Cambogia: Una prigione senza mura


La Cambogia, il paese del Sud Est asiatico ha una storia di guerre e sangue. Conflitti che, seppure estinti, non hanno terminato di mietere vittime. Le mine e le bombe inesplose rendono la vita quotidiana pericolosa per milioni di cambogiani. Mentre gli effetti degli agenti chimici usati come armi dagli Stati Uniti hanno rovinato per sempre molti di loro.

«In Cambogia stimiamo che siano tra i quattro e i sei milioni le mine utilizzate durante la guerra, specialmente tra il 1980 e il 1998. Queste, tra morti e feriti, hanno fatto più di 65mila vittime», spiega Heng Ratana, direttore generale del Cmac, Centro cambogiano antimine.

L’obiettivo dichiarato del Cmac è quello di ripulire il paese dalle mine entro il 2025. Ma molto resta ancora da fare.

La Cambogia ha una superficie di oltre 181mila chilometri quadrati (poco più della metà dell’Italia) in gran parte di territorio boscoso, montagnoso e inaccessibile a causa delle scarse infrastrutture ma anche della diffusione di mine e bombe inesplose.

Heng Ratana, direttore generale del Centro cambogiano antimine (Cmac).Foto Luca Salvatore Pistone.

Una storia di guerre

Una lunga serie di guerre ha segnato la storia recente del paese. Dopo la seconda guerra mondiale, ci fu la cosiddetta guerra d’Indocina (1946-1954) contro la potenza coloniale francese, che portò all’indipendenza di Cambogia, Laos e Vietnam. Quindi la guerra civile cambogiana (1967-1975) che da un lato vide i Khmer Rossi (o Partito comunista di Kampuchea) e i loro alleati vietnamiti del Nord, Vietcong, e dall’altro le forze governative della Cambogia sostenute dagli Stati Uniti e dal Vietnam del Sud. Fu l’esercito del Vietnam del Nord a mettere le prime mine antiuomo in Cambogia nel 1967, e continuò a farlo fino alla fine della guerra del Vietnam nel 1975 con l’obiettivo di proteggere le basi e le rotte di rifornimento stabilite lungo la frontiera cambogiana.

Gli Usa non stettero con le mani in mano e risposero con operazioni segrete tra il 1969 e il 1973 consistenti nel lancio di centinaia di migliaia di tonnellate di bombe, molte delle quali inesplose e ancora nascoste sottoterra.

Al potere dal 1975 al 1979, i Khmer Rossi, che ruppero con il Vietnam, non esitarono a servirsi di mine per rinforzare i confini col Vietnam e la Thailandia, trasformando il paese in quella che venne tristemente soprannominata «la prigione senza mura». Proprio il Vietnam rovesciò il sanguinario leader Khmer Pol Pot. L’organizzazione dei Khmer Rossi venne in gran parte sciolta nella seconda metà degli anni Novanta, per, infine, arrendersi nel 1999. Ma per tutti quegli anni sia i Khmer Rossi sia le nuove forze governative continuarono a piazzare mine a protezione dei territori sotto il loro controllo. Le fazioni in gioco non segnavano sulle mappe i campi minati e così spesso capitava che venisse minata più volte la stessa area con il risultato di un esorbitante numero di feriti, sia soldati sia civili. Il clima umido della Cambogia ha fatto sì che il terreno inghiottisse ulteriormente le mine rendendo ancora più complicate le operazioni di localizzazione e smaltimento.

zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Sminamento difficile

«Finora le organizzazioni che si occupano di sminamento hanno trovato e distrutto più di un milione di mine – continua Heng Ratana -. Sottoscrivendo la Convenzione internazionale di Ottawa nel 1997 per la proibizione e la distruzione delle mine antiuomo, il nostro governo si è impegnato a ripulire l’intera Cambogia dalle mine entro il 2025. I nostri sforzi stanno dando buoni risultati anche grazie al contributo di alcuni partner come Vietnam, Laos, Colombia, Iraq e Afghanistan, paesi che vivono problemi simili ai nostri. Fino a pochi anni fa in Cambogia le vittime delle mine e bombe inesplose erano circa 4mila l’anno mentre ora sono meno di mille».

Il Cmac venne istituito nel 1992, quando nel paese era presente l’Autorità transitoria delle Nazioni Unite in Cambogia (Untac), al fine di assistere il ritorno sicuro di migliaia di sfollati nelle loro terre d’origine. Nel 2000 questo centro per lo sminamento divenne un organismo statale autonomo. Ha al suo servizio 1.715 persone, 1.387 delle quali attive sul campo, e numerosi macchinari per il rilevamento e la distruzione delle mine e altri ordigni esplosivi. Il Cmac ha il suo quartier generale nella capitale Phnom Penh e basi operative sparse in tutte le province.

sminatori del Cmac all’opera e zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Le mine dei Khmer

Uno dei distretti dove il Cmac è più impegnato è quello di Banan, nella provincia nordoccidentale di Battambang, ad un’ottantina di chilometri dal confine con la Thailandia. «Questo – racconta Chhou Mab, capo villaggio di Thnor, a Banan – era tutto territorio dei Khmer Rossi. Qui tra il 1985 e il 1986 allestirono dei campi rimanendovi fino al 1990. Riempirono la zona di mine che causano ancora oggi numerose vittime. Siamo felici che il Cmac stia ripulendo la zona, è un bene per tutti noi».

Lay Ponloeuk, funzionario del Cmac, è a capo del progetto Imv3 (Assistenza integrata per le vittime nella pulizia delle mine, Fase 3) in corso in quattro distretti della provincia di Battambang, tra cui quello di Banan. «Sono 485 – dice Lay – le persone attive per la realizzazione di questo programma, divise in trenta squadre che hanno a disposizione una trentina di strumenti, tra cui macchinari pesanti per la distruzione delle mine. L’obiettivo dell’Imv3 è quello di ripulire l’area dalle mine e renderla utilizzabile per l’agricoltura e l’installazione di moderne infrastrutture».

Il perimetro in cui operano Lay e i suoi uomini è interamente recintato con del nastro rosso. Dove sono state trovate delle mine è stato piantato un cartello con il classico disegno del teschio indicante il pericolo di morte. «Dobbiamo essere molto meticolosi – illustra Sous Pov, caposquadra dell’Unità 8 – così da essere sicuri al 100 per cento che l’area sia libera da mine. Il problema principale che riscontriamo a livello nazionale è che le mine sono sparpagliate un po’ ovunque, senza una logica apparente». Le mine ritrovate in questa zona sono di fabbricazione cinese, sovietica, vietnamita e in misura minore cecoslovacca. A beneficiare delle operazioni di ripulitura che rientrano nel progetto Imv3 saranno quattro famiglie di contadini e allevatori, che hanno i propri terreni nelle immediate vicinanze. Una di queste famiglie è quella di Loung Lon, del villaggio di Thnon. «Ero in giro per le campagne in cerca di qualcosa per la cena  – ricorda Loung – quando misi un piede su una mina di produzione cinese. Era il 1997. Ho perso una gamba e la parte inferiore dell’altra è stata squarciata. Sono stato ferito anche alla coscia da alcune schegge. C’è voluto un anno per rimuoverle tutte. Sono povero e pertanto le autorità ogni mese mi danno del riso, niente di più».

un uomo che è incappato su una mina e la gamba ricostruita con una protesi.Foto Luca Salvatore Pistone

Le vittime delle mine

Anche la provincia Nord occidentale di Pailin, al confine con la Thailandia, è tristemente nota per essere stata una delle roccaforti dei Khmer Rossi e, quindi, zona di mine. «Finito il regime – racconta Soun Rithy, 47 anni, del villaggio di Phsar Prom Chheung – i Khmer Rossi sono rimasti a lungo da queste parti. Mi arruolarono nel 1986, avevo appena 16 anni. Fui costretto a farlo, non avevo scelta, ma all’inizio era una cosa che mi riempiva di orgoglio. Avere in mano un’arma, indossare la divisa costituita da una tuta blu e una sciarpa a scacchi rossi e bianchi mi fece sentire subito grande. Ma pochi mesi dopo il mio arruolamento saltai su una mina, persi una gamba e mi ferii gravemente l’altra. Mi lasciarono a casa».

«Tutta la Cambogia è messa male – spiega Khoa Ly, funzionario del Cmac che su un quaderno ha annotato tutte le vittime delle mine della provincia – ma a Pailin abbiamo dei record impressionanti. Ad esempio solo nel villaggio di Phsar Prom Chheung contiamo 19 vittime. Un dato considerevole se si tiene presente che in quel villaggio gli abitanti sono ottanta. Le storie si somigliano un po’ tutte: civili che si addentrano nei campi in cerca di legna o qualcosa da mettere sotto i denti e incappano in una mina. Oggi sono tutti informati sui rischi che si corrono nelle campagne, ma miseria e fame costringono la gente a osare».

Khoa, mettendo a disposizione il suo scooter malconcio, si offre come guida per la ricerca delle vittime delle mine, un compito tutt’altro che difficile. Basterebbe fermarsi e bussare alla porta di una qualsiasi capanna di Pailin e chiedere agli abitanti se conoscono qualcuno che sia saltato su una mina o che sia stato ferito dalle schegge. La risposta è purtroppo scontata: «Sì, certo. Mio zio ha perso una gamba lavorando nei campi», oppure «Mia madre è diventata cieca a un occhio per una scheggia», o «Al mio vicino di casa hanno amputato tre dita della mano». E così via.

Non sono pochi i casi in cui interi nuclei famigliari sono incappati in una mina. La famiglia Chan, anch’essa residente nel villaggio di O’Cher Krom, rientra in questa tragica statistica. Nel 2003, Krel, il 59enne capofamiglia, portò i propri cari con sé nei campi a raccogliere della legna per riparare il tetto di casa. «Non sapevo – giura – che quella zona fosse un campo minato». Krel si giocò un occhio per una scheggia; il figlio maggiore Then, 36 anni, che calpestò la mina, perse entrambe le gambe e alcune dita di una mano; il figlio minore Rin, 29 anni, riportò delle brutte cicatrici sul volto; la moglie Srey, 53 anni, delle gravi ustioni al braccio e infine la cognata Sreypov, 63 anni, si vide squarciata parte della coscia.

«Da quell’orribile incidente – confida la signora Srey – mio marito non è più lo stesso. Fu molto coraggioso perché nonostante la ferita all’occhio trovò la forza di mettere in salvo tutti noi, prendendo in braccio i figli e trascinando me e mia sorella. Si sente in colpa perché fu lui a decidere il luogo dove andare a fare legna. Ma non è colpa sua, è colpa di quegli assassini che misero le mine. Spesso mi sento scoraggiata ma cerco di non darlo a vedere. Noi adulti dobbiamo essere d’esempio per i nostri ragazzi e incoraggiarli come possiamo. Siamo più forti delle mine».

il lavoro al Centro regionale di riabilitazione fisica di Battabang. Qui vengono prodotti vari tipi di protesi e poi seguiti i pazienti per renderli in grado di utilizzarle. Foto Luca Salvatore Pistone.

Il centro di riabilitazione

Tutte le vittime delle mine di queste regioni Nord orientali sono passate dal Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang, operativo dalla fine degli anni Ottanta. «Qui – spiega il dottor Heng Vanny, vice direttore del centro – forniamo servizi di riabilitazione fisica. Dopo accurate visite, fabbrichiamo delle protesi su misura. Se il paziente proprio non può camminare, gli diamo in dotazione una sedia a rotelle o delle stampelle. Insistiamo parecchio sulla fisioterapia, senza la quale è pressoché impossibile rinforzare i muscoli e indossare le protesi».

Continua: «Non ci limitiamo a prestare assistenza qui in sede. Due volte l’anno il nostro team si reca nei villaggi per controllare lo stato delle protesi. Se non ci sono usure eccessive, i tecnici le revisionano sul posto, altrimenti invitiamo i pazienti a tornare al nostro centro. Ogni volta che facciamo una trasferta veniamo accolti con grande entusiasmo, siamo ben voluti. Svolgiamo un lavoro che è molto apprezzato».

Nel laboratorio per le protesi lavorano una dozzina di tecnici. In una sala vengono preparati, dopo accuratissime misurazioni, i calchi in gesso di gambe, piedi, braccia e mani. Sulle sagome vengono successivamente modellate delle lastre di plastica sciolta e solo dopo una luna serie di passaggi attraverso forni, seghetti, lime e pennelli le protesi vengono consegnate ai pazienti. Spetta a loro l’approvazione finale al termine di un periodo di prova.

I trattamenti del Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang sono completamente gratuiti. Questa, come le altre undici strutture gemelle sparse per la Cambogia, sono dipendenti dal ministero degli Affari sociali per la Riabilitazione dei veterani e dei giovani e godono delle sovvenzioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc).

Annualmente, solo per Battambang, transitano più di duemila pazienti tra vittime di mine e incidenti stradali e disabili dalla nascita.

