Un secolo di Consolazione con l’Allamano:

100 anni di Tanzania

Indice

Introduzione

21 aprile 1919, ore 21

Affascina di più il sole o la luna? Meglio il sole che illumina il giorno o la luna che rischiara la notte? L’Africa di ieri gradisce soprattutto l’astro del giorno e assai meno il pianeta della notte. All’alba si esce per zappare il campo, condurre pecore e capre al pascolo, raggiungere il mercato. Al tramonto ci si rifugia in casa attorno al fuoco, compresi i mariti un po’ brilli di ritorno dall’osteria.

Non fa eccezione il Tanzania, anche perché la tenebra è il tempo dei ladri, del leopardo e della iena, nonché degli stregoni con i loro traffici loschi.

E, tuttavia, i primi missionari della Consolata misero piede in Tanganyika/Tanzania proprio di notte, alle ore 21 del 21 aprile 1919. Però, il giorno successivo, eccoli nel sole glorioso, pronti a «rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca 1, 78-79).

Da Dar Es Salaam, «porto della pace», iniziò l’avventura missionaria dei nuovi arrivati: i padri Giovanni Ciravegna, Giacomo Cavallo, Gaudenzio Panelatti e Domenico Vignoli. Missionari italiani, ma provenienti dal Kenya.

Perché dal Kenya? Perché dal Kenya ci «fu un atto di carità che noi missionari della Consolata abbiamo compiuto», scrisse monsignor Filippo Perlo, vicario apostolico in quel paese, sul numero di agosto del 1922 di «La Consolata».

Perlo aveva ricevuto un appello da parte di Thomas Spreiter, vicario apostolico in Tanganyika, di rimpiazzare con i missionari della Consolata i Missionari Benedettini tedeschi, costretti ad abbandonare la colonia del Tanganyika dopo la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale.

Perlo spiegò quell’«atto di carità» precisando: «Pare una contraddizione che siano dei poveri a fare la carità, mentre questo sarebbe un naturale affare dei ricchi. Dobbiamo arrabattarci per far fronte alle esigenze presenti senza riuscirci. Ciò nonostante troviamo del personale per “imprestare” ad altri»1.

Imprestare? Il termine non centrava in pieno il valore del gesto dei missionari, perché la loro «carità» non sarà ad tempus, bensì totale. E dura tuttora a 100 anni di distanza.

F. B.

Inizia l’Avventura:
I quattro, dell’Ave Maria

I protagonisti di questa storia sono i missionari della Consolata: padri, fratelli e suore, con i fedeli, i catechisti, i religiosi, i sacerdoti e i vescovi del Tanzania. Una storia che inizia 100 anni fa, quasi per caso. Come tutte le belle storie. E poi prende corpo e si consolida. Fino ad arrivare a oggi, tempo nel quale i missionari tanzaniani partono per i cinque continenti.

Arrivati da pochi giorni a Dar Es Salaam, la capitale, il 4 maggio 1919 i quattro missionari partirono alla volta della cittadina di Iringa: il primo tratto in treno fino a Kilosa e poi in carovana con 60 portatori, soprattutto pedibus calcantibus fra sassi e acquitrini. «Partiamo a cuor contento – scrisse padre Ciravegna -, risoluti con l’aiuto di Dio di assecondare con tutte le nostre forze la divina grazia nell’opera di resurrezione morale delle missioni, prive da tempo dei loro pastori»2.

Giunsero a Iringa il 19 maggio, dove si fermarono alcuni giorni. Ogni sera, all’ora dell’Ave Maria, lodavano la Consolata. Poi si stabilirono nelle missioni di Tosamaganga e Madibira, «ereditate» dai missionari Benedettini. Missioni distanti da Iringa, rispettivamente, 20 e 150 chilometri.

Tosamaganga sorge su un territorio collinoso e roccioso, popolato dai Wahehe, gruppo etnico che vanta l’eroe nazionale del Tanzania, il sultano Mkwawa.

Costui per due anni aveva eluso la caccia dei tedeschi decisi di conquistare il Tanganyika. Nel 1898, probabilmente tradito da uno dei suoi, il sultano si era suicidato per non essere preda dei nemici invasori. I tedeschi gli avevano mozzato la testa e l’avevano portata come trofeo in Germania. Decenni dopo, il nipote Adam Sapi Mkwawa, presidente del parlamento del Tanzania, sarebbe andato a riprendere il teschio del nonno.

Adam, musulmano e padre di 10 figli avuti da una sola moglie, è ricordato oggi come amico dei missionari della Consolata, come anche il padre Sapi Mkwawa.

Madibira è terra dei Wasangu, Wabena e Wahehe, tre gruppi etnici che vivono in armonia e si esprimono in un buon swahili. Intelligenti, estroversi, coltivatori di mais, riso e arachidi, i madibiresi non disdegnano di cacciare il bufalo e l’elefante. I loro nemici sono la zanzara e la mosca tzetze, che stermina pecore e vacche.

I quattro missionari (due a Tosamaganga e due a Madibira) si misero subito all’opera, ossia «al grande bucato per ripulire le missioni», per dirla con l’arguto padre Ciravegna3.

In termini più prosaici e concreti: i missionari ripararono dispensari medici, aule scolastiche, abitazioni e chiese; chiamarono a raccolta catechisti, cristiani e catecumeni; riaprirono i registri dei battesimi e dei matrimoni. Il tutto fra dubbi e difficoltà.

«Però, a poco a poco, numerosi cristiani sperduti ritornarono al Pastore. La campanella della missione riprese a suonare nel giorno del Signore, e, di nuovo, la preghiera saliva al Padre che è nei cieli»4.

Onore a monsignor Cagliero

Il risultato di tanta evangelizzazione fu la creazione, nel 1922, della Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsignor Francesco Cagliero, pure lui proveniente dal Kenya, ma non più «imprestato».

Nel 1923 il personale missionario si arricchì di nuovi padri, alcuni fratelli coadiutori e diverse suore. Uomini e donne, zelanti e gagliardi, che consentirono la riapertura delle missioni di Bihawana e Padangani fra i Wagogo, e non solo.

