Quel che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale e civile.
L’aspetto più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens, nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni. Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita del suo primogenito.
Proprio con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…
Devo dire che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche gli atleti sportivi di ogni disciplina.
Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?
Cominciamo col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive, pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il potere nazista.
L’Olympiastadion era veramente così imponente?
Con chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion, poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso, costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso gli avvenimenti sportivi.
Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?
Hitler intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi azzurri.
Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.
Sì. Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam dallo statunitense Edward Hamm.
Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.
Mi rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti provenienti da tutto il mondo.
Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?
Parteciparono ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni, forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.
Hitler come vedeva questi atleti di colore?
La presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli Stati Uniti.
In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto bene.
Basti pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure, silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base della libertà stessa: vivere come loro desideravano.
Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.
Proprio così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di farcela.
Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?
Furono le sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei migliori coach in circolazione.
Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.
Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare alle Olimpiadi di Berlino.
Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.
Il tre agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri atleti.
Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.
Senza contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti. Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale, influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori gioco senza troppi complimenti.
Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz, l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.
Mi avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87 centimetri.
Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.
Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.
Don Mario Bandera