Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.

Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate
è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso
, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale
(Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia




Diseguaglianza, la sfida che decide il nostro futuro

Il 18 giugno 2018, a tre anni di distanza dalla pubblicazione della Laudato
Si’, circa venti partner, fra cui Caritas Italiana e Focsiv, hanno lanciato la
campagna triennale «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune,
una sola famiglia umana». Vediamo i numeri delle disparità nel mondo e alcune
iniziative che la campagna ha messo in campo su uno dei tre ambiti: il cibo.

Immaginiamo per un attimo che sul pianeta vivano cento persone e che il presidente della Banca Planetaria chieda loro di portare in banca tutti i soldi che possiedono perché viene emessa una moneta nuova e quelle vecchie non valgono più. In cambio verrà distribuita la nuova moneta che si chiama globone.

La Banca Planetaria convoca i cento abitanti del
pianeta e, cominciando da chi possiede di più, restituisce a ciascuno il suo
con le dovute rivalutazioni.

Per facilità supponiamo che tutti i soldi
raccolti equivalgano a cento globoni.

Arriva il primo signore, solo. Gli danno i suoi
soldi: 33 monete. È molto soddisfatto. Proprio un bell’affare. Nel 1980, quando
era stata fatta un’operazione simile, aveva avuto «solo» 28 monete.

Arrivano poi altre 9 persone. Ricevono 37 monete,
più o meno quattro a testa. Per loro è un colpo, perché nel 1980 ne avevano
ricevute 40, ma visti i tempi che corrono, meglio non lamentarsi, le perdite
sono contenute.

Dei 100 globoni iniziali, ne rimangono 30, ma le
persone da rimborsare sono ancora 90. Quanto riceverà ciascuno? Tutti lo
stesso?

Sono chiamate altre 15 persone: ricevono 20
globoni da dividere fra loro. Mugugnano un po’ perché rispetto al 1980 hanno
perso almeno un globone, o forse due, in favore del primo uomo.

Rimangono ancora 10 monete in tutto per 75
persone. A 25 sono distribuiti equamente 8 globoni, 32 centesimi a testa.
Speravano di prendere un po’ di più, ma possono andarsene contenti perché
almeno non hanno perso molto nel cambio. Metà dei «clienti» è sistemata.

A questo punto, le 50 persone rimanenti devono
spartirsi quel che rimane: due monete. Non due a testa: due in tutto, 4
centesimi ciascuno.

Una storia per capire

Questa storiella è una semplificazione dei dati riguardanti la distribuzione della ricchezza nel mondo pubblicati nel World Inequality Report (Wir) del 2018. Va detto che queste percentuali devono essere prese cum grano salis, come gli autori stessi tengono a chiarire, perché i dati affidabili sulla ricchezza nel mondo sono meno disponibili di quelli sul reddito, altra misura su cui si basa il rapporto. Inoltre, lo scenario è costruito sui dati dei soli Stati Uniti, Unione europea e Cina.@

Tuttavia, con le dovute cautele, è possibile
sostenere che di questo passo – cioè ai tassi di crescita della diseguaglianza
attuali – nel 2050 l’1% più ricco della popolazione mondiale arriverà a
possedere di più di tutta la classe media mondiale.

Per capire meglio riprendiamo la nostra storiella
e immaginiamo di moltiplicare tutto per dieci: gli abitanti del pianeta sono
mille, non cento, l’uomo con 33 monete diventa 10 uomini con 330 monete, e i 40
(15 + 25) della fascia intermedia con 28 globoni diventano 400 con 280 globoni.
Oggi, per eguagliare la ricchezza dei 400 uomini della fascia intermedia serve
la ricchezza di otto uomini e mezzo dei dieci più ricchi.

Le proiezioni nel rapporto dicono che nel 2050
basterà la ricchezza di uno solo dei dieci super ricchi per eguagliare la
ricchezza dei 400 della classe media mondiale.

