Allamano:

Beata Leonella Sgorbati,

Morire per dono

Beato Giuseppe Allamano, dalla Chiesa al mondo | Testi di Giacomo Mazzotti, Francesco Pavese e Mario Bianchi |


Beata Leonella Sgorbati: Morire per dono

Missionarie e missionari della Consolata, ancora una volta stiamo vivendo giorni intensi di attesa e di grazia: la nostra suor Leonella Sgorbati sarà, infatti, proclamata Beata il prossimo 26 maggio, a Piacenza, come martire per la fede. Colpita a morte a Mogadiscio (Somalia – 17/09/2006) mentre prestava il suo servizio di carità tra i fratelli dell’islam, riusciva ancora a sussurrare, con l’ultimo soffio della vita: «Perdono, perdono, perdono». Una vita donata, una morte come quella di Gesù.

Le missionarie della Consolata fanno, dunque, il bis, con due sorelle entrate a pieno titolo nel calendario dei santi. E, a pennello, ritornano in mente le parole di papa Francesco ai partecipanti al Capitolo generale, il 5 giugno scorso: «La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare i vostri confratelli e le vostre consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti e tutte a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa».

Funerale di sr Leonella Sgorbati (21 settembre 2006). Mons. Giorgio Bertin accoglie la bara nel Consolata Shrine di Nairobi.

Come non vivere, allora, questi giorni di «avvento» con l’emozione e la gioia del nostro Beato Allamano che, dopo suor Irene, vede un’altra missionaria salire «all’onore degli altari»? Si realizza infatti, uno dei sogni che il nostro fondatore, ancora vivente, portava nel cuore: «Tre cose desidero prima di morire: vedere il mio zio don Cafasso beatificato; vedere un sacerdote indigeno delle missioni e sapere che un missionario o missionaria è morto martire».

Assieme all’Allamano, che già in Paradiso avrà accolto con gioia di padre questa sua figlia martire, anche noi vogliamo ringraziare il Signore per il dono grande e prezioso, fatto alla nostra famiglia missionaria, di suor Leonella «che ha saputo ascoltare lo Spirito, cogliere il “dono pasquale” che le veniva offerto e viverlo con intensità e passione, personalmente e comunitariamente fino alla fine, per l’avvento del Regno di Dio, Regno di pace, giustizia e fraternità». La sua beatificazione diventa l’occasione per riscoprire la bellezza e la radicalità della nostra vocazione, che ci spinge a essere missionari con energia, zelo, gioia e coraggio, secondo l’insegnamento del Fondatore: senza sconti e con sconfinata generosità. Proprio come la nostra sorella Leonella, esempio luminoso per tutti noi, suoi fratelli e sorelle, figli e figlie di Giuseppe Allamano che speriamo di vedere presto nella gloria dei santi.

Giacomo Mazzotti

 



Scherzi della provvidenza

La vocazione missionaria dell’Allamano, come si sviluppò, sembra oggetto di qualche benevolo scherzo della Provvidenza. Per convincere i giovani che il suo ardore missionario non era qualcosa di improvvisato, ma era fortemente collegato con la sua vocazione di sacerdote, fece questa confidenza: «Ero chierico e già pensavo alle missioni». Non solo ci pensava, ma aveva già programmato come realizzare il suo sogno. Sarebbe andato al Collegio Missionario Brignole Sale di Genova che, dopo un’opportuna preparazione, lo avrebbe messo a disposizione di Propaganda Fide per essere inviato alle missioni. Sembrava che non ci fossero ostacoli. Anche la mamma, già ammalata, era dalla sua parte, rassicurandolo di non preoccuparsi di lei. Un ostacolo, però, e addirittura insormontabile, venne dal seminario stesso. I superiori, che lo conoscevano bene, lo convinsero che la sua fragile salute sarebbe stata un sicuro impedimento per una seria vita missionaria. Non sarebbe riuscito. Accettò, come era suo solito, il consiglio dei superiori, ma in cuor suo sentiva che il fuoco missionario era rimasto intatto. Si trattava solo di non lasciarlo spegnere. Il futuro, poi, non lo preoccupava, perché era nelle mani della Provvidenza.

La sua interpretazione

In concreto, l’Allamano intuì che il Signore non lo voleva missionario da solo, ma Padre di missionari, con tanti figli e figlie. Se accese quel fuoco nel suo cuore fin da giovane era perché lo coltivasse e, a suo tempo, lo trasmettesse a tanti altri giovani. Da lui stesso sappiamo come seppe interpretare e realizzare la propria vocazione missionaria. Più di una volta ritornò su questo argomento. Accennando alla fondazione dell’Istituto e al suo sogno giovanile non realizzato, disse semplicemente: «Il Signore nei suoi imperscrutabili disegni aspettò il giorno e l’ora. Io ho sempre raccomandato al grande missionario martire S. Fedele da Sigmaringa la mia vocazione, che era di partire, ma egli me l’ottenne in altro modo questa grazia. Vedete, non potendo essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via».