Luca Salvatore Pistone

 

Una bimba impara a camminare con le protesi, al centro di riabilitazione di Battabang. Foto Luca Salvatore Pistone

Cambogia: I disastri dell’Agente Arancio

La «sporca» guerra chimica degli Usa nel Sud Est asiatico.

Durante la guerra del Vietnam l’esercito statunitense sganciò tonnellate di diserbante per togliere ai vietcong (il nemico) i loro nascondigli naturali. Anche sulla confinante Cambogia. Prodotti chimici altamente tossici, i cui effetti sono oggi ben visibili negli abitanti di queste aree.

Le irrorazioni di Agente Arancio e il lancio di bombe chimiche da parte degli Stati Uniti durante la Guerra del Vietnam (1955-1975) sono state solo l’inizio di una lunga scia di morte e malattie. Questione che ha travalicato i confini vietnamiti per toccare anche la vicina Cambogia. E mentre in Vietnam esistono svariati centri dedicati all’assistenza delle persone colpite da queste sostanze micidiali, in Cambogia solo di recente si è cominciato a parlarne pubblicamente.

L’Agente Arancio è un defoliante, il prodotto di due diversi erbicidi, il 2,4,5-T e il 2,4-T. Con l’aggiunta della tetracloro-dibenzo-diossina, una sostanza estremamente tossica, diventa un’arma letale. Dal 1962 al 1972, nell’ambito dell’Operazione Ranch Hand nel Vietnam del Sud, gli statunitensi ne irrorarono 75 milioni di litri.

Nei vent’anni di conflitto, i vietcong, giocando in casa, furono una spina nel fianco degli Usa. La soluzione più logica fu sradicare la loro casa e lasciare che l’ambiente si deteriorasse con l’aiuto dell’Agente Arancio. Senza vegetazione i vietcong non potevano ripararsi ed erano dunque vulnerabili. Privarli dei nascondigli e portarli alla fame per la distruzione dei raccolti sembrava un ottimo metodo per ammansirli senza finire eccessivamente sotto i riflettori della stampa estera. Stesso discorso per il territorio cambogiano, dove i vietcong facevano rifornimenti di ogni sorta.

Ragazza con due protesi al posto delle gambe e la mano sinistra offesa. Foto Luca Salvaore Pistone.

«Gli americani – racconta Em Chhoun, l’anziano capo villaggio di Prey Ta Thoeung, nella provincia di Svay Rieng (Sud Est della Cambogia), lungo il confine col Vietnam – sganciarono tantissime bombe da queste parti. Poi passarono a sganciare della polvere chimica di colore giallo che in breve tempo bruciava le foglie degli alberi. Tutti i bambù scomparvero. Gli abitanti della zona, tra cui anche la mia famiglia, vennero evacuati ma alcune persone decisero di rimanere esponendosi a quelle sostanze che hanno contaminato il suolo. Da allora i bambini continuano ad avere problemi agli arti, altri sono diventati muti e ciechi».

L’emivita della diossina presente nel tetracloro-dibenzo-diossina dipende da dove si trova. Nel corpo umano dura dai dieci ai vent’anni, nell’ecosistema dipende dal tipo di terreno contaminato e dalla profondità a cui si trova: in superficie il calore del sole riesce a decomporre la diossina in pochi anni; se invece gli aggregati tossici sono sotto la superficie o in falde acquifere l’emivita può prolungarsi addirittura fino ad un secolo.

I. J. Paris, del villaggio di Kampot Tuk, provincia di Svay Rieng, ha cinque figli. Dauk, 14 anni, la secondogenita, è nata con una gravissima malformazione al braccio sinistro. «Parte del braccio – precisa I. J. – non è mai cresciuta e così ha la mano attaccata poco sotto la spalla. Persino il cranio non si è del tutto sviluppato. Non accetta i rimproveri miei e di mio marito, va su tutte le furie. Se cammina più del solito le fanno male le gambe. Soffre di frequenti mal di testa. Si ammala più dei fratelli. Piange in continuazione. Dobbiamo essere molto accorti con lei».

«Mio figlio Hem – dice Lek Sareoun sulla veranda di casa sua a Doun Ang, sempre nella provincia di Svay Rieng – è nato con delle pesanti deformazioni e ritardi. Ha dieci anni e non parla nemmeno. Dipende in tutto e per tutto da me e mia moglie. L’ho portato nei principali ospedali della capitale e l’unica cosa che mi hanno saputo dire è che non è curabile».

due pazienti imparano a camminare con le protesi, al centro di riabilitazione di Battabang. Foto Luca Salvatore Pistone.

Non solo Agente Arancio. Secondo il governo di Phnom Penh, durante la guerra del Vietnam, solo in Cambogia, gli aerei statunitensi sganciarono milioni di tonnellate di bombe, un dato sempre rigettato da Washington. Bambini nati deformi, strane allergie cutanee e febbri da cavallo sono solo alcune delle conseguenze di queste operazioni militari.

Particolarmente grave è la situazione nella municipalità di Koki, nella provincia di Svay Rieng, dove nel gennaio del 2017 sono state rinvenute dal Centro cambogiano antimine (Cmac) tre bombe barile inesplose contenenti gas lacrimogeno di tipo Cs, una nella campagna nei pressi di una pagoda e due nel cortile di una scuola elementare. Le bombe non sono ancora state rimosse per la mancanza di mezzi appropriati e conoscenze tecniche del Cmac.

«Per molti anni – illustra Heng Ratana, il direttore del Cmac – non si è preso nota di tutte quelle sostanze chimiche utilizzate contro il popolo cambogiano. Quando abbiamo scoperto queste armi chimiche nella provincia di Svay Rieng abbiamo notato che un certo numero di abitanti era stato affetto da sostanze chimiche, assunte ingerendo acqua contaminata o respirando dei vapori. Il ministero della Salute ha quindi creato un’unità speciale per studiare l’impatto di queste sostanze sulla nostra gente».

«Gli Stati Uniti – aggiunge il dirigente – devono essere il nostro partner principale. Hanno degli obblighi morali nei nostri confronti, dal momento che dal 1963 al 1975 hanno lanciato oltre 2,8 milioni di tonnellate di bombe sul paese, che hanno ucciso 500mila cambogiani e distrutto interi villaggi, case, scuole e infrastrutture. Devono aiutarci a ripulire la Cambogia dai resti delle loro armi e a tal fine il nostro governo si è attivato da tempo intavolando trattative con quello statunitense».

Koki, villaggio di 800 anime, è tappezzato di cartelli di pericolo di morte. I siti dove sono state rinvenute le bombe sono semplicemente circondati con del nastro rosso e bianco. Da oltre un anno i bambini ci giocano intorno come se nulla fosse. Gli ispettori del Cmac ritengono che la prolungata vicinanza di questi ordigni alla popolazione locale sarebbe la causa di alcune gravissime malattie. Negli anni Washington ha in parte riconosciuto le conseguenze dell’utilizzo dell’Agente Arancio ma si rifiuta di ammettere che ci sia un nesso tra questo tipo di bombe, contenenti ciascuna 220 litri di gas lacrimogeno di tipo C2, e atroci malattie.

Dalla casa della famiglia Sokhum, a una trentina di metri dalla scuola, si odono degli strilli strozzati. A emetterli è il piccolo Sorm che non ha più voglia di rimanere nel girello. Da lontano Sorm ha le sembianze di un bambino di un anno o poco più ma una volta avvicinatisi si nota subito che ha qualcosa che non va. La sua faccia è consumata e svela tutt’altra età: Sorm ha infatti 14 anni e pesa 9 chilogrammi. Non è cresciuto, non parla e ha gravissimi problemi neurologici.

«Sua madre – racconta la giovane zia Meta – lavora come bracciante in Vietnam e così mi occupo io di lui. È un bambino buono, l’unico fastidio che dà è quando piange. Per qualsiasi cosa ha bisogno di noi, non riesce a tenere in mano neanche il biberon. I dottori non hanno mai saputo dirci qual è la sua malattia, dicono solo che non esiste cura».

Di fronte casa Sokhum, dall’altro lato della strada, c’è la casa della famiglia Eth. All’ombra, su un’amaca, tenta invano di riposare Srey, 31 anni appena compiuti. Invano perché i dolori causati dalla sua sconosciuta malattia non gli danno tregua. Tutto ha avuto inizio sette anni fa, quando si manifestarono le prime allergie cutanee sulla schiena. Ma in breve tempo queste si diffusero in tutto il corpo facendolo diventare, come dicono i suoi parenti, «un pezzo di sughero».

«La mia pelle – mostra il ragazzo – è durissima. Ho provato con diverse pomate e unguenti ma non è servito a nulla. Il prurito è insopportabile e ho spesso febbre altissima che mi porta ad avere freddo. Il dolore è lancinante, il mal di ossa non mi permette di camminare a meno che non prenda delle medicine. La mia vista peggiora sempre più. Anche le orecchie mi fanno male, per non parlare delle fitte al petto che non mi lasciano respirare bene». E conclude: «Alcuni dottori mi hanno detto che soffro di una strana forma di psoriasi, una malattia incurabile. Peggioro di settimana in settimana, sono certo che presto morirò. Sono sconvolto. Sono laureato in economia, lavoravo in banca ma ho perso il mio lavoro perché sono malato. Quando alcuni mesi fa la gente ha iniziato a parlare di bombe chimiche ho realizzato che esse potrebbero essere la causa del mio male. Ma nessuno sa dirmi di più».

Luca Salvatore Pistone

sminatori del Cmac all’opera e zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Verso il «partito unico»

Elezioni legislative

Il 29 luglio scorso si sono svolte in Cambogia le elezioni legislative in un clima teso. Dei 20 partiti candidati, il partito del primo ministro Hun Sen, Partito del popolo cambogiano (Cpp), ha fatto incetta di voti, ottenendo tutti i 125 seggi in parlamento, come già era successo nel 2013. Hun Sen è quindi stato riconfermato primo ministro per i prossimi cinque anni. Ma lo scrutinio è stato viziato dall’assenza del principale partito d’opposizione, il Partito per il salvataggio nazionale, sciolto nel novembre 2017 e il cui leader Kem Sohka è stato incarcerato. Molte Ong denunciano il degrado della situazione politica in Cambogia, con un aumento di autoritarismo del partito al potere e una diminuzione di democrazia. Diversi oppositori politici, della società civile e della stampa indipendente sono incarcerati. Solo dopo le elezioni, arriva qualche segnale di distensione: l’attivista che si batte contro l’accaparramento della terra, Tep Vanny, è stata graziata e due giornalisti liberati su cauzione.

Hun Sen, che è al potere dal 1985, diventa così il più longevo capo di governo in Asia. «Negli anni, secondo alcune Ong, Hun Sen ha messo in piedi un sistema generalizzato di corruzione, del quale approfittano la sua famiglia e i suoi collaboratori più fedeli», scrive Radio France International. Nella rete di fedelissimi Hun Sen ha messo i suoi tre figli, che potrebbero assicurare la sua successione. A causa della situazione di violazione dei diritti, gli organismi internazionali, Onu, Ue e Usa in testa, hanno deciso di non inviare osservatori elettorali.

Marco Bello

 




Turkmenistan, dove una goccia d’acqua è un chicco d’oro


Alla scoperta di un’ex Repubblica Sovietica del Turkmenistan. Affacciato sul Mar Caspio e occupato in gran parte dal deserto del Karakum, il Turkmenistan è indipendente dal 1991. Finora però ha avuto soltanto due presidenti. Molto ricco di gas naturale e grande produttore di cotone, il paese centroasiatico deve affrontare problemi di scarsità d’acqua. Problemi aggravati dall’insipienza degli uomini.

Un tempo in Asia Centrale i canali per portare l’acqua dalle sorgenti montane alle pianure si costruivano sotto terra per evitare la forte evaporazione in quelle regioni di clima secco e di alte temperature. Questa tecnica di trasporto dell’acqua, molto antica, fu sviluppata dalle genti dell’altipiano iranico nel primo millennio a.C. Con i rudimentali strumenti a disposizione a quel tempo la costruzione di un canale sotterraneo, chiamato qanat o kahriz1, costituiva un’impresa che coinvolgeva tutta la comunità e il lavoro poteva durare parecchi anni. Erano notevoli opere d’ingegneria. I canali correvano sotto terra a volte anche per decine di chilometri, erano dotati di pozzi di aerazione lungo tutto il tragitto; per un corretto funzionamento dovevano essere controllati e ripuliti ogni anno. La popolazione si sobbarcava questa fatica per non disperdere un bene prezioso, l’acqua. Difatti, il sistema permetteva un utilizzo ottimale di questa scarsa risorsa, che arrivava integra in luoghi aridi, consentiva la vita di uomini e animali, la produzione agricola là dove prima c’era il deserto. Questo antico e ingegnoso sistema è stato utilizzato fino al Ventesimo secolo.

Festeggiamenti per l’apertura della nuova sede delle Nazioni Unite a Ashgabat (2016). Foto: Amanda Voisard / Un Photo.