Ma di quante persone reali stiamo parlando? I
dieci ricchi con 330 monete (l’1% della popolazione) corrisponono a circa 70
milioni di persone, spiega Lucas Cancel, uno degli autori del Wir 2018, alla
rivista francese Alternatives Economiques, o 40 milioni considerando la
sola popolazione adulta. Il livello di reddito di queste persone è di 330mila
euro all’anno.

La metà più povera della popolazione mondiale, invece (i cinquanta uomini che si dividono due monete nella storiella iniziale) corrispondono a tre miliardi e mezzo di persone e hanno un reddito sotto i 3.200 euro l’anno per ogni adulto@.

Diseguaglianza in crescita

© Gigi Anataloni /AfIMC

Nel 2016 la quota di reddito nazionale detenuta
dal 10% più ricco della popolazione variava dal 37%  in Europa al 61% nel Medio Oriente. Dal 1980
al 2016 – il periodo considerato dal Wir – la diseguaglianza è aumentata un po’
ovunque, ma con tassi molto differenti: mentre in Europa la variazione è stata
di pochi punti percentuali, in Russia è passata da poco più del 20% nel 1980 a
oltre il 40% nel 2016.

Del complessivo aumento del reddito globale nei
36 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha «catturato»
circa il 27%. Il 50% più povero ha certamente beneficiato di tassi di crescita
degni di nota, ma la quota  di aumento
del reddito «catturato» dalla fascia più povera è stata del 12%, pari cioè a
meno della metà rispetto alla quota dei super ricchi. Chi ha visto la propria
parte restare invariata, se non addirittura erodersi, è ancora una volta la
classe media.

Da qui al 2050, gli scenari riguardanti le
diseguaglianze sono molti. Il migliore è quello che le vede crescere in tutti
paesi ai tassi «contenuti» dell’Europa. Questo porterebbe la quota dei più
ricchi dal 27% al 19% e aumenterebbe dal 12% al 13% la quota goduta dai più
poveri. Viceversa, se il mondo seguisse il trend degli Stati Uniti, la «fetta»
di crescita a beneficio dei 3 miliardi e mezzo di poveri crollerebbe al 6%,
mentre i 70 milioni di persone più ricche otterrebbero un ulteriore aumento di un
punto percentuale.

Chiudiamo la forbice, ora

Chiudiamo la forbice@ è la campagna lanciata il 18 giugno dell’anno scorso da Caritas Italiana, Focsiv e una ventina di altri soggetti, prevalentemente di ambito ecclesiale. L’attenzione per il tema delle diseguaglianze è sintetizzata in una frase chiave contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «L’iniquità è la radice dei mali sociali».

La data del lancio di Chiudiamo la forbice, precisa il comunicato stampa che apre la campagna, corrisponde al terzo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì’@.

«Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale», sostiene Francesco nell’enciclica, «bensì una sola e
complessa crisi socioambientale» che richiede un «approccio integrale per
combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso
tempo per prendersi cura della natura».

Di questo approccio integrale vuole farsi
portatrice la campagna, che concentra il proprio lavoro principalmente su tre
ambiti: il cibo, i conflitti e la mobilità umana, da leggere nell’insieme
attraverso due elementi trasversali del contesto: la dimensione ambientale, cioè
la cura della casa comune, e la dimensione finanziaria, in particolare «la
relazione tra debito, crisi finanziarie, diseguaglianze e resilienza rispetto
all’instabilità sociopolitica e allo svilupparsi di conflitti violenti».

A Chiudiamo la forbice sono legati tre concorsi
per la produzione di un video, una foto e un disegno che esprimano il titolo e
il tema della campagna. La scadenza per la presentazione dei lavori è il 30
giugno 2019, mentre la premiazione avverrà il 30 dicembre.