Riflettendo su questo cammino interiore dell’Allamano, si ha l’impressione che la Provvidenza abbia quasi scherzato con lui, prospettandogli un grande ideale, quello della missione, per poi inserirlo in un altro progetto più grande ancora, quello di diventare Fondatore di due istituti e Padre di missionari e missionarie. Così la sua vocazione si moltiplicò più di mille volte.

Lo scherzo continua

Ormai Rettore del Santuario della Consolata e del Convitto dei sacerdoti, l’Allamano maturò il progetto di un istituto missionario. In questo fu anche assecondato da alcuni di quei convittori che intendevano dedicare la loro vita sacerdotale alle missioni e si erano resi conto che l’Allamano stava progettando qualcosa di interessante. L’allora arcivescovo di Torino, il Card. Giacomo Alimonda, al quale l’Allamano prospettò il progetto, per diversi motivi, non si mostrò favorevole. L’Allamano, che preferiva seguire la volontà di Dio manifestatagli dall’obbedienza, accettò, senza scomporsi, di accantonare l’idea. La sospese, senza sapere per quanto tempo, ma non l’abbandonò. Purtroppo la sosta durò dieci anni. In seguito, quando il progetto stava prendendo forma concreta, assicurava al Card. Prefetto di Propaganda Fide di aver continuato a «coltivare nello spirito della loro vocazione quei sacerdoti che volevano dedicarsi alle missioni».

La Provvidenza volle che fosse nominato arcivescovo di Torino il Card. Agostino Richelmy, compagno di seminario e amico dell’Allamano. Spirito apostolico aperto, questo Pastore della Chiesa torinese comprese che il progetto dell’Allamano era valido e fattibile. Anzi, poteva diventare motivo di orgoglio per la diocesi. Fu subito d’accordo.

Ma ecco, il nuovo scherzo della Provvidenza. Quando tutto sembrava sul punto di partire, l’Allamano si ammalò improvvisamente di broncopolmonite doppia, tanto grave da portarlo sull’orlo della tomba. Aveva solo 49 anni.

Ricordando quella malattia, l’Allamano raccontava: «Il Cardinale veniva a trovarmi quasi tutte le sere, e siccome avevamo già parlato di questa istituzione, gli dissi: “Sicché all’Istituto ormai penserà un altro”, e lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi tale peso. Egli però mi rispose: “No, guarirai, e lo farai tu”. E sono guarito e fu decisa la fondazione». Era il 29 gennaio 1900.

Durante la convalescenza nella villa che un sacerdote gli aveva lasciato a Rivoli, in vista della fondazione scrisse una lunga lettera al Cardinale. La tenne sull’altare durante la Messa e poi la spedì. Di ritorno a Torino, si recò dall’arcivescovo che, al vederlo, «Eh – gli disse -, nella tua lettera hai messo più contro che in favore della fondazione. Tuttavia devi farla tu, perché Dio lo vuole». «Ebbene, Eminenza, nel tuo nome getterò le reti». S. Pietro aveva detto queste parole a Gesù, dopo una notte infruttuosa sul lago, e così fece una pesca miracolosa. L’Allamano ripeté le stesse parole, ben sapendo a quale precedente si ricollegava, e così iniziò l’Istituto dei missionari della Consolata.

Un curioso particolare

Il primo biografo dell’Allamano, così concluse la descrizione del fatto: «Il mattino seguente, mentre il giornale cattolico dava il laconico annunzio dell’imminente catastrofe, sì che alcuni sacerdoti celebrarono la Messa in suffragio dell’anima dell’amato rettore, questi invece era fuori pericolo. Non si può fare a meno di riconoscere una grazia speciale della Consolata». E continuava: «Raccontandoci il particolare delle Messe celebrate in suo suffragio, l’Allamano aggiungeva sorridendo di averli già ricompensati tutti quei sacerdoti, celebrando la Messa in suffragio delle loro anime, quando sono deceduti».

L’esatta realtà

È certo che l’Allamano non interpretò la sosta di dieci anni imposta dal poco interesse dell’arcivescovo al suo progetto missionario, né la malattia improvvisa come scherzi della Provvidenza. A noi, sì, oggi paiono quasi scherzi per provare la sua tenacia. Per lui, invece, che sapeva giudicare ogni evento sul piano della fede, erano espressioni di come Dio voleva che procedesse la fondazione del nuovo Istituto missionario. «Voglio che lo sappiate – chiarì un giorno durante una conferenza ai missionari -, è per colpa vostra che sono guarito e sono qui. Dovevo già essere in Paradiso. Avevo l’età del Cafasso, senza averne i meriti… ma il Signore non ha voluto. Ero proprio già spedito, ma il Signore mi ha conservato per voi».

Padre Francesco Pavese

 



Il nostro ideale di missionari della Consolata

Si era concluso da poco l’importante Capitolo Generale Speciale del 1969. Padre Mario Bianchi, Superiore Generale, avviò la visita a tutte le comunità d’Europa per studiarne la situazione e prospettare loro cammini di vita e di lavoro in consonanza con le linee conciliari e capitolari. La lettera da cui sono tratte le seguenti riflessioni porta la data del 9 novembre 1971.