«Padroni del Creato»

Il Ventesimo, come sappiamo, è il secolo in cui al lavoro dell’uomo si affianca in maniera sempre maggiore quello delle macchine. Lo sfruttamento del lavoro meccanico permette imprese che nel passato sarebbero state inattuabili.

Danze in costume davanti a una gigantografia del presidente Berdymukhammedov. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Per la vita in condizioni climatiche come quelle centroasiatiche l’acqua è la risorsa più importante, da sempre la sua presenza e le modalità di utilizzo sono state elemento essenziale per la sopravvivenza. Con il potenziamento delle capacità umane d’intervenire sull’ambiente si sarebbe potuto prevedere un miglioramento nelle forme di sfruttamento di questa risorsa. Invece spesso è successo il contrario. Paradossalmente l’abbondanza di mezzi a disposizione ha peggiorato la situazione a lungo termine, soprattutto in società rette da sistemi dittatoriali, come dal Ventesimo secolo in poi sono state quelle centroasiatiche.

Con l’invenzione di macchine potenti l’uomo ha pensato di poter plasmare il mondo a proprio piacimento, si è creduto capace di migliorare l’opera del Creatore. Un tempo la presunzione era tenuta a freno dalla mancanza di mezzi – l’uomo aveva meno possibilità di fare danno – e dalla consapevolezza del proprio essere creatura limitata. Con la modernità la presunzione di sentirsi padroni del creato ha risparmiato pochi. Ciò dipende, forse, anche dal fatto che sempre più persone vivono in ambienti artificiali e che le politiche sono per lo più fatte dai cittadini, persone che non sono più in stretto contatto con le altre creature. Ciò cambia la mentalità senza neppure rendersene conto. Sempre più chiusi nelle nostre città, non abbiamo più idea del mondo naturale. Il cibo non lo produciamo, lo consumiamo. Per un cittadino la frutta viene dal fruttivendolo, gli animali sono a pezzi sui banchi del supermercato, o al guinzaglio, o in gabbia, l’acqua viene dal rubinetto e sparisce nello scarico. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma è meglio tornare in Asia Centrale, per la precisione, in una delle sue repubbliche: il Turkmenistan.

Amu Darya, storia di un fiume

Il Turkmenistan è occupato per circa l’80% dal deserto del Karakum. Di gran lunga la sua maggiore risorsa d’acqua è l’Amu Darya, fiume che scende dal Pamir (un altipiano esteso nei territori di Afghanistan, Tagikistan e Cina), scorre per un lungo tratto in territorio turkmeno e un tempo andava ad alimentare il Mar d’Aral, noto lago salato posto tra l’Uzbekistan e il Kazakistan. Fiumi minori, con forti variazioni stagionali nella portata d’acqua, sono a Sud il Murghab e il Tejen, che vanno a perdersi nel deserto del Karakum, a Ovest l’Atrek, che sfocia nel Mar Caspio. Dai Kopet Dag, rilievi posti tra Iran e Turkemenistan, scendono piccoli fiumi, a volte poco più che torrenti primaverili.

In simili condizioni geografiche è facile capire quanto cruciale sia la possibilità di accedere all’acqua. I primi tentativi di utilizzarla per l’irrigazione sono documentati già 7-8 mila anni fa.

Nel V secolo a.C., grazie ai persiani, fu introdotto il sistema dei qanat, che trovò ampia applicazione nella regione dei Kopet Dag. Con i qanat fu possibile estendere la superficie di terra coltivata e praticare l’agricoltura anche in zone aride. Per la conservazione dell’acqua si costruivano cisterne sotterranee, ab anbar, o sardob2, che non solo ne evitavano l’evaporazione, ma la mantenevano fresca.

Un’altra storia di successo è quella dell’oasi di Merv, dove dal VII secolo d.C. sfruttando le acque del fiume Murghab fu sviluppato un intelligente sistema d’irrigazione che permetteva di dare cibo a una popolazione di circa un milione di abitanti e perfino di esportarne nelle regioni circostanti3. E il Murghab rappresenta solo il 5% delle risorse d’acqua dell’odierno Turkmenistan.

Risultati così eccezionali non dipendevano, però, solo dalle tecniche d’irrigazione, ma anche dall’estrema cura posta nell’amministrazione della risorsa, tesa a evitare gli sprechi. Le buone pratiche sviluppate nei secoli permisero agli abitanti di quelle zone di convivere con una natura aspra, sfruttandone al meglio le possibilità per trarne il proprio sostentamento.

Con l’arrivo dei russi, nella seconda metà dell’800, i lavori d’irrigazione furono notevolmente potenziati per incrementare la produzione di cotone e cereali; tuttavia, si continuò a seguire i vecchi sistemi e rimasero in uso le tradizionali forme di amministrazione dell’acqua da parte della comunità. Inoltre, fino all’inizio del Ventesimo secolo le aree irrigue erano principalmente quelle pedemontane e lungo i corsi d’acqua; ciò permetteva di conservare un equilibrio naturale tra agricoltura e disponibilità d’acqua, e di limitarne la dispersione nel suolo.

I sovietici, opere e disastri

I guai cominciarono nel periodo sovietico. La terra ormai apparteneva allo stato, che ne decideva l’uso e le modalità di sfruttamento. La logica che sottostava a quelle modalità è ben sintetizzata dal famoso aforisma del biologo Ivan Michurin: non possiamo aspettare che la natura ci conceda le sue grazie, nostro compito è strappargliele. Intere generazioni crescevano con l’idea che l’uomo potesse e dovesse correggere «i difetti» della natura, un’ubriacatura che contagiava uomini d’ingegno, artisti, scrittori, che mettevano il proprio talento al servizio di progetti tanto più aleatori quanto più lontani dalla realtà. Fa una strana impressione leggere ora le pagine, o guardare i quadri ispirati all’idea di trasformare il deserto del Karakum «nell’oasi fiorita del socialismo», come si esprimeva lo scrittore Andrej Platonov in un suo articolo4.

Un anziano signore con il tradizionale copricapo in pelo. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Siccome, però, l’uomo-dio non può creare dal nulla l’acqua, per far nascere l’eden nel deserto doveva andare a prenderla dove Dio l’aveva messa in abbondanza, cioè dall’Amu Darya. Mentre l’uomo-creatura non aveva forzato la natura e, consapevole della propria impossibilità di creare dal nulla, aveva cercato di ottenere il massimo entro i limiti da lei segnati, l’uomo-dio non si è fatto fermare da queste quisquilie e ha progettato e realizzato grandi opere d’irrigazione a cielo aperto. In Turkmenistan la più imponente di tutte è il canale che prende il nome dal deserto che attraversa per 1.375 chilometri: il Karakum. La sua costruzione fu iniziata nel 1954 e completata nel 1988. Ai tempi si esaltò quest’opera come una conquista dell’ingegno umano e dell’ingegneria sovietica.

Quando arrivò l’acqua con il canale Karakum agli abitanti del deserto sembrò un miracolo. Una striscia azzurra in un oceano giallo, riarso e abbagliante: così è rappresentato questo prodigio nella pittura turkmena del tempo. Era una rivoluzione. Per millenni l’acqua era stata un bene difficile da procurarsi e scarso, quindi da utilizzare e custodire con cura; ora se ne aveva in abbondanza, correva copiosa da una fonte che sembrava inestinguibile. Ora che l’irrigazione non era più limitata dalle risorse locali ci si poteva permettere di creare insediamenti in luoghi prima impensabili, perfino nel cuore del deserto.

Naturalmente, visto che in realtà non si trattava di un bene illimitato, se si prendeva l’acqua da una parte, la si toglieva dall’altra. Così, una delle prime e più ovvie conseguenze della costruzione del canale fu che alla fine degli anni Ottanta l’Amu Darya in alcuni periodi dell’anno non raggiungeva più l’Aral. Fenomeni simili interessavano anche l’altro immissario dell’Aral, il Syr Darya. Ciò ha dato inizio a un processo di prosciugamento del lago, con danni immensi all’ecosistema e all’economia di intere regioni. Una catastrofe sociale e ambientale arrivata ormai agli ultimi stadi.

 

Acqua, da risorsa scarsa a risorsa sprecata

L’acqua sottratta ai fiumi veniva utilizzata bene? Se ne ricavava il massimo, come con gli antichi qanat? Naturalmente la risposta è no. Il fatto che fosse trasportata per chilometri attraverso il deserto, o «stoccata» in grandi bacini artificiali, moltiplicava le superfici esposte all’evaporazione. A ciò si aggiunga che, non essendo gli alvei di canali e bacini rivestiti di materiale impermeabile, buona parte dell’acqua si perdeva per strada a causa dell’infiltrazione nel terreno. Il sistema risultava, quindi, molto inefficiente.

Una ragazza con il vestito tradizionale delle spose turkmene: un abito rosso finemente ricamato con una mantellina che nasconde la testa e le spalle da sguardi indiscreti. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Inoltre, il senso di onnipotenza e illimitatezza fece sì che nessuno si preoccupasse di creare meccanismi di controllo che obbligassero al risparmio: l’acqua era gratis, non c’erano contatori a misurarne le quantità utilizzate, per cui la si usava senza pensieri e gli sprechi erano enormi. Si calcola che a tutt’oggi vada perduto il 30% dell’acqua impiegata per irrigare5. L’eccesso d’irrigazione combinato con un drenaggio insufficiente porta alla salinizzazione del suolo. È questo un fenomeno tipico dei suoli aridi. L’acqua, se non opportunamente drenata, ristagna e scioglie i sali contenuti nel terreno, che l’elevata evapotraspirazione porta, poi, ad accumularsi in superficie. È una delle principali cause di degrado e infertilità del suolo. Non solo intere aree coltivate devono essere abbandonate, ma l’acqua che drena e si raccoglie spontaneamente negli avvallamenti del terreno causa anche la salinizzazione di aree che erano adibite al pascolo degli animali.

Così, paradossalmente, gli sforzi dell’uomo per creare un paradiso dove c’era il deserto finiscono per creare il deserto dove c’era il paradiso. E di questo facciamo esperienza non solo in Asia Centrale.

Quarta, ma non meno importante conseguenza di tale dissennata politica è la trasformazione prodotta nei comportamenti della gente. Da bene scarso, l’acqua è diventa un bene illimitato. A partire da questo dato, vero nell’hic et nunc, ma illusorio, quindi falso, se si considera la globalità del fenomeno, si è creata una mentalità distorta.

Gli uomini si abituano presto alle comodità e la facilità con cui hanno accesso alle cose cambia la loro mentalità e lo stile di vita. Quando non si procurano personalmente i beni di cui si servono, quando non sanno da dove vengono, che cosa comporta il loro uso nell’economia dell’ecosistema, gli uomini non ne imparano né il valore, né il corretto utilizzo. È stato così che i turkmeni, per millenni accorti risparmiatori d’acqua, hanno imparato a sprecarla.

Una capitale in marmo bianco

Ashgabat è la città dei presidenti, non dei suoi abitanti. Prima il presidente Saparmurat Niyazov (1940-2006), poi quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, l’hanno trasformata per renderla conforme alla propria idea di capitale: palazzi presidenziali con cupole d’oro, monumenti, torri, complessi governativi e residenziali, il villaggio olimpico, centri commerciali, tutto in scintillante marmo bianco. Sono stati aperti viali che sembrano autostrade, tracciati parchi con fontane e giochi d’acqua; ovunque ci sono aiuole fiorite. Per lasciare posto a tutte queste meraviglie sono stati abbattuti interi quartieri di case unifamiliari e i loro occupanti nel migliore dei casi sono stati trasferiti in condomini periferici, nel peggiore sono stati semplicemente sloggiati, senza ricevere risarcimenti. A camminare per gli sterminati marciapiedi dei nuovi quartieri si ha l’impressione di vivere in un quadro di De Chirico, fatto di improbabili architetture e spazi vuoti.

In questa città lunare, che non ha nulla a che vedere né con la storia e tradizioni turkmene, né con il luogo dove si trova, ho assistito a continui sprechi d’acqua, e non solo per innaffiare prati e fiori, che altrimenti seccherebbero in poche ore. Ashgabat è anche chiamata «la città bianca» per il colore dei suoi edifici e ha meritato di entrare nel libro Guinness dei primati per l’estensione delle superfici ricoperte in marmo bianco. Forse per rimanere all’altezza del nome, ad Ashgabat tutto deve essere lindo e pinto. L’acqua scorre a fiotti mentre eserciti di donne lustrano i marciapiedi con ramazze e scopettoni. Le macchine, anch’esse bianche per la maggior parte, devono essere sempre pulite, in caso contrario si prende la multa. Ciò obbliga i proprietari a continui lavaggi. Nei luoghi pubblici ho visto rubinetti lasciati aperti, tubature che perdevano in continuazione. Ashgabat è bagnata dal canale Karakum che le assicura un abbondante approvvigionamento d’acqua. Eppure, basta allontanarsi di qualche chilometro dalla capitale in direzione del deserto per capire quanto illusoria sia quell’abbondanza.