Il cibo, diritto basilare negato

© AfMC / Cogliati Matteo

Quello del cibo, dalla produzione al consumo, è un ambito nel quale le diseguaglianze sono di un’evidenza schiacciante. Del cibo sprecato annualmente sul pianeta, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, gli abitanti di Europa e Nord America ne buttano fra i 95 e i 115 chili a persona contro i 6-11 chili a testa del resto del mondo. Nel primo caso, le perdite avvengono principalmente al livello del consumo e della vendita al dettaglio. In quest’ultimo ambito, buona parte dello spreco è l’effetto dell’applicazione di norme che danno eccessiva importanza all’aspetto dei prodotti. Nei paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi avvengono soprattutto nella fase successiva al raccolto e in quella di lavorazione, spesso a causa di limiti e inefficienze nelle tecniche di raccolta e nella catena del freddo. Nei paesi a medio reddito, infine, a causare le perdite di cibo sono principalmente la mancanza di coordinamento fra produttori e venditori e la scarsa consapevolezza da parte di produttori, venditori e consumatori sul problema dello spreco e su eventuali modi per riutilizzare il cibo che viene attualmente buttato@.

La campagna cerca di far emergere gli aspetti
disfunzionali in questo settore: «Se il 2017 è l’anno in cui la Fao ha rilevato
per la prima volta da tempo un nuovo aumento delle persone che soffrono la fame
sul pianeta, non cessano di aggravarsi le varie malattie dell’opulenza, come
l’obesità, lo spreco di cibo, la sovra alimentazione, ecc. Sullo sfondo vi sono
fenomeni complessi come la concentrazione del potere economico nelle filiere
della produzione del cibo, o i fenomeni dell’accaparramento della terra».

Fra le iniziative promosse in questo ambito vi è la spesa sospesa, che a Roma ha preso forma il primo fine settimana di ottobre al Villaggio Coldiretti. «Per tutto il weekend della manifestazione i visitatori dei banchi del maximercato degli agricoltori promosso da Coldiretti e Campagna Amica al Circo Massimo hanno avuto la possibilità di fare una donazione libera grazie alla quale acquistare prodotti a favore dei più bisognosi, sul modello dell’usanza campana del “caffè sospeso”, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo». Frutta, verdura, formaggi, salumi e altri generi alimentari così raccolti, per un totale di una tonnellata e mezzo, sono stati poi consegnati alla Caritas e alla Comunità di Sant’Egidio, che li hanno utilizzati per rifornire i quattro Empori della Solidarietà promossi dalla Caritas di Roma, che sono «supermercati di medie dimensioni a cui possono accedere gratuitamente persone che si trovano in temporanea difficoltà e che non riescono a sopperire a tutte le loro necessità»@.

Anche a Torino si è svolto a giugno un evento simile ai Giardini Reali superiori. Il bilancio è stato di una tonnellata di cibo raccolta e distribuita alle famiglie bisognose@.

Chiara Giovetti

© AfMC



I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




Il falso anniversario della crisi (economica)

Si dice che (la crisi) sia iniziata il 15 settembre 2008. È un falso inventato per non ammettere che la crisi è nata dalla globalizzazione. Un processo che ha prodotto sfruttamento nei paesi del Sud, salari bassi e disoccupazione in quelli del Nord. Quando i consumi sono risultati insufficienti, il sistema ha pensato di uscirne con i mutui facili. Quello che poi è successo è storia recente.