Però attenti alla salute! Al riguardo, le raccomandazioni di monsignor Cagliero sono pertinenti e fraterne. Per esempio: obbligo di usare la zanzariera, perché «siamo tutti più o meno malarici»; coltivare l’orto per procurarsi frutta e verdura; «il cibo sia conveniente, abbondante e pulito». E poi: «Mi dicono che all’Iringa vi sono i migliori scrittori dell’Istituto. Perciò mano alla penna. Scriviamo articoli, relazioni, lettere per farci conoscere e avere sussidi»5.

Nel 1939, dopo 20 anni di missione, la situazione era la seguente: cattolici 14.211, catecumeni 1.519, studenti della scuola elementare 5.151, studenti della Central School 107, scuole magistrali per ragazze 28, allievi delle scuole professionali 21.

Degna di nota è la Secondary School di Tosamaganga (tutt’oggi in esercizio). Padre Francesco Sciolla vi dediò 40 anni, portandola alle soglie di università.

Ma «l’evento più avvenimento» risale al 1932: la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie di Santa Teresa di Gesù Bambino, religiose tanzaniane, dette «Teresine». Secondo la cultura africana, una donna non è tale se non diventa madre di figli. Ebbene era ipotizzabile, nel 1932, che alcune donne rinunciassero volontariamente alla maternità per essere «suore»? Non lo era, a meno che non ci fosse «lo zampino dello Spirito Santo».

Onore al coraggio evangelico di monsignor Cagliero, fondatore delle Teresine, oggi circa 400, operanti anche in Italia.

Però che peccato che questo missionario pioniere se ne sia andato così fretta. Aveva 60 anni quando trovò la morte, il 22 ottobre 1935, in un incidente d’auto. Prima di partire per il safari (viaggio, ndr), monsignor Cagliero disse: «Quando sarò di ritorno, vivo o morto, suonate le campane»6.
E le suonarono. A morto.

In residenza coatta

Le campane suonarono ancora il 1 aprile 1936, ma questa volta a festa: la Prefettura apostolica di Iringa, quel giorno, ebbe un nuovo pastore. Si chiama Attilio Beltramino, di 35 anni. E, manco a farlo apposta, anch’egli veniva dal Kenya, come i «quattro dell’Ave Maria» e il compianto monsignor Cagliero.

Ora, però, non si parli più di «prestito», bensì di «investimento». Investire nell’annunciare «la consolazione del Signore» attraverso nuovi missionari e missionarie. Lo si fece aprendo le parrocchie di Kaning’ombe nel 1937, di Ilula, Pawaga e Mtandika nel 1939. Nomi ostici per il lettore italiano, che dicono e non dicono. Ma per il missionario significano lacrime e sangue.

E, come se questo non bastasse, ecco la stramaledetta Seconda guerra mondiale. L’Italia si ritrova contro la Gran Bretagna.

Il 16 giugno 1940 in Tanganyika scattò il rastrellamento. «Tutti i nemici stranieri italiani» della Prefettura apostolica di Iringa (missionari e missionarie) dovettero subito ritrovarsi a Tosamaganga.
La deportazione era quasi certa.

Sennonché intervenne monsignor Edgar Maranta, missionario cappuccino, vicario apostolico di Dar Es Salaam e amico della Consolata. Parlava la lingua di Dante, ma non era italiano, bensì svizzero.

Circa «i nemici italiani» dichiarò: «Sui missionari della Consolata garantisco io. Signori di sua maestà la Regina, vi do la mia parola d’onore: i missionari staranno ai vostri patti, ma voi non allontanateli dalle loro sedi»7. E così fu.

L’intesa raggiunta venne formalizzata sulla «parola d’onore» del vicario svizzero. Ma era da sottoscrivere da ciascun missionario italiano ogni sei mesi. Altre clausole dell’accordo erano: proibito allontanarsi dalla missione oltre un miglio; vietati gli spostamenti di personale; censura di ogni lettera spedita e ricevuta; nessun discorso politico con la gente locale.

Le limitazioni non erano una bazzecola. Meglio, comunque, «la residenza coatta» che la deportazione in qualche landa di sua maestà la Regina, come avvenne per i missionari della Consolata del Kenya, confinati in Sudafrica.

Coraggio e strategia

A peste, fame et bello: tutti i missionari conoscevano queste parole latine. Le avevano pure cantate in chiesa. Soprattutto avevano sperimentato sulla loro pelle le conseguenze della peste, della fame e della guerra. E non potevano che concludere: libera nos Domine.

Tuttavia non si scoraggiarono, nonostante i momentanei fallimenti.

La missione esige costante coraggio e sempre nuove strategie di crescita umana e religiosa. Non fa eccezione il Tanganyika dei missionari della Consolata, i quali nella conferenza di Tosamaganga del 22-26 aprile 1937 stabilirono:

1. Azione pastorale. Far crescere le comunità con iniziative appropriate, quali: formazione dei catechisti, spina dorsale della evangelizzazione; durante la Settimana Santa esercizi spirituali anche per i fedeli; avviare l’Azione cattolica.

2. Scuola. È un obiettivo da cui non si può deflettere. Fare sì che le scuole di missione siano riconosciute dall’Amministrazione britannica, anche per ottenere un sussidio per lo stipendio dei maestri.

3. Attenzione alla cultura, incominciando dallo studio degli idiomi locali, oltre che dello swahili. Raccogliere informazioni sugli usi e costumi del paese, sul fenomeno della poligamia e della circoncisione8. Dare vita ad una «biblioteca di famiglia», archiviando documenti e schedando riviste e libri.

4. Africanizzazione. Termine sconosciuto nel 1937. Il progetto è far crescere la chiesa locale con preti e suore autoctoni. Si prospetta la fondazione di «fratelli religiosi» tanzaniani. Ma pare un’utopia.

5. Promozione umana. Oltre a Tosamaganga «cittadella di Dio», anche altrove operano strutture di promozione umana, ma con scarsa incidenza. Occorre qualificare i dispensari medici, aprire scuole di economia domestica e centri di formazione umana e religiosa.