Progetti faraonici

La prima domenica di aprile in Turkmenistan si celebra la festa dell’acqua all’insegna dello slogan: una goccia d’acqua è un chicco d’oro. L’immagine è bella, ma per il momento del tutto priva di sostanza. Il Turkmenistan è tra i paesi in cui il consumo idrico pro-capite è più elevato. Ciò dipende soprattutto dall’enorme quantità di acqua che si perde nell’irrigazione e durante il trasporto. Per ottimizzare l’uso di questa risorsa bisognerebbe avviare un paziente e sistematico lavoro di ristrutturazione dei sistemi di irrigazione, di trasporto e conservazione dell’acqua. Invece di impegnarsi in un’azione a lungo termine e di scarsa visibilità, i presidenti hanno preferito scegliere una soluzione di grande effetto ma di dubbio esito: un lago nel cuore del deserto da riempire con acqua proveniente da tutte le zone irrigue del paese. È stato, in sostanza, progettato un gigantesco sistema di drenaggio, con due canali collettori principali, uno di 432 chilometri a Nord, l’altro di 720 chilometri a Sud, che partendo dal bacino dell’Amu Darya lungo il tragitto dovrebbero raccogliere da canali secondari l’acqua d’irrigazione in eccesso e scaricarla nella depressione di Karashor. Si sostiene che in questo modo si otterranno diversi risultati: si impedirà che l’acqua ristagni in loco, o ritorni al fiume con la sua concentrazione di sali, pesticidi e fertilizzanti, e si creerà un bacino artificiale che avrà un effetto positivo sull’ecosistema. E, poi, i turkmeni avranno il loro lago dell’Età dell’Oro. Età dell’Oro è quella in cui il Turkmenistan vive dall’indipendenza (1991) grazie ai suoi due presidenti. La costruzione del lago ha preso il via nel 2000 con il primo presidente ed è proseguita con il suo successore.

Nel 2009, nell’inaugurare uno dei canali, il presidente Berdymukhamedov, come Platonov molti decenni prima, ha prospettato visioni di deserti fioriti. Tuttavia, se mai si riuscirà in un lontano futuro a convogliarvi tanta acqua da riempire la depressione di Karashor, si prevede che il lago sarà una brodaglia di sali e fertilizzanti. Considerate l’evaporazione e le perdite per infiltrazione nel terreno lungo il tragitto, l’ipotesi del lago rimane, comunque, molto remota. Meno remota appare, invece, l’ipotesi di un altro disastro ecologico.

Maria Chiara Parenzo

La moschea Turkmenbashi Ruhy, costruita dal defunto presidente Niyazov, a pochi chilometri dalla capitale; è stata al centro di varie controversie islamiche. Foto: Dan Lundberg.


Breve storia della ex Repubblica sovietica del Turkmenistan

Due presidenti in 28 anni (per il bene del popolo)

Già nell’epoca sovietica, il Turkmenistan era una delle repubbliche più arretrate. Il paese ha avuto finora due soli presidenti, entrambi caratterizzati da culto della personalità e poteri illimitati. Intanto, a dispetto della propaganda governativa, la popolazione vive in povertà.

Come entità statale e nei confini attuali il Turkmenistan è una creazione dell’Unione Sovietica. Il 27 ottobre 1924 dallo smembramento dell’ex governatorato zarista del Turkestan nacque la Repubblica socialista sovietica del Turkmenistan, una delle più economicamente arretrate tra le quindici che componevano l’Urss. A sessantasette anni di distanza quello stesso giorno fu scelto per la proclamazione dell’indipendenza, un atto cui la dirigenza turkmena fu costretta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Era il 1991. In Turkmenistan la transizione al nuovo quadro istituzionale avvenne senza intaccare i rapporti di potere in essere: Saparmurad Niyazov, dal 1985 alla guida del Partito comunista turkmeno e della repubblica, divenne il presidente del nuovo stato indipendente; con un’operazione di facciata il Pc turkmeno si trasformò nel Partito democratico del Turkmenistan.

Per la forma di governo e la chiusura al mondo esterno il Turkmenistan ha conservato il carattere sovietico più di ogni altra repubblica dell’ex Urss, tanto da essere spesso paragonato alla Corea del Nord, solo che all’ideologia socialista si è sostituita l’esaltazione della «turkmenicità». Niyazov è rimasto presidente fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2006, e ha esercitato un potere da monarca assoluto. Fin dall’inizio ha incoraggiato un culto della personalità che è divenuto col tempo sempre più smisurato. Lo stile di governo non è cambiato con il suo successore Gurbanguly Berdymukhammedov, in carica dal 2007. Il presidente detiene un potere di fatto illimitato e controlla tutti i campi della vita nazionale: politico, sociale, economico, culturale. Si occupa personalmente di ogni questione, piccola o grande che sia. Come Niyazov, si atteggia a padre della nazione: un padre saggio e magnanimo, ma anche giusto e severo con chi sbaglia. Quegli si faceva chiamare con l’appellativo di Turkmenbashi, «Capo dei turkmeni», questi è invece Arkadag, «il Protettore». Tutto, naturalmente, è fatto per il bene del popolo, che i mezzi d’informazione ritraggono mentre si gode la vita nell’«Età dell’oro». Così la propaganda di regime chiama «il periodo di pace e benessere» assicurato ai turkmeni dai due presidenti.

A suo tempo Niyazov giustificò la devozione assoluta che pretendeva dai suoi «sudditi» e l’esaltazione iperbolica della sua persona con la necessità di dare al popolo un’autorità in cui credere e un principio di unità nazionale. Il ferreo controllo esercitato dal presidente e dalla sua cerchia su tutti gli aspetti della vita del paese ha, in effetti, impedito il nascere di spaccature lungo linee claniche, regionali, o etniche, come è avvenuto nelle altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Il prezzo per la popolazione però è molto alto. Abuso di potere e corruzione fanno parte della vita quotidiana dei turkmeni. Non c’è possibilità di opporsi alle decisioni e ai capricci delle autorità, non ci sono istanze indipendenti cui appellarsi: il volere del presidente e delle élite a lui legate è al di sopra di ogni legge.

Grazie anche alla presenza pervasiva dei servizi di sicurezza e alla durezza delle repressioni in Turkmenistan non esiste un’opposizione; essa è rappresentata da piccoli gruppi che operano in esilio.

Nella repubblica, grande come una volta e mezza l’Italia, vivono meno di sei milioni di persone, per lo più turkmeni (85%), ma anche uzbeki (5%), russi (4%) e di altri gruppi etnici. Gli insediamenti si trovano in prevalenza ai bordi meridionale e orientale del grande deserto del Karakum, che occupa il centro e il Nord del paese. La maggiore risorsa nazionale sono gli idrocarburi: il gas naturale (il paese è il quarto al mondo per giacimenti stimati) e, in misura minore, il petrolio. L’industria non è molto sviluppata. I turkmeni erano tradizionalmente pastori nomadi, con comunità sedentarie nei Kopet Dag e nelle oasi. Le prime industrie sono nate con i russi. In seguito sono stati sviluppati soprattutto i settori estrattivo, chimico, tessile e alimentare. Nel periodo sovietico si diede un forte impulso alla coltivazione del cotone. Per le condizioni climatiche e la povertà del suolo, l’agricoltura è quasi ovunque irrigua. Questa condizione e la scelta di una coltura particolarmente bisognosa d’acqua come il cotone ha portato a sempre maggiori prelievi dai fiumi, soprattutto dall’Amu Darya. Ciò ha provocato l’alterazione del sistema idrografico della regione, con il prosciugamento del bacino del Mar d’Aral, e il deterioramento dell’ambiente naturale, con la desertificazione di ampie aree prima adibite a pascolo o a colture.

I cittadini del Turkmenistan sono nella stragrande maggioranza musulmani sunniti. Come gli altri popoli centrasiatici di tradizione nomade, anche i turkmeni non sono inclini a forme d’islam intransigente e molti praticano un islam non ortodosso, legato alle confraternite sufi, con interferenze delle antiche pratiche sciamaniche. Gli sciiti sono un’esigua minoranza. I cristiani sono rappresentati soprattutto dalla minoranza russa. Musulmani sunniti e cristiani russo ortodossi sono stati per anni le uniche comunità religiose ufficialmente riconosciute. Per essere riconosciuta una comunità religiosa deve ottenere la registrazione presso il ministero della Giustizia. Sebbene il Turkmenistan sia uno stato secolare, sebbene la costituzione garantisca la libertà di culto e l’eguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, alle altre comunità religiose, compresa la piccola comunità cattolica, è stata per anni negata la possibilità di ottenere la registrazione, senza la quale si è costretti a un’esistenza ai margini della legalità. Nel 2004 sono state alleggerite le condizioni per la registrazione, ma rimangono ancora comunità minori cui essa viene arbitrariamente negata e che continuano a essere soggette a discriminazione e angherie da parte delle autorità. La chiesa cattolica turkmena è stata ufficialmente riconosciuta solo nel 2010, tredici anni dopo la presentazione della richiesta1. Anche a registrazione avvenuta, tuttavia, le difficoltà non finiscono. Le leggi che regolano il culto e le attività religiose pongono limiti alla libertà di educazione e di riunione, alla pubblicazione e distribuzione di materiale e libri, contravvenendo con ciò ai principi sanciti dalla costituzione. Comunità e gruppi religiosi senza distinzione sono tenuti sotto stretta sorveglianza dalla polizia e dai servizi di sicurezza.

Le minoranze cristiane, sciita e di altre religioni non tradizionali sono particolarmente bistrattate dalle autorità perché ritenute estranee ai valori turkmeni. Ma anche l’islam sunnita non se la passa bene. Il regime lo considera parte delle tradizioni nazionali, un po’ come l’allevamento dei cavalli, o l’arte dei tappeti, per cui lo accetta come elemento «folclorico», ma i fedeli non devono mostrare di essere troppo pii. La religione è vista come una pericolosa concorrente dello stato, cui solo spetta il primato nella lealtà dei cittadini. Quindi bisogna andarci piano con i segni dell’appartenenza religiosa. Ad esempio, la barba è tollerata per gli anziani perché legata alle tradizioni turkmene, ma è in genere mal vista ed è vietata a chiunque abbia un incarico pubblico e agli studenti.

Tutto ciò che può distrarre o costituire un’alternativa alla lealtà dovuta al presidente è guardato con sospetto. Il culto della persona del presidente viene prima di tutto, anche della religione. Nella grande moschea fatta costruire da Niyazov nel suo villaggio natale, Gypjak, ci sono iscrizioni tratte dal suo Ruhnama, il «Libro dell’anima», imposto a guida spirituale dei turkmeni. Quando i costruttori turchi si rifiutarono di fare quanto per un musulmano devoto è blasfemia, giacché sui muri di una moschea si possono scrivere solo frasi tratte dal Corano, Niyazov trasferì la commessa ai francesi.

A proposito dell’Età dell’oro. Se si pensa che sotto i piedi dei turkmeni ci sono enormi giacimenti di gas naturale e che la popolazione non arriva ai sei milioni, non parrebbe un grande sforzo garantire a tutti un’esistenza, se non ricca, quanto meno dignitosa. Eppure non è così. La corruzione diffusa e l’ottusità economica tipiche dei regimi autoritari hanno reso infruttuoso quel capitale, dilapidato in scelte irresponsabili, speculazioni, progetti megalomani e inutili che avevano come scopo l’auto esaltazione del regime e l’arricchimento dei suoi dirigenti. Nel paese rimangono ampie sacche di povertà, in molte località mancano i servizi essenziali.

Il regime ha prosperato grazie alle enormi rendite assicurate dalle esportazioni di gas. Da alcuni anni, però, quella che è la base di un’economia scarsamente differenziata ha cominciato a traballare. La Russia ha smesso di acquistare il gas turkmeno nel 2016; la Cina, rimasta quasi l’unico acquirente, lo paga a un prezzo molto ridotto per compensare le risorse spese nella costruzione del tratto turkmeno di un gasdotto che la collega con l’Asia Centrale. Così il regime si è trovato con poca liquidità tra le mani. La crisi di liquidità ha aperto la strada alla svalutazione del manat (la valuta turkmena) e all’inflazione. Sono state ridotte le importazioni anche di generi di prima necessità, che sono quindi spariti dai negozi o diventati molto cari. Se a ciò si aggiunge la disoccupazione, stimata tra il 50 e il 60%, i ritardi nei pagamenti degli stipendi o la loro decurtazione, si potrà capire che vivere nell’Età dell’oro non è sorte invidiabile.

Maria Chiara Parenzo

(1) Turkmenistan. Freedom of religion or belief, May 2016, Christian Solidarity Worldwide, pag. 8.

Note

(1) «Qanat» è parola araba e significa canale. «Kahriz» è parola persiana composta da «kah», paglia, e «riz», gettare. Si usava la paglia per controllare il movimento dell’acqua nel canale sotterraneo.

(2) Parole persiane: ab/ob significa «acqua», anbar «deposito», sard «freddo».

(3) Vedi R. A. Lewis, Early irrigation in West Turkestan, «Annals of the Association of American Geographers», 1965, vol. 56, n. 3, San Diego, California.

(4) A. Platonov, Gorjachaja Arktika, 1934.

(5) Turkmenistan: Issues and Approaches to Combat Desertification, June, 2003, p. vii (pdf reperibile in rete).

Archivio MC

Ultimo reportage di Maria Chiara Parenzo: Iran, Teheran, di lotta e di governo, aprile 2018.




Diario dal V Congresso missionario americano (Cam)


Lo scorso luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, si è tenuto il quinto «Congresso missionario americano» (Cam V) con migliaia di partecipanti provenienti da 24 paesi. Si è parlato delle sfide della Chiesa cattolica nel continente in un ambito sempre più secolarizzato e pluriculturale. Il diario di quelle giornate e qualche riflessione.

Il congresso precedente si era tenuto a Maracaibo, in Venezuela, dal 26 novembre al 1° dicembre 2013. In esso, i missionari che operano nel continente americano erano stati invitati a condividere la loro fede e a riflettere sulla missione dal punto di vista del discepolato in un mondo secolarizzato e pluriculturale. Alla sua conclusione venne annunciato che l’edizione successiva si sarebbe svolta in Bolivia. E così è stato.

Dal 10 al 14 luglio scorso, nella città di Santa Cruz de la Sierra, si è tenuto il quinto Congresso missionario americano (Cam V) sotto il titolo di «America in missione, il Vangelo è gioia».

Ha coinvolto circa 3.150 partecipanti provenienti da 24 paesi tra cui circa 90 vescovi, 2 cardinali, 450 sacerdoti e 2.600 delegati oltre a 1.500 famiglie boliviane offertesi per ricevere i pellegrini.

Come si ricorderà, i Cam nacquero grazie all’ispirazione e alla promozione delle Pontificie opere missionarie in collaborazione con le Conferenze episcopali americane e rappresentano un’evoluzione dei Comla (Congressi missionari latinoamericani), il primo dei quali si tenne in Messico nel 1977.

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018: davanti alla cattedrale di San Lorenzo. Foto: Jaime Patias.

La cattedrale di San Lorenzo

Lo scenario per la messa inaugurale del Congresso non avrebbe potuto essere più suggestivo: il sagrato della cattedrale di San Lorenzo. Dalla sua facciata pendeva un manifesto con l’immagine della Beata Nazaria Ignacia (1889-1943), fondatrice delle missionarie Crociate della Chiesa che sarà canonizzata il 14 ottobre a Roma (insieme a Paolo VI e Oscar Romero, ndr).

Per la celebrazione eucaristica si sono riuniti vescovi, preti e due cardinali: il rappresentante pontificio Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e il boliviano Toribio Ticona, indigeno quechua, recentemente nominato da Papa Francesco.

Dopo la lettura della lettera inviata dal pontefice e il protocollo di saluto, tipico di queste occasioni, è iniziata la messa, presieduta dal cardinale Filoni.

Durante la sua omelia, l’inviato del papa ha invitato il Congresso a «non perdere di vista il vero scopo della missione della Chiesa, che è quello di mettere Gesù al centro, con il nome e il cuore, altrimenti si corre il rischio di fare qualcosa di diverso, una semplice filantropia, che alla fine si rivelerà vuota e priva di credibilità».

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Testimoni e profeti

Il convegno ha il suo inizio vero e proprio l’11 luglio. Ogni mattina verso le 8 le diverse delegazioni si riunivano nell’auditorium del collegio Don Bosco dei salesiani. Bandiere, mantelli, canzoni e slogan riempivano gli spazi fino al momento della preghiera. Poi l’atmosfera cambiava di tono per lasciare posto alla preghiera del mattino incentrata su alcuni temi: «Il Vangelo è gioia» (mercoledì), «Per la riconciliazione e la comunione tra i popoli» (giovedì) e «Essere missionari testimoni ci rende profeti» (venerdì).

Piatto forte dei tre giorni sono state cinque lezioni magistrali. La prima è stata pronunciata da mons. Guido Charbonnea, vescovo della diocesi di Choluteca, Honduras, sul tema: «La gioia appassionante del Vangelo». L’arcivescovo Charbonnea ha esortato i membri del Congresso a «scoprire le chiavi che il messaggio cristiano ci mostra per arrivare alla felicità».

La seconda, intitolata «Annuncia il Vangelo al mondo di oggi», è stata proposta da mons. Santiago Silva, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale del Cile. Con uno stile molto particolare e diretto, in piedi sotto il tavolo d’onore, il vescovo ha invitato a imitare Gesù ed evangelizzare attraverso la nuova identità cristiana perché «nel mondo di oggi è essenziale assumere un ruolo di testimonianza che richiede di dare segnali come il perdono, la solidarietà e la misericordia».

Il direttore dell’agenzia giornalistica Fides – Bolivia, padre Sergio Montes, ha sviluppato il tema «Testimoni discepoli di comunione e di riconciliazione». In questa terza conferenza il sacerdote ha detto che un mondo lacerato, frammentato e diviso reclama riconciliazione e una comunione che «esige l’esodo da sé per vivere l’incontro con l’“altro”, o l’“altra”, per riconoscerlo come fratello e sorella con un destino comune».

Con il suo stile personale, da queste parti conosciuto e apprezzato, mons. Luis Augusto Castro, arcivescovo di Tunja, in Colombia, ha presentato la quarta conferenza dal tema: «Profeta e missione». In essa l’arcivescovo di Tunja, ha spiegato cos’è un profeta, ha fatto un viaggio attraverso la vita e il ministero di alcuni dei profeti biblici, la loro sensibilità per le esigenze della giustizia e della misericordia, la loro opposizione all’idolatria e ai rivali di Dio concludendo che «il profeta interpreta i segni dei tempi dal punto di vista di Dio e della sua alleanza. La sua vita e la sua esperienza incarnano un nuovo modo di vedere gli altri, il potere e il sacrificio. Egli disegna un sistema di valori basato sulla consegna e sulla solidarietà. Vede con occhi nuovi».

L’oratore, inoltre, ha offerto ai partecipanti degli spunti che un missionario può seguire per diventare profeta. In questo senso ha sottolineato che il profeta non rimane in silenzio, anticipa, parla chiaramente, è un discepolo ed è giusto.

La quinta conferenza è stata tenuta da Vittorino Girardi, vescovo emerito di Tilarán – Liberia, Costa Rica, sul tema: «La missione ad gentes in e dall’America». Il vescovo ha detto che i missionari non possono separare i contenuti della missione e l’essere di Dio: «Gesù è una sola cosa e tutto vive in funzione di ciò che Egli è. E Gesù si autopercepisce come l’inviato e il missionario».

Nel pomeriggio, il Congresso si divideva in sottogruppi per confrontarsi sugli argomenti delle conferenze. Si sono poi realizzati quattro incontri su tematiche molto interessanti: «Comunicazione e Missione», «Missione e pastorale universitaria», «Nuove prospettive della missiologia» e «L’infanzia e l’adolescenza missionaria». Per continuare con questa dinamica, si sono tenuti 12 laboratori in cui si sono condivise esperienze di vita con giovani, bambini, famiglie, sulla cura per il Creato, sulle migrazioni, sugli altri. Un momento molto importante ha avuto luogo la mattina di sabato 14. La maggior parte dei partecipanti sono stati convocati presso le rispettive parrocchie ospitanti e da lì sono usciti a due a due per visitare le famiglie e annunciare loro la Parola di Dio.

Molti di loro ci hanno poi raccontato, un po’ divertiti, che alcune famiglie avevano esitato ad aprire la porta di casa perché non potevano credere che c’erano cattolici che predicavano nelle strade.

Gli obiettivi per il futuro

La messa conclusiva del Congresso si è svolta nel pomeriggio di sabato 14 luglio, presso l’altare di Cristo Redentore, preparato in occasione della visita del Papa (del luglio 2015, ndr). È stata presieduta da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz.

Prima dell’inizio della messa, le conclusioni proposte sono state lette come obiettivi su cui lavorare in futuro. Li presentiamo qui di seguito in punti riassuntivi:

  1. educare alla gioia del Risorto e delle Beatitudini;
  2. andare nelle periferie del mondo per incontrare gli «altri»;
  3. incoraggiare la conoscenza della Bibbia e dei Vangeli;
  4. promuovere le comunità di vita missionaria;
  5. promuovere la comunione dei beni nella Chiesa e con i poveri;
  6. promuovere la riconciliazione in tutti gli ambiti della vita;
  7. promuovere la consapevolezza della missione profetica e liberatrice in tutte le sfere sociali;
  8. l’evangelizzazione della famiglia come chiave cristiana della trasformazione sociale e culturale;
  9. promuovere una Chiesa missionaria più ministeriale e laicale;
  10. promuovere e prendersi cura delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, infine,
  11. celebrare la fede e la religiosità popolare in chiave missionaria.

A chiusura, l’arcivescovo Gualberti ha pronunciato un’omelia in cui ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro. Successivamente ha sviluppato il tema «Scalare la montagna del Signore». Il monsignore ha parlato chiaramente e ad alta voce dei problemi che affliggono il nostro mondo (riquadro a pagina 27).

Alla fine dell’Eucaristia, mons. Gualberti ha imposto la croce missionaria a quattro persone, tra cui una coppia che lavorerà a Cuba. È stato anche annunciato che Puerto Rico ospiterà, nel 2023, il prossimo Congresso missionario americano.

Lavori di gruppo al Cam V

Gli aspetti negativi e quelli positivi del Cam V

Fin qui la cronaca. Anche questa volta – però – a parere dello scrivente si è ripetuto il copione dei congressi precedenti: slogan assordanti, simboli logori per la loro ripetitività, celebrazioni eucaristiche da una parte rigide e «romane» e dall’altra cariche di simboli più folkloristici che liturgici, processioni di doni che dovrebbero essere spiegati stante l’impossibilità di parlare da sé, i tentativi (per lo più infruttuosi) di sottolineare il tema della «missio ad gentes» per molti – tra cui molti pastori – passata di moda. E la lista potrebbe continuare.

Inoltre, anche se in questa occasione si è cercato d’introdurre in maniera più consistente il tema del ruolo delle donne nella Chiesa, a nessuna è stata affidata una lezione magistrale. E sì che ci sono donne preparate a livello teologico e pastorale.

Evidenziati questi punti negativi, va però detto che, fortunatamente, sono state di più le cose positive. La scelta della Bolivia come paese ospitante, nonostante tutte le sue difficoltà; la lunga preparazione; l’impegno delle Chiese locali nello scegliere e mandare persone che garantissero la continuità del cammino aperto dal Cam V; l’accoglienza di parrocchie, cappellanie, rettorie e comunità religiose, tutti soggetti che si sono anche incaricati di trovare le famiglie ospitanti.

Proprio queste si sono trasformate in un’estensione dell’abitazione di ogni partecipante dove tutti si sentivano come a casa: tutti benvenuti, anche oltre le possibilità. A causa della ristrettezza degli spazi disponibili molte famiglie hanno ceduto la migliore camera, il letto migliore e anche il migliore cibo. In molti hanno fatto in modo di essere (a volte a tarda notte) in aeroporto in attesa dei propri missionari.

Bello, caldo ed efficiente è stato il servizio fornito da centinaia di volontari (medici, paramedici, infermieri, polizia stradale, funzionari di migrazione…), per lo più giovani.

Contagiosa la testimonianza dei missionari e missionarie laici, tra cui alcune intere famiglie con esperienze di missione fino a 30 anni in situazioni difficili e di povertà.

Sono stati molti i partecipanti che, per raggiungere la destinazione, hanno dovuto fare giorni e giorni di strada e voli estenuanti a causa di itinerari con soste infinite. Per alcuni un volo che, in condizioni normali, poteva durare un massimo di 8 ore è durato fino a 24.

Abbondano dunque le ragioni per affermare che valeva la pena di essere a Santa Cruz, in Bolivia, al Congresso missionario americano dove abbiamo trovato una buona parte di quella chiesa pasquale e missionaria che sta prendendo sul serio l’invito di Papa Francesco a uscire e andare nelle periferie esistenziali per comunicare la gioia del Vangelo.

Jorge García Castillo
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)


L’intervento finale

Scalare la montagna

La sintesi del discorso di chiusura di mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra e presidente del Cam V.

Mons. Sergio Gualberti, CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.

Come cattolici siamo chiamati a scalare la montagna della solidarietà, della giustizia e della vita, una vita degna per tutti i figli di Dio per superare la povertà, che ancora mantiene in condizioni disumane troppi fratelli e sorelle nel nostro continente. La povertà è il risultato di un sistema ingiusto e mercantilista in cui l’economia è al di sopra dell’uomo e arricchisce i ricchi a spese dei poveri, una moltitudine di poveri sempre più poveri. Un sistema che scarta gli anziani, i bambini, gli orfani e gli abbandonati come tanti fratelli indifesi; un sistema che discrimina le donne, in particolare le madri single e sole.

