Popolazioni perseguitate: Yazidi


Sommario

Introduzione. Guerre e colpi di spugna.

Yazidi, una minoranza in pericolo. Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio.

Racconto di un massacro. Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

Incontro con Nadia Murad. Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice.

Scheda 1. Genocidio.

Scheda 2. Le guide e le caste.

Scheda 3. La diaspora.

Infodossier

 

Abstract

Questo è il primo di due dossier che dedicheremo alle minoranze dimenticate ed oppresse. In esso Simone Zoppellaro parla degli YAZIDI dell’Iraq. Il prossimo, a firma di Piergiorgio Pescali, sarà centrato sui ROHINGYA, la minoranza musulmana perseguitata nel Myanmar buddhista di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. (pa.mo.)

Introduzione

Guerre e colpi di spugna

Secondo il dizionario Treccani, genocidio è un termine coniato, in forma inglese (genocide), dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 e pubblicamente usato nel processo di Norimberga (1946). «Grave crimine – continua il Treccani -, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.».

Alla luce di questa definizione, è facile rendersi conto che la storia annovera molti genocidi (anche se alcuni non sono unanimemente riconosciuti come tali): lo sterminio dei popoli amerindi durante la conquista delle Americhe, il genocidio armeno ad opera della Turchia ottomana (1915-16), lo sterminio degli ebrei e dei rom durante l’epoca nazista, quello perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia (1977-79), quello dei musulmani di Bosnia nella guerra della ex Jugoslavia (1995), quello dei Tutsi in Rwanda nel 1994.

Senza dimenticare, ai giorni nostri, i molti popoli indigeni – alcuni formati da poche decine di individui – che sono a rischio d’estinzione a causa dei «bianchi».

In Siria (nella parte settentrionale, denominata Rojava) e Iraq i Curdi sono in prima fila nella guerra contro il Daesh (Isis). Ma sono osteggiati – per questioni politiche – da tutti gli stati della regione, a iniziare dalla Turchia del dittatore Erdogan. Gli Yazidi sono una piccola popolazione kurdofona – le stime più alte parlano di 700 mila persone – a sua volta perseguitata e oggi vittima dei miliziani del Daesh. Nella regione natale, nel Nord Ovest dell’Iraq, attorno alla città di Sinjar, migliaia dei loro uomini sono stati uccisi, mentre un numero imprecisato delle loro donne sono state fatte schiave sessuali dagli uomini del Califfo nero. Nel 2016 due di esse, Nadia Murad Basee Taha e Lamiya Aji Bashar, fuggite in Germania, sono state insignite del «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», assegnato dal Parlamento europeo (dal 1988). Lamiya (nella foto) porta sul viso e sul corpo i segni delle sofferenze patite. Sappiamo che il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù è un affare mondiale. Il Daesh è un passo avanti: utilizza il Corano per giustificare questo trattamento. In Dabiq, la sua rivista (dalla grafica ricercata), sono stati pubblicati articoli per spiegare la correttezza del comportamento dei propri miliziani stupratori. Per credere leggere Dabiq n. 4 e n. 9.

Terrorismo, guerre non dichiarate, conflitti cosiddetti a bassa intensità: le definizioni non mancano. Probabilmente la sintesi più efficace è da attribuire a papa Francesco che, nell’agosto del 2014, disse: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli».

Ci sono popolazioni che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna. Ma che, in un modo o nell’altro, riescono a resistere e a sopravvivere. Anche, una volta tanto, grazie all’informazione. Quella poca che rimane nell’epoca del post-giornalismo e della post-verità.

Paolo Moiola


Yazidi, una minoranza in pericolo

Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio

La storia di ieri e di oggi è piena di minoranze perseguitate. Con una religione e una cultura poco conosciute gli?Yazidi sono spesso fraintesi e diventano un facile bersaglio. Il rischio è che la loro diaspora porti all’assimilazione e quindi alla loro scomparsa. Rendendo il mondo più povero.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’islam non ha mai cercato di estirpare con la spada le altre religioni. Pur marginalizzando, penalizzando e, in alcuni periodi, anche perseguitando i membri di altre fedi, la dominazione musulmana ha permesso di mantenere in vita per oltre un millennio, nei vasti territori conquistati, una sorprendente pluralità religiosa, impensabile nell’Europa pre-illuminista.

Cristiani, ebrei e zoroastriani – fra gli altri – hanno potuto così godere per secoli, sotto la mezzaluna, di una libertà che solo il colonialismo, l’emergere del nazionalismo e il conflitto arabo-israeliano hanno purtroppo spezzato. Questo discorso vale anche per gli Yazidi, piccola minoranza religiosa nella sua quasi totalità di lingua curda che, abbarbicata alle sue montagne nell’odierno Iraq Nord occidentale, ha potuto tramandare di generazione in generazione – pur fra mille difficoltà e privazioni – la sua cultura e la sua fede. Un contesto per nulla affatto casuale, quello montuoso, se si pensa ad esempio alla sopravvivenza millenaria di insediamenti a maggioranza cristiana come Ma‘lula in Siria, dove ancora oggi si parla una variante dell’aramaico, una moderna derivazione della lingua parlata da Gesù. O ancora al Caucaso, che gli arabi chiamavano jabal al-alsun, la «Montagna delle lingue», per la sua sorprendente varietà linguistica e culturale, ma anche religiosa. E proprio l’isolamento e la protezione fornita da questo contesto geografico arduo e impervio hanno permesso agli Yazidi di mantenere una fede che, seppur influenzata dall’islam per molti aspetti e ad esso in parte riconducibile fin dalle sue origini, si è sviluppata in seguito in modo irrimediabilmente «altro». Una religione – spesso definita in modo dispregiativo come setta – che, se fosse nata nell’Europa medievale anziché nel mondo musulmano, sarebbe stata indubbiamente bollata come «eresia».

Se non che, questa tradizione di tolleranza, sancita anche dal Corano nell’invito alla protezione e al rispetto per ebrei e cristiani, è entrata in crisi al tempo del colonialismo, per essere poi spazzata via, nel modo più violento, nei luoghi caratterizzati di recente in vario modo dall’insorgere del fondamentalismo islamico. Certo, non in tutti i paesi musulmani ciò è vero, come d’altronde non in tutti i governi islamici le cose funzionano allo stesso modo: la Repubblica islamica nata in Iran nel 1979 grazie alla guida carismatica dell’ayatollah Khomeini, per non fare che un esempio, ha mantenuto intatta – con la sola dolorosa eccezione dei bahai – la pluralità religiosa che ha caratterizzato da sempre questo grande paese. Altrove, invece, e soprattutto nei territori segnati dall’influenza del wahabismo propagandato a suon di petroldollari dalle monarchie del Golfo, la storia ha preso purtroppo un’altra piega. E le conseguenze sono ben note, almeno per chi presti attenzione in modo non estemporaneo a quanto succeda lontano da noi.

E così, a un secolo dal Medz Yeghern, il genocidio armeno del 1915, e a oltre settant’anni dalla Shoah, la pagina ignominiosa dei genocidi sembra non trovare fine. Gli Yazidi lottano oggi per la loro sopravvivenza, sterminati, cacciati dai loro villaggi e ridotti in schiavitù nei territori conquistati in Iraq dal Daesh. Ieri come oggi, l’indifferenza del mondo è grande, e sul destino di questo piccolo popolo – composto (forse) da 700 mila persone – si consumano i grandi giochi della geopolitica e dell’economia. Una lotta, quella degli Yazidi, che si svolge in una solitudine disperata e che ha luogo senza che nulla si voglia fare sia da parte di chi muove le leve del potere, che a livello locale e della società civile. Persino i Curdi, con i quali condividono una lingua comune (nella variante settentrionale detta «Kurmanji») e molti aspetti della loro cultura, il più delle volte di fronte alle loro sofferenze si sono limitati a guardare da un’altra parte, quando non a cercare il proprio vantaggio. Una denuncia, questa, sentita più volte ripetere dai rappresentanti yazidi, a partire dalla più famosa di tutte: la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad.

Privi di una chiesa o uno stato che li protegga, anche la diaspora – a differenza di quanto avvenuto in passato in altri casi – è troppo frammentata e recente per essere in grado di incidere, o anche solo di fornire qualche conforto ai profughi che oggi si trovano, privi di una cornordinazione, dispersi per il mondo. E così, anche per la maggioranza di coloro che riescono (spesso in circostanze rocambolesche) a fuggire dalla schiavitù e dalla guerra, il destino che li attende sono i campi profughi della Turchia o di altri paesi, dove mancano spesso i beni più basilari. Nessuno stato al mondo (con la sola eccezione della Germania, che ha ospitato e fornito assistenza medica e psicologica a diverse migliaia di Yazidi e, più di recente, del Canada) ha infatti voluto finora assumersi l’onere di accogliere i sopravvissuti, facendosi carico dei loro traumi e delle storie di violenza e orrore che essi, inevitabilmente, portano con sé. Inutile ricordare come, per questi sopravvissuti a un genocidio – che poi in molti casi sono donne, vittime di abusi sessuali e ridotte in schiavitù dagli uomini dell’Isis – non bastino solo un pezzo di pane e un tetto per alleviarne il dolore e ridare loro dignità.

Questa assenza di sostegno da parte della comunità internazionale costituisce un paradosso. Infatti, sebbene sia unanime la condanna del terrorismo islamista e tutte le forze politiche di ogni paese siano oggi parimenti concordi nel riconoscimento della violenza perpetrata dai miliziani dell’Isis contro le minoranze religiose, la campagna portata avanti dagli attivisti per il riconoscimento del genocidio yazida non ha finora raccolto i risultati sperati. Eppure, un raffronto con il passato, con l’Olocausto degli armeni e degli ebrei, innanzitutto, dovrebbe gettare luce sul destino di questa gente. Si è di fronte ancora una volta al sistematico tentativo di annientamento non solo fisico, ma anche culturale e spirituale di un intero popolo, portato avanti da un manipolo di fanatici, ma con la complicità e la collaborazione di una parte delle popolazioni sottoposte al dominio del Califfo al-Baghdadi. La persecuzione e lo sterminio avvenuti dall’agosto 2014 a oggi non sono – come raccontano i rappresentanti stessi della comunità yazida – che l’ultimo e più sanguinoso epilogo di una persecuzione in atto sin dall’Ottocento, che periodicamente riaffiora. «Gli eventi del 2014 rappresentano per loro – ha scritto Vicken Cheterian su Le Monde Diplomatique (gennaio 2017) – il settantatreesimo massacro».

Il monoteismo degli Yazidi

I fondamentalisti di oggi trovano nella fede e cultura yazida la ragione principale per perseguitare e cercare di eliminare quella popolazione. Una diffidenza e un pregiudizio ormai radicati per una fede sentita come estranea, chiusa, sincretistica, e perciò difficilmente classificabile. Eppure, a ben guardare, lo Yazidismo è anch’esso, al pari delle tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam), una religione monoteistica, seppure con alcuni tratti originali.

I suoi seguaci fanno risalire le loro origini indietro di migliaia di anni, e lo sviluppo di riti e credenze fu senza dubbio il frutto di un lungo processo di commistioni religiose e di acculturazione. Ma fu solo in epoca islamica, ci dicono gli specialisti, che gli Yazidi acquisirono un’identità precisa e distinta sia in termini etnici che religiosi. In particolare, vi è un personaggio che ricorre come fondamentale nell’etnogenesi di questa minoranza. Ci riferiamo alla carismatica figura del mistico sufi Shaikh Adi ibn Mussafir (morto nel 1162) che predicò nella regione divenendo, dopo la sua dipartita, oggetto di grande venerazione. «È il loro profeta, il loro grande santo, adorato quasi come Dio», scriveva lo storico delle religioni Giuseppe Furlani, «la cui tomba, nel tempio che hanno a Nord Est di Mossul, essi riguardano come loro santuario nazionale».

Di questo loro pellegrinaggio al santuario di Lalish ci ha lasciato un racconto suggestivo, in un articolo pubblicato sul portale Treccani, Gianfilippo Terribili, docente all’Università La Sapienza di Roma. Terribili ha preso parte di persona nel 2015, ovvero a un anno esatto dalla data di inizio del genocidio yazida, alle festività stagionali estive che raccolgono ogni anno pellegrini provenienti dalla regione, ma anche ogni angolo del mondo. Il pellegrinaggio, infatti – come ricorda Terribili – «è tra i principali doveri del fedele yazida ed è un evento che struttura i legami sociali interni ad una comunità spesso emarginata e chiusa alle influenze esterne». Un evento ricco di tradizioni, rituali e suggestioni che rimandano, spesso, a pratiche analoghe tipiche dell’islam e del cristianesimo, altre volte a pratiche ancora più remote. «L’intera valle», prosegue lo studioso, «è un microcosmo sacro che include i santuari costruiti intorno alle tombe dei principali sette personaggi santi venerati dalla tradizione, con luoghi o edifici connessi che costituiscono il circuito attraverso il quale è scandito il pellegrinaggio e i suoi atti rituali».

L’accusa: «Adoratori del diavolo»

La paura e la diffidenza – ma in parte anche il grande fascino – che circondano gli Yazidi ruotano attorno alla leggenda, diffusa in terra di islam come anche fra viaggiatori e fonti orientalistiche occidentali, che li identifica come «adoratori del diavolo». Un pregiudizio del tutto infondato, come ricorda Furlani: «Tanto sono lontani anzi da tale adorazione che non hanno affatto nella loro religione il diavolo: essi negano addirittura l’esistenza del male». Un epiteto, e insieme uno stigma, che traggono origine da una delle caratteristiche fondamentali del monoteismo yazida, che affianca, a un unico Dio creatore, sette entità angeliche, chiamate i Sette Misteri (haft surr), che nel corso della storia si sono periodicamente reincarnate in forma umana. Dio ha affidato loro il governo del mondo, sotto la guida dell’Angelo Pavone (Malak Tawus), emanazione divina posta come intermediario fra il cielo e gli uomini. Suggestivo a questo proposito l’incipit di uno dei due testi sacri degli Yazidi, il Libro nero, redatto in lingua curda, che riportiamo nella traduzione di Giuseppe Furlani:

«In principio Dio creò la perla bianca dal suo prezioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Egli pose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopra di essa quarantamila anni. Il primo giorno in cui Dio creò fu una domenica. Egli creò in essa un angelo dal nome ‘Azra’il: esso è il Pavone Angelo, il capo di tutti».

Il racconto prosegue con la descrizione di come Dio creò i sette angeli che a loro volta partecipano alla creazione dell’uomo (ascritta all’ultimo di loro, Nura’il) e di tutte le altre creature. Dopo l’opera della creazione, il mondo, come detto, fu affidato da Dio proprio alle sette entità angeliche, che agiscono come protezione e guida.

L’Angelo Pavone – questa l’origine del «mito satanista» sugli Yazidi – corrisponde poi per alcuni aspetti a Iblis, il Satana della religione musulmana, con tratti che sembrano filtrati in particolare dalla rielaborazione della tradizione mistica sufi, di cui resta abbondante traccia anche nella letteratura persiana medievale. Un Satana, quindi, che dopo la sua ribellione si è pentito ed è stato accolto di nuovo da Dio. Ma gli Yazidi negano con forza questa identificazione fra le due figure, al punto – come scrive l’orientalista Christine Allison – di arrivare a proibire la pronuncia stessa della parola Satana (Shaitan), e persino di alcune parole che la richiamano da un punto di vista fonetico.

Il divieto dei matrimoni misti

A contribuire al pregiudizio e alla paura nei confronti degli Yazidi furono anche la naturale chiusura di questo gruppo religioso, che non accetta conversioni da altre fedi e vede in modo negativo – ma è così per molte minoranze in Medio Oriente, soprattutto se esigue da un punto di vista numerico – i matrimoni misti. Pratiche e tabù particolarmente severi riguardano molti aspetti della vita dei fedeli, dal cibo, fino alla proibizione di pronunciare un certo numero di parole. Un’altra peculiarità yazida è il fatto di credere di essere discendenti del seme di Adamo ma – a differenza del resto dell’umanità – non di Eva. Questo a ulteriore testimonianza di come gli Yazidi si autorappresentino come un popolo «altro» rispetto al resto del mondo. A contribuire al mistero che circonda questa religione sono anche i suoi testi esoterici, tramandati oralmente di generazione in generazione, e perciò assai poco noti ieri come oggi al di fuori dei circoli dei correligionari. Come già nell’islam, l’«ortoprassi» ha un ruolo preponderante rispetto all’«ortodossia», il che vuol dire che rituali e pratiche hanno più importanza nella vita del fedele rispetto alle disquisizioni teologiche, viste come secondarie e accessorie. Fondamentale nello yazidismo anche la suddivisione sociale in tre caste (si veda il riquadro alla pagina 46, ndr), nettamente divise, aspetto che si interseca a un’altra importante caratteristica della loro fede: la credenza nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione. Le due caste superiori rappresenterebbero infatti niente di meno che la discendenza delle più recenti reincarnazioni delle entità angeliche, i Sette Misteri che, come detto, tornano periodicamente a rivestire forma umana. Come nelle religioni abramitiche, anche nello yazidismo esistono paradiso e inferno, ma altri aspetti della loro cosmogonia rimandano invece alle antiche religioni iraniche, come ad esempio allo zoroastrismo.

Il pericolo

Un patrimonio religioso e culturale, quello da noi qui tratteggiato con un breve schizzo, che rischia di venire annullato da qui a pochi anni, se non avverrà presto un’inversione di tendenza: una presa di coscienza del mondo nei confronti di questa tragedia. Dispersi per il pianeta, gli ultimi figli di questo antico popolo sopravvissuti alle persecuzioni di ieri e di oggi, rischiano l’assimilazione e la scomparsa definitiva dei loro usi, costumi e credenze. Questo il significato più profondo e drammatico della parola genocidio: il tentativo posto in atto sistematicamente di eliminare non solo un intero popolo, ma anche la sua cultura materiale e immateriale, insieme al suo lascito spirituale. L’orrore del sangue, e insieme la maledizione di aver reso il nostro mondo più povero, senza possibilità di appello, destinando a definitiva scomparsa persino la memoria di una minoranza, e non solo la sua esistenza fisica.

Simone Zoppellaro


Racconto di un massacro

Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

I miliziani dello Stato islamico considerano gli Yazidi degli «infedeli». Nell’agosto del 2014 arrivati nella loro regione hanno compiuto una strage. E costretto alla schiavitù sessuale migliaia di donne e bambine.

Chi scrive ha incontrato sopravvissuti Yazidi ed è rimasto impressionato dai loro racconti, soprattutto se paragonati ai resoconti di ebrei e armeni. Un’analogia che lascia senza fiato. È come se il tempo, vinto da una maledizione, fosse condannato a ripetersi in tutto e per tutto, con schemi fissi e immutabili, e producendosi solo in minime varianti. Stessa la furia cieca dei carnefici, così come egualmente scientifica, gelida e ben ponderata è l’organizzazione che sta alla base di tutto. Stesso il dolore delle vittime, un dolore tanto forte a tratti da spogliare chi vi viene investito di ogni dignità umana e amore di sé e del prossimo. Stesso l’opportunismo, e in molti casi la complicità, delle popolazioni sottoposte al terrore, pronte a girarsi dall’altra parte, ma anche a cercare di massimizzare il profitto che deriva dalle altrui disgrazie e dalla morte. Stessa anche l’indifferenza del mondo, che finge di non vedere e di non sapere, un po’ per noia o apatia, o per pigrizia mentale, ma anche perché il dolore – quando è così grande e lontano – ci lascia impotenti e confusi. Stessa infine anche l’azione solitaria di alcuni giusti: pochi uomini, forse pochissimi che – andando in controtendenza rispetto a tutti e anche alla storia – rischiano la loro vita, i loro beni e il proprio status, per dimostrarci che neppure il male più feroce è capace di cancellare le ultime tracce di bene e di umanità che affiorano anche qui, dove la Terra sembra aver già toccato l’inferno.

Durante la dominazione ottomana

Come si è arrivati alla riduzione in schiavitù di donne e bambini, alla persecuzione sistematica e ai massacri del 2014 che gli Yazidi rivendicano ostinatamente come un genocidio? Si tratta di una storia che parte da lontano. Anzi, a sentire quanto raccontano i stessi membri di questa comunità, gli Yazidi avrebbero già subito addirittura 72 genocidi nel corso della loro storia. Si tratta forse di un’iperbole, diranno in molti, eppure è un’affermazione significativa almeno per capire due cose. In primis, che la questione yazida non è nata con i miliziani dell’Isis, ma ha radici assai più profonde e, per questa ragione, molto più difficili da estirpare. In secondo luogo che, esattamente come per gli armeni e gli ebrei, la memoria delle persecuzioni subite è ormai divenuta parte fondamentale della identità propria degli Yazidi, del loro modo di autorappresentarsi come gruppo. E in effetti si può ben dire che, fin dall’inizio, l’identità yazida sia stata forgiata anche dal sangue e dalla violenza subita nel corso di un millennio.

Già fra XII e XV secolo, infatti, questa popolazione si trovò a subire continui attacchi da parte di chi non tollerava la sua fede e la sua identità. Le cose andarono peggiorando ulteriormente in epoca ottomana. Nel 1892 – negli stessi anni in cui avvenivano i primi massacri degli armeni che sfociarono a inizio novecento in un vero e proprio progetto di genocidio – ebbe luogo una spedizione guidata dal governatore di Mossul che portò a numerose uccisioni e a conversioni forzate. All’inizio del nuovo secolo, poi, nel 1904, il sacro tempio di Lalish venne trasformato in moschea.

Da Saddam al Daesh

In epoca più recente, durante il regime di Saddam Hussein gli Yazidi si trovano di nuovo a essere, al pari dei curdi, bersaglio di persecuzioni e attacchi. Migliaia di loro in quegli anni lasciarono l’Iraq per cercare scampo e fortuna in Europa. Dopo la caduta di Saddam, nel vuoto di potere creatosi in seguito all’invasione americana e all’incauto smantellamento delle forze di sicurezza ereditate dal precedente regime, gli Yazidi si trovarono in una situazione, se possibile, ancora più difficile. Il 14 agosto del 2007, quattro attacchi suicidi cornordinati fra loro colpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, nei pressi di Mossul. Sconvolgente il bilancio delle vittime, come riportato dalla Mezzaluna Rossa irachena: almeno 500 morti e 1.500 feriti. Una macabra anticipazione di quanto sarebbe avvenuto, con numeri ancora maggiori, pochi anni dopo, quando, siamo nel 2014, un nuovo e temibile attore arriva a sconvolgere – a suon di vittorie repentine, massacri e propaganda – l’Iraq, la Siria e l’intero Medio Oriente. Ci riferiamo allo Stato islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il contesto da cui ha origine il genocidio degli Yazidi è delineato con precisione da Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano   Independent e testimone diretto fra i più autorevoli di questa guerra:

«Nel corso dell’estate, lo Stato islamico aveva sconfitto con campagne fulminee prima l’esercito iracheno, poi quello siriano, i ribelli siriani e i peshmerga curdo-iracheni, creando un dominio che si estende da Baghdad ad Aleppo, e dal confine siriano con la Turchia al deserto dell’Iraq occidentale. Gruppi etnici e religiosi di cui il mondo non aveva mai sentito parlare prima o di cui si sapeva pochissimo, come gli Yazidi di Sinjar o i cristiani caldei di Mossul, sono caduti vittime della crudeltà e del fanatismo settario dell’Isis».

Ma, anche stando a quanto afferma un’investigazione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel giugno 2016, si tratterebbe di più di semplici atti di crudeltà e fanatismo. Nel rapporto pubblicato con il titolo di «Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi» (They Came to Destroy: Isis Crimes against the Yazidis), l’indagine condotta dall’Onu utilizza ben 97 volte in 40 pagine la parola genocidio. Un riconoscimento inequivocabile e significativo, dato anche che, per la prima volta, un riconoscimento viene fatto prima da un attore non-statale che da parte di un singolo paese. Ed ecco una breve descrizione di quanto avvenuto, per come la leggiamo nel rapporto dell’Onu:

«Nelle prime ore del 3 agosto 2014, i combattenti del gruppo terroristico chiamato Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham (Isis), si riversano fuori dalle loro basi in Siria e in Iraq, e si dirigono rapidamente verso il Sinjar. La regione del Sinjar nel nord dell’Iraq è, nel suo punto più prossimo, a meno di 15 chilometri dal confine con la Siria. È la sede della maggioranza degli Yazidi nel mondo, una comunità religiosa distinta le cui credenze e pratiche risalgono a migliaia di anni, e i cui aderenti l’Isis taccia pubblicamente di essere infedeli. Pochi giorni dopo l’attacco, emergono i primi resoconti delle atrocità inimmaginabili commesse dall’Isis contro la comunità yazida: uomini uccisi o costretti a convertirsi; donne e ragazze, alcune giovani fino a nove anni, vendute al mercato e tenute in uno stato di schiavitù sessuale dai combattenti dell’Isis; ragazzi strappati dalle loro famiglie e costretti ad andare in campi di addestramento dell’Isis. È stato da subito evidente che gli orrori commessi sugli Yazidi catturati si verificavano sistematicamente anche in tutti territori controllati dall’Isis in Siria e Iraq».

Un altro testo, utile ad abbozzare il quadro dei crimini commessi, e soprattutto del piano genocidario messo in atto dai fondamentalisti, lo riprendiamo invece da un rapporto pubblicato dall’Ong Yazda e dalla Fondazione Free Yazidi, redatto in collaborazione con le autorità del governo regionale del Kurdistan iracheno:

«Rimuovendo l’intera popolazione yazida dalla loro patria, infliggendo il danno psicologico e fisico della violenza sessuale contro le donne e le ragazze, l’Isis si è assicurato che questi non sarebbero più stati in grado di tornare alle loro comunità. Forzando i giovani maschi a cambiare la loro religione e a diventare combattenti nelle loro stesse fila, l’Isis ha cercato di annientare l’identità religiosa, le tradizioni e l’esistenza stessa degli Yazidi. Durante l’attacco alla piana di Ninive, l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi».

Il 3 agosto 2014 i miliziani dell’Isis non incontrarono quasi nessuna resistenza. I peshmerga curdi, come riportano fonti yazide e lo stesso documento delle Nazioni Unite, decisero di ritirarsi lasciando la popolazione, non preventivamente avvertita, in balia della violenza. Nel giro di poche ore, vinta con facilità la resistenza improvvisata da alcuni uomini nei villaggi, gli uomini dello Stato islamico assunsero il pieno controllo della regione. Nella confusione di quelle ore, che videro migliaia di civili darsi alla fuga senza neppure il tempo di raccogliere il minimo indispensabile dalle loro case, un episodio particolarmente drammatico investì coloro che cercarono di trovare scampo sul monte Sinjar.

Leggiamo ancora dal rapporto delle Nazioni Unite:

«Coloro che sono fuggiti in tempo per raggiungere l’altopiano superiore del monte Sinjar vengono assediati dall’Isis. Una crisi umanitaria ha luogo non appena l’Isis intrappola decine di migliaia di uomini, donne e bambini Yazidi, in un luogo dove le temperature superano i 50 gradi e impedendo loro l’accesso all’acqua, al cibo o all’assistenza medica. Il 7 agosto 2014, su richiesta del governo iracheno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia un’azione militare americana per aiutare gli Yazidi intrappolati sul monte Sinjar. Forze americane, irachene, inglesi, francesi, australiane vengono coinvolte in lanci di acqua e altre forniture agli Yazidi assediati. Il tutto mentre i combattenti dell’Isis sparano contro gli aerei impegnati nel lancio di aiuti, e contro gli elicotteri che tentano di evacuare gli Yazidi più vulnerabili. Centinaia di Yazidi – inclusi neonati e bambini – trovano la morte sul monte Sinjar prima che le forze curde siriane, il Ypg (nome dell’esercito kurdo della regione siriana di Rajava, ndr), siano in grado di aprire un corridoio dalla Siria al Monte Sinjar, consentendo agli assediati sul monte di essere spostati in sicurezza».

Uccisi, schiavizzati, dimenticati

Lontano dal monte Sinjar, il progetto di sterminio viene portato avanti con uno stesso schema, villaggio per villaggio, con rapidità sistematica. Una ripetizione di atti e violenze che non lascia nulla al caso e che rende evidente come quello commesso (e in parte ancora in atto) contro gli Yazidi sia un genocidio e non una serie di massacri verificatisi in modo spontaneo. In ogni luogo della regione, vengono divisi uomini, donne e bambini. I primi – che includono anche gli adolescenti dai dodici anni in su – vengono uccisi seduta stante o costretti a convertirsi all’islam, mentre le seconde, insieme ai loro bambini, vengono vendute come schiave. Non lascia adito ad ambiguità la conclusione del rapporto dell’Onu già citato: «L’Isis ha commesso e continua a macchiarsi del crimine di genocidio, ma anche di diversi crimini contro l’umanità e crimini di guerra, contro gli Yazidi».

Un riconoscimento importante, che però non è finora riuscito a scongiurare o a alleviare il dramma in corso. Private di un passato e di un futuro, molte migliaia di Yazidi sono tuttora ridotte in stato di schiavitù nei territori dello Stato islamico, o accampate nei campi profughi di Siria, Turchia e Grecia. Qui, troppo spesso, i rifugiati si trovano privi dei servizi essenziali, senza che venga fornita loro l’assistenza medica e psicologica che potrebbe contribuire a ridare loro un minimo di dignità e coraggio.

Simone Zoppellaro


Incontro con Nadia Murad

Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice

Rapita, venduta, violentata dagli stupratori dell’Isis, Nadia Murad, oggi 23enne, è la donna simbolo della lotta degli Yazidi. Divenuta mondialmente conosciuta, riempita di riconoscimenti, lei chiede che questa attenzione si trasformi in aiuti concreti per il suo popolo ferito e disperso.

Stoccarda. È una ragazza semplice, la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, appena 23 anni, ma già donna simbolo della lotta degli Yazidi per la sopravvivenza. Nel condominio dove la incontro ad agosto, subito fuori Stoccarda, insiste per accompagnarmi giù dalle scale fino in strada per salutarmi, come si usa fare in Medio Oriente. Veste in modo semplice, di nero, come semplici sono le passioni di cui parla, dal calcio all’Italia, che ha visitato da poco. Ed umile è anche il palazzo popolare in cui ci incontriamo, un alloggio per rifugiati dove risuonano di continuo le grida festanti dei bimbi yazidi arrivati da poco dall’Iraq. Proprio non sembra di avere di fronte una delle 100 persone più influenti al mondo, secondo la classifica della rivista Time (aprile 2016). Eppure, fra i tanti incontri fatti in questi anni, quello con Nadia Murad è stato di gran lunga quello che più mi ha colpito. Dettagli: il tono della voce, calmo e ieratico, con cui mi racconta in lingua kurda l’epopea di orrore che ha investito la sua famiglia e la sua gente. E poi quegli occhi profondi di chi ha guardato in faccia il male e la morte, di chi all’inferno è già stata salvo riuscire a riemergervi e a tornare fra noi. Miracolosamente.

Quell’estate del 2014

Sulla sua pelle si scorgono piccole cicatrici, bruciature di sigaretta inflitte al tempo della schiavitù cui l’avevano ridotta gli uomini dell’Isis. Anche la postura chiusa del suo corpo racconta in modo inequivocabile delle violenze subite. Eppure, mentre si lascia fotografare, sorride serena, quasi pacificata. Ho davanti a me una ragazza con una calma e una forza fuori dal comune, dolce e insieme inflessibile, con qualcosa di oscuro, ma anche di caldo e materno. «Non ho mai pensato di uccidermi, ma ho sperato che fossero altri a farlo», racconta, rievocando l’orrore della sua lunga prigionia. Sì, perché Nadia Murad in quei giorni dell’agosto 2014 ha visto morire davanti a lei sei suoi fratelli, diciotto familiari, e larga parte degli abitanti del suo villaggio, Kocho, stretto d’assedio dai miliziani dell’Isis.

Nei due anni e mezzo trascorsi da quell’estate del 2014, l’attivista yazida è stata coperta di onori per il suo coraggio e la sua determinazione. Candidata al Nobel per la pace, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e ancora vincitrice del Premio Václav Havel per i diritti umani, conferitole dal Consiglio d’Europa, e del Premio Sakharov per i diritti umani, assegnatole dall’Europarlamento, insieme a Lamiya Aji Bashar.

Donne e bambine in balia dei miliziani

Grandi onori e attenzioni da parte dei media di tutto il mondo. Eppure, con una lucidità e una fermezza sorprendente, mi racconta tutta la sua solitudine, l’impotenza e la disperazione di fronte al dramma della sua gente.

«Non ho alcuna speranza», confessa Nadia, a due anni esatti dal genocidio. «La mia comunità è in via di estinzione. Il 90% dei nostri sopravvissuti vivono dispersi in campi profughi. Abbiamo ancora migliaia di bambini tenuti come schiavi dall’Isis, e quanto ai pochi che sono riusciti a fuggire, nessuno se ne occupa. Oggi siamo dispersi in giro per il mondo, e i nostri villaggi – anche quelli liberati – sono distrutti e non possiamo farci ritorno. La nostra sola, piccola speranza è la comunità internazionale. Senza il loro aiuto, per noi non c’è futuro».

Secondo le cifre fornite da Yazda, l’ong yazida, sono 5.000 gli Yazidi che hanno perso la vita per mano dell’Isis, mentre altri 7.000 sono stati rapiti. Un computo ancora incerto, purtroppo, come grandi sono le incertezze circa il possibile ritorno in patria dei sopravvissuti, anche una volta che il Daesh sia stato debellato. Nadia Murad era una ragazza di 19 anni, una studentessa, il giorno in cui la storia ha fatto irruzione nella sua vita, stravolgendola per sempre.

«Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio – racconta Nadia -, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri villaggi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo. Poi ci prendevano per portarci in stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portarsi via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla Corte islamica di Mossul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli».

All’origine del suo salvataggio, avvenuto dopo un primo tentativo di fuga fallito – cui era seguita una punizione crudele – è l’opera di una famiglia di giusti che le offre aiuto e protezione, a rischio della loro stessa vita. Questi forniscono infatti alla Nadia documenti falsi, in cui risulterebbe essere una loro parente, moglie di loro figlio. Con un velo e una veste integrale islamica riesce così a fuggire e a rifugiarsi in Kurdistan, al sicuro.

Finiscono così i tre mesi di prigionia e tortura a cui, a differenza di tante altre donne yazide, è riuscita a sottrarsi. Da lì, poi, muoverà in Germania, a Stoccarda, dove riceverà aiuto e assistenza e dove avrà inizio il suo impegno politico per il riconoscimento del genocidio yazida. Certo, aveva altri sogni nella vita, Nadia, prima di quell’agosto: diventare un’insegnante di storia o una truccatrice, racconta.

Tanti premi, nessun impegno concreto

Ne siamo certi, non esiste premio al mondo, per quanto prestigioso, che possa consolarla della perdita della sua vita di un tempo, scomparsa nel giro di pochissimi giorni.

Quella vita semplice di cui racconta, pur segnata da povertà e stenti, resta impressa nella sua memoria come simbolo di una felicità perduta, quasi un idillio. Oggi l’indifferenza del mondo sembra non darle pace. Un muro di gomma, quello che si trova ad affrontare ogni giorno, fatto di grandi eventi e onori, di premi, immagini e marketing, ma di nessun impegno e sostanza politica. La verità – e Nadia lo sa benissimo – è che nessuno li vuole, i sopravvissuti yazidi. Nessuno vuole prendersi l’onere e l’onore di aiutare questa gente. In un’Europa che – pur di tenersi lontani i profughi – è persino disposta a finanziare lautamente regimi liberticidi, dalla Turchia alla Libia. Degli Yazidi non importa nulla a nessuno. O quasi a nessuno.

E non sarà un caso allora, come mi ha raccontato la stessa attivista yazida, che una felice eccezione sia costituita dal Land tedesco del Baden-Württemberg, guidato dal governatore verde Winfried Kretschmann.

Cattolico praticante, proveniente lui stesso da una famiglia di profughi rifugiatisi nel Sud della Germania al tempo della seconda guerra mondiale, Kretschmann ha voluto impegnarsi di persona non solo per accogliere, ma anche per fornire assistenza medica e psicologica alle vittime yazide. Certo si tratta solo di un timido barlume in un mare di tenebra. Eppure, per questo piccolo popolo, anche i 2.500 bambini e donne traumatizzati accolti e curati in questo Land rappresentano una grande conquista, e una speranza per il domani. O, forse, molto di più: il sogno di un domani ancora possibile che si concretizza per gli adoratori dell’Angelo Pavone e per i loro figli, là dove solo morte e orrore sembravano possibili. E qui, in questo piccolo segnale di un’umanità ritrovata, scopro forse il segreto di Nadia Murad, della sua ineluttabile forza.

Simone Zoppellaro


Scheda 1: Genocidio

Chissà che cosa avrebbe pensato Raphael Lemkin, il giurista polacco che inventò e definì la parola «genocidio», se avesse potuto guardare avanti fino al nostro presente. La sua grande intuizione, che legava in modo indissolubile in un solo lemma il dramma degli armeni nel 1915 e quello della Shoah – di cui lui aveva ben colto, prima di ogni altro, le profonde analogie – guardava certo al passato e al presente insieme ma, in modo profetico, anche al nostro oggi. Chissà cosa avrebbe pensato Lemkin, dunque, se avesse potuto vedere il genocidio compiuto dai Khmer rossi in Cambogia, il Rwanda, Srebrenica, e ora anche il dramma in corso di cui sono vittime gli Yazidi. Come dimostra il suo acume nello scoprire e denunciare – oltre ai casi già menzionati dell’Olocausto degli armeni e degli ebrei – anche l’Holodomor degli anni Trenta, «la distruzione della nazione ucraina», come lui l’aveva definita, non abbiamo dubbi che nei nostri anni avrebbe trovato un ennesimo, terribile riscontro alla sua intuizione, che ora è parte della coscienza e del vocabolario di tutti noi, e di ogni lingua del mondo. Il suo termine, inventato perché neppure la parola «atrocità» era più sufficiente per esprimere l’orrore di Auschwitz, e adottato dalla convenzione delle Nazioni Unite nel 1948, arriva così a investire nuovi contesti e aree geografiche assai vaste, e un’epoca diversa e lontana da quella in cui Lemkin stesso si trovò ad operare. «Genocidio – ha scritto lo storico Boris Barth – è quando un gran numero di persone vengono uccise per motivi razziali, etnici o religiosi. Come regola generale, l’esecutore è uno stato che ha l’intenzione dichiarata di annientare alcuni gruppi etnici o religiosi. Così viene anche definito nella Convenzione delle Nazioni Unite».

Si.Zo.

Scheda 2: Le guide e le caste

In cima alla scala sociale e alla divisione per caste che caratterizzano la vita della minoranza yazida troviamo due figure chiave, il Mir e il Baba Sheikh. Il primo, il cui titolo potremmo tradurre come «principe», assomma in sé il potere temporale e quello spirituale. L’attuale Mir degli Yazidi è Tahsin Said (nella foto), posto a guida del Consiglio spirituale degli Yazidi, il Majlesi Rohani. Una figura che, secondo gli Yazidi, discende dalle sette entità angeliche presiedute dall’Angelo Pavone. Con funzioni di guida spirituale, ma in realtà subordinato al Mir anche da questo punto di vista è la figura del Baba Sheikh. A rivestire questo ruolo attualmente è Khurto Hajji Ismail. Questi presiede a tutte le cerimonie più importanti della vita spirituale della comunità, e in particolar modo a quelle che avvengono presso il sacro tempio di Lalish. Entrambe le figure sono parte della più importante delle tre caste yazide, quella degli Sheikh. Sempre elevata, anche se per alcuni aspetti in subordine rispetto alla prima, è la casta dei Pir, gli «anziani». Anche questi, come gli Sheikh, ricevono un’elemosina in forma di una tassa dall’ultimo gruppo: i Morid, i «discepoli», che sono tenuti a scegliere come loro guida una figura per ciascuna delle due caste superiori. Questi rappresentano la larga maggioranza della popolazione e non rivestono alcuna particolare funzione rappresentativa. Le caste degli yazidi – che conoscono al loro interno ulteriori, complesse, sottoclassificazioni – sono perlopiù endogame, e vietano cioè il matrimonio fra gli appartenenti ai diversi gruppi sociali.

Si.Zo.

Scheda 3: La diaspora

Uno dei pericoli maggiori che si trova oggi ad affrontare la comunità yazida è quello della sua dispersione. Un fenomeno non nato in questi ultimi anni, ma che ha conosciuto di recente una spaventosa accelerazione. Questa, unita al numero esiguo dei suoi membri, e all’assenza pressoché totale di centri di potere economico, politico o religioso che possano supportarla, rischia di condannare la minoranza in questione a una rapida scomparsa. Difficile, anche a causa della situazione in divenire e della dispersione, avere un’idea chiara di quanti siano effettivamente gli Yazidi. Si stima che, prima dell’invasione dell’Isis, se ne trovassero in Iraq fino a un massimo di mezzo milione. Altri insediamenti storici di questa minoranza, con numeri assai più ridotti, si trovano in Siria, in Turchia, in Russia e nel Caucaso del Sud, ovvero in Georgia e Armenia. In quest’ultimo paese, dato il notevole numero di profughi e la buona integrazione nella società che li accoglie, è in via di costruzione – caso unico al mondo – un tempio yazida. Il paese europeo che più ha aperto le porte ai membri di questa minoranza perseguitata è stato senza dubbio la Germania, dove si trovano oggi oltre 100.000 Yazidi. Qui, prima e in maggior misura che altrove, è stato possibile avviare programmi di riabilitazione anche psicologica per i sopravvissuti allo sterminio e per le donne yazide che hanno subito violenze. Oltre alla Germania, altri paesi europei che li hanno accolti sono, per esempio, Francia, Gran Bretagna e Olanda. Al di fuori del nostro continente, il Canada sembra aver deciso di recente di seguire l’esempio della Germania nel fornire asilo e assistenza ai profughi yazidi.

Si.Zo.


Infodossier:

Fonti e bibliografia

  • Patrick Cockburn, L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismo, edizioni Stampa Alternativa, 2015.
  • Christine Allison, Yazidis, voce dell’Encyclopædia Iranica pubblicata dalla Columbia University e disponibile online, 2004.
  • Gianfilippo Terribili, Via della seta. In pellegrinaggio con gli Yazidi, 2 settembre 2015, Atlante, rivista del portale Treccani.
  • Giuseppe Furlani, Gli adoratori del pavone. I yezidi: i testi sacri di una religione perseguitata, ed. Jouvence, 2016.
  • Simone Zoppellaro, La guerra agli yazidi sul corpo delle donne, 9 agosto 2016, il Manifesto.
  • Claudia Ryan, Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, Edizioni San Paolo, 2016.

Sitografia

  • www.yazda.org -Il sito dell’omonima organizzazione degli Yazidi.
  • www.nadiamurad.org -Il sito ufficiale di Nadia Murad.

Autori

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016) e Armenia (ottobre 2016).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Sommario Marzo 2017


In questo numero si spazia dalla Liberia al Giappone, dal Guatemala all’Albania. Sei accompagnato sulle strade della Costa D’Avorio e scopri il «Blocco Mattone». Il dossier sugli Yazidi dà un colpo all’indifferenza per la sorte di questo popolo perseguitato. E molto di più…

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???  03  ???   Editoriale

Dossier

???  35 ???    Popolazioni perseguitate: Yazidi di Simone Zoppelaro e Paolo Moiola

Articoli

???  10  ???   Liberia: Angeli contro il Virus di Valentina Giulia Milani
???  14  ???   Solidarietà: I Muri che uniscono di Marco Bello
???  19  ???   Religioni: Buddhismo tra Oriente e Occidente di Silvia C. Turrin
???  24  ???  Albania: Il Call Center dell’Europa di Nicola Pedrazzi
???  51  ???   Guatemala: La Pace è una Chimera di Paolo Moiola
???  56  ???  Giappone: Karoshi: il prezzo del Mercato di Cristian Martini Grimaldi

Rubriche

???  05  ???   Cari Missionari
???  08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
???  32  ???   Insegnaci a pregare 2. Non sappiamo pregare di Paolo Farinella
???  61  ???   Madre terra: Convivere con l’Autismo di Rosanna Novara Topino
???  65  ???  Cooperando: Costa D’Avorio in ostaggio /1 di Chiara Giovetti
???  69  ???   Amico a cura di Luca Lorusso
???  79  ???   I Perdenti /22 Madeleine Debrêl di Mario Bandera
???  82  ???   MC Iinforma: Volti della nostra storia




Cari Missionari


Uccelli paradiso

Riguardo al problema della deforestazione a Papua Nuova Guinea (M.C. n.10/2016) credo sia giusto rimarcare che gli habitat in questione sono la dimora delle paradisee, o uccelli del paradiso, così chiamati per la loro straordinaria bellezza e non solo… Oltre che un simbolo del mondo naturale queste creature sono parte integrante della cultura e dell’identità nazionale (bandiere, divise militari, compagnia aerea locale). Senza gli uccelli del paradiso, Papua non sarà più la stessa: pensare che si estingueranno solo perché delle società straniere devono aumentare i loro già scandalosamente alti profitti sul legno pregiato, sui fazzoletti da naso, sui tovagliolini, sulle tovagliette e sulla carta igienica, fa venire il voltastomaco.

Mario Pace
18/11/2016

Il giubileo è terminato, la misericordia continua

Comunicato stampa

Presentata alla Cei una nuova iniziativa che in tutta Italia risponderà all’appello del Papa per mantenere vivo lo spirito di Misericordia. L’Anno Santo si è appena concluso ma riecheggiano i continui appelli di Papa Francesco a perseverare nella Misericordia, in particolare verso i più bisognosi.

Per dare una concreta risposta, Mons. Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport, ha espresso il suo pieno appoggio alla nuova iniziativa del portale www.ospitalitareligiosa.it denominata «Settimane della Misericordia», che porterà le strutture ricettive religiose e laiche di tutta Italia ad ospitare gratuitamente per una settimana persone e famiglie in particolare stato di necessità, così da consentire loro un periodo di serenità, lontane dai problemi di tutti i giorni.

Un’iniziativa parallela era già stata attivata in occasione del Giubileo; in questa occasione il periodo interessato sarà da maggio a ottobre 2017, in modo che le ospitalità corrispondano ai periodi in cui abitualmente famiglie e bambini organizzano le proprie vacanze.

Ma quali saranno i destinatari di queste concrete opere di Misericordia? Famiglie numerose mono o senza reddito, genitori singoli con figli a carico, pensionati con un reddito insufficiente, adulti rimasti senza lavoro; persone che in ogni caso non potrebbero permettersi un breve soggiorno a pagamento.

Sul meccanismo di accesso vigilerà l’Associazione no-profit Ospitalità Religiosa Italiana, ma saranno diocesi e parrocchie a farsi garanti nell’identificare quelle particolari situazioni di bisogno per le quali la settimana di vacanza potrà risultare utile per ritrovare una serenità che stenta ad emergere.

L’iniziativa risponde quindi alla necessaria concretezza che Papa Francesco richiama continuamente nelle opere di misericordia. Ora sta ai gestori delle strutture di ospitalità, sia religiose che laiche, rispondere alle attese del pontefice e alla speranza di chi, nel bisogno, vive una realtà che solo la disponibilità del prossimo può in qualche modo cambiare.

Fabio Rocchi
presidente Ass. Ospitalità Religiosa Italiana
www.ospitalitareligiosa.it
20/11/2016

Risurrezione dei morti

Al funerale di un amico ho sentito una notevole predica di un parroco particolarmente dotto, forse consapevole di rivolgersi a un pubblico composto prevalentemente da docenti universitari, come il defunto. E la predica mi ha aperto un mare di dubbi sul finale del Credo, la resurrezione dei morti. Cosa significa? che risorgeremo alla fine del mondo? e la nostra anima immortale nel frattempo cosa fa? e perché dobbiamo risorgere col nostro corpo? quale? quello al momento della morte? grazie, preferisco di no…

Islam. Avete già pubblicato una esauriente rassegna delle diverse versioni dell’Islam, ma forse sarebbe opportuno anche un ripasso di tipo storico. Nel senso che dopo le tensioni iniziali, non ci sono state per secoli tra le diverse letture dell’Islam tensioni analoghe a quelle tra cattolici e protestanti. Il sunnita Saladino fu nominato visir dall’iman sciita dell’Egitto, e poi ne divenne sultano, senza tensioni: come se un papa del ‘600 avesse messo il regno di Napoli nelle mani di una dinastia protestante…

Aleppo, insieme a Gerico la più antica città del mondo ancora esistente, viene distrutta anche per un contrasto tra sciiti e sunniti di diverse osservanze.

Claudio Bellavita
12/12/2016

Comincio rispondendo alla seconda parte del suo scritto. Abbiamo appena iniziato una serie di articoli per approfondire la conoscenza dell’Islam, rendendoci perfettamente conto della sfida di presentare una realtà complessa, non omogenea e con una storia più che millenaria. Cercheremo di tener conto dei suoi suggerimenti.

Andando invece alla questione che lei solleva circa il Credo e la resurrezione dei morti, non ho qui la pretesa di rispondere alle sue domande. Evidenzio solo alcuni dati biblici.

Il primo: nella Bibbia la persona umana non è composta da due elementi separabili (anima e corpo) come invece siamo abituati noi a considerarla in base alle nostre convinzioni ereditate dalla filosofia greca. La persona umana  è tale perché è carne (b?s?r), spirito (ruakh), anima (nephesh) e cuore (l?b). Queste non sono parti (separabili) dell’uomo, ma solo aspetti diversi del suo unico modo di essere/esistere. La persona è tale perché è unità di tutti questi aspetti.

La morte non è la separazione dell’anima dal corpo, ma la nