pensieri e la propria vita. Il Kenya è un paese in forte crescita economica e anagrafica. Sono molte le persone che fanno grande fortuna con il commercio, gli investimenti e la corruzione, mentre altri giacciono nella povertà, nelle malattie e nell’ignoranza. La classe media stenta a crescere mentre la forbice tra ricchi e poveri aumenta. La cosa assurda è che questi ricchi e poveri si trovano spesso negli stessi banchi della chiesa.

Comunità vive e accoglienti

Le comunità qui in Kenya sono spesso osannanti ed esuberanti. La domenica è bella, anzi bellissima. Trovi comunità vivaci che celebrano l’eucarestia in modo gioioso e convinto.

Non ho le statistiche sottomano, ma ho l’impressione che negli ultimi anni i numeri siano aumentati. Le chiese sono piene e si sono moltiplicate le realtà ecclesiali.

Ho l’occasione di partecipare alla messa nella parrocchia di Tassia, qui a Nairobi, dove lavorano due sacerdoti fidei donum di Torino, don Paolo Burdino e don Daniele Presicce.

La parrocchia è inserita in un quartiere davvero povero, popolazione numerosissima, ambiente maleodorante, ma, anche qui, ho incontrato una comunità viva e accogliente.

Si celebra la messa senza fretta. Mentre siamo all’altare, don Paolo, che è stato parroco nell’arcidiocesi di Torino per molto tempo, mi dice: «Per avere tanta gente così in Italia, bisogna mettere insieme un po’ di parrocchie! Qui ce n’è tutte le domeniche, per tre messe di fila». I due sacerdoti hanno infatti il progetto di allargare la chiesa.

Chiese sempre più grandi

A proposito di lavori: un po’ ovunque, qui, le parrocchie sembrano cantieri, stanno facendo opere per allargare le chiese e le strutture parrocchiali, o per farne di nuove, più grandi e spaziose, mentre in Europa non sappiamo che farne. Anzi, delle grandi strutture, si cerca a fatica di disfarsene.

Bene, in Africa, in Kenya in particolare, sembra essere un momento di gloria.

Volti stanchi e induriti

Nei villaggi e nelle campagne, la vita pian piano migliora, ma è ancora dura. Lo si capisce dai volti stanchi e induriti di uomini e donne.

Sono ancora molte le persone che non hanno acqua potabile e devono fare chilometri per andare nei fiumi o scavare buche nella sabbia. Molti i ragazzi che fanno fatica ad andare a scuola, anche se il governo cerca di agevolare il più possibile l’istruzione pubblica.

Una Chiesa chiamata alla santità

La Chiesa del Kenya, e dell’Africa in generale, rappresenta una bella pagina della storia universale dell’evangelizzazione. I missionari hanno seminato, il numeroso e giovane clero locale, gli istituti di vita consacrata e i laici locali, continuano ad arare, irrigare. Ma, come dice san Paolo, è il Signore che fa crescere. Davvero si prova, da una parte, una bella sensazione a vedere la comunità cattolica così piena di vita e propositiva, ma, allo stesso tempo, ci si affida al Signore, perché le sfide e i peccati non mancano e sono anche enormi.

Questa Chiesa sarà chiamata a coinvolgersi sempre di più nella lotta contro la povertà, la corruzione e le grandi disuguaglianze che rendono disumana la società.

Se vorrà continuare a essere significativa nel lungo corso della storia, ho la sensazione che dovrà produrre santi, ed essere autentica e trasparente, cioè, capace di quella santità che inietta nella società i valori eterni del Vangelo.

Nicholas Muthoka


Ciao padre Giordano

Padre Giordano Rigamonti, 80 anni, dopo una vita spesa per il Signore e per Maria Consolata, per l’Africa e per i giovani, è andato alla casa del Padre il 30 dicembre scorso. Ecco il ricordo, pronunciato al funerale, di uno dei suoi amici e compagni di cammino.

Non so se sono degno di parlare in questo momento. Ciascuno di noi avrebbe un milione di cose da dire oggi, molto meglio di me. Ciascuno di noi ha trascorso un pezzo della sua vita con lui, è stato coinvolto, trascinato, appassionato, ha fatto del bene con lui.

Conosco padre Giordano da 35 anni. Come molti qui presenti, sono andato in Africa la prima volta grazie a lui. Ho partecipato a convegni missionari giovanili, congressi, manifestazioni, mostre… tutto grazie a lui e ai missionari della Consolata.

Sono un figlio dei missionari della Consolata.

Sono un figlio di padre Allamano. Sono figlio di padre Giordano. Sì, perché se è vero che di mamma ne abbiamo una sola, sono convinto che i padri sono tutti coloro che nel corso della vita ci aiutano a crescere. Lui è mio papà come è padre per molti di noi qui presenti.

Padre Giordano è così: non riesce mai a tenere il suo entusiasmo, i suoi ideali, la sua fede, Dio, le sue sfide e il suo ardore missionario solo per sé.

Dal profondo del cuore deve raccontarlo a tutti, deve raccontarlo al mondo.

Da quando è arrivato a Torino nel 1982 si è lanciato, da vero innamorato di Dio e della missione, instancabile, in una miriade di iniziative, tutte volte a far conoscere l’amore di Dio per l’uomo e padre Allamano, fondatore dei missionari della Consolata.

L’animazione missionaria al Cam (Centro di animazione missionaria) e nelle parrocchie, i convegni, l’impegno con Facciamo pace durante la guerra in Bosnia, l’Expo Missio durante il Giubileo del 2000 e, per ultimo, forse una delle sue più belle creature: Impegnarsi serve.

Caro Padre Giordano, ci ritroviamo oggi qui ad augurarti buon viaggio, come tu hai fatto con noi e con centinaia di giovani e adulti che hai inviato nel mondo per fare un’esperienza missionaria.

Attraverso l’associazione Impegnarsi serve, hai voluto formare tutti noi per renderci dei missionari, non solo in terre lontane, ma anche qui fra le vie delle nostre città.

Ci hai fatto conoscere e amare l’Allamano, per farci sentire parte della famiglia dei missionari e far sentire nostri i suoi comandamenti.

Di questi ho sempre pensato che tu li seguissi tutti, tranne uno: quello che dice: «Fate bene il bene e senza rumore». Tu di rumore ne hai fatto eccome, e ce ne fai fare ancora tanto, per attirare l’attenzione della gente e condurla alla visione della giusta prospettiva, nelle piazze, fra i banchi di scuola, con convegni, mostre, spettacoli, cene, messe. E tu eri sempre in prima fila, per condurci e seguirci allo stesso tempo.

Per citare una frase che dicevi spesso, ci hai lanciato tante «provocazioni» e tante «sfide», sfide che a volte avevamo timore di accettare, perché ci sembravano troppo grandi per le nostre forze. Ma tu ci hai sempre spronati a provarci e ad affidarci alla Divina Provvidenza e al supporto di Maria Consolata.

Sei stato per molti di noi un grande amico. Ci hai accompagnati nelle fasi belle della nostra vita e ci ha sostenuti nelle fasi più dure.

Resti per noi un esempio di instancabile servo di Dio, con un entusiasmo missionario che ha saputo contagiare tantissime persone.

Ora l’entusiasmo che ci hai trasmesso deve farci ripartire da qui, senza la tua presenza. Ma tu non lasciarci soli, continua a seguirci da lassù e a guidare i nostri passi perché possiamo ancora fare bene il bene e riusciamo a insegnarlo anche alle generazioni future.

Grazie Giordano! Ci mancherai tanto, ma ti promettiamo che il tuo ricordo continuerà a vivere forte in ognuno di noi e a essere di ispirazione per condurre una vita fatta di servizio e di aiuto verso gli altri.

Kwa heri Padre Giordano, Tutaonana!

I tuoi amici di Impegnarsi Serve
Testimonianza di Angelo D’Auria, letta durante il funerale di padre Giordano a Rivoli (To) il 02/01/2019




Si chiamava Moussa Ba

Si chiamava Moussa Ba. Era
Senegalese. Aveva 28 anni. È morto, arso vivo nell’incendio scoppiato la notte
del 15 Febbraio nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria. È la terza
vittima in un anno in questa zona di braccianti.

Il “ghetto” di San Ferdinando non
è degno di un paese civile, non è degno delle persone che sono costrette ad
abitarlo!

La Conferenza Instituti Missionari Italiani (CIMI) esprime cordoglio
ai famigliari della vittima, chiede che prontamente sia fatta luce sulle
circostanze che hanno portato al rogo e alla morte di Moussa Ba.

Moussa Ba e tanti altri sono oggi
i nuovi schiavi invisibili nelle campagne insieme ai contadini e come loro
vengono affamati, schiacciati e ghettizzati dalla logica del profitto e dal
controllo delle mafie.

Tra le autorità c’è chi in queste ora sta paventando lo sgombero di San Ferdinando. Crediamo che la soluzione non sia quella dell’invisibilizzazione del problema ma quella di trovare soluzioni e misure che favoriscano l’accoglienza diffusa e la integrazione dei lavoratori.

Commissione Giustizia e padre Della CIMI
17/02/2019




Brasile, Roraima: accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti dal Venezuela

“Vogliamo aiuto per darci
ragione di andare avanti perché sappiamo che un giorno le cose
cambieranno”

L’aggravarsi della crisi in
Venezuela costringe la popolazione a lasciare il paese in cerca di
sopravvivenza. Sono oltre 3 milioni i venezuelani che sono fuggite all’estero.
Nel Stato di Roraima, nord di Brasile, nelle città di Pacaraima e Boa Vista,
migliaia di migranti si trovano in condizioni estremamente precarie. La
mancanza di infrastrutture per i fuggitivi in cerca di una sistemazione crea
una preoccupante tensione sociale.

Juan Carlo Olivero è arrivato con
tre cugini e due amici. Hanno camminato per 215 chilometri tra Pacaraima e Boa
Vista, ma non sono riusciti a trovare un rifugio. Di notte dormono lungo il
viale vicino alla stazione degli autobus dove si contendono un pezzo di pane e
uno spazio sul marciapiede con centinaia di connazionali, nelle stesse
condizioni. “Spezza il cuore chiamare i nostri figli che sono rimasti con
la mamma in Venezuela e sentire che oggi non hanno mangiato nulla”, dice
Juan Carlo. “Vogliamo aiuto per darci una ragione per andare avanti perché
sappiamo che un giorno le cose cambieranno”, dice speranzoso.

Audio Juan Carlo Olivero

William Hernandez ha lasciato
moglie e cinque figli, come migliaia di altri venezuelani, nella speranza di
trovare lavoro e cibo. Sono passati 15 giorni dal suo arrivo, ma senza successo.
“Volevo che qualcuno mi aiutasse perché siamo in difficoltà”.

Audio di William Hernandez

Tra gli immigrati si trovano
muratori, meccanici, poliziotti, panettieri ma anche insegnanti, avvocati, e molti
professionisti qualificati, come la dottoressa Fiorella Blanco.

L’Istituto Brasiliano di
Geografia e Statistica (IBGE) stima che più di 30.000 venezuelani sono in
Roraima, ma solo circa 6.000 hanno trovato posto nelle 13 strutture di
accoglienza sostenute con i fondi del governo federale e costruite
dall’Esercito con l’appoggio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR). Un buon numero si trova in case o stanze affittate che sono
destinate al sovraffollamento. Senza aiuto, è difficile pagare l’affitto che
costa tra R$ 300 e 500 Reais (moneta brasiliana: 1 Euro = 4.20 Reais). Ma ciò
che colpisce è la quantità di persone che dormono nelle viali e piazze. Durante
il giorno agli incroci e ai semafori si posizionano molti venditori ambulanti
che cercano di vendere qualche cosa o semplicemente guadagnare una moneta.

Il governo brasiliano concede
asilo, ma l’accoglienza dovrebbe anche garantire un minimo di protezione sociale,
di accesso al sistema sanitario, all’istruzione al cibo e sicurezza per tutti.
Una delle azioni per sollevare Boa Vista dalla catastrofe umanitaria è la
distribuzione dei profughi venezuelani in altri stati del Brasile. Come è
successo il 2 febbraio scorso quando un gruppo di 99 sono stati trasferiti a Dourados,
una città nel Stato di Mato Grosso del Sud, in un volo pagato dalla Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM). Lì lavoreranno in un’industria
alimentare.

Progetto Percorsi di Solidarietà

La Diocesi di Roraima attraverso
la Caritas Diocesana e con l’appoggio della Conferenza Nazionale dei Vescovi
del Brasile (CNBB), la Caritas brasiliana, Servizio Pastorale per i Migranti
(SPM), Istituto di Migrazione e Diritti e Umani (IMDH), Servizio dei Gesuiti
per i Migranti e Rifugiati (SJMR) e altre entità partner, guidano il Progetto “Percorsi
di Solidarietà: Brasile e Venezuela”.

Le Diocesi disponibili ad
accogliere gli immigrati attraverso questo Progetto possono registrarsi su il
Sito www.caminhosdesolidariedade.org.br

Il sito contiene informazioni dettagliate
ed è stato creato per aiutare l’accoglienza degli immigrati nelle diocesi di
tutto il Brasile. Il vescovo di Roraima, Dom Mario Antonio, sottolinea
l’importanza dell’integrazione degli immigrati. “Molti arrivano affamati e
hanno bisogno di cure mediche”. “Sono nuovi fratelli che vivono in
mezzo a noi”.

Audio di Dom Mario Antonio

Lanciato nell’ottobre 2018, il
progetto “Percorsi di solidarietà: Brasile e Venezuela” ha già coinvolto oltre
60 persone. Il 31 gennaio un gruppo di 17 venezuelani ha lasciato Boa Vista per
Paraíba. Nella città di João Pessoa, sono stati accolti dell’Arcidiocesi di
Paraíba e il Servizio Pastorale dei Migranti e saranno eventualmente inseriti
al lavoro.

La coordinatrice di Progetti nella
Caritas Diocesana, Gilmara Fernandes, vede la necessità di dare visibilità
all’azione.

Audio Gilmara Fernandes

La mancanza di occupazione, la
fame, l’insicurezza e la malattia sono per i migranti un test di sopravvivenza.
E in una città di 500.000 abitanti, con poche opportunità nel mercato di lavoro
e accesso ai servizi sanitari pubblici, trasporti e educazione, i migranti sono
molto facilmente considerati un problema. Sfortunatamente, di fronte a questa crisi
umanitaria, risorgono preoccupanti atteggiamenti di xenofobia. Questo scenario
non permette di vedere le potenzialità che questo fenomeno porta. E quanta
ricchezza portano i migranti quando arrivano nei nostri paesi. Quante abilità,
novità e conoscenze!

D’altra parte, ci sono molte
persone che aiutano e sono solidali. Famiglie che gli lasciano vivere a favore,
altri che abbandonano uno spazio nel cortile, danno lavoro e cibo. Le pastorale
della Diocesi, le parrocchie e comunità, congregazioni religiose e movimenti
con centinaia di volontari, aprono le loro porte e il loro cuore.

Davante la Casa delle Suoere
della Consolata ogni mattina si forma una fila che può raggiungere piu di 500
persone per ricevere un pane con il caffè.

Equipe Missionaria Itinerante

L’Equipe Missionaria Itinerante
del’Istituto Missioni Consolata (IMC) composta da P. Luiz Carlos Emer (RB), P.
Jaime Carlos Patias (DG) e Manolo Loro (RAM) sta dando priorità alle persone
più vulnerabili nella situazione di strada e agli indigeno Warao che sono fuori
dal rifugio. Dopo molte pressioni, il  01
febbraio, un gruppo dell’UNHCR si è recato in Piazza Augusto Germano Sampaio e
ha registrato più di 60 Warao di tutte le età che sono sensa rifugio. Ma finora
non hanno ancora avuto una risposta positiva.

La situazione di vulnerabilità
aumenta i rischi di sfruttamento, uso di droghe, illeciti, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dal fatto di migrare.

Ecco perché, come Papa Francesco
ci invita, è urgente: “Accogliere, proteggere, promuovere e
integrare”.

P. Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per America.