6. Ecumenismo. Il Concilio ecumenico Vaticano II è ancora nell’iperuranio. I cattolici e i protestanti si contendono il campo con corse sfrenate. Chi primo arriva, comanda. Urge un rapporto di amicizia e buon vicinato.

7. Amministrazione. Un missionario aprì un conto personale in banca senza permesso. «Dovetti rimproverare questi sotterfugi di amministrazione», intervenne monsignor Beltramino9. Quindi: trasparenza economica.

Grazie ai campi di… tabacco

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Matteo 6, 33). Ma è pure sacrosanto il detto: aiutati che il ciel ti aiuta.

I missionari vivevano nella povertà, la quale non sempre è «perfetta letizia». Però non si piangevano addosso. Per disporre di qualche soldo in più, qualcuno prospettò la coltivazione di tabacco.

La prima prova del 1941 fu una delusione. La seconda dell’anno successivo destò speranze. Però il terreno disponibile era scarso e da disboscare. E poi: guai a cercare un terreno migliore altrove, «sconfinando oltre il miglio», imposto dagli inglesi durante la guerra maledetta!

Sbocciò la pace, e la musica cambiò. L’evangelico «tutto il resto in aggiunta» prese consistenza proprio grazie al tabacco.

Fuori metafora: il 13 gennaio 1948 Lord Chesham, anglicano, ma amico dei missionari della Consolata, abbracciò la fede cattolica. Chesham era un anziano e ricco inglese che donò ai missionari due vasti appezzamenti di terra a Makalala e a Ulete.

Si riprese a coltivare tabacco con successo. I campi di tabacco non sono «sani», perché il fumo uccide: questo col senno di poi. Tuttavia, grazie ai proventi del tabacco (come pure a quelli del mais, riso, arachidi, piretro, ecc.), i missionari poterono finalmente costruire scuole a norma, ambulatori efficienti e chiese capaci, senza più stendere il cappello per elemosinare quattrini. Il modello era, ed è, il missionario Paolo di Tarso, il quale affermava: «Alle necessità mie e di quanti erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutti i modi ho dimostrato che, lavorando, si devono soccorrere i poveri» (Atti degli Apostoli 20, 34-35). L’apostolo Paolo era un tessitore di tende e stuoie.

«Suo padre è musulmano»

Nel frattempo la Prefettura apostolica di Iringa divenne «Vicariato apostolico». In termini più accessibili: ora Attilio Beltramino non è solo «monsignore», ma anche «vescovo».

L’insediamento del nuovo presule avvenne il 27 maggio 1948. Il suo motto era: In Deo meo transgrediar murum (Salmi 17, 30), cioè: «Con il mio Dio scavalcherò il muro».

Un motto che sa di battaglia in ogni angolo del mondo, Italia compresa. Un motto contro le schedature dei rom, le chiusure dei porti ai migranti, i reticolati tra paese e paese. Abbasso «i muri della vergogna», come quello tra Messico e Stati Uniti voluto da Donald Trump.

Con «sua eccellenza» monsignor Beltramino, la chiesa locale di Iringa crebbe, specie in qualità.

Un «salto di qualità» lo si ebbe, nel 1945, con l’ordinazione al sacerdozio del primo tanzaniano, padre Titus Fumbe.

Un altro salto di qualità (o «traguardo vittorioso», come scrisse padre Alessandro Di Martino) fu la nascita nel 1949 dell’Istituto religioso dei Fratelli africani. Come per la fondazione delle «Suore Teresine», valeva l’espressione evangelica «farsi eunuco a motivo del regno dei cieli», con l’aggiunta (non di poco conto): «Chi può capire capisca» (Matteo 19, 12). Perché si trattava di un pugno nella pancia della cultura africana.

Ma il salto forse «più qualitativo» non era ancora avvenuto. Nel seminario di Tosamaganga studia un certo Mario Abdallah Mgulunde. Sì, Abdallah, figlio di un musulmano. E come non guardarlo con sospetto.

Però Mario Abdallah superò tutti gli esami. Nel 1963 è sacerdos in aeternum. Poi partì per Roma per laurearsi in Diritto canonico.

«Cari superiori, scusate! Questo non è troppo? Che farà poi questo nero di genitore islamico?». Chi vivrà vedrà.

Missionari della Consolata al Capitolo generale del 1999 in Kenya con Julius Nyerere

Tre passi indietro

A questo punto, la storia dei 100 anni dei missionari della Consolata in Tanganyika-Tanzania ha compiuto un balzo in avanti eccessivo. Quindi si torni indietro, per ricordare tre eventi significativi.

• Indipendenza del paese

La magica ora dell’indipendenza del Tanganyika scoccò a mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Si ammainò la bandiera dell’Impero Britannico, mentre le stelle si compiacevano di quella inedita del Tanganyika indipendente. Il nuovo stendardo armonizzava il nero del volto dei cittadini con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo dell’oro delle miniere.

Fu una indipendenza pacifica. Il che non è poco, se si pensa alla indipendenza «insanguinata» di tanti altri paesi africani.

I missionari della Consolata, in tutte le loro sedi, salutarono l’evento anche con il fragore beneaugurante dei mortaretti.

• Concilio Ecumenico Vaticano II

Per la Chiesa cattolica fu l’evento più innovativo del XX secolo. Si svolse a Roma dal 1962 al 1965 con tutti i vescovi del mondo.  Papa Giovanni XXIII (oggi santo), nel discorso di apertura del Concilio, 11 ottobre 1962, dettò le nuove regole del «gioco» dichiarando: «La Chiesa si è sempre opposta agli errori. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi, mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne». Da quel momento i pastori luterani e i parroci cattolici non si sarebbero contesi più la piazza con corse sfrenate, onde arrivare primi. Questo fu un grande traguardo del Concilio.

Consultado vecchi documenti d’archivio risalenti ai tempi dei Benedettini.

• Da un vescovo all’altro

Al Concilio Vaticano II partecipò anche il vescovo Attilio Beltramino. Aveva già le valigie pronte per l’ultima assise, il cui inizio era previsto per il 28 ottobre 1965. Ma il 3 ottobre morì. Aveva 64 anni. Lo sconcerto fu inimmaginabile.

Fedele al suo motto «con il mio Dio scavalcherò il muro», il vescovo Attilio si era donato alla Chiesa di Iringa anima e corpo per 30 anni. Missionario instancabile, religioso fedele, vescovo paterno quanto risoluto.

Dopo una pausa di assestamento, ecco un mhehe (etnia Hehe, ndr) di Tosamaganga a indossare la mitria. Ed è proprio lui, Mario Abdallah Mgulunde, il primo vescovo africano di Iringa, consacrato il 15 febbraio 1970. Una «eccellenza» giovane per una Chiesa ormai adulta.

Alla consacrazione episcopale di Mgulunde partecipò pure il giornalista Beppe Del Colle, il quale mi confidò: «Quando il vescovo si prostrò per terra per le Litanie dei Santi, notai che le sue scarpe erano bucate…». Data l’emozione, il neo vescovo aveva sbagliato scarpe. Ma le calze erano rigorosamente rosse.

Il cerchio si allarga

Già nel 1968 la diocesi di Iringa era troppo estesa, e venne smembrata. Nacque la diocesi di Njombe. Sette missionari passarono armi e bagagli alla nuova diocesi. Erano tutti sereni, eccetto quando dovevano affrontare un viaggio.

«La notte precedente un safari non chiudo occhio, perché vivo in anticipo l’incubo di quelle strade a strapiombo, che nella stagione delle piogge sembrano lastricate di sapone. Tu non guidi l’auto, ma è l’auto che guida te dove assolutamente non vuoi», mi confidò una volta padre Luis Arrieta Zubia, spagnolo.

Ecco un’altra bella novità. A partire dagli anni ‘70, ai missionari italiani si aggiunsero gli spagnoli e i portoghesi, i colombiani e i brasiliani. Idem per le missionarie delle Consolata.

Inoltre trovarono spazio i missionari Fidei donum provenienti da Agrigento, Bologna e Spalato in Croazia10. E, fra le suore, anche le Religiose Camaldolesi.

Il cerchio missionario si allargò pure geograficamente. Così nel 1973 sorsero le missioni di Ubungo e Kigamboni nella diocesi di Dar Es Salaam. Kigamboni era a maggioranza islamica.

Nel 1986 e negli anni successivi i missionari si insediarono a Heka e Sanza (diocesi di Singida), poi a Manda (diocesi di Dodoma). Siamo nella Rift Valley dei Wagogo, una regione flagellata da una siccità endemica. Gente più povera e meno istruita dei Wahehe di Iringa o dei Wabena di Njombe.

«Manda è una missione di frontiera, di prima evangelizzazione, come erano quelle di 60 anni fa – mi raccontò nel 2017 suor Maria Loreta -. I cristiani sono pochi e per di più divisi in sètte. Molti, inoltre, sono i seguaci delle religioni tradizionali, in balia della stregoneria. Non poche ragazze a 14 anni sono già incinte. I divorzi sono all’ordine del giorno. Ma non ci perdiamo d’animo»11.

Padre Antonio Zanette

Da Manda a Sanza

Tempo fa a Manda fui ospite di padre Toni Zanette, da 51 anni in Tanzania. Con lui visitai alcuni villaggi e, tra un luogo e l’altro, raccolsi le sue riflessioni. «Ho girato questa zona in lungo e in largo, dicendo a tutti: la religione di Gesù Cristo non è un imbroglio, ma rivela la politica di Dio per costruire una società giusta e approdare allo sviluppo vero».

«E la gente ti ha creduto?», domandai. «Non lo so – rispose -. Fra i Wagogo il cristianesimo è ancora un fattore nuovo, ma l’interesse sta crescendo».

A pranzo padre Toni mi offrì i funghi. E citò il detto africano: «Oggi piove, ma i funghi non li trovi domani». Per dire che a Manda bisogna saper attendere.

Nel pomeriggio andai con lui nella cappella di un villaggio per alcuni battesimi. Ad un tratto avvertii un mormorio: stava entrando una capra al guinzaglio di un musulmano. Silenzio assoluto. Il nuovo arrivato ne approfittò per dire: «Padre Toni, sono qui per ringraziarti. Tu ci hai portato l’acqua scavando 10 pozzi in questa terra desertica. Accetta il dono di questa capra».

Applauso di tutti, mentre la capra acconsentiva al passaggio di proprietà con un garrulo belato.

Il primo keniano

«Oggi lavoro a Sanza, a 50 chilometri da Manda – esordisce padre Isaac Mbuba -. Mi si permetta di notare: i primi missionari della Consolata in Tanzania erano bianchi e venivano dal Kenya, mentre io sono il primo missionario della Consolata nero, proveniente pure dal Kenya».

Seguì la risata mia e sua. Eravamo in cucina, sorseggiando il tè.

Padre Isaac oggi ha 65 anni ed è in Tanzania da 34. Agli inizi avvertì un’aria di sospetto nei suoi confronti, perché proveniva dal Kenya capitalista di Jomo Kenyatta, mentre in Tanzania vigeva il socialismo di Julius Nyerere. Ma non ci badò.

Lavorò in varie parrocchie. A Kigamboni incontrò un vento di perplessità, «perché ero il primo parroco nero, mentre tutti i precedenti erano bianchi». Inoltre c’era tensione fra i musulmani in maggioranza e i cristiani in minoranza. «Però la Consolata mi ha dato saggezza per non schierarmi contro nessuno».

La conversazione toccò l’argomento scottante dei soldi. «Noi africani dobbiamo impegnarci maggiormente con iniziative concrete, per essere economicamente autosufficienti», rileva il missionario.

Faccio notare: «Oggi l’evangelizzazione non è più in mano ai missionari europei, bensì a quelli africani. Padre Isaac, dopo 34 anni di Tanzania, quali sono le tue raccomandazioni ai confratelli africani?».

«Le raccomandazioni sono tre:

• la prima, maggiore attenzione ai catechisti, che sono i primi evangelizzatori del paese; senza catechisti la chiesa è morta;

• la seconda, maggiore collaborazione con i laici; i laici fanno crescere la chiesa, non solo i padri; spesso noi preti siamo separati dalla gente, i laici no;

• la terza, che non è una raccomandazione, bensì una dichiarazione: ringrazio il Signore per essere missionario e missionario della Consolata».

Padre Giovanni Giorda

Epilogo

A Iringa ho completato il dossier sul Centenario dei missionari della Consolata in Tanzania. Poco fa ho sostato davanti al monumento dell’Indipendenza della nazione, con la sua fiaccola.

Anche i missionari della Consolata, in preparazione al loro Centenario, hanno accesa una fiaccola, che è passata in pellegrinaggio in tutti i loro centri di evangelizzazione.
Ennesima luce per illuminare e consolare.

Francesco Bernardi

La date più importanti

  • 21 aprile 1919 – I primi missionari della Consolata approdano in Tanganyika. Si stabiliscono a Tosamaganga e Madibira.
  • 1922 – Nasce la Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsgnor Francesco Cagliero.
  • 1932 – Fondazione dell’Istituto delle Suore Missionarie di S. Teresa di Gesù Bambino, dette «Teresine».
  • 22 ottobre 1935 – Monsignor Cagliero muore in un incidente stradale. Ha 60 anni. Gli succede monsignor Attilio Beltramino.
  • 22-26 aprile 1937 – Conferenza programmatica di Tosamaganga su: pastorale, scuola, attenzione alla cultura e altro.
  • 16 giugno 1940 – I missionari sono costretti alla «residenza coatta» durante la Seconda guerra mondiale.
  • 1948 – Si coltiva tabacco. Con i proventi si costruiscono scuole, dispensari e chiese.
  • 27 maggio 1948 – Monsignor Attilio Beltramino è nominato vescovo di Iringa, il primo.
  • 1949 – Fondazione dell’Istituto religioso dei Fratelli Africani da parte di mons. Beltramino.
  • 9 dicembre 1961 – Indipendenza del Tanganyika.
  • 26 aprile 1964 – Il Tanganyika diventa Tanzania con l’unione di Zanzibar.
  • 28 ottobre 1965 – Il vescovo Beltramino muore di infarto. Ha 64 anni.
  • A partire dal 1968 – Ai missionari italiani si aggiungono quegli spagnoli, portoghesi, kenyani, congolesi, colombiani, ecc.
  • 15 febbraio 1970 – Padre Mario Abdallah Mgulunde è consacrato vescovo di Iringa. È il primo tanzaniano.
  • A partire dal 1973 – I missionari operano anche a Dar Es Salaam, Singida, Morogoro, Dodoma, oltre che a Njombe (1968).
  • 1997 – Centenario della diocesi di Iringa. Il cuore delle celebrazioni sono Tosamaganga e Madibira, missioni della Consolata.
  • 2011 – Padre Salutaris Massawe è eletto superiore dei missionari della Consolata in Tanzania. È il primo tanzaniano.

I missionari della Consolata in Tanzania sono 54, di cui 17 tanzaniani, 15 italiani e gli altri di varie nazionalità. Complessivamente i missionari della Consolata tanzaniani nel mondo sono 66.

F.B.

Il primo missionario del Tanzania

Per decenni i missionari della Consolata in Tanzania sono stati tutti italiani. Ma, a partire dal 1970, si sono aggiunti missionari di altre nazionalità. E chi è stato il primo tanzaniano?

Mi chiamo Evaristo Chengula. Sono nato a Mdabulo, diocesi di Iringa. Non ho specificato la data di nascita, perché non la so. Comunque, secondo il registro dei battesimi, sono nato l’1 gennaio 1941.

In famiglia eravamo in sette, fra fratelli e sorelle, oggi rimasti in quattro. Una sorella è suor Albertina, delle suore Teresine fondate da monsignor Francesco Cagliero, al quale è dedicata anche una scuola secondaria a Tosamaganga.

Con i genitori vissi poco tempo, perché già all’età di quattro anni entrai nell’utawani della missione di Mdabulo.

L’utawani era un sistema di educazione dei ragazzi e delle ragazze, ideato e promosso dai missionari della Consolata. Scopo primario: frequentare la scuola elementare. I ragazzi non potevano farlo abitando in famiglia, lontani dai centri scolastici. Io ero il più piccolo dell’utawani di Mdabulo.

Oltre che nell’istruzione scolastica, venivamo formati nella fede cattolica vivendo insieme nella missione, che ci garantiva gratis vitto, alloggio e divisa scolastica. Dopo la scuola, lavoravamo nei campi, essendo il lavoro parte integrante del sistema educativo dell’utawani. Ogni nove mesi ritornavamo in famiglia per le vacanze.

Nell’utawani di Mdabulo si contavano circa 200 ragazzi e 300 ragazze. Tutti felici12. Noi ex ragazzi dell’utawani degli anni 1950-1960, se ci capita di incontrarci, ricordiamo con gioia e riconoscenza quel tempo, e ognuno dice all’altro scherzando: «Amico, non ti sei ancora stancato di pregare?».

Veramente la preghiera era tanta, sotto la direzione di padre Paolo Gianinetto, responsabile dell’utawani e parroco di Mdabulo.

Poiché rimasi orfano in tenera età, la missione fu la mia casa.

Sei solo un ragazzo!

Avevo 11 anni quando dissi a padre Gianinetto: «Baba (babbo), io voglio diventare sacerdote».

«Figlio mio, tu sei solo un bambino!». «Anche tu lo eri quando hai rivelato il proposito di farti prete», risposi senza paura.

Da quel giorno padre Gianinetto è stato per me un vero papà.

Dopo la quarta elementare, il missionario mi accompagnò a Tosamaganga. Qui incontrai il rettore del seminario, padre Vincenzo Ramello, il quale mi squadrò da capo a piedi e, indicando qualcosa con la mano, esclamò: «Vedi quei libri di filosofia e teologia? Piccolo come sei, sarai capace di imparare tutte le cose scritte in quei volumi?».

«Come le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi.