L’anno appena trascorso è stato commemorato in tutto il
mondo come il decennale di una crisi da cui non siamo ancora realmente usciti. L’anniversario è dovuto alla
narrazione ufficiale che vuole fare coincidere l’inizio della crisi con la
caduta della Lehman Brothers, la
banca d’affari fallita il 15 settembre 2008. Tuttavia, se vogliamo capire
davvero come essa si sia prodotta e perché non si sia ancora esaurita,
nonostante le migliaia di miliardi di dollari messi in campo dalle principali
banche centrali, dobbiamo andare molto più indietro. Il decennio giusto da cui
partire è quello degli anni Ottanta del secolo scorso, quando a Punta del Este,
una località balneare situata su una stretta penisola nel Sud Est dell’Uruguay,
si tenne l’ultima tornata (round) di riunioni sotto l’egida di un accordo
commerciale internazionale nato nel 1947 e conosciuto come General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt, Accordo Generale
sulle Tariffe e il Commercio). L’Uruguay Round, avviato nel 1986, durò ben otto
anni e aveva come scopo la sepoltura del Gatt e la nascita al suo posto di un
nuovo organismo denominato World Trade
Organization
(Wto, Organizzazione Mondiale del Commercio – Omc).

Arriva la globalizzazione

WTO Public Forum 2016, Day 1, Open Plenary Debate

L’atto di nascita dell’Omc avvenne il 15 aprile
1994 a Marrakesh per volontà di 123 paesi. Questo organismo si può considerare
l’inizio ufficiale di ciò che chiamiamo «globalizzazione».

Nonostante le molteplici definizioni date al
termine, da un punto di vista economico la globalizzazione è riassumibile come
il tentativo di trasformare il mondo intero in un unico mercato, un’unica
piazza finanziaria, un unico villaggio produttivo. È il passaggio da un mondo
strutturato su mercati nazionali, ognuno con le proprie regole commerciali e
doganali, a un mondo strutturato come mercato unico con da regole comuni, per
permettere a merci e capitali di fluire senza ostacoli da un capo all’altro del
globo.

Un cambiamento non casuale, perché rispondente ai
bisogni dei nuovi padroni del mondo, le multinazionali, ormai con capacità di
vendita così ampie da far sì che nessuna nazione possieda un numero di
consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti. Immaginarsi, ad esempio,
se una Coca-Cola, una Nestlé o una Volkswagen può accontentarsi dei consumatori
esistenti nel proprio paese di origine. Per le dimensioni raggiunte, ognuna di
esse aveva bisogno di rivolgersi ai consumatori di tutto il mondo e,
chiedendosi come fare per tagliare il traguardo, capirono che il vero ostacolo
da affrontare erano gli stati. Questi, in nome della difesa dei propri
consumatori, dei propri posti di lavoro, della propria sicurezza sociale,
pretendevano di definire in totale autonomia le regole di entrata e uscita di
beni e servizi. In effetti 150 nazioni, con 150 legislazioni, 150 regimi
doganali, l’uno diverso dall’altro, rappresentano una vera complicazione per i
mercanti globali che invece hanno bisogno di uniformità. Per questo è stata
istituita l’Organizzazione Mondiale del Commercio col compito di scrivere le
regole sovrannazionali, una sorta di «supercostituzione mondiale», che ogni
nazione deve impegnarsi a rispettare quando legifera su tematiche che hanno a
che fare col commercio internazionale. Disgraziatamente per noi, tali ambiti
sono molto vasti e vanno dalle questioni sanitarie a quelle ambientali, da
quelle culturali a quelle sociali. Immancabilmente, la supercostituzione
dell’Omc impone agli stati di ridurre al minimo, se non di eliminare, ogni
regola che si pone in contrasto con gli interessi commerciali. Basti pensare
che nel 1999 l’Unione europea è stata condannata dall’Omc per aver vietato
l’ingresso della carne proveniente da bestiame statunitense allevato con ormoni
ritenuti pericolosi per la salute dei consumatori.