Scalare la montagna della fraternità e dell’uguaglianza camminando insieme a tante e grandi persone che lasciano i nostri paesi e cercano una patria che garantisca condizioni di vita dignitose per loro e le loro famiglie e che invece si scontrano contro i muri della xenofobia e della vergogna. Muri che separano i bambini dai loro genitori e che discriminano a causa delle loro origini e condizioni personali e sociali. Muri da demolire per costruire ponti di umanità, fraternità e solidarietà.

Scalare la montagna della pace per contrastare nei nostri paesi la corsa alle spese militari e coloro che credono nella logica del più forte, che promuovono l’odio e la paura e la diffidenza tra i nostri popoli, tagliando le risorse che servirebbero per creare posti di lavoro, per superare la povertà e attuare politiche sociali al servizio di tutti, specialmente degli ultimi e degli emarginati. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4).

Scalare la montagna dell’amore e del matrimonio accompagnando le famiglie a stabilirsi nella casa del Signore, in cui esse si ritrovano come chiese domestiche, come luoghi fondati sulla fede, l’amore, la comunione, la riconciliazione e il perdono, e come sacrari di vita e scuole di umanizzazione. Le nostre famiglie che spesso camminano senza meta, colpite nella loro integrità a causa della povertà, delle migrazioni, delle separazioni e dei divorzi e costantemente molestate da correnti ideologiche colonizzatrici che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia basata sull’amore esclusivo e fedele fino alla morte tra un uomo e una donna aperti alla vita e all’educazione dei bambini secondo i valori del Vangelo e delle nostre culture indigene.

Scalare la montagna della luce e della verità come cristiani consacrati alla verità del Signore smascherando le menzogne e gli errori della cultura individualista e relativista che è alla base della società dei consumi. Società in cui il consumo di beni superflui e lo sfruttamento irrazionale e indiscriminato delle risorse naturali hanno causato ferite mortali alla nostra sorella la madre terra, e le cui prime vittime sono i nostri fratelli indigeni privati del loro habitat vitale.

Scalare la montagna della comunione della nostra Chiesa dove tutti mettiamo i nostri carismi al servizio della comunità e del Regno di Dio. Dove i ministeri laici, in particolare delle donne, siano riconosciuti e trovino lo spazio che compete loro dal battesimo.

Scalare la montagna della riconciliazione e del perdono per percorrere i sentieri della conversione sincera della nostra Chiesa davanti alle infedeltà, le divisioni, le gelosie e contro testimonianze di tanti dei suoi figli che scandalizzano il mondo.

Uniti e riconciliati, dobbiamo camminare insieme come un unico popolo di Dio, testimoniando una comunione sincera e profonda che è il primo servizio alla missione in modo che il mondo sappia chi ci ha mandato.

[…] «Come mi hai mandato nel mondo, anch’io ti mando nel mondo in modo che la tua voce e le tue parole si diffondano in tutta la terra fino ai confini del mondo». Accogliamo con entusiasmo e gioia la sfida che il Signore lancia a tutti e a ognuno di essere profeti della Sua Parola, il Verbo della vita, della giustizia e dell’amore senza essere intimiditi dalle nostre debolezze, difficoltà e incomprensioni, e così sperimentare quanto belli sono i piedi di coloro che annunciano il Vangelo nella nostra America e oltre il nostro continente. […]

mons. Sergio Gualberti
(trascrizione di Lourdes González,
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.


La testimonianza

È finito il tempo dei navigatori solitari

Le riflessioni del superiore generale dei missionari della Consolata, al suo primo Cam.

Prima di tutto mi piace sottolineare che il quinto Congresso missionario americano (Cam V) – il primo a cui io ho partecipato – è stato un’esperienza ricchissima di Chiesa. Al Congresso hanno partecipato giovani e meno giovani, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose, seminaristi e laici di tutto il Continente e anche da altri paesi. Qui ho sentito davvero che la Chiesa è universale ed è madre perché raccoglie tutti i suoi figli e figlie provenienti da ogni parte e dà ad ognuno la possibilità di sentirsi famiglia e poter sviluppare tutti i propri doni e qualità. In quelle giornate abbiamo respirato la missione e capito – sia dalle parole che dai segni – che senza missione non c’è Chiesa, non c’è Vangelo.

In secondo luogo, mi piace sottolineare la dimensione della gioia, della festa. Lo slogan del Congresso era: «Annuncia la gioia del Vangelo». L’America è viva, piena di giovani e di voglia di ballare, di vivere di stare assieme. La gioia è una caratteristica di questi popoli e culture e al Congresso essa si è manifestata in tutte le sue forme. Davvero la Chiesa deve recuperare questa dimensione gioiosa della fede. Credo che per troppo tempo abbiamo predicato una fede di rinuncia e sacrificio: è giunta l’ora di predicare la gioia di essere cristiani e di annunciarla con tutta la nostra forza cantando e celebrando la vita.

Il nostro Fondatore, il Beato Guseppe Allamano, diceva che un missionario deve essere gioioso e che questa gioia nasce dalla fede, dal sentirsi vicini al Signore. È questo che a Santa Cruz de la Sierra è stato ripetuto affinché ognuno di noi lo custodisse nel proprio cuore come tesoro prezioso per portarlo nel proprio ambiente dove annunciare la gioia del Vangelo. Infine, mi piace condividere alcuni punti che possono essere importanti anche per il nostro percorso di missionari della Consolata.

Al Congresso, in diverse forme, è stato ripetuto che oggi la missione non si può più fare da soli, che dobbiamo aprirci e collaborare con tutte le forze che vogliono viverla, primi fra tutti i laici. Come ci ha insegnato la Redemptoris Missio, la missione non è opera di navigatori solitari, ma di discepoli missionari aperti, sensibili e solidali.

In secondo luogo, in diverse maniere è stato ripetuto che la missione è il paradigma della Chiesa, ma che essa è anche più grande della Chiesa perché va oltre, grazie a tutte le sue persone che cercano e lavorano per il bene dell’umanità. Siamo umili servitori, insieme a tanti altri conosciuti e sconosciuti, della presenza del Regno e questa è la nostra gioia e la nostra forza.

Per ultimo, credo che il Congresso missionario di Santa Cruz de la Sierra ci abbia ricordato che il cammino di rivitalizzazione e ristrutturazione in una visione di missione continentale, che come Istituto abbiamo iniziato, sia in sintonia con quanto sta vivendo la Chiesa: che se, da una parte, essa deve lanciarci in una missione contestualizzata, dall’altra non deve farci dimenticare la sua dimensione universale. Perché siamo persone appartenenti a tutta l’umanità, nonché fratelli di tutti i popoli e di tutte le culture.

Stefano Camerlengo

Padre Camerlengo tra i concelebranti


Missionarie, missionari e laici della Consolata presenti al Cam V:

  • Sr. Maria Conceição Nascimento da Silva
  • Sr. Emma Eganda
  • Sr. Hannah Wambui Ndung’u
  • Sr. Marisa Soy
  • P. Stefano Camerlengo
  • P. Jaime C. Patias
  • P. Micarnel Mutinda Munywoki
  • P. Robério Crisóstomo da Silva
  • P. Stephen Gichohi Ngari
  • P. Stanslaus Joseph Mnyawami
  • Mons. Luis Augusto Castro
  • Mons. Francisco Munera
  • Ugo Gomes
  • Mariana Gomes
  • Jose Luis Andrade
  • Danmary Mujica

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.




Preghiera 18. Pregare: lasciarsi accostare dalla Parola e… dalla volpe


Nella 4ª puntata del maggio scorso abbiamo commentato il racconto della tempesta del mare di Mt 14,22-33 nel quale Gesù fu scambiato per un «fantasma», cioè un’inconsistenza, fonte di paura. Per restare sempre sul tema «mare», oggi proviamo ad accostarci al testo di Mc 4,35-41 (che trova i paralleli sinottici in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25). Considerata, però, la ricchezza del brano, dobbiamo dividerlo in due puntate (questa e la prossima, di novembre 2018).

Il progetto del regno di Dio e i suoi ostacoli

Purtroppo, non conoscendo la Scrittura e abituati a una lettura superficiale e letterale, siamo propensi a leggere i Vangeli come racconti storici, senza alcun «distinguo». Anche senza volerlo, in questo modo, vanifichiamo il significato che l’autore o gli autori hanno inteso dare ai loro racconti che non sono finalizzati a fare «la storia di Gesù», ma a dire chi è Gesù per loro, per chi crede in lui e per chi vorrà credere in futuro: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). In parole semplici, i Vangeli hanno lo scopo di suscitare interesse per la persona di Gesù con l’obiettivo, volendogli bene, di assumere il suo messaggio come criterio di vita e progetto sociale: costruire un mondo «su misura di Dio» che significa solamente impegnarsi a fare della terra il «giardino di Èden» che Dio ha avuto in mente fin dall’eternità per tutto il genere umano di tutti i tempi.

Costruire il regno di Dio, significa appunto fondare i rapporti umani e relazionali sulla roccia della condivisione, della fraternità e della giustizia. Il mondo laico, pur con le sue contraddizioni, misfatti, genocidi e aberrazioni atroci, ci ha provato diverse volte: con la rivoluzione francese del 1789 ad esempio, e con il motto «Liberté, Égalité, Fraternité». Anche con la rivoluzione russa del 1917/18, che, col progetto del messianismo mondiale, ha cambiato il corso della storia (e sappiamo come, proprio perché nessuno seppe cogliere l’enorme massa di speranza che aveva seminato, neanche purtroppo la Chiesa). La mattanza sulla quale la rivoluzione russa si è fondata non elimina l’anelito di giustizia messianica che portava. È necessario, infatti, che la prospettiva «rivoluzionaria» superi l’orizzonte della «sostituzione»: scalzare questi per metterci quelli, escludendo il «bene comune», unica prospettiva di decenza umana. Il Vangelo non ci dice solo che Gesù ha fatto miracoli strepitosi o risuscitato morti, ma attraverso questi modi di narrare, che Pio XII chiamò per la prima volta, in maniera ufficiale, «generi letterari», ci vuole fare sperimentare che lui è la «novità», il kairòs della nuova irruzione di Dio nella storia, la sua Presenza:

«Quale sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi orientali com’è per esempio negli scrittori dei nostri tempi… l’interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell’Oriente e con l’appoggio della storia, dell’archeologia, dell’etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch’erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l’esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un’accurata ricognizione delle antiche letterature d’Oriente» (Divino Afflante Spiritu, Enciclica, 30-09-1943, parte II, § 3).

Con questa premessa, ci accingiamo a pregare con il seguente brano:

Mc 4,35Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti»? 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?».

Passi lenti e profondi

  1° passo

Non fermarsi al solo testo indicato, ma vedere cosa precede e cosa segue per comprendere il contesto prossimo e remoto del brano. Il racconto della traversata del mare è preceduto dalle parabole del regno: il seme e le varie tipologie di terreno con relativa spiegazione ai discepoli; la lampada sotto il moggio o sopra il candelabro; di nuovo il seme che cresce, anche se il contadino dorme; il granello di senape (Mc 4,1-34). Il brano è seguito da racconti di guarigione: due indemoniati (Mc 5,1-20); l’inizio del racconto della guarigione della figlia del capo della sinagoga, Giàiro (Mc 5,21-24); un intermezzo con la guarigione della donna con perdite di sangue (Mc 5,25-37); ripresa del racconto di guarigione della figlia di Giàiro (Mc 5,38-43) e le non guarigioni per mancanza di fede a Nazareth (Mc 6,1-6). Questo è il contesto, prossimo e remoto: da una parte c’è il progetto (seme, lampada, senape), dall’altra gli ostacoli e la resistenza (malattia, schiavitù/indemoniati, morte, incredulità). Non abbiamo qui lo spazio per mettere a confronto Mc con Mt e Lc ed evidenziare la diversità di obiettivi e di lettura del materiale stesso, per cui ci limitiamo solo a Mc.

  2° passo

Individuato il contesto, leggere il brano tenendo conto dell’insieme e cercando di leggere le connessioni tra le diverse parti, in base al principio che se l’autore ha scelto «questa» composizione, aveva in mente una visione, un obiettivo, una strategia. Quale potrebbe essere, secondo me?

  3° passo

Rileggere il testo, così contestualizzato, e cercarne il senso nel contesto della mia vita e del mio tempo. La Parola di Dio, infatti, è per me «qui e adesso», una Parola rivolta alla mia intelligenza, al mio cuore, alla mia ragione per viverla oggi, nella mia vita e nel contesto della storia del mio tempo.

