I Perdenti 33.

Lebensborn: la fabbrica dei superuomini

Testo di Mario Bandera |


Il progetto Lebensborn (sorgente di vita) fu l’aberrante strumento della politica razziale nazista che aveva lo scopo di favorire la nascita di bambini ariani ed elevare il grado di «purezza» del popolo tedesco: esso fornì alle mamme e ai bambini «razzialmente di valore» l’assistenza necessaria per ottenere individui scientificamente selezionati dal punto di vista razziale.

L’organizzazione Lebensborn è dunque l’altra faccia della medaglia del razzismo nazista: se con il «progetto eutanasia» e con la «soluzione finale» si volevano eliminare le persone «indegne di vivere», nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea fissa di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler. Nei centri Lebensborn – diverse decine in tutto il territorio del Reich – venivano fatti nascere e crescere i figli illegittimi di soldati tedeschi. Ma in quei luoghi venivano anche portati i ragazzi, ritenuti razzialmente «adeguati», strappati alle famiglie delle zone occupate dalle truppe di Hitler per essere germanizzati e poi dati in adozione a famiglie di provata fede nazista. Il 1° gennaio del 1938 il progetto Lebensborn passa sotto la tutela dello Stato Maggiore delle SS, quindi sotto la diretta autorità di Himmler: la sede centrale fu ubicata a Monaco di Baviera, nella cui sede sarà anche conservato l’archivio anagrafico del Lebensborn, così da avere dati sempre precisi, in quanto i bambini allontanati dalle madri diventavano di «proprietà» dell’istituzione.

Di questo progetto criminale parliamo con Ingrid (personaggio di fantasia), donna del popolo norvegese passata attraverso questo calvario.

(CC BY-SA 3.0 Bundesarchiv) 1 gennaio 1943

Com’è potuta accadere una cosa simile?

Dal punto di vista dei nazisti che avevano invaso la Norvegia, il mio paese, noi ragazze eravamo prede ambite per le SS: il nostro «tasso di nordicità e purezza razziale» era ritenuto perfino superiore rispetto a quello di molte zone della Germania. Pensarono perciò che ci fossero condizioni molto favorevoli per far nascere piccoli ariani germanici del Nord.

Come si comportarono con voi le truppe di occupazione tedesche?

Essi cercarono subito di instaurare rapporti cordiali con la popolazione norvegese, specialmente con le ragazze. Già nell’aprile 1940, fra i soldati occupanti fu lanciata un’enorme campagna a favore della procreazione della pura razza ariana. Si aprirono nove cliniche di maternità per bambini i cui padri erano tedeschi e in cinque anni ne nacquero almeno 8mila (di cui 6mila nei centri Lebensborn).

E quale era il destino riservato a quelle creature?

Dopo il parto erano per lo più abbandonati dalle madri (molte volte queste erano costrette a cederli) e dati in adozione a famiglie tedesche. Quelli che rimasero nei Lebensborn divennero invece, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la sconfitta della Germania, capri espiatori a cui far pagare i crimini e le angherie dei tedeschi.

Che vuoi dire, spiegati meglio…

Il popolo norvegese vide nei bimbi Lebensborn soltanto caratteristiche ereditarie e li indicò come i figli delle SS, quindi potenzialmente pericolosi e disumani. Molte donne che vissero il mio stesso dramma raccontarono poi storie di trattamenti crudeli subiti senza capire le motivazioni di tanto odio.

Questo dramma non è molto conosciuto in Europa, come mai?

La Norvegia insabbiò il problema per tanti anni, costringendo i figli della guerra a sopportare una serie di ingiustizie e di maltrattamenti. Alcuni di essi furono rinchiusi in orfanotrofi e in istituti psichiatrici. Altri, pur essendo stati affidati alle madri o a parenti, furono ugualmente discriminati in vario modo a scuola o sul posto di lavoro e subirono violenze fisiche e psicologiche di ogni genere, tanto che di recente un gruppo di essi ha citato in giudizio il governo norvegese per la politica discriminatoria da esso attuata nel dopoguerra verso di loro.

Neanche al processo di Norimberga si sollevò la tragedia dei bambini Lebensborn.

È vero, a Norimberga non si tenne un processo distinto per il progetto Lebensborn. Invece il 10 ottobre 1947 si aprì un processo (che durò fino al marzo del 1948) contro il «RuSHA» (Rasse und Siedlungshauptamt –  Ufficio centrale della razza e del popolamento/colonizzazione), ma la stampa vi diede scarso rilievo e il Lebensborn non fu condannato in quanto istituzione. Solo i dirigenti finirono sul banco degli imputati, ma furono condannati a pene detentive abbastanza ridotte, esclusivamente perché appartenevano a un’organizzazione criminale, ovvero le SS, non per le attività che svolsero nel Lebensborn.