I valori che formano il «religioso» e il «missionario» sono parte viva ed essenziale dell’Istituto e della nostra vocazione di «Missionari della Consolata». Tuttavia, ritengo opportuno invitare tutti a sviluppare in sé un più forte amore per la nostra Famiglia e un impegno reale e serio per formarsi al suo spirito.

Noi sappiamo quanto il Fondatore insistesse su questo: è una nota che traspare da tutto il suo insegnamento. Basti qualche richiamo: «L’Istituto non è un collegio od un seminario in cui possano avere il loro svolgimento varie vocazioni; ma solamente quella di missionario, e questi della Consolata». «Dall’amore alla propria vocazione scaturisce spontaneo ed ugualmente forte l’amore al proprio Istituto. Stimarlo e amarlo più d’ogni altro; sentirsi santamente orgogliosi di appartenervi, di essere non solo missionari, ma Missionari della Consolata». «La forma che dovete prendere nell’Istituto è quella che il Signore mi ispirò e mi ispira».

Secondo il Fondatore, vi è amore per l’Istituto quando c’è impegno a formarsi al suo spirito: «Dovete avere lo spirito dei Missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole e nelle opere», diceva.

Il Capitolo, con sobrietà ha delineato il carisma del Fondatore e quello dell’Istituto: carisma missionario ecclesiale, carisma religioso in funzione della Missione, nonché le caratteristiche della nostra spiritualità, sintetizzate nella caratteristica eucaristica e in quella mariana. Si tratta di «uno stile di vita spirituale, robusta e lineare, ardente, aperta, straordinaria nell’ordinario».

Vorrei, ora, richiamare a tutti i confratelli alcune espressioni del nostro stile di Missionari della Consolata, secondo le attuali situazioni ed esigenze.

– La caratteristica eucaristica del Fondatore dà importanza alla preghiera di adorazione, privata o comunitaria, dell’Eucarestia: è un tratto, una finezza che merita di essere continuata, forse riscoperta da molti di noi.

– La caratteristica mariana, oltre la speciale devozione alla Santissima Vergine Consolata, nelle raccomandazioni del Fondatore e, secondo la sana tradizione dell’Istituto, confermata dal Capitolo, comporta l’amore e la recita quotidiana del S. Rosario.

– Il senso di dignità, educazione e decoro era amato dal Fondatore nella liturgia, nella chiesa, nella persona e nel comportamento. Su questo punto, il suo insegnamento era preciso ed esigente.

– Infine, desidero ricordare un tratto della personalità del Fondatore che egli ha desiderato trasmettere ai suoi figli. Egli fu uomo di azione, e questo appare anche dal suo insegnamento incentrato sempre sulla realtà, l’esperienza, l’autorità e l’esempio dei Santi.

Appartenne al gruppo di santi e zelanti sacerdoti torinesi che, alla fine del secolo scorso, contestarono la poco felice situazione religiosa e politica del tempo, non con discorsi ma con iniziative e opere di valore, di visione per il futuro della Chiesa e della società (così Don Bosco, Cottolengo, Cafasso, Murialdo, Albert, Faà di Bruno; così il nostro Fondatore).

Volle che i suoi missionari fossero decisi e costanti nell’azione, ma non amò il chiasso, la loquacità (la pubblicità, diciamo oggi, il sensazionale). Non è questa una contestazione valida e necessaria per l’Istituto anche oggi?

Termino con una frase del Fondatore che desidero applicare ai nostri morti del 1971: «Se un giorno lo spirito dell’Istituto avesse a venir meno, spero di farmi sentire dal Paradiso» (VS, p. 79).

Prendiamo questa affermazione, incoraggiante e nello stesso tempo grave, del Padre Fondatore come un invito alla vigilanza e all’impegno; ma, poiché parla di Paradiso, ritengo bene applicarla ai nostri Confratelli che ci hanno lasciato. Con dolore li abbiamo visti partire per l’eternità; con l’affetto e la preghiera, restiamo in comunione con loro che Dio ha chiamato, quasi in fretta, a ricevere il premio della loro fedeltà; il loro esempio ci sia d’ispirazione e incoraggiamento per perseverare nella vocazione e nella dedizione per la Missione.

Se da parte di tutti vi sarà l’impegno a riscoprire e realizzare questi valori, in cui si esprimono gli ideali della nostra vocazione, l’Istituto conoscerà un periodo di autentico rinnovamento. La vita delle nostre comunità creerà quella comunione di amicizia, di preghiera e di collaborazione fra i membri, che renderà possibile ai giovani e ai meno giovani o anziani comprendersi e completarsi nelle idee e nel lavoro.

Allora, la nostra Famiglia avrà la condizione e lo spazio spirituali perché possa aversi l’entusiasmo di cui essa ha oggi bisogno: l’entusiasmo dei giovani e l’entusiasmo per i giovani.

Mario Bianchi, Imc
(Superiore Generale /9/11/1971)