Poi, notando sopra la scrivania del padre un calice per la Messa, dissi a me stesso: «Anch’io un giorno alzerò un calice come questo».

Però non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata», perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Programmavano e lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni» non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritrovava l’accordo e la pace.

Ero già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio Beltramino la mia vocazione missionaria. «Prima diventa prete diocesano, poi si vedrà!», rispose secco.

Missionario in Congo

Nel 1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della Consolata, il primo del Tanzania.

Per sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritornato in Tanzania, fui professore e «padre spirituale» nel seminario teologico maggiore di Peramiho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni.

Partii per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella diocesi si Wamba, dove si parla swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclusione: non ci capivamo.

Si parla pure francese. Ma il mio francese rassomigliava a un vecchio camion in salita, che arranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O, meglio, spegni il motore».

Quando padre Giuseppe Inverardi13, superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che lui rispose: «Come missionario, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un messaggio che mi porto nel cuore tutt’oggi.

In Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la stessa che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata.

Ora vescovo

Ritornato in Tanzania, nel 1997 fui consacrato vescovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato di «essere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività.

Ho scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata in Tanzania.

In conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che diceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita»14.

I giovani, se avvertiranno questo spirito di famiglia, busseranno sempre alla nostra porta per stare con noi missionari.

Se entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo opprimente, in un carico insopportabile.

Al contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è veramente dolce e il carico leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa.

Mons. Evaristo Chengula,
missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania)

Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa
del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione,
mentre stiamo lavorando a questo dossier.

I fratelli missionari:
Più in alto dei preti

I «fratelli coadiutori» sono stati fondamentali in questi primi 100 anni di vita dei missionari della Consolata in Tanzania. Grazie alla loro fraternità e al loro essere missionari al servizio degli altri, hanno dato un contributo che ha reso possibile questa fantastica e solida avventura. Vediamo alcune storie.

I missionari della Consolata, al maschile, sono «sacerdoti» e «fratelli coadiutori». Nell’immaginario collettivo il coadiutore è spesso considerato una figura di serie B. Però il fondatore, beato Giuseppe Allamano, si indignava quando sentiva dire: «Oh, sei solo un coadiutore!»15.

I fratelli sono protagonisti della missione come i padri, e anche di più. Certo, non dicono Messa, non confessano. Ma sono fratelli! Attraverso la loro fraternità, servono Dio e il prossimo con generosità, umiltà e competenza.

L’Allamano ebbe il coraggio di dire: «Anche se solo coadiutore missionario, in Paradiso sarà sopra gli altri sacerdoti»16.

Michele e Felice

I primi fratelli missionari della Consolata giunsero in Tanganyika nel dicembre del 1922. Si chiamavano Michele Mauro e Felice Crespi.

Ero a Madibira, il 22 Agosto 1973, allorché padre Rambaldo Olivo, parroco della missione, mi comunicò la morte di fratel Michele Mauro.

Padre Rambaldo era baldo di nome e di fatto. Sbrigativo come un faccendiere, roccioso come le montagne del suo Friuli, insofferente come un rivoluzionario… ma quel pomeriggio Rambaldo, allorché mi disse «fratel Michele è mancato», scoppiò in un pianto dirotto.

Fratel Michele Mauro trascorse in missione 51 anni, segando e piallando assi, inchiodando, incollando e intarsiando scaffali, vetrine, armadi e comò di ogni foggia. Nonché migliaia e migliaia di sgabelli, sedie, tavole e tavolini.

Fu il falegname di tutte le parrocchie della diocesi di Iringa. Falegname come Giuseppe, quello di Nazaret.

A Madibira scorre un fiumiciattolo. La popolazione vi si tuffa anche per lavarsi. Lo stesso fanno i missionari, ma pompando l’acqua in casa attraverso un motore a diesel.

Una notte una forte pioggia fece tracimare il torrente, che sommerse e arrestò la pompa. E noi, missionari, ci trovammo in mutande a fare il bagno nel fiumiciattolo, mentre i bambini nascosti fra gli arbusti ridevano divertiti nel vedere quei bianchi in costume semiadamitico.

Dopo 15 giorni di attesa, arrivò fratel Felice Crespi. Smontò la pompa, pulì il motore, e noi ritornammo a fare la doccia in casa.

Fratel Felice è della provincia di Milano. Da ragazzo venne a Torino, conobbe i missionari della Consolata e si unì a loro come fratello coadiutore. A Torino imparò il piemontese e dimenticò il lombardo.

Ascoltarlo di sera, alla luce tremolante della lampada a petrolio, era affascinante, a dispetto dell’incessante ronda delle pestifere zanzare.

«Dalle carovane con i portatori siamo alle carovane con carri tirati da diverse paia di buoi – raccontava -. C’era di tutto su quei carri: vino da messa, chiodi, pentole, attrezzi di falegnameria, meccanica, sartoria ecc. La carovana procedeva di notte, perché il calore del giorno fiaccava i buoi. In testa e in coda ardeva una lanterna, per tener lontano il leopardo. Io recitavo il rosario, dato che non avevo avuto tempo durante il giorno…».

Negli anni 1965-1970 arrivarono i gruppi elettrogeni: si accendevano solo per saldare e per mangiare un boccone alla sera in compagnia, prima di andare a letto. Fratel Felice ne curava la manutenzione, avvalendosi di manuali in inglese, lingua che non sapeva. Ma, leggi e rileggi, l’inglese gli divenne meno ostico.

Conciava pure pelli per confezionare scarpe e scarponi. Un giorno uno spruzzo d’acido finì nei suoi occhi, e quasi lo accecò. Ma continuò a montare e smontare motori, aiutato dai suoi operai. Con le sue mani esperte, divenute dure come l’acciaio, riusciva a controllare ingranaggi e bulloni.

Al termine di quei racconti serali, mentre la luce della lampada si affievoliva, fratel Felice era solito chiedere: «Domani mattina la Messa è sempre alle 6,30?».

E tanti altri…

Ricordo anche Angelo Invitti, il mago del tornio. Poiché i pezzi meccanici di ricambio erano spesso irreperibili in Tanzania, Angelo li fabbricava lui stesso lavorando con precisione al tornio.