Ma dopo la guerra, il «clima» nei confronti di chi aveva in un certo modo collaborato con le truppe d’invasione nazista, mutò radicalmente.

Le guerre hanno effetti contraddittori sui rapporti tra le persone. Da una parte ci sono pregiudizi tradizionali che vengono ribaltati: le donne ad esempio, occupano posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini impegnati al fronte. Dall’altra si inaspriscono le differenze e ci si irrigidisce nei confronti della morale sessuale femminile: dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli ai mariti e ai fidanzati assenti. Il corpo femminile diventa suo malgrado un altro «fronte di guerra», in quanto la sessualità femminile assume un significato prioritario: essa non è più solo una questione di decenza e virtù, ma anche di onore nazionale e di sopravvivenza.

Si può dire che in queste circostanze l’intera visione della sessualità femminile viene stravolta.

La possibilità di essere madre è considerata una risorsa nazionale e dunque le relazioni tra donne del luogo e soldati nemici costituiscono una minaccia per l’intera popolazione e la donna che intrattiene tali relazioni è ritenuta colpevole non solo verso il codice tradizionale di comportamento sessuale, ma anche nei confronti della nazione.

E questo l’avete vissuto in maniera acuta proprio in Norvegia, nella vostra terra, durante l’occupazione nazista.

Dalle relazioni fra donne norvegesi e militari tedeschi vennero al mondo i così detti «figli della guerra» i quali furono immediatamente stigmatizzati due volte: non solo in quanto «bastardi», ma anche e soprattutto perché «bastardi tedeschi». La dubbia reputazione delle madri si proiettò sui figli e in maniera aberrante sulle figlie, considerate fin dall’adolescenza «disponibili», tanto che a volte esse stesse finirono per essere vittime di abusi sessuali.

Purtroppo, le cose non andarono in maniera molto diversa nel resto dell’Europa.

Se le stime dei bambini nati nelle cliniche Lebensborn si aggirano intorno ai 10mila, molti di più furono i «figli della guerra», ossia i figli illegittimi di padri tedeschi e madri autoctone, tanto che – ad esempio – per la Francia si ipotizzano oltre centomila bambini figli di tedeschi, in Danimarca oltre 5.500, in Norvegia oltre 10mila, in Olanda almeno 8mila.

Finita la guerra, tramontata l’ideologia del Lebensborn, rimase solo l’onta subita dai più deboli, a cui seguirono la negazione e la rimozione del loro dramma in tutta Europa. I bambini nati da relazioni con soldati tedeschi furono dunque circondati da silenzio, imbarazzo, vergogna, senso di colpa e condanna sociale. Considerati «gli orfani del disonore», spesso subirono abusi, rifiuti, abbandono. Molti di loro ignorarono la propria origine e così furono per sempre privati della loro vera identità.

Tutti d’altronde avevano interesse a stendere un velo di omertà: le autorità dei vari paesi per escludere ogni forma di relazione con i nemici di un tempo, proteggere i bambini da vessazioni, nascondere una vergogna nazionale e così difendere la stabilità delle famiglie che cominciavano a riunirsi. Ma anche le madri stesse che avevano bisogno di tenere nascosta la vera «disonorevole» origine dei propri figli di fronte alla società. Solo nel 1985 il ministero della Giustizia tedesco ha affermato i diritti dei bambini che vogliono conoscere i genitori biologici e ha aperto l’accesso ai documenti rimasti negli archivi statali.

Ultimamente i bambini di Lebensborn (ormai persone di una certa età) hanno trovato la forza di parlare e di rivelare le loro origini e hanno fondato un’associazione con lo scopo di fare emergere la verità storica e tutelarli di fronte alla legge. Nell’ottobre 2001, oltre 150 «figli della guerra» hanno intentato una causa contro lo stato norvegese per discriminazione, tortura, trattamento inumano e degradante. Benché la loro istanza sia stata respinta, hanno comunque ottenuto che lo stato finanzi un progetto di ricerca per fare luce, dopo decenni di silenzio, sui traumi vissuti dai «bambini tedeschi». Hanno fatto anche ricorso contro il governo norvegese alla Corte europea per i diritti dell’uomo per violazione dei diritti dei bambini.

Don Mario Bandera