La corsa alla riduzione dei costi e dei salari

Proprio quando la globalizzazione ha cominciato a
materializzarsi, le imprese hanno scoperto che il grande mercato mondiale che
loro sognavano in realtà non esiste perché il numero di famiglie con soldi
sufficienti per entrare nell’olimpo dei consumatori non va oltre il 30% della
popolazione mondiale. Tutte le altre sono solo zavorra. Così milioni di imprese
di tutto il mondo si sono trovate l’una in guerra con l’altra per conquistarsi
un mercato mondiale tutto sommato piccolo senza possibilità di espansione
immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue combattuta non
solo con i mezzi moderni della tecnologia, del design, della velocità di
consegna, ma anche con le armi più tradizionali della pubblicità e
dell’abbassamento dei prezzi. Un insieme di misure che certo possono fare
aumentare le vendite, ma anche assottigliare i profitti se contemporaneamente
non vengono ridotti i costi. Così nel vecchio lupo capitalista è riemerso,
prepotente, l’istinto di risparmiare attaccando il lavoro con strategie
differenziate a seconda del settore di attività. In quelli ad alta tecnologia è
stata intensificata l’automazione per sostituire i lavoratori con robot, che
non pretendono contratti, non dichiarano sciopero e non si suicidano, come
invece fanno gli umani quando non ne possono più. Nei settori ad alta
manovalanza, invece, si è optato per la delocalizzazione, prima verso l’Asia,
poi anche verso l’Europa dell’Est, in ogni caso verso paesi dove salari e
diritti sono così ridotti da garantire costi di produzione anche venti volte più
bassi di quelli in vigore nei paesi di vecchia industrializzazione. Di colpo è
stata riscritta la geografia mondiale del lavoro con risultati drammatici:
sfruttamento e industrializzazione selvaggia nel Sud, aumento della
disoccupazione e riduzione dei salari nel Nord. Un attacco al lavoro in piena
regola che ha prodotto come risultato finale la riduzione della massa salariale
a livello globale.

In Europa, ad esempio, l’Ocse ha certificato che
la quota di prodotto interno lordo per i salari è scesa dal 72%, nel 1975, al
63% nel 2014. Una perdita di 9 punti percentuali che, nel caso specifico
italiano, è stata addirittura di 13 punti. Un fenomeno purtroppo non confinato
ai soli paesi di vecchia industrializzazione, ma che coinvolge anche i paesi
emergenti. In Cina, ad esempio, nel periodo 1995-2012 la quota di Pil andata ai
salari è scesa del 7%, in Turchia addirittura del 17%.

I guasti della globalizzazione

Che la globalizzazione abbia aggravato le
disuguaglianze lo dice non solo la diversa distribuzione del Pil fra salari e
profitti, ma anche la distribuzione della ricchezza patrimoniale. Per
intendersi il possesso di case, aziende, depositi bancari. Nel 2000 l’1% più
ricco della popolazione mondiale deteneva il 40% della ricchezza privata
mondiale. Oggi ne detiene il 50%. Dolce musica per i detentori di capitale, ma
al tempo stesso rumore sordo di tempesta: se i salari scendono, chi comprerà
tutto ciò che il sistema produce? In effetti l’ombra della crisi da scarsità di
mercato si è manifestata fin dall’inizio della globalizzazione con l’arrivo di
due cavalieri. Il primo: l’espansione della finanza, un fenomeno che fa
capolino ogni volta che aumentano i profitti, ma ci sono basse prospettive di
vendite. Il secondo: l’espansione del debito, che si affaccia ogni volta che i
magazzini si ingolfano di materiale invenduto.

La strada maestra per sbloccare la situazione
sarebbe stata la crescita salariale, ma non sentendoci da quell’orecchio il
sistema ha cercato di fare crescere le vendite spingendo le famiglie a
consumare oltre le proprie possibilità tramite l’indebitamento. Strada che gli
Stati Uniti hanno imboccato a piene mani a inizio anni Duemila utilizzando come
esca l’acquisto della casa.