Roraima, Brasile: le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei venezuelani

Testo e foto di padre Jaime C. Patias

Warao, accampati in una piazza di Boa Vista

«Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo dormendo in piazza. Non
possiamo entrare nel rifugio». Questa richiesta di aiuto viene dal giovane
indigeno warao Jean Luís Jimenez, ed è inviata da Boa Vista, Roraima, a padre Vilson
Jochem, missionario del Consolata a Caracas. Jean Luís è uno dei 3 milioni di immigrati
che hanno lasciato il Venezuela per i paesi limitrofi.

A seguito di questa richiesta, andiamo al quartiere
Pintolândia, a Ovest della città, dove si trova il rifugio destinato agli
indigeni, e vi troviamo fuori 17 Warao, nove adulti e otto bambini accampati in
Plaza Augusto Germano Sampaio. Due giorni dopo, gli indigeni sono già 30, con
17 bambini sotto i 12 anni. Il rifugio può ospitare fino a 665 indigeni e non
riceve nessun altro.

La nostra attenzione è richiamata da Mardelia Rattia, 25
anni, arrivata qui con cinque bambini, compreso un piccolo di due mesi: «La
nostra situazione è difficile. Penso ai bambini», ci dice Mardelia preoccupata.
Vuole continuare il viaggio e raggiungere Manaus (nello stato brasiliano di
Amazonas), dove si trova già sua suocera con altri parenti.

Malato e indebolito, Jean Luís è stato ammesso all’ospedale
generale di Roraima, che è anch’esso pieno di gente. «Qui almeno sto meglio che
in piazza», osserva sdraiato su una barella nei corridoi accanto a diversi
pazienti, molti dei quali venezuelani. Quando lo dimetteranno sarà lui a essere
nuovamente in strada.

Indigeni Warao a Boa Vista durante incontro col team itinerante dei Missionari della Consolata

L’insicurezza della piazza

Il 18 gennaio, di notte, alcuni soldati dell’esercito che
sono i responsabili della struttura e della sicurezza nei rifugi, passano nella
piazza e abbordano alcuni Waraos dicendo che non possono più dormire lì. La
minaccia spaventa tutti. La sera del 19 andiamo sul posto per evitare una
possibile ritirata. Dopo aver dialogato con i rappresentanti dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), responsabili della
protezione dei profughi, i Warao hanno ricevuto la garanzia di poter continuare
a restare nella piazza. Durante la notte i soldati arrivano in due auto, ma non
si avvicinano al gruppo. In ogni caso la situazione è insicura per i Warao, ed
è per questo che è urgente trovare una soluzione.

Tra gli immigrati ci sono diversi professionisti
qualificati, come da dottoressa Fiorella Lisenni R. Blanco, Warao arrivata qui
con un bambino, una sorella insegnate e un fratello formato in diritti umani.
Lei improvvisa consulenze con coloro che hanno bisogno e organizza un registro
del gruppo. «Perché il Brasile offre un’accoglienza di questo tipo? Senza un
dignitoso benvenuto? Stanno minacciando di buttarci fuori dalla piazza», dice
Fiorella. Le popolazioni indigene godono dei diritti garantiti dalla
costituzione e dalle leggi internazionali. Inoltre, gli antropologi ricordano
che i Warao dovrebbero poter esercitare la libertà transfrontaliera di andare e
venire grazie a una base culturale che storicamente precede la nascita delle due
nazioni Brasile e Venezuela.

Indigeni Warao accampati in una piazza di Boa Vista

Pablo Mattos, del coordinamento dell’Unhcr a Boa Vista,
spiega che «la decisione di creare nuovi rifugi è una responsabilità del
governo brasiliano». L’Unhcr monitora i flussi migratori, sostiene l’accoglienza
nei rifugi e l’integrazione. Per quanto riguarda i Warao, Mattos s’impegna a
proseguire la ricerca di soluzioni in dialogo con le istituzioni coinvolte nel
lavoro.

Il problema non è di oggi. Un rapporto pubblicato nel giugno
2018 dalle Nazioni Unite ha fatto 35 raccomandazioni per garantire i diritti
degli indigeni venezuelani su tre assi: i diritti universali, i diritti dei
migranti, e i diritti specifici dei popoli indigeni. Essi devono essere
trattati come immigrati, ma soprattutto come indigeni. Secondo i dati della Ong
Fraternidad
Humanitaria Internacional
, almeno 957 Warao e E’ñepá sono accampati
nelle città di Pacaraima e Boa Vista. Hanno viaggiato più di 900 chilometri su
una strada rischiosa.

Il posto di registrazione offre diversi servizi di
documentazione e indirizza verso i rifugi e il programma di integrazione. Gli
immigrati ricevono sostegno dalle istituzioni in altri sei luoghi diversi per
fare i documenti. È evidente la carenza di posti nei rifugi. Tutti i lunedì
sono disponibili solo 40 posti a fronte di una richiesta di oltre 200. Il 14
gennaio, dopo aver camminato per almeno 8 km fino al primo posto di identificazione,
un gruppo di Warao è dovuto tornare in piazza senza aver ottenuto niente.

Mamma Warao e figlio in una piazza di Boa Vista

La squadra di emergenza dei missionari itineranti

Dopo una pausa, il team missionario itinerante dei
Missionari della Consolata ha ripreso le sue attività il 12 gennaio 2019. I padri
Luiz Carlos Emer (missionario impegnato in brasile), Jaime Carlos Patias (della
direzione Generale dell’IMC) e Manolo Loro (impegnato in Amazzonia) fanno parte
del secondo gruppo. La priorità del gruppo è quella di accompagnare le persone
più vulnerabili e gli indigeni warao originari della regione del Delta Amacuro
in Venezuela, dove ci sono i missionari del Consolata. «Il poco che possiamo
fare ora è già molto per alleviare la sofferenza di coloro che hanno lasciato
tutto per sopravvivere», dice p. Luiz Emer tornando da una visita al gruppo
indigeno.

Il team sostiene e indirizza le varie situazioni agli
organismi competenti, sapendo che non è possibile risolverle tutte. Ciò che
conta sono gli atteggiamenti evidenziati da Papa Francesco: «Accoglienza,
protezione, promozione e integrazione».

La diocesi di Roraima con i suoi pastori, parrocchie e
congregazioni come le suore Scalabriniane, San Giuseppe di Chambéry, la Madonna
Addolorata, le figlie della carità, le missionarie dei Consolata, i gesuiti, i
Maristi, tra gli altri, prestano diversi Servizi.

Per il vescovo di Roraima, Monsignor Mário Antônio, oltre
alla logistica, «vediamo la necessità di accoglienza da parte delle Comunità
attraverso l’integrazione tra la popolazione locale e i venezuelani, nuovi
residenti che vengono con la prospettiva di una nuova vita. Hanno il diritto di
arrivare e noi abbiamo il dovere di accogliere, promuovere, proteggere e
integrare», ricorda il vescovo. «Vogliamo che le nostre comunità cerchino di
integrare gli immigrati nelle celebrazioni in Portoghese, spagnolo o in lingua
indigena. Vedo la migrazione come un’opportunità per vivere il Vangelo: amatevi
l’un l’altro, come li ho amati», ribadisce Monsignor Mário.

José Miguel Pinto e sette altri amici e familiari, due donne
e due bambini, è venuto a piedi da Pacaraima, 215 km da Boa Vista. Quando sono
arrivati al posto di servizio della parrocchia Nostra Signora Consolata
mostrano le ferite sulle piante dei piedi e le scarpe rotte. Come tanti altri,
di notte il gruppo dorme sul marciapiede in una delle strade vicine al terminal
degli autobus. Il numero dei migranti nelle vie e nelle piazze impressiona. José
Miguel dice che una notte la polizia è passata e ha cacciato tutti. Questo è il
clima di insicurezza che molti di loro vivono.

Indigeni Warao a Boa Vista in un centro di identificazione e registrazione

Il secondo mandato di Maduro aggrava la crisi

Con l’inizio del secondo mandato del presidente Nicolas
Maduro, la cui elezione è contestata, e che non è riconosciuta dal Parlamento
venezuelano e da vari paesi e organizzazioni internazionali, la crisi in
Venezuela sta peggiorando. La previsione è che il flusso migratorio aumenterà.
Nel frattempo, cresce anche la pressione su Maduro. In Boa Vista, uno
striscione appeso su un viale chiede la fine del regime e il sostegno per il
leader dell’opposizione, il Presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó perché
diventi il presidente del paese.