Lavorava e insegnava meccanica. Al termine del lavoro e della scuola, c’era ancora un’ora di religione per ricordare che Dio è misericordia.

Fratelli missionari come Modesto Zeni, con un nasone da proboscide. Ma che «fiuto finissimo» nella sua vita! Costruì la cattedrale di Kihesa (Iringa), un po’ chiesa, un po’ pagoda e un po’ moschea, per dire che la casa di Dio è di tutti.

Eresse, nella rotonda principale di Iringa, il monumento all’indipendenza della nazione con la fiaccola che arde. Ed era pure il designatore degli arbitri nelle partite di calcio della città. Tanto era accetto a tutti.

Fratelli missionari come Gianfranco Bonaudo, imponente, extra large dalla testa ai piedi. Soprattutto costruttore. Ristrutturò e ampliò il Consolata Hospital di Ikonda (Njombe), sperduto fra le montagne dell’Ukinga. Un’eccellenza sanitaria in Tanzania con 400 posti letto. Gli ammalati vi accorrono da ogni angolo del paese, persino da Zanzibar.

Terminati i lavori, fratel Gianfranco commentò: «Sono felice di aver messo in piedi un ospedale dove i bambini e i poveri non pagano».

Fratelli missionari della Consolata a decine e decine. Di loro il Beato Giuseppe Allamano soleva dire: «Voi siete i miei beniamini».

Francesco Bernardi

Quattro esperienze di missione:
Oggi e domani strada facendo

Nel paradiso terrestre, le suore aprono la «Stella del mattino». Un ospedale per i dimenticati, che è diventato un’eccellenza nella Sanità. Professori e studenti, preti e catechisti, utilizzano il centro missionario di Bunju, il «volto nuovo della missione». Una rivista per dire la verità: Andate. Aiuta a capire chi è il tuo prossimo. Oggi e domani, strada facendo «annunciate che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10, 7). Annunciarlo a chi? Ai giovani a rischio, per esempio.

Una scuola per bocciati

Così le missionarie della Consolata nel 1999 aprirono il Centro di formazione Stella del mattino.

Sorge in una vallata da eden. Questo paradiso terrestre si estende fino al villaggio di Ilamba, diocesi di Iringa. Paradiso solo terrestre, perché i ragazzi non hanno futuro. Frequentano la scuola, ma sono stati bocciati.

Parecchi hanno cercato lavoro a Dar Es Salaam. Ma sono finiti tra coetanei dediti al furto, allo spaccio di droga, e le ragazze alla prostituzione. Sono tornati al villaggio per morire di Aids.

«Apriamo una Secondary School per i bocciati», si dissero allora suor Cecilia, keniana, suor Artura, brasiliana, d’accordo con tutte le altre consorelle. Ieri era un sogno fumoso, oggi una realtà palpabile. E i bocciati di ieri, oggi emergano fra i migliori.

Studiano e lavorano per una vita diversa, iniziando dalla «polenta quotidiana»: coltivano campi e orti, allevano capre e maiali, spaccano legna. Oltre 200 ragazzi e ragazze insieme: cattolici, luterani e musulmani.

È in atto un cambiamento culturale. Si sta scardinando «la mentalità che l’uomo è sempre quello che comanda e deve essere servito, mentre la donna deve solo obbedire e servire»17.

È spuntata davvero una nuova stella sul firmamento di Ilamba e dintorni.

L’ospedale di Ikonda

Una stella polare

Oggi e domani, strada facendo «guarite gli infermi» (Matteo 10, 8).

L’attenzione agli ammalati è una «stella polare» nell’evangelizzazione missionaria. Lo conferma anche il Consolata Hospital Ikonda, diocesi di Njombe.

Però quanta fatica, pure psicologica! I luterani, numerosi in quella regione, ostacolarono l’ospedale in tutti i modi. Eravamo nel 1964-65, quando l’ecumenismo era una chimera.

L’ospedale nacque nel 1968, con l’applauso di Julius Nyerere, presidente della nazione, che inaugurò la struttura con 60 posti letto.

Oggi i posti letto rasentano i 400, senza contare i bimbi nati prematuri e le donne in attesa di partorire. Le corsie sono dieci, tre le sale operatorie, due le sale parto, un laboratorio ortopedico, il «delicatissimo» reparto per sieropositivi (Aids), la ricca farmacia, la tac, la risonanza magnetica.

Realtà che in Italia sono normali, come il caffè al bar. Ma a Ikonda, dove i denari li maneggi con il contagocce, dove le strade sono più insidiose dei serpenti, dove l’elettricità costante è solo una speranza remota (e quindi, per rendere efficienti le sale operatorie, necessiti di costose turbine che i fulmini mettono a ko a ogni piè sospinto), non sono realtà scontate. Allora l’ospedale di Ikonda cade e si rialza ogni mattina. Il suo sviluppo ricorda il detto africano: il maestoso baobab è stato una foglia seminata dal vento.

«Perché avete costruito l’ospedale fuori dal mondo – chiesi a padre Sandro Nava, direttore della struttura -. Altrove, gli ammalati lo raggiungerebbero con maggiore facilità e minore spesa, non ti pare?».

Il missionario mi guardò stupito, come se avessi scoperto l’acqua calda. Poi rispose: «Certo, un ospedale a Makambako o Njombe sarebbe più comodo e, per noi, più redditizio. Però sarebbe un ospedale per gente di città, non per poveri sperduti su queste vallate come pecore senza pastore. Un ospedale così sarebbe ancora un ospedale missionario?».

Lasciai padre Sandro e sostai nell’ingresso, dove campeggia la scritta: «Il bene va fatto bene». È l’impegno dell’ospedale di Ikonda, alla scuola del Beato Giuseppe Allamano. 

Un centro per… centrare

Incontro di missionari della Consolata con padre Stefano Camerlengo, superiore generale, a Bunju (maggio 2013)

Oggi e domani, strada facendo «insegnate tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Qui entra in azione il Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam.