L’imbroglio dei mutui

Complessivamente fra il 2000 e il 2007 vennero
concessi mutui per 18.000 miliardi di dollari, ma un buon 15% erano subprime, ossia scadenti nel senso che
erano a rischio di non ritorno perché concessi a famiglie così povere da non
poterli restituire. Così successe che gli stessi agenti che, un paio di anni
prima, erano passati casa per casa per strappare una firma sotto un contratto
per l’accensione di un mutuo, ora passavano per pignorare le abitazioni degli
insolventi e metterle sul mercato al fine di recuperare le somme prestate. Ma
le case pignorate e messe in vendita erano tante. L’effetto fu un crollo del
prezzo del mercato immobiliare che impediva il pieno recupero delle somme
impegnate.

La cosa strana, tuttavia, fu che quando il marcio
venne a galla, non furono le banche che avevano stipulato i mutui a
preoccuparsene, ma tutte le altre. E qui si scoprì che la concessione di mutui
a famiglie troppo povere per poterli ripagare non era stato il frutto di errori
di valutazione, ma di disonestà. Il fatto è che le banche che concedevano i
mutui non avevano nessun interesse a valutare la solidità delle famiglie perché
sapevano che avrebbero scaricato la patata bollente su altri.

Il trucco su cui si reggeva l’intero castello
stava nel fatto che le banche concessionarie di mutui avevano trovato il modo
di dare prestiti alle famiglie e riscuoterli subito, non dalle famiglie che già
erano in difficoltà a restituirli in trent’anni, ma da altri soggetti disposti
a subentrare come creditori al posto loro.

In fin dei conti avevano messo in piedi un
gigantesco meccanismo di vendita dei mutui che trovava clienti soprattutto fra
banche, fondi pensione e assicurazioni. Per di più quegli stessi mutui erano
stati utilizzati come base di scommesse complicatissime che si rivelarono tutte
perdenti quando trapelò la notizia che molte famiglie americane non pagavano più.

Il terremoto fu mondiale e a rimanere sotto le macerie furono soprattutto le banche di qua e di là dell’Atlantico che si ritrovarono i cassetti pieni di titoli che ormai non valevano niente. La Lehman Brothers forse venne lasciata fallire appositamente per fare conoscere al mondo quanto fosse grave la situazione delle banche che, trovandosi piene di debiti e un capitale altamente svalutato, non erano più in grado di svolgere la loro funzione istituzionale di concedere prestiti. Così la crisi finanziaria si estese al sistema produttivo con fabbriche che chiusero e investimenti che non vennero realizzati. Una vera tragedia sul piano occupazionale che, secondo le Nazioni Unite, comportò la perdita di 30 milioni di posti di lavoro.

© KevinDooley

Serve più salario e più lavoro

Di chi è la colpa di tutto questo? L’accento è
stato posto sulla mancanza di regole che ha consentito al sistema bancario e
finanziario di avventurarsi per strade insane e piene di azzardi. Una diagnosi
verissima, purtroppo ancora valida per responsabilità della politica che non ha
saputo intervenire per metterci al riparo da nuove crisi bancarie che magari
possono avere come nuovo epicentro la crisi dei prestiti per mantenersi agli
studi piuttosto che ai consumi. La mancanza di regole è però solo una parte
della storia. A monte di tutto c’è l’ingiusta distribuzione della ricchezza che
provoca povertà e indebitamento.

Il sistema deve capire che l’equilibrio può essere
ritrovato solo in due modi: aumentando i salari e permettendo a tutti di avere
un lavoro. Che non significa automaticamente produrre più beni per il mercato,
ma ridurre l’orario di lavoro e rilanciare l’economia pubblica. Ricette
semplici e possibili ma che attueremo solo se cambieremo mentalità.

Francesco Gesualdi




2019 all’insegna della missione

Buon anno! I nostri auguri ai missionari e missionarie della Consolata, ai
laici che ci seguono e ci vogliono bene, ai tanti amici che, conoscendo il
nostro beato fondatore, seguono il suo esempio e continuano ad invocarlo con
fiducia.