Cartello contro Maduro a Boa Vista

La situazione di vulnerabilità aumenta il rischio di
sfruttamento, consumo di stupefacenti, furto, insicurezza, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dalla migrazione. Con così tante persone senza
occupazione e luogo per vivere, aumenta la tensione sociale. La recente visita
di cinque ministri governativi alla città di Boa Vista ha ratificato la prosecuzione
dell’operazione di accoglienza e internalizzazione.

I dati della Polizia federale mostrano che 85.000
venezuelani hanno cercato rifugio in Brasile dal 2015. Le stime del IBGE
sottolineano che più di 30.000 sono attualmente in Roraima.

Jaime C. Patias, IMC, consigliere generale per l’America.

Bambino Warao a Boa Vista assistito dal team itinerante dei Missionari della Consolata



Riprendiamoci l‘arcobaleno

Ricordate
tanti anni fa, quando la Tv era ancora in bianco e nero? Quando venne la Tv a
colori in certe comunità di missionari ci fu la crisi: «Tv in bianco e nero sì,
Tv a colori no, perché cosa da ricchi! Vergogna sui missionari imborghesiti».
Finché un superiore coi piedi per terra ricordò a tutti che il problema stava
nel perdere tempo davanti alla Tv rubandolo al servizio missionario, non nel
fatto di avere o no la Tv a colori, tanto più che Dio aveva «creato il mondo a
colori, non in bianco e nero».

«Il
mondo a colori», bellissimo nelle immagini poetiche in bianco e nero con la
loro gamma di grigi, fantastico nella varietà di colori che il nostro occhio
può distinguere e godere. Bianco, nero, giallo, rosso, verde, azzurro, blu,
declinati in mille varietà, danno forma al cielo e alla terra, incantano nelle
mani degli artisti, esprimono i sentimenti dei bambini, abbelliscono lo spazio
che viviamo. Che triste una vita senza colori.

Eppure,
di questi tempi, mi sembra di vivere in un mondo in cui mi abbiano rubato i
colori. Al furto classico, vecchio di cent’anni, del nero e del rosso, che ha
accompagnato guerre e genocidi, lager e gulag, sono seguiti altri furti. Il
bianco e l’azzurro (non quello della maglia degli «Azzurri» e neppure quello
del manto della Madonna) sono stati infangati già da tempo. Ma anche il giallo
e il verde sono stati arraffati e insieme fanno un mix preoccupante. Non solo
hanno rubato i colori, hanno usato questo o quel colore per dominare sugli
altri e, spesso, contro gli altri.

Per questo
è urgente riprendersi i colori e ridare libertà all’arcobaleno. Ne va della
bellezza della nostra vita. Non si può accettare un mondo monocolore o con i
colori in lotta gli uni contro gli altri. Il blu del cielo, l’azzurro
dell’acqua, il giallo caldo dorato del sole, il verde dell’erba, il rosso del
sangue, il bianco delle nuvole o della neve, il nero della notte che porta
ristoro alla nostra stanchezza, sono doni per tutti e ciascuno.

Ricordo
un prato della mia infanzia. Che splendore in primavera: mille sfumature di
verde e di bianco, rosso, giallo, azzurro, viola… un tripudio di bellezza. Ho
rivisitato quel prato un anno fa pregustandone l’armonia. Che delusione e
tristezza invece: solo il verde monocolore di un’erbetta tutta uguale risultato
di un diserbo selettivo che ha eliminato ogni altro seme, ogni fiore, ogni
profumo, ogni insetto.

Insieme,
i colori sono inno alla vita, pennellate di bellezza, armonia delle diversità.
Nessun colore può dire «non ho bisogno degli altri». Neppure il bianco, che
pure li contiene tutti, può dire «basto io». Il bianco ha bisogno del nero e il
nero del bianco e mescolandosi generano infinità di sfumature. Sulle pagine
insieme scrivono le nostre memorie, le gioie e le lacrime della vita. E il
bianco è grande quando libera tutti i colori che ha dentro di sé, come
nell’iride.

I colori
sono specchio della nostra umanità. Immaginate se fossimo tutti uguali come i
soldati di Star Wars. Come uomini siamo belli perché diversi, armonici perché
ciascuno è unico, irrepetibile. I bianchi (ammesso che bianchi siamo!) hanno
mille gradazioni di bianco. E così i neri. È incredibile come un colore che ci
sembra unico abbia in realtà sfumature innumerevoli modellate dalla magia della
luce del sole. Anche il nostro colore preferito, perché ognuno ha il suo, non
potrebbe essere tale senza essere collocato nel contesto degli altri.

I
colori hanno poi un’unica sorgente, la luce, così come l’Umanità e tutto
l’universo sono nati dalla Parola d’amore di Dio «Sia». Quella stessa Parola
che per prima ha creato la luce: «“Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,3).

All’inizio
di questo nuovo anno liberiamo i colori, riprendiamoci l’arcobaleno, dicendo di
no a chi vuole colorare il mondo di un solo colore. Abbiamo la libertà dei
«figli della Luce»: difendiamola, promuoviamola, curiamola per noi stessi, per
le persone che amiamo, anche per quelle che non amiamo abbastanza, e per tutta
l’Umanità.

Luce, bellezza, amore, fraternità, pace e gioia a tutti in questo 2019.

Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto,
è bellissimo nel suo splendore.
Avvolge il cielo con un cerchio di gloria,
l’hanno teso le mani dell’Altissimo. (Siracide 43,12)




Cari Missionari

Gli Evangelici e il sostegno a Trump e C.

In Italia gli evangelici ci sono, c’è cascata
anche la bravissima badante peruviana che ha assistito mia madre e poi un’altra
amica di famiglia. Ma, a quanto sembra, sono molto diffusi e potenti nelle
Americhe, e si ficcano in politica con un entusiasmo che sarebbe piaciuto a Pio
XII, sostenendo la peggio destra in Usa, Brasile e suppongo anche altrove in
Sudamerica. Forse ci starebbe un altro servizio (mi sembra che ve ne siate già
occupati, ma la situazione si è aggravata).

Claudio Bellavita
08/10/2018

Il termine «Evangelici» ha un significato molto vasto, forse qui è usato solo per indicare le frange più fondamentaliste e nuove della galassia protestante. Il loro influsso non è certo limitato agli Stati Uniti (vedi MC 1-2/2017) o al Brasile. Sarà nostro impegno approfondire questo tema.

Il Diritto di restare a casa propria

Caro padre,
mi rifaccio vivo […] dopo la lunga lettera che fu pubblicata solo in parte per mancanza di spazio (e anche questa è tagliata per lo stesso motivo, ndr). Nella chiesa del paese dove mi trovavo fu distribuito il foglietto di settembre dell’Apostolato della Preghiera sul quale era riportata anche l’intenzione di preghiera del papa: «Perché i giovani del continente africano abbiano accesso all’educazione e al lavoro nel proprio paese».

È
una delle cose che intendevo sostenere nella mia lunga lettera dicendo che era
un concetto insegnatomi dai missionari ma dirlo oggi, o meglio dirlo un anno fa
suonava come una cosa xenofoba, populista, intollerante, sovversiva, non
solidale, contro i diritti umani e – ed è ciò che mi irrita di più –
anticristiana. Ma se prego perché i giovani africani abbiano accesso
all’istruzione e al lavoro a casa loro sto pregando per eliminare l’esigenza
che li spinge a muoversi in massa per venire da noi. È tutto logico e
cristiano. Entrambe le cose sono ormai ridotte ad opinioni e neanche
particolarmente valide. 

[…] Rimanendo all’immigrazione penso che
nonostante tutto, molti non siano ancora convinti che il fenomeno migratorio
Africa-Europa, così come lo vediamo, non è per nulla spontaneo, come non lo è
quello nuovo dall’Honduras verso gli Usa (guarda caso ci sono le elezioni di
medio termine in Usa…) e credo che una buona parte della causa di ciò sia nei
mass media (diciamo almeno l’80% dei grandi media) che sembrano li apposta per
«formare» l’opinione pubblica invece che informarla. Sono più attori della
politica invece che osservatori.