  • Quale tempesta rovescia oggi le barche in mezzo al mare?
  • Chi dorme sul cuscino?
  • Chi si sveglia e tiene a bada il mare, facendo cessare il pericolo?
  • Dove sto io?
  • Se Gesù non fosse stato sulla barca «così come era», cosa sarebbe successo?
  • È lecito domandarsi se questo brano, proclamato nella Liturgia nella 12a domenica del tempo ordinario dell’anno B, abbia un impatto su quello che sta avvenendo nel «Mare Mediterraneo»? Oppure questa osservazione mi dà fastidio? Perché?
  • Quasi sempre la Parola di Dio non è casuale, ma come «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), inchioda alla domanda di fondo: «Chi sono io?». È lecito di fronte a questo testo chiedersi: se Gesù fosse su una barca in pieno Mediterraneo, cosa farebbe? Poiché credere in lui significa «imitarlo», le conseguenze pratiche non sono neutre per la fede.

  4° passo

Rileggere lentamente e individuare le parole, specialmente i verbi, ma anche le altre parti del discorso, che sembrano più attinenti alla nostra condizione. Esclusi i verbi ausiliari e servili, restano 21 verbi che esprimono altrettante azioni, cioè movimenti, emozioni, decisioni, scelte. Ci limitiamo ad essi: passare, congedare, prendere con sé, rovesciarsi, essere pieno, starsene, dormire, svegliare, importarsi, essere perduti, destarsi, minacciare, tacere, calmarsi, cessare, avere paura, non avere fede, intimorirsi, essere, obbedire. Quale emozione suscita in me, ogni singola azione, espressa dal verbo? Tra di essi ce n’è uno che mi qualifica in modo particolare? Rileggo la mia vita alla luce del verbo o dei verbi per me qualificanti, in base al passo seguente.

  5° passo

Il criterio di Ezechiele: mangiare la parola, esattamente come si mangia l’Eucaristia, che poi sono la stessa cosa, perché, come Lc 24 narra nel racconto dei discepoli di Èmmaus, udire la Parola e spezzare il pane sono modi diversi della stessa intimità. Nell’Eucaristia noi facciamo due volte la «comunione»: una volta con le orecchie, ascoltando la Parola-Lògos che è il Figlio, proclamato sul mondo e una volta con la bocca, mangiando il pane e bevendo il vino, simboli reali dell’intima unione, attraverso la Chiesa, del genere umano con Dio (Lumen Gentium, 1).

«2,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. 2A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava… “apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. 9Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. 10Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra… 3,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, recati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 1,1.9-10; 3,1-4).

Il criterio di Ezechiele

Nel criterio di Ezechiele vi è una concatenazione logica ferrea: il parlare di Dio genera l’irruzione del suo spirito nel profeta che deve alzarsi in piedi, la posizione dell’orante, pronto all’ascolto. Le azioni conseguenti sono: aprire la bocca e mangiare il rotolo, che – attenzione! – è scritto davanti e dietro, cioè è parola abbondante e completa. Dopo aver mangiato non ci si può fermare a fare la pennichella, ma bisogna andare, andare alla comunità con la quale condividere ciò che si è mangiato. Gesù ha un progetto che si chiama «regno di Dio» e riguarda tutta l’umanità. Vi si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il senso di abbandono anche da parte di Dio, il dubbio stesso dell’assenza di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere per non mettere a rischio la vita dei discepoli?

Nel progetto di Dio non si mangia per saziarsi, nessuno è chiuso in sé, si mangia per vivere, per andare, per condividere: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. [Prendete e] bevetene tutti… questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,26-28). Tutto è connesso e tutto si tiene: l’ascolto/mangiare, prendere coscienza e andare in missione nel mondo a dire con la vita che Gesù «è il Signore» (Gv 21,7). Ascoltare e mangiare, nella Bibbia, sono sinonimi perché bisogna «stare sulla Parola» (Gv 8,31), ruminarla, sminuzzarla, assaporarla lettera per lettera, iota per iota, fino a sentirne la dolcezza del miele e il sapore del fiele, il doppio taglio della Parola-spada (Eb 12,4) se vogliamo giungere al «monte di Dio» e stare alla sua presenza:

«7Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, toccò Elia e gli disse: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).

Solo così il profeta può sperimentare la presenza di Dio in tutta la sua gloria e fare l’esperienza della «voce di silenzio sottile», dopo il vento impetuoso, il terremoto e il fuoco (cfr. 1Re 19,11-13). Se pregare è vivere l’esperienza della Shekinàh, o Dimora o Presenza, è indispensabile arrivarci, ascoltando e mangiando, in una parola interiorizzando. Ascoltare significa «portare dentro di sé la Parola» che è la Persona di Gesù e mangiare significa «portare dentro il cibo» che è la vita stessa di Dio. Chi mangia lo stesso cibo diventa la stessa realtà. Qui è il punto focale dell’intimità che può essere solo personale, vissuta «nel deserto» come spazio senza occhi indiscreti, senza curiosi, senza distrazioni di superficialità. Tutto ciò esige tempo, tempo, tempo… come insegna la volpe al Piccolo Principe, contro la logica della nostra epoca, in cui «non abbiamo mai tempo…»:

«“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo»
(v. più avanti il testo integrale).

Perdere tempo.
Perdere tempo per la persona amata

Questo è il segreto, l’unico che coglie il cuore della vita. Quando noi riserviamo a Dio gli scampoli del nostro tempo, quando controlliamo l’orologio perché «bisogna fare in fretta», quando la Liturgia delle Ore o l’Eucaristia sono contingentati perché «abbiamo tante cose da fare», allora è inevitabile rifugiarsi nelle formule, negli orari, nel rituale perché ci sentiamo protetti e scusati: fatto il nostro dovere, esattamente come qualsiasi salariato, abbiamo pagato il nostro debito. Abbiamo praticato molto, ma non abbiamo amato. Perdere tempo esige silenzio e svuotamento della polvere che ricopre le nostre morte parole (Tagore). Perdere tempo esige avere coscienza di essere l’altra metà di Dio, senza della quale la sua identità come la nostra sono vanificate, annullate.

C’è una pagina mirabile nel «Piccolo Principe», in cui si stabiliscono le regole dell’amicizia «addomesticata» fino a quando gli amici non diventino «unici» tra tutti gli esseri umani. Ho mai pensato di «addomesticare» Dio, riducendo le distanze giorno dopo giorno? Ho mai udito i suoi passi nel giardino della mia vita (Gen 3,8)? Ho mai detto a Dio espressamente: «Per favore, addomesticami!»? Oppure in quella che chiamiamo preghiera personale o corale, mi limito a leggere quanto è prescritto, come se fosse un compito di scuola? «Non si conoscono che le cose che si addomesticano… Gli uomini [e le donne] non hanno più tempo…».

Questo brano, tratto dal «Piccolo Principe», vale più di un trattato sulla preghiera, con l’augurio che ciascuno possa applicarlo al proprio modo di pregare, al proprio tempo di pregare, al proprio Dio che immagina di pregare, perché non è detto, non è scontato, che noi preghiamo il Dio, «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,6). Leggendo la catechesi della volpe al piccolo principe, proviamo a capire se non parliamo con noi stessi in una forma di narcisismo che è la negazione della natura della preghiera che è solo ed esclusivamente, perdere tempo per la persona amata, perdere vita e desiderio, e anelito e passione per chi vogliamo sia importante per noi.

Maestra volpe…

«In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo…”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”. “Sono la volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa “, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare?”. “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe “che cosa cerchi?”. “Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire addomesticare?…”. “Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe.

“C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”. “È possibile”, disse la volpe, “capita di tutto sulla terra”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. “La mia vita è monotona… E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica… Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore… addomesticami”, disse. “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”. “Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore… Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”. “È vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?”. “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”. Soggiunse: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”. “Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto…”. “Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”. “Io sono responsabile della mia rosa… ripeté il piccolo principe per ricordarselo» (Da Antornine Saint-Exupéry, de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.A., Milano 1985, 11, 91-98).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-18]




Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era


Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.

Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.

il presidente della Corea del Nord (a sinistra) con quello della Corea del Sud durante il loro secondo incontro (26 maggio 2018) nella zona demilitarizzata che divide le due Coree. Foto: The Blue House / AFP.

Il contributo di Moon Jae-in

La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal  2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.

Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.

Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.

Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.

La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.

È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.

Giovani nordcoreane si esercitano per la parata sulle rive del Taedong, a Pyongyang. Foto: Tobias Nordhausen.

Come fare per accontentare tutti gli attori

Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.

Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.

Kim Jong Un e Donald Trump nel porticato del Capella Hotel di?Singapore. Foto: Kevin Lim / The Straits Times /Handout/Getty Images.

Lo scoglio nucleare e missilistico

Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.

Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.

Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.

Kim Jong Un al centro tra Vivian Balakrishnan (autore del selfie) e Ong Ye Kung, ministri di Singapore. Foto: Vivian Balakrishnan.

Sanzioni e sviluppo economico

Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.

È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.

La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.

Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.

Piergiorgio Pescali


Il presidente nordcoreano a Singapore

Un selfie con Kim

Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.

Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.

Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.

La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.

Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.

Piergiorgio Pescali

 

 




Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento


È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?

È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.

I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.

Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.

A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.

AFP PHOTO / SUMY SADURNI

Una storia breve

Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.

Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.

Una poltrona per cinque

I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).

«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.

Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.

Jason Patinkin/IRIN

I nodi sul tappeto

Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.

Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.

L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.

«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.

«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.

Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».

AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Pressioni internazionali

Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.

In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.

Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.

Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.

Voci dal terreno

Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?

Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».

Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».

Displaced children stand at a camp for Internally Displaced Persons (IDP) near Kadugli, the capital of Sudan’s South Kordofan state during a United Nations humanitarian visit on May 13, 2018. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».

La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.

Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».

E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».

Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.

Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».

A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».

Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.

C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.

Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».

AFP PHOTO / PATRICK MEINHARDT

Società civile cercasi

«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».

Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.

Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.

Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».

Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».

La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»

Marco Bello




Indagine sulla maternità surrogata


Una donna si assume l’onere della gravidanza e del parto per altre persone alle quali poi consegnerà il neonato. È la pratica della «maternità surrogata», nota anche come «gestazione per altri» (Gpa) o «utero in affitto». Un fenomeno in crescita, ma vietato (per varie ragioni) in molti paesi, tra cui anche l’Italia in base alla legge 40 del 2004 sulla «fecondazione assistita» di cui la Gpa è un’estensione.

Nel mondo della globalizzazione c’è un fenomeno in crescita: quello della maternità surrogata o «gestazione per altri» (Gpa) o, in termini meno eleganti, «utero in affitto». In pratica la Gpa è un’estensione della fecondazione assistita, dove però la donna che si assume l’onere della gravidanza e del parto (madre surrogata) lo fa per altri, ai quali si impegna, in seguito a un vero e proprio contratto, a consegnare il neonato dopo la nascita. In questo caso nella futura gestante vengono impiantate blastocisti (embrioni di 5-6 giorni concepiti in vitro), che possono essere frutto della fusione di ovociti e spermatozoi (gameti femminili e maschili) della coppia richiedente (veri genitori biologici), oppure di gameti acquistati da donatori, nel caso la gravidanza sia richiesta da coppie che non riescono a produrne, oppure da coppie omosessuali o da single.

Secondo i dati del 2016 delle maggiori cliniche americane specializzate nel settore, negli Stati Uniti, su dieci gravidanze surrogate, sette sono commissionate da coppie eterosessuali e tre da coppie omosessuali oppure da single. Per quanto riguarda le coppie eterosessuali, non si tratta sempre di coppie con difficoltà a procreare. Soprattutto tra vip facoltosi, si ricorre alla maternità surrogata per non interrompere una brillante carriera o per evitare di stressare il proprio corpo, lasciando le fatiche della gravidanza e del parto a una donna appositamente pagata. Questa tecnica, nel caso di gameti propri, dà la certezza della paternità, argomento che da sempre sta a cuore agli uomini, che in tal modo sono certi che il neonato è loro figlio. Tra i personaggi più famosi che sono ricorsi alla maternità surrogata ci sono le attrici Nicole Kidman e Sarah Jessica Parker, tra gli attori Robert de Niro (due figli), Miguel Bosé (due coppie di gemelli), il cantante Elton John, il regista George Lucas, il calciatore portoghese neojuventino Cristiano Ronaldo, tra gli italiani Nichi Vendola, leader di Sel.

Paesi, leggi, costi

La Gpa è legalmente praticabile solo in alcuni paesi. È legale in 8 stati degli Stati Uniti (California, Colorado, Texas, Massachusetts, Connecticut, Utah e Florida) e inoltre in India, Russia, Ucraina, Georgia, Messico, Brasile, Guatemala, Ecuador, Bolivia, Haiti, Sudafrica, Thailandia e in quasi tutto il Sudest asiatico, mentre l’Argentina sta valutando se renderla legale. Nel Regno Unito e in Canada, la Gpa è permessa solo in forma altruistica, quindi è vietata la maternità commerciale, mentre in Grecia sono necessarie prove mediche che confermino l’impossibilità per le donne di una gestazione autonoma per potere accedere a tale pratica, al cui accesso sono esclusi i gay. In Belgio e Olanda è obbligatorio il legame biologico tra coppia committente e neonato.

La Gpa è invece vietata in Italia, Francia, Germania, Spagna, Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia.