Sul pavimento della sua chiesa spicca la data «2008», l’anno in cui il Centro aprì i battenti: la porta istoriata a fisarmonica della stessa chiesa; le porte del salone-conferenze a onde marine; quelle ariose della sala da pranzo; l’ingresso delle camere degli ospiti.

Al Consolata Mission Centre dormono 80 persone, 250 siedono davanti alla tradizionale polenta e 300 partecipano a dibattiti con il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, o con altri relatori. Costoro intrattengono l’uditorio con dibattiti, scritti e immagini in power point.

Il Centro è «un faro che illumina presente e futuro». Tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti. Tantissimi i giovani, a prezzi scontatissimi.

Il Centro è «il volto nuovo della missione», che ha aperto i suoi cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, musulmani. Non mancano ecologisti, operatori di giustizia e pace, politici.

Il Centro è «esigente», anche economicamente, con i prezzi in costante ascesa e 14 lavoratori da retribuire ogni mese. Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, chiedono un anticipo di stipendio, perché sono alla fame. Ma nell’Africa che canta e danza, non bastono i tamburi e le nacchere. Bisogna studiare, pensare e «formarsi». Guerre, carestie e Aids sono emergenze crudeli. Ma passano.

La «formazione» è prevenzione contro ogni miseria. I missionari della Consolata ne sono convinti, e hanno inventato il Consolata Mission Centre, un Centro per «centrare» la vita.

Chi è stato «prossimo»?

Padre Francesco Bernardi, autore di questo dossier, direttore in Tanzania della rivista Enendeni. ex direttore di Missioni Consolata

Oggi e domani, strada facendo domandatevi: chi è stato «prossimo» del bisognoso? (cfr. Luca 10, 36 ).

È la domanda che Enendeni (Andate), rivista in lingua swahili, pone a tutti. Vi scrivono anche i missionari della Consolata del Tanzania presenti in Venezuela, Colombia, Brasile, Mozambico, ecc. Affrontando i temi dell’emarginazione e dello sfruttamento.

Chi è «prossimo» degli abbandonati nei suddetti (e altri) paesi, compreso il Tanzania?

Un giorno a Dar Es Salaam incontrai un giovane. Trascinava un sacco pieno di bottiglie di plastica, nella speranza di ricavare qualche soldo. Ebbi l’ardire di chiedergli: «Guadagni abbastanza con questo lavoro?». Dopo un istante, l’interessato rispose: «Tanti soldi dei tanzaniani vengono spesi dal governo per parate militari, balli e canti nelle feste nazionali, o per acquistare aerei per passeggeri benestanti, mentre io raccolgo bottiglie di plastica».

Quando si voltò per proseguire per la sua strada, sulla t-shirt lacera che indossava lessi: «Dio aiuta»18. Ma Dio esige soprattutto giustizia e dignità per tutti, specialmente per i poveri. Per Enendeni è un dovere morale ribadirlo.

La rivista rilancia pure la voce coraggiosa dei «Cristiani Professionisti del Tanzania», che hanno dichiarato: «In Tanzania c’è il sospetto fondato sul cattivo uso del denaro da parte dello stato, il sospetto di furto di voti nelle elezioni e di corruzione nelle commissioni elettorali. I giovani vengono plagiati con false promesse. Il prodotto interno lordo annuo cresce del 7 per cento, però esiste un abisso tra ricchi e poveri…»19.

Qui il lettore italiano replica subito: «Nel nostro paese le cose non vanno meglio».

Già, ma con una differenza: in Italia puoi parlare, in Tanzania meno, molto meno.

Mentre «il prossimo», incappato nei briganti della politica che l’hanno spogliato di tutto, non trova nemmeno il conforto di «un buon samaritano».

Francesco Bernardi

Note

  • (1) Cfr. rivista La Consolata, agosto 1922.
  • (2) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Carteggio di un prestito per il Regno, Tanganyika 1919-1935, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1987, p. 45.
  • (3) Alessandro Di Martino, ivi, p. 51.
  • (4) I missionari della Consolata nella Diocesi di Iringa, 1919-1969 (a cura di padre Riccardo Ossola), Tosamaganga 1969, p. 2 (ciclostilato).
  • (5) Alessandro Di Martino, op. cit., pp. 73-74.
  • (6) Ivi, p. 262.
  • (7) Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno (I Missionari della Consolata nel Tanganyika-Tanzania: 1936, 1964, 1969), Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, pp. 50-51.
  • (8) Circa l’iniziazione femminile dei Wahehe, pregevole è la documentazione fotografica raccolta da padre Alessandro Di Martino. Inoltre c’è il catechismo in kihehe di padre Egidio Crema, che scrisse anche la monografia Wahehe, un popolo bantu, Emi, Bologna 1987 (con traduzione in inglese di padre Marco Bagnarol).
  • (9) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno, op.cit., p. 26.
  • (10) I Missionari «Fidei donum» sono nati in seguito all’omonima enciclica di Pio XII, del 1957, che esortava le diocesi ad essere missionarie inviando alcuni loro sacerdoti.
  • (11) Enendeni, Machi/Aprili 2017. «Enendeni» (Andate) è la rivista missionaria prodotta dai Missionari della Consolata in Tanzania.
  • (12) L’utawani era presente in numerosi centri dei Missionari della Consolata: da Tosamaganga a Madibira, da Wasa a Kipengere ecc. Il termine utawani deriva da mtawa, persona consacrata a Dio e che vive in comunità.
  • (13) Padre Giuseppe Inverardi, Superiore generale dei Missionari  della Consolata per 12 anni, oggi opera in Tanzania nel Consolata Mission Centre di Bunju, Dar Es Salaam.
  • (14) Giuseppe Allamano, Così vi voglio, Emi, Bologna 2007, p. 187.
  • (15) Il Fondatore e i Fratelli, Edizioni Missioni Consolata, Roma 2014, p. 18.
  • (16) Ivi.
  • (17) «I care» Tanzania (Storie di vita donata), p. 87.
  • (18) Cfr. Enendeni, Mei/Juni 2017, p. 4.
  • (19) Cfr. Enendeni, Novemba/Desemba 2016, p. 18.
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