Ancora rifacendomi a cose già dette, se Missioni Consolata fa giornalismo allora ha una gran responsabilità e c’è un gran bisogno di informare in modo ben ragionato i lettori. Se volete anche formare le pecorelle che credono di essere rimaste all’ovile ne sarò molto felice ma che sia formazione cristiana «sicura», basata non sulle ventate dell’attualità ma sulla Verità e ciò che la Chiesa ha sempre insegnato a ragion veduta.
Un saluto.

Andrea Sari
29/10/2018

Caro Sig. Andrea,
non me ne voglia se ho dimezzato la sua lettera.
Sul fatto che «i giovani africani abbiano accesso a educazione e lavoro nel proprio paese» non c’è niente di anticristiano. Il diritto a rimanere a casa propria (ma anche ad averne una) è fondamentale per ogni uomo. Tutta la storia biblica gira attorno alla «terra» promessa da Dio al suo popolo.
Noi missionari, da sempre, abbiamo investito tanto (e continuiamo a farlo) per aiutare i più poveri del mondo a vivere meglio a casa propria.

Quanto all’informazione: è nostro impegno – con i nostri poveri mezzi – offrire articoli documentati e ragionati, senza seguire lo stile sensazionalista e litigioso di moda oggi nel rispetto dell’intelligenza dei nostri lettori.

Chevron Texaco

Forse ho inteso male ma la Chevron Texaco, in vent’anni o giù di lì, è riuscita a scaricare in 450 chilometri quadrati di Amazzonia equadoregna circa 60 chilometri cubi di petrolio (acqua tossica da lavori di estrazione, ndr), provocando danni enormi.
Condannata dai giudici di Quito (Corte Costituzionale ecuadoriana, ndr) a risarcire gli indios e i campesinos con una somma di oltre 9 miliardi di dollari, la multinazionale è riuscita a farla franca grazie alla Corte europea (Corte permanente di arbitrato dell’Aja, realtà completamente indipendente dalla Unione europea, ndr), che avrebbe (uso il condizionale perché anche in questo caso potrei aver inteso male) ordinato all’Ecuador di annullare la sentenza di condanna, in quanto trattasi di un giudizio che viola i «diritti della Chevron Texaco» (perché l’Ecuador è accusato di aver violato un articolo del «Trattato Bilaterale sugli investimenti» [Bilateral Investment Treaty] esistente tra Ecuador e Stati Uniti dal 1993 e quindi di essere corresponsabile con la multinazionale, ndr).https://lospiegone.com/2018/07/28/ecuador-vs-chevron-texaco-ambiente-sentenza/

Una cosa però sono sicuro di averla ben chiara in mente: giudici così, che assolvono multinazionali così, non mi rappresentano e non rappresentano né le radici cristiane, né le altre radici dell’Europa, né lo spirito e le idee di chi vive in Europa oggi e, di conseguenza, non so come facciano a occupare il posto che occupano. […] Non so se inorridire di più di fronte alle immagini di quel Tg2 Dossier o per le sentenze pro Chevron Texaco. […] Distinti saluti

Letizia Valnigri
25/10/2018

Il nostro Paolo Moiola ha scritto più volte sull’argomento. Emblematico l’articolo pubblicato in MC 7/2016 «La maledizione del petrolio».

Santità

Caro padre Gigi,
oggi ho iniziato la giornata, festa di tutti i Santi, leggendo l’editoriale «Cuori aperti» del tutto appropriato alla circostanza. Mentre lo leggevo tanti pensieri hanno affollato la mia mente e tanta tristezza ha invaso il mio cuore, prendendo in considerazione l’attuale contesto culturale in cui viviamo, soprattutto pensando allo sfregio che subisce il messaggio evangelico sia da chi se ne serve strumentalmente senza una vera adesione personale e sia da chi, a dispetto del ruolo e dell’incarico, esercita, all’interno della comunità ecclesiale, un’azione demolitrice e denigratrice. La festa odierna, in ogni caso, mi/ci ricorda che la santità è da un lato un dono gratuito ma dall’altro richiede il rinnovo della personale adesione ad essere «beati» secondo la logica di Gesù e non «spettatori o giudici». […]
Buona festa dei Santi!

Milva Capoia
Collegno, 01/11/2018

La caduta del cielo

Oggi mi sento come in un giorno di festa: ho
appena ricevuto in regalo la versione italiana de «La caduta del cielo». L’ho
ricevuta dalle mani di Davi Kopenawa Yanomami, l’autore, che me l’ha dedicata
con queste parole: «Per Hokosi (nome indigeno di Carlo Zacquini, ndr),
una freccia per toccare il cuore della società non indigena».

Il libro, scritto con (l’antropologo) Bruce
Albert, è un’opera che, tra le tante cose, stimola riflessioni, apre porte per
la comprensione delle scienze sociali, della filosofia, delle religioni, dei
mondi mitici e della natura. Più di mezzo secolo fa ebbi la fortuna di iniziare
la mia «avventura» con il popolo Yanomami. A lungo, il cruccio più grande, il
tormento, l’afflizione lancinante fu di non essere all’altezza della sfida per
comunicare, diffondere, rendere virali le scoperte che stavo facendo, la
necessità che sentivo di divulgarle, di far conoscere ad altri il mondo magico,
la filosofia, la religione, non per mero sensazionalismo, ma semplicemente per
suscitare un po’ di rispetto, se non di ammirazione per quel popolo. Per un
popolo, tra i tanti in Amazzonia, che sembrava destinato a scomparire,
lasciando poche tracce delle sue ricchezze, ben più importanti di quel po’ di
oro che si estrae (illegalmente) dalle loro terre, a un costo che il Brasile e
la stessa umanità mai riusciranno a pagare.

© Paolo Moiola

Nel 1971, l’incontro fortuito con Claudia Andujar
(una fotogiornalista) mi diede un’opportunità unica di collaborare alla ricerca
«immaginifica» dell’anima di questo popolo. L’occasione fu per me un invito a
nozze. Così, mentre da un lato cercavo di scoprire il mondo fantastico nascosto
dietro quei corpi «nudi», dall’altro mi sentivo felice di poter offrire a quella
donna quel poco che stavo imparando. I tempi lunghi e solitari nella foresta mi
aiutavano a trasmettere nozioni e sensazioni. E, successivamente, insieme alla
stessa Claudia e alla sua eccelsa arte fotografica, di scoprirne altre.

Le tragedie che seguirono non mi permisero di
approfondire oltre le mie conoscenze della cultura Yanomami e mi forzarono a
percorrere altri sentieri per cercare di arginare il massacro. Le immagini di
Claudia ebbero, tra i tanti meriti, quello di trovare percorsi nuovi che furono
determinanti nella lotta contro lo sterminio degli Yanomami. Eppure, nonostante
le fotografie, nonostante il poderoso libro di Davi, il massacro e la lotta
continuano ancora oggi. E le autorità, che avrebbero l’obbligo di arginarlo,
stanno affondando in un mare di corruzione e vergogna.

Fratel Carlo Zacquini
Boa Vista (Roraima), 13/11/2018

Dalla valle Susa

Gentile Direttore,
le scriviamo dalla Valle Susa. Siamo un gruppo di donne e uomini impegnati a vario titolo in diverse parrocchie della diocesi e da alcuni anni seguiamo l’evolversi del progetto Torino-Lione riunendoci nel Gruppo Cattolici per la Vita della Valle. Vorremmo condividere con lei e i lettori della rivista alcune riflessioni e considerazioni che abbiamo sviluppato su questo tema, alla luce della dottrina sociale della Chiesa e della Parola di Dio che interpella i credenti sulle situazioni concrete della vita.

Riteniamo
che l’espressione usata nel Vangelo di Matteo 16,3, «Leggere i segni dei
tempi», e circolata con convinzione negli anni postconciliari, sia un compito
sempre attuale e particolarmente incalzante nella nostra epoca. Epoca che il
chimico premio Nobel Paul J. Crutzen ha definito «Antropocene» per indicare
l’impatto senza precedenti dell’azione umana sull’ambiente terrestre. La
definizione è largamente condivisa dagli scienziati più avveduti e anche il
Magistero della Chiesa ci offre molti spunti al riguardo, ne citiamo un paio:

«L’antropocentrismo
moderno, paradossalmente, ha finito per collocare la ragione tecnica al di
sopra della realtà, perché questo essere umano non sente più la natura né come
norma valida, né come vivente rifugio… La mancanza di preoccupazione per
misurare i danni alla natura e l’impatto ambientale delle decisioni è solo il
riflesso evidente di un disinteresse a riconoscere il messaggio che la natura
porta inscritto nelle sue stesse strutture», (Laudato Si’, 115-117, papa
Francesco).

«Invece
di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione,
l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della
natura», (Centesimus annus, 37, papa Giovanni Paolo II).

Il processo di antropizzazione della Terra (la de-
forestazione, l’urbanizzazione incontrollata, l’estrattivismo, la
cementificazione del territorio, l’invasione dei rifiuti…)
esercita un’alterazione sempre maggiore degli ecosistemi dando origine a
fenomeni preoccupanti quali il riscaldamento del clima, lo scioglimento dei
ghiacciai, la desertificazione…

Il filosofo e teologo cattolico Raimon Panikkar
utilizzava il termine «Ecosofia» per indicare la saggezza di chi sa «ascoltare
la Terra» e agire di conseguenza; per lui la crisi ecologica attuale è
questione di vita o di morte per l’umanità e ciò la rende un fenomeno
religioso.

Le Chiese cristiane si mobilitano per
sensibilizzare i fedeli sulla necessità di riflettere, pregare e promuovere
iniziative per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1989 il patriarca ecumenico di Costantinopoli Dimitrios I proclamò
il 1° settembre «Giornata mondiale di preghiera per la creazione», nel 2001
aderirono all’iniziativa le principali chiese cristiane europee, con papa
Francesco nel 2015 vi aderì anche la Chiesa Cattolica. Ora i cristiani di tutto
il mondo sono invitati alla «Preghiera per la creazione» nel periodo liturgico
che va dal 1° settembre al 4 ottobre.

Il
movimento No Tav, composito nelle sue espressioni culturali, non contrasta solo
il progetto, ma si riconosce come coscienza critica dell’attuale modello di
sviluppo che pervicacemente mette il pianeta alle corde, mentre «non c’è
sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra» (papa Francesco tra i
Mapuche
, Cile 17/01/2018).

Si
potrebbe dire che la Valle di Susa si distingue per mettere a confronto due
opzioni esistenziali: quella del culto economico della «crescita infinita», di
cui le «Grandi Opere» sono paradigma; e quella di un approccio filosofico in
cui l’uomo vuole uscire dalla condanna di una visione esclusivamente economica
della vita e comprenda che la Terra nel suo insieme è un organo vivente che ha
bisogno di cura e attenzione.

Con l’opposizione alla Torino-Lione la valle è stata inserita tra i teatri dei 2931 conflitti ambientali del pianeta censiti nel 2016 (con il contributo dell’Unione europea attraverso l’European Research Council) dal sito www.ejolt.orghttp://www.ejolt.org

Le
lotte ambientali sono ormai di dimensione planetaria e mobilitano una
moltitudine di persone. In alcuni paesi l’epilogo raggiunge esiti drammatici:
l’Ong Global Witness il 2 febbraio di quest’anno ha dato notizia che nel
2017 sono stati assassinati 217 attivisti/e, a livello mondiale, per essersi
opposti a governi e aziende predatori delle loro terre. Le motivazioni che le
innescano, seppure con intensità differenti, sono ovunque molto simili:
progetti calati dall’alto con seguito di cantieri invasivi e devastanti,
imposizioni senza serio contraddittorio, indifferenza verso le istanze delle
amministrazioni locali, controllo militare della vita quotidiana sul
territorio, forti limitazioni e restringimenti delle libertà personali dei
residenti, iniziative giudiziarie nei confronti dei soggetti più
rappresentativi tra gli oppositori.

Il
progetto Torino-Lione ricalca puntualmente le stesse dinamiche; un osservatore
inesperto potrebbe scambiare il cantiere di Chiomonte, insediato nel 2011 per
la perforazione di un tunnel geognostico, per una base militare.

[…] La forza del movimento No Tav risiede nella coscienza di impegnarsi per una causa comune e smascherare quegli inganni che si nascondono dietro le «grandi opere» inutili, imposte con l’uso della forza e inclini alla presunzione di assumere il controllo sulla natura.
Fraterni saluti

Cattoxvalle@gmail.com
(seguono undici firme), 23/11/2018

Cari amici,
la nostra rivista non è indifferente alle battaglie in difesa dell’ambiente, e alla situazione della Valle Susa ha dedicato due inchieste già nel dicembre 2005 e gennaio 2006. «Si era ben lontani dal clima attuale, inquinato purtroppo da infiltrazioni para politiche, eversive e di dubbia provenienza», come ha scritto padre Ugo Pozzoli, ex direttore di MC, su questa rivista, nell’ottobre 2014 in un articolo dedicato all’impegno dei missionari per l’ambiente.

Non vogliamo entrare nei dettagli del dibattito del pro e contro la Tav, perché – pur interessati – non ne abbiamo la competenza. Il nostro augurio è che davvero prevalgano verità e bene comune e non gli interessi di questo o quel partito o di questa o quella lobby economica. Questa è la nostra responsabilità come credenti. Per questo vi siamo vicini nel vostro impegno civile basato sull’ascolto della Parola, il confronto con i documenti della Chiesa e l’amore per la «nostra madre Terra», per fare sì che la «lotta» non venga sequestrata dagli opportunisti, dai faziosi o dai violenti.




Burkina Faso:

La faticosa via del cambiamento

In Burkina Faso si moltiplicano gli attacchi terroristici agli obiettivi
più diversi. L’opposizione politica accusa il governo d’inefficienza sul fronte
della sicurezza nazionale. Intanto l’attuale esecutivo ha messo in pista
diverse riforme in settori importanti della società burkinabè, e ha fatto anche
qualche passo per migliorare sanità ed educazione. Ne abbiamo parlato con un
personaggio di peso nella storia di questo paese, Antornine Raogo Sawadogo.

(ISSOUF SANOGO / AFP)

La società civile burkinabè, nelle sue varie sfaccettature,
ha giocato un ruolo determinante nell’insurrezione popolare dell’ottobre 2014
che ha rovesciato il presidente Blaise Compaoré. Questi era al potere da 27
anni, a seguito del colpo di stato e  con
l’uccisione del presidente Thomas Sankara, e di quattro elezioni dubbie.

Lo
stesso popolo burkinabè si è, poi, mobilitato per sventare un tentativo di
golpe dei fedelissimi di Compaoré un anno più tardi, il 16 settembre 2015.

Dal
gennaio del 2016 il Burkina Faso ha un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré
e relativo governo. Un nuovo regime, anche se molti personaggi politici – tra
cui lo stesso presidente – facevano già parte di quello precedente.

A
tre anni di distanza, ci domandiamo che ne è di quella società civile che è
stata così importante per la svolta e che aveva giurato che in Burkina Faso
«Niente sarà più come prima».

Ne
abbiamo parlato con uno che di queste cose se ne intende: Antornine Raogo
Sawadogo.

Sawadogo
è sociologo ed esperto di società civile, ed è stato anche uomo politico. È
stato ministro dell’Amministrazione territoriale e Sicurezza (equivalente al
ministero dell’Interno) e, come tale, padre della legge sul decentramento
amministrativo in Burkina Faso. È stato il primo presidente della Commissione
per il decentramento amministrativo. Ha poi fondato il Laboratornire Citoyenneté,
un centro studi sulla cittadinanza attiva, molto rinomato e attendibile.

Lo
incontriamo una sera a Ouagadougou, di ritorno da un viaggio nel vicino Niger.

Dottor Sawadogo, secondo lei, le organizzazioni della società civile stanno
giocando il ruolo di controllori democratici del potere?