Per quanto riguarda i costi, spesso mascherati come rimborso delle spese mediche per la gestante e legali per la trascrizione dell’atto di nascita del neonato (in realtà sovente per la produzione di documenti falsi, in cui si dichiara che la gestazione e il parto della donna committente si sono svolti in loco), c’è una grande variabilità: si va dall’equivalente di 130mila-210mila euro degli Stati Uniti (il costo aumenta se il parto è gemellare), dove il neonato acquisisce la cittadinanza statunitense e il certificato di nascita presenta il nome dei genitori riceventi, che possono anche essere gay o single, ai 30mila euro di Grecia (dove però i genitori riceventi devono prendere casa per la procedura e, come detto, sono esclusi i gay) e Russia, ai 20mila euro dell’Ucraina e ai 15mila euro equivalenti dell’India. Dal punto di vista del riconoscimento giuridico del neonato in Italia, la scelta del paese in cui si svolgerà la maternità surrogata è fondamentale, perché negli Stati Uniti e nel Canada i neonati hanno cittadinanza e passaporto statunitensi o canadesi e non ci sono problemi di trascrizione dei loro certificati di nascita al momento del loro ingresso in Italia.

Il neonato e il rientro in Italia

Chi invece va in Russia o in Ucraina avrà un figlio senza cittadinanza, quindi per uscire dal territorio in cui è nato sarà necessaria un’autorizzazione del Consolato. In questo frangente, se viene sospettata la pratica dell’utero in affitto, possono essere fatte segnalazioni alla magistratura italiana, che può procedere penalmente nei confronti delle coppie committenti per «alterazione dello stato di nascita», reato punibile con pene tra 3 e 10 anni di reclusione. Questo perché in Italia la legge 40 del 2004, che regola la fecondazione assistita, all’articolo 12 dice: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600mila a un milione di euro». Questa legge, nel corso degli anni ha subito diverse modifiche. Secondo il testo originario, la fecondazione assistita nel nostro paese era riservata solo a coppie sterili, formate da maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi, in età potenzialmente fertile ed entrambi viventi. Nel 2015 una sentenza della Corte costituzionale ha reso illegittimo il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita (Pma) alle coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili, che prima di questa sentenza potevano solo interrompere la gravidanza di un feto malato, ma non potevano accedere alle tecniche di Pma e di diagnosi pre-impianto. Quest’ultima, nel testo originario era vietata, mentre oggi è consentita sia per le coppie sterili che per quelle portatrici di malattie genetiche o cromosomiche trasmissibili, al fine di impiantare in utero solo gli embrioni sani. Nel 2009, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, la legge 40 è stata modificata anche per quanto riguarda il numero di embrioni prodotti (inizialmente non più di tre) e l’obbligo di impiantarli tutti contemporaneamente (con un’elevata probabilità di parti plurigemellari). Attualmente possono essere prodotti più di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione assistita e non è necessario trasferirli tutti contemporaneamente, ma è prevista la crioconservazione degli embrioni non impiantati.

Rosanna Novara Topino
(prima puntata – continua)


Glossario

Dalla richiesta al bambino: un’immagine esplicativa usata dal sito della clinica indiana Lotus Kiran. Si noti come i soggetti abbiano tutti fattezze bianche e occidentali.

Blastocisti: fase dell’embriogenesi che va dal quarto al quattordicesimo giorno di vita dell’embrione.

Crioconservazione: si tratta della conservazione, dopo congelamento, degli embrioni prodotti con fecondazione assistita e non trasferiti in utero, presso apposite biobanche autorizzate. La temperatura di conservazione degli embrioni, nonché di ovociti e di spermatozoi è di -196°C.

Diagnosi preimpianto: o Pgd o Pgt (Preimplantation genetic diagnosis o testing): si tratta di due distinti gruppi di test, che permettono di verificare la presenza di anomalie genetiche o cromosomiche nell’embrione prima del suo impianto in utero mediante il prelievo di alcune sue cellule, oppure di verificare la presenza di anomalie nel Dna dei genitori. I due gruppi di test si distinguono tra:

  • quelli che valutano la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche, di cui una coppia sia fertile che infertile può essere portatrice e trasmettere ai figli;
  • quelli che valutano la mappa cromosomica di embrioni prodotti durante la procreazione medicalmente assistita per coppie infertili. In questo caso si tratta di screening genetico preimpianto o meglio di diagnosi genetica preimpianto per aneuploidie (pgt-A per anomalie del numero dei cromosomi).

L’accesso a questa tecnica era consentito dalla legge 40 solo alle coppie infertili. Nel 2015 la Corte costituzionale l’ha reso possibile anche alle coppie fertili potenzialmente portatrici di una malattia genetica come la talassemia, l’emofilia, la fibrosi cistica, la distrofia muscolare, la sindrome dell’X-fragile oppure di qualche malattia cromosomica. Gli embrioni, che a seguito di questo test risultano problematici, vengono congelati e conservati nel centro della Pma.

Epigenetica: è una recente branca degli studi genetici, che si occupa dell’influenza dell’ambiente sulla espressività dei geni. In pratica si occupa dei cambiamenti che influenzano il fenotipo (le caratteristiche individuali) dovuti all’ambiente esterno, senza alterare il genotipo (il patrimonio genetico).

Fecondazione post-mortem: fecondazione dell’ovocita di una donna con il seme del partner defunto. In Italia tale pratica è vietata dalla legge 40 del 2004.

Disegno di un gamete maschile (spermatozoo) e di un gamete femminile (ovocita).

Gameti: ovociti o gameti femminili e spermatozoi o gameti maschili. Sono le cellule mature della linea germinale, che si differenziano da tutte le altre cellule del corpo (cellule somatiche), perché il loro nucleo contiene la metà dei cromosomi della specie (corredo aploide).

Legge 40 / 2004: è la legge che contiene le «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita» (ne parleremo nella prossima puntata).

Madre biologica: la donna donatrice dell’ovocita, che può coincidere con la donna committente oppure no, nel caso questa sia sterile.

Madre sociale: è la donna committente, che può anche essere la madre biologica e che si occuperà della crescita e dell’educazione del bambino.

Madre surrogata: la donna, nel cui utero viene impiantato l’embrione ottenuto con fecondazione assistita, appartenente a una coppia committente. Essa si impegna a portare a termine la gestazione e a cedere il neonato alla coppia committente dopo il parto. Si impegna inoltre per contratto a fornire anche il proprio latte.

Malattie cromosomiche: sono la conseguenza dell’alterazione del numero dei cromosomi (aneuploidia). La più diffusa è la trisomia 21 o sindrome di Down dovuta alla presenza di un cromosoma 21 sovrannumerario.

Malattie genetiche: tutte le patologie che si originano da mutazioni genetiche verificatesi durante la vita fetale e che possono interessare uno o più geni. Tra le più frequenti malattie genetiche ci sono la fibrosi cistica, la corea di Huntington, la distrofia muscolare di Duchenne, l’anemia a cellule falciformi, la talassemia.

Mappa cromosomica (e il sesso del nascituro): è detta anche cariotipo ed è un metodo diagnostico, che permette lo studio dei cromosomi. Può essere impiegato come esame preconcezionale per verificare la presenza di eventuali malattie trasmissibili dai partner, oppure sull’embrione come diagnosi preimpianto, oppure a gravidanza già iniziata, a seguito di amniocentesi o di villocentesi. Basta prelevare poche cellule, nel caso della diagnosi preimpianto o della villocentesi (o liquido amniotico nell’amniocentesi) oppure un campione ematico dei partner. Le cellule ottenute dai campioni vengono messe in terreno di coltura e fotografate durante la mitosi. In tal modo si ottiene l’immagine dei cromosomi (costituiti da Dna e nucleoproteine e contenenti i geni). Tali immagini vengono allineate per dimensioni e forma, in modo da ottenere la sequenza dei 46 cromosomi (23 coppie) del cariotipo umano. Spesso si utilizza un particolare mezzo di contrasto, che permette la bandeggiatura dei cromosomi, cioè la formazione di bande colorate in punti precisi, al loro interno. Dall’analisi della forma dei cromosomi e della presenza o meno e dello spessore delle bande è possibile rilevare la presenza di malattie trasmissibili. Dalla semplice forma dei cromosomi è – inoltre – possibile stabilire il sesso del nascituro: se sono presenti i cromosomi XX si tratta di una femmina, se presenti gli XY si tratta di un maschio.

Maternità surrogata altruistica (versus commerciale): è la forma di maternità surrogata permessa in alcuni paesi come il Regno Unito, in cui è previsto che alla madre surrogata vada solo un rimborso spese legate alla gravidanza. La madre surrogata quindi non può trarre vantaggi economici, a differenza di quanto avviene nella maternità surrogata commerciale.

Procreazione medicalmente assistita (Pma): insieme di trattamenti per la fertilità consistenti nel favorire la fusione di ovociti (gameti femminili) e di spermatozoi (gameti maschili), cioè la fecondazione. Queste tecniche permettono il concepimento per le coppie che non possono ottenerlo spontaneamente.

Tali tecniche sono suddivise in tre livelli:

  • 1 livello: consiste solo in una fecondazione «aiutata», immettendo direttamente in utero il seme del partner, dopo avere per esempio selezionato gli spermatozoi in base alla loro motilità, al loro aspetto, ecc.. Si può eseguire con ciclo spontaneo della donna o mediante stimolazione farmacologica dell’ovulazione;
  • 2 e 3 livello: c’è una prima parte di produzione dell’embrione in vitro (Fivet e Icsi, sotto la descrizione) e successivamente (terzo livello) l’impianto in utero.

Le tecniche sono le seguenti:

  • Fivet (fertilizzazione in vitro con embryo transfer) o Ivf (in vitro fertilization). Tale tecnica prevede la stimolazione dell’ovaio a produrre ovociti, il loro prelievo chirurgico, l’inseminazione in laboratorio e la successiva fecondazione, lo sviluppo degli embrioni in mezzo di coltura e infine il loro trasferimento in utero;
  • Icsi (Iniezione intracitoplasmatica di un singolo spermatozoo). Questa tecnica è particolarmente utile nei casi di infertilità maschile, dove non c’è un numero sufficiente o una motilità adeguata degli spermatozoi per la fecondazione spontanea.

Sia la Fivet che la Icsi si distinguono in «cicli a fresco» e «cicli da scongelamento», a seconda che gli embrioni siano appena stati prodotti, oppure che embrioni o ovociti siano stati precedentemente crioconservati e poi scongelati;

  • Gift: tecnica ormai poco utilizzata, in cui si pratica una piccola incisione sull’addome, per trasferire ovociti non fertilizzati e il liquido seminale nelle tube di Falloppio, in cui avverrà la fecondazione;
  • Prelievi testicolari di spermatozoi in caso di aspermia mediante tecniche di aspirazione percutanee e/o microchirurgiche.

Oltre a tutte le procedure sopra descritte, della Pma fanno parte anche le tecniche di crioconservazione dei gameti e degli embrioni. Mediante la crioconservazione finora in Italia sono nati circa 1.500 bambini.

 

Stepchild adoption: istituto giuridico, che consente al figlio di essere adottato dal partner (unito civilmente o sposato) del proprio genitore. In Italia è consentita dal 1983 per le sole coppie eterosessuali sposate e dal 2007 anche per le coppie eterosessuali conviventi.


Approfondimento

I?SITI

Abbiamo cercato sul web i siti dei centri internazionali dove è possibile praticare la maternità surrogata. Si tratta di siti scritti in più lingue, con belle immagini e un linguaggio familiare e accattivante. Di seguito una breve lista divisa per paese:

• Brasile:

http://fertility.com.br
https://sbra.com.br
https://fertilidade.org

• Georgia:

http://www.chachava.ge

• Grecia:

http://www.fertilitycrete.gr

• India*:

http://www.upkaar.in/surrogacy
http://lotuskiran.com/home
http://www.upkaar.in/surrogacy

• Nepal:

http://www.surrogatemothernepal.com

• Russia:

http://nova-clinic.ru

• Stati Uniti:

www.internationalsurrogacycenter.com
www.findsurrogatemother.com

• Ucraina:

www.mother-surrogate.com
https://www.lavitanova.ru**.

* Il governo induista sta valutando l’introduzione di una legge molto restrittiva.
** In home page ci sono i costi: da 32mila euro per il trattamento base a 48mila per quello Vip.

 




Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría


Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.

Chiquitunga – © Carmel Holy Land / Stella Maris monastery

La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.

Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».

Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.

María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.

In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.

Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?

Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.

Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.

Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.

Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.

Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.

In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.

Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.

Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.

In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.

Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.

È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.

Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.

Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.

Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.

Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.

In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.

Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.

La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.

Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».

Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.

Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».

Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.

E cosa avvenne dopo?

Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.

Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.

Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.

E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.

Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.

Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.

Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.

Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.

La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.

Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.

Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».

Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.

Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.

Don Mario Bandera




Giovane: riconosci, comprendi, scegli…


Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.

Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.

Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.

Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).

In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.

Luca Lorusso

foto in CC da BostonCatholic / flickr.com