Abbiamo da poco iniziato il cammino di questo 2019 e ci
siamo augurati vicendevolmente che sia «buono» (anzi, migliore dell’anno appena
passato). Certamente ci riserva una bella sorpresa: un intero «mese missionario
straordinario», il prossimo ottobre, dentro il quale si incastonerà il «Sinodo
per l’Amazzonia».

Inutile dire che il Sinodo 2019 ci tocca da vicino, perché
parecchi nostri missionari lavorano in quell’immenso territorio che si allarga
in vari paesi latinoamericani e dove «una profonda crisi è stata scatenata da
un prolungato intervento umano, caratterizzato da una “cultura dello scarto” e
da una “mentalità estrattiva”».

Papa Francesco, prima dell’indizione del Sinodo
amazzonico, così scriveva al cardinale prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli: «Indìco un mese missionario straordinario
nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio
ad gentes
e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria
della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche
attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i
fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle
loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca
l’amore per la missione, che “è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è
una passione per il suo popolo”».

A questi due eventi, vorremmo aggiungere la memoria di un
centenario che ci è caro e che celebra la nostra presenza missionaria in
Tanzania, dove i primi quattro «arditi della Consolata» sbarcarono nell’aprile
del 1919; avevano il permesso e la benedizione dello stesso fondatore, che
aveva acconsentito a quella terza apertura missionaria del suo giovane
Istituto, nonostante «la scarsità di personale» e in obbedienza al papa…
soggiungendo: «Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è
e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del
missionario».

Sia ancora lui, allora, a ispirarci e accompagnarci nel
nuovo anno perché, nella preghiera, nella riflessione e in gesti concreti di
apertura e solidarietà, ci prepariamo al prossimo «straordinario ottobre» che
colora di intensa gioia missionaria i giorni della nostra attesa.

P. Giacomo
Mazzotti

L’Allamano nella vita di ogni giorno

Questa rubrica che propone diversi aspetti della ricca personalità del
beato Giuseppe Allamano, durante l’anno 2019 conterrà due pagine con la pretesa
di una certa novità: un Allamano «a tu per tu».

Non si può dire che l’Allamano non sia conosciuto,
soprattutto nei territori dove vivono e operano i suoi missionari e
missionarie, sia in Italia che in tante altre nazioni. Sono state pubblicate
tutte le sue conferenze come pure tutta la sua corrispondenza scritta e
ricevuta. Le pubblicazioni che trattano di lui sono numerosissime e in diverse
lingue.

Non è facile offrire ancora qualcosa di nuovo
sull’Allamano. A ben pensarci, però, c’è ancora una strada da percorrere. Si
tratta di aprire gli archivi e ascoltare certe sue parole che abitualmente
rimangono nascoste. L’Istituto possiede un archivio molto ricco, nel quale, tra
il resto, è conservata una grande quantità di testimonianze sull’Allamano.

Subito dopo la sua morte, molti sacerdoti, religiosi,
suore e laici, che lo avevano conosciuto da vicino, hanno sentito il desiderio
di riferire i propri ricordi personali. Non volevano che la memoria di un tale
personaggio finisse per scomparire. Quando poi è stata iniziata la causa per la
beatificazione, molte di queste testimonianze sono state garantite dal
giuramento.

È interessante riprendere in mano questi documenti, per
lo più manoscritti, e rileggerli con attenzione. Spesso i testimoni non si
accontentano di parlare di lui, ma riportano addirittura sue parole che
ritengono di ricordare, scrivendo: «l’Allamano diceva…» e, tra virgolette,
riportano le sue espressioni in forma diretta.

Riguardo queste testimonianze, si deve tenere presente
che il testimone ridice le parole dell’Allamano come le ricorda, affidandosi
cioè alla propria memoria. Non è quindi sempre possibile pretendere l’esattezza
assoluta della terminologia, ma solo quella del concetto.

La novità di queste pagine consiste nel fatto che
contengono le parole e le reazioni dell’Allamano «nella vita di ogni giorno».
Non l’Allamano delle conferenze o delle lettere, ma nei suoi interventi in
situazioni concrete della vita, diverse l’una dall’altra e quindi spontanee. In
definitiva un Allamano immediato  proprio
come era nella vita ordinaria.

Proporrò queste parole, riferite dai testimoni e poco
conosciute, attraverso dei fatterelli e facendo notare come l’Allamano li seppe
vivere e interpretare. Le sue parole collegate a questi episodi sono quelle che
i testimoni riferirono avendole udite direttamente da lui.

Al Paese

Il primo tema che propongo riguarda Castelnuovo, suo paese natale, oggi
detto il paese dei santi (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano).
Sono quattro fatterelli che dimostrano la sua semplicità umana e la sua
ricchezza interiore.

Il primo fatto
tocca la sua vocazione al sacerdozio a proposito della quale l’Allamano seppe
dare la giusta importanza ad un dettaglio della sua infanzia. Un giorno, il
parroco e il sindaco del paese capitarono a casa sua a visitare la mamma.
Avendolo visto lì in cucina, piuttosto timido, domandarono alla mamma: «Che
cosa facciamo di questo ragazzo?». La risposta di quella saggia donna dimostra
che conosceva di quale stoffa era fatto il figlio: «Gli lascio fare quello che
vorrà», rispose. Il parroco, che stimava il ragazzo, non si accontentò: «Non lo
sprechi; lo faccia studiare».

Un fatto così
semplice poteva passare inosservato, ma non per l’Allamano, che fin da ragazzo
sapeva rendersi conto della presenza di Dio nella propria vita.

Ecco il suo
commento, confidato anni dopo ad un suo missionario: «Se non fossero passati da
casa mia il sindaco e il parroco, forse non avrei seguito la vocazione». Sembra
che abbia voluto dire: «È stata la Provvidenza a mandarli a casa mia proprio
quel giorno, quando io ero in cucina con la mamma, che così fu convinta e mi
mandò a studiare a Valdocco da Don Bosco».

Un secondo
fatterello riguarda il suo rapporto proprio con la mamma, quella «santa donna»,
come lui la chiamava, alla quale era molto legato, particolarmente durante gli
anni di una lunga malattia che la portò alla cecità e alla totale sordità. La
mamma era la sorella di Giuseppe Cafasso, morto in concetto di santità. Per
ottenere la guarigione, sicuramente il figlio, affezionato, l’avrà raccomandata
all’intercessione dello zio. Riferendosi poi al fatto che non era stata
guarita, pur essendo sorella, si accontentò di questo bonario commento
confidato ad una suora missionaria: «I Santi non fanno le grazie ai parenti». Né
perse la sua fiducia nel Cafasso, del quale curò la causa presso la Santa Sede
fino alla beatificazione.

Il terzo fatto riguarda la sua
presenza a Castelnuovo. Dopo l’ordinazione, si recò al paese sempre più
raramente. Quando il cognato Giovanni Marchisio si ammalò, andò a trovarlo, ma
senza dilungarsi troppo. Lo raccontò così: «Sono stato a trovare mio cognato;
mi fermai poche ore; alle due ero ancora a Torino, alle sette avevo già finito
il viaggio. Da ben quindici anni non ero più stato a Castelnuovo».

Un ultimo
episodio piuttosto curioso. Al sacerdote don Pagliotti, suo penitente, saputo
che dedicava la nuova chiesa parrocchiale in Torino a S. Agnese, espresse la
sua soddisfazione aggiungendo questa confidenza: «I miei genitori avevano già
deciso, prima della mia nascita, di pormi il nome di Agnese… se fosse nata una
bambina. E poiché nacqui proprio il giorno di S. Agnese [21 gennaio 1851], mia
madre mi instillava gran devozione a questa cara martire, e alla sua protezione
ho pure riposto l’esito del gran passo dell’istituzione delle Missioni della
Consolata».

P. Francesco Pavese