«Rispetto al 2014-15 abbiamo oggi una
società civile più divisa sull’oggetto della lotta. Non è più consensuale,
avanguardista. Non può più monitorare il potere politico per dire se non lavora
secondo la buona governance. Si diceva dopo l’insurrezione e il fallito colpo
di stato: “Tutti ci alziamo come un solo uomo e rimettiamo al loro posto i
nostri dirigenti”. Non è più così.

La società civile burkinabè si è divisa in
diverse sensibilità (o categorie), che io classifico in almeno tre gruppi.

Il primo è di quelli che chiamiamo “i
rassegnati”: essi dicono che dopo aver cacciato Blaise Compaoré, dopo aver
respinto i golpisti, due, tre anni dopo, non ci sono cambiamenti, “troviamo le
stesse persone al potere”, ovvero, “ci siamo stancati per nulla”. Si siedono e
guardano. Non sentiamo più parlare di loro. Appare qualche articolo per dire:
“la nostra lotta è fallita, la nostra dinamica di cambiamento è stata
recuperata e ricondotta alle dinamiche precedenti”.

Io penso che si tratti di un gruppo composto
dalla gente più a sinistra, che sperava che fosse arrivata l’ora per il
cambiamento. I delusi del sistema, ovvero la punta della lotta sankarista,
quelli che erano stati bastonati dall’apparato di Blaise Compaoré. Avevano
fatto un cammino sviluppando una militanza clandestina e, quando gli
avvenimenti dell’insurrezione sono arrivati, il loro impegno si è amplificato.
Come ad esempio il Partito comunista rivoluzionario voltaico (Pcrv)1. Vedo i leader di
questi movimenti rassegnati e rientrati nella loro clandestinità.

La seconda sensibilità è quella che chiamo
“di rigetto”. Appartiene a quelle organizzazioni che sono arrivate a
un’attitudine di rifiuto sistematico della dinamica attuale dopo le elezioni
(del novembre 2015 che hanno portato all’insediamento, nel gennaio 2016, del
governo attuale, ndr). Queste si dicono: “Abbiamo sviluppato una società civile
d’interpellanza2, che aveva
un discorso, ma alla fine non abbiamo visto cambiamenti, dunque rigettiamo
questo sistema di potere”. Aspettano che si lavori sull’impunità, che si
risolvano i conti sospesi del paese: si trovino i colpevoli dei crimini
economici e dei crimini di sangue. Tra queste ci sono ad esempio le Balai
Citoyen. Sono in una dinamica di rigetto dell’ordine ristabilito, non hanno
ottenuto quello che volevano.

Poi c’è la società civile politicizzata, opportunista. È composta
da organizzazioni e associazioni legate ai partiti politici, o fondate da
uomini politici stessi. Si divide in due categorie: quelle che sono per i
partiti di opposizione, Cfop3, e
quelle per i partiti della maggioranza. Rappresentano le voci dei loro capi di
partito».

(ISSOUF SANOGO / AFP)
Chi avrebbe dovuto esercitare un controllo sul nuovo regime, dando
concretezza allo slogan «Niente sarà più come prima»?

«I
rassegnati preferiscono non parlare. Coloro che rigettano invece parlano, ma
senza avere i mezzi per attuare un contropotere, come invece avrebbero voluto.
La verità è che chi ha vinto le elezioni e ha preso il potere, ha nominato
alcuni leader di queste associazioni a posti elevati e rappresentativi. Diversi
di loro sono stati nominati ministri, altri hanno avuto un posto nell’alta
gerarchia della presidenza della Repubblica. Li hanno fatti entrare nel potere
per zittirli.

Quelli
del terzo gruppo, gli opportunisti dei partiti politici, danno voce alle
rivendicazioni dei loro partiti, senza esercitare un vero controllo».

Non c’era solo la società civile organizzata all’origine dell’insurrezione
del 30 ottobre 2014. C’era il popolo stesso che portava avanti una serie di
rivendicazioni. Senza un movimento massiccio di popolazione, l’insurrezione non
si sarebbe fatta o comunque non avrebbe avuto successo.
La popolazione, tra le altre richieste, aveva una forte domanda di stato di
diritto, di democrazia e di ridistribuzione di ricchezza. Quali di queste
attese sono state soddisfatte?

«Lo stato di diritto
è una richiesta permanente. Di tutte le sensibilità della società civile e
della politica, nessuna rigetta lo stato di diritto. È una rivendicazione
massiccia e permanente. È piuttosto il modo di gestire e di governare che pone
problema agli uni oppure agli altri.

Al tempo di Blaise
Compaoré lo stato di diritto non era garantito. S’imbrogliava durante le
elezioni, usando gli artifici formali della democrazia, per poter dire “abbiamo
vinto le elezioni”. Compaoré non si faceca scrupoli, era il suo sistema. Con la
sua guardia pretoriana (il Reggimento di sicurezza presidenziale, Rsp), il suo
gruppo di operatori economici, il suo partito politico, non si poneva problemi.
Gli bastava far credere all’esterno di aver rispettato le regole».

E cosa fa il governo attuale?

«Quelli
che sono al potere oggi sono coscienti che devono funzionare con un minimo di
regole in materia di stato di diritto. Sia formalmente, sia nella realtà. È per
questo che negli ultimi tre anni non ci sono più state persone liquidate,
assassini politici, e ci sono molti dossier che stanno procedendo (seppur
lentamente, ndr) in giustizia. Si è cercato di giudicare il passato regime, ed
è in corso un processo anche sul colpo di stato (del 15 settembre 2015, ndr).
Quando vogliono arrestare qualcuno lo fanno. C’è uno sforzo di fare le cose
nelle norme. Questo è qualcosa che è cambiato.

Per
contro osserviamo ancora velleità di imporsi, di prendere (da parte
dell’opposizione) e tenere il potere».

E quali sono, secondo lei, le altre novità del «nuovo corso»?

«È
stato messo in piedi un sistema di riforme politiche. Penso sia stato imposto
dai diversi scioperi. Sono infatti nati molti sindacati in questo periodo. Lo
stato sta cercando di andare più velocemente nelle riforme politiche in tutti i
settori. Ci sono molte riforme pronte: dell’esercito, della funzione pubblica,
per esempio si vuole rivedere lo statuto delle categorie di funzionari, i
progetti e i programmi statali, si rimettono in causa i vantaggi dei funzionari
del ministero Economia e finanza. Un’altra riforma è nella Magistratura: non è
più il presidente della Repubblica che nomina gli alti magistrati, ma è la
Magistratura stessa.

Sono
riforme a 360 gradi, ma non c’è una visione, con un fil rouge da seguire. Forse
è una risposta alle diverse rivendicazioni delle corporazioni. Sapendo però che
il governo non ha abbastanza mezzi per queste riforme, e non ha la forza per
imporle, perché non ha maggioranza confortevole in parlamento, con 55 deputati
all’Assemblea Nazionale, ha dovuto fare alleanze».

E sul piano sociale, nell’ambito di lavoro, educazione, salute, il governo
è riuscito a migliorare la situazione?

«Il
governo ha reso gratuite le cure per i bambini sotto i cinque anni e per le
donne gravide tramite un decreto che è stato molto apprezzato dalla
popolazione. Ha fatto costruire centri di salute (dispensari, ndr) in tutti i
dipartimenti, anche se poi non ci sono i soldi per equipaggiarli con mezzi e
personale.

Anche
nel settore dell’educazione sono state fatte delle infrastrutture, sia per le
scuole primarie che secondarie: si normalizzano le scuole sotto i tetti di
paglia. Ma l’attrezzatura e il personale non seguono.

Hanno
anche assunto migliaia di funzionari, 1.500 insegnati per anno, tra due e
tremila poliziotti.

Tutto
questo si è realizzato grazie a finanziamenti diretti ai budget dei diversi
ministeri da parte di finanziatori internazionali».

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. © Marco Bello 2018
Un tema fondamentale all’ordine del giorno in Burkina Faso è quello
dell’insicurezza, a causa del moltiplicarsi degli attacchi di sedicenti jihadisti
o integralisti islamisti, a posizioni della polizia e altri obiettivi. I
partiti di opposizione accusano il governo di non fare abbastanza. Ma questa
critica fa parte anche del gioco politico. Secondo lei come si muove il governo
su questo fronte?

«Io
constato che questi attacchi sono cominciati al Nord, sono continuati all’Est,
vanno verso il Sud e arrivano verso l’Ovest. È un’insicurezza che ci sta
circondando, alla quale si sommano, ogni tanto, azioni di grande effetto al
centro, a Ouagadougou4. È un fenomeno che
prende ampiezza e non è neppure ciclico, ma lo stiamo vivendo quasi
quotidianamente.

Se
osserviamo i simboli attaccati, sono di diverse tipologie:

  • lo stato, ovvero le forze di sicurezza e di difesa, come strutture di polizia, gendarmeria, dogane, guardia forestale;
  • e scuole, gli insegnanti;
  • qualche simbolo religioso, alcuni imam sono stati sgozzati, catechisti, parroci, chiese devastate (es. chiesa di Dissin nel Sud Ovest);
  • simboli degli stranieri, come hotel e ristoranti frequentati da loro;
  • le miniere, l’industria, come interessi occidentali.

Se
normalmente, a seconda degli obiettivi attaccati, si può cercare di capire
quali interessi ci sono in gioco, nel nostro caso, vista la varietà di target,
diventa difficile. Voglio dire, è quasi impossibile sapere se siano solo
jihadisti che attuano una guerra di religione, o personaggi del vecchio regime
che vogliono destabilizzare lo stato, o ancora banditi comuni che cercano di
arricchirsi. Fino ad oggi nessuno può dire chi siano veramente.

La
verità è che gli obiettivi che vengono attaccati sono stati creati e gestiti
dalla gente del vecchio regime. Durante 27 anni di Compaoré sono stati nominati
i funzionari, il Burkina è stato trasformato in paese minerario, è stata messa
in piedi l’economia. Le persone di quel regime possono oggi essere contro a
questi interessi?».

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. © Marco Bello 2018
Forse allo scopo di destabilizzare il paese?

«Non
penso. La maggioranza degli ex del regime non è in esilio, sono qui con noi. È
contro il loro interesse distruggere il paese.

Non penso ci sia una
regia all’esterno o all’interno che dice: attacchiamo tutto questo allo stesso
tempo. È un fenomeno che non si può analizzare intra muros burkinabè. Lo stesso
sta succedendo in Mali, Niger, Camerun, Ciad, Nigeria. Bisogna cercare le
ragioni altrove perché i veri giochi sono esterni al Burkina. In passato il
nostro territorio è stato risparmiato perché non c’erano le condizioni per
entrare qui. Non penso che sia la partenza di Blaise Compaoré che ha portato
questa situazione. È un movimento, una dinamica che è cominciata altrove, fa il
suo percorso e coincide con la partenza di Compaoré, che forse è stata il
detonatore, ma non la ragione principale.

Per
fare un esempio, quando ero ministro dell’Interno, all’inizio degli anni ’90,
ricevevo già delle informazioni dai servizi che menzionavano di velleità [di
potenze straniere] di cambiare i confini del nostro paese».

Ma il governo di Roch Marc Christian Kaboré come gestisce la sicurezza del
paese, secondo lei?

«Non lo so. Non ho abbastanza elementi per dirlo. Noi non
siamo più forti dei maliani e dei nigerini. Loro si sono abituati agli
attacchi, mentre noi non lo siamo ancora, ma a poco a poco stiamo imparando a
gestire questa situazione.

Non sono convinto che lo stato burkinabè avrebbe i mezzi per
reagire meglio. In Nigeria, nonostante i mezzi di quel grande stato, i
terroristi arrivano a destabilizzare intere aree del paese. Il piccolo Burkina
come potrebbe fare meglio? Lo stesso vale per il Ciad che ha il migliore
esercito della regione. Anche se Blaise Compaoré fosse stato ancora presidente
io non sono convinto che avrebbe potuto fare meglio dell’attuale governo. Sono
stato recentemente in Niger: a 70 km da Niamey, la capitale, hanno rapito un
missionario italiano5. Non si sa dove siano fuggiti: in Niger, in Mali, in
Burkina verso Sud?

Qui da noi hanno rapito anni fa il dottor Helliot e un
lavoratore rumeno alla miniera di Tambao, e sono ancora prigionieri. Poi hanno
rapito catechisti, consiglieri municipali, funzionari, che in seguito sono
stati liberati. Hanno attaccato addirittura l’ambasciata di Francia, come è
possibile che la Francia non lo abbia previsto? Per questo dico che non posso
affermare se gestiscono bene o male la questione sicurezza».

Marco Bello
(seconda puntata – fine)

Cronologia essenziale

Il Burkina sotto attacco

  • 1960, 5 AGOSTO – L’Alto Volta diventa indipendente, Maurice Yameogoè il primo presidente.
  • 1983, 4 AGOSTO – Inizia la rivoluzione burkinabè, guidata da Thomas Sankara e altri quattro compagni, tra i quali Blaise Compaoré. Un anno dopo l’Alto Volta diventa Burkina Faso, il paese degli uomini integri.
  • 1987, 15 OTTOBRE – Thomas Sankara e i 12 collaboratori più stretti vengono ammazzati. Blaise Compaoré diventa capo di stato.
  • 1998, 13 DICEMBRE – Assassinio del noto giornalista investigativo Norbert Zongo. I sospetti portano al fratello di Blaise, François Compaoré, ma l’inchiesta è bloccata.
  • 2011 – Diverse rivolte di piazza scuotono il potere di Compaoré: studenti, parte dell’esercito, magistrati, commercianti. A giugno repressione della rivolta dell’esercito a Bobo-Dioulasso.
  • 2013, MAGGIO – Legge per l’istituzione del Senato, per modificare la Costituzione affinché Compaoré si possa candidare nel 2015.
  • 2014, DA GENNAIO – Diverse manifestazioni pacifiche contro la modifica costituzionale raccolgono milioni di persone in piazza.
  • 2014, 30 OTTOBRE – Insurrezione popolare contro il voto per modificare la Costituzione. Il 31 ottobre Compaoré fugge in Costa d’Avorio. Messi in piedi organi di transizione (presidente, governo, consiglio nazionale) per una durata di 12 mesi. Le vittime degli scontri sono 24 e i feriti oltre 600.
  • 2015, 16 SETTEMBRE – Il generale Gilbert Diéndéré utilizza la guardia presidenziale per tentare un colpo di stato e bloccare la transizione. La popolazione reagisce, i sindacati dichiarano lo sciopero generale, l’esercito repubblicano si schiera contro il putsch.
  • 2015, 30 SETTEMBRE – La transizione è ripristinata, i golpisti arrestati. I morti sono almeno 17 e i feriti 108.
  • 2015, 29 NOVEMBRE – Elezioni presidenziali e legislative. Roch Marc Christian Kaboré è il nuovo presidente. Da sempre pezzo grosso del regime Compaoré, aveva rotto nel gennaio 2014. Il suo governo si insedia il 12 gennaio 2016.
  • 2016, 15 GENNAIO – Attentato jihadista nel cuore della capitale Ouagadougou. Colpiti gli hotel Splendid e Ybi e il ristorante Cappuccino. Le vittime sono 30 di 18 nazionalità.
  • 2016, 16 DICEMBRE – In un attacco nella regione Sahel (Nord) periscono 12 militari. La rivendicazione sancisce la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, a base etnica Peulh. Diventano frequenti gli attacchi a positazioni militari e di polizia, oltre che a scuole e dispensari nel Nord del paese.
  • 2017, 13 AGOSTO – Attacco jihadista al ristorante Aziz Istambul, in centro a Ouagadougou, 19 morti.
  • 2018, 2 MARZO – Doppio attacco quasi contemporaneo: all’ambasciata di Francia e allo stato maggiore dell’esercito burkinabè, in centro a Ouagadougou. Almeno 8 le vittime.
  • 2018, AGOSTO – Inizia una serie di attacchi a posizioni militari e di polizia nell’Est del paese. Oltre al Nord, dove continuano, l’Est diventa la seconda zona interessata.
  • 2018, 17 SETTEMBRE – In Niger, al confine con il Burkina Faso, viene rapito padre Pierluigi Maccalli, missionario Sma (Società missioni africane), da un gruppo proveniente dal Burkina.

Ma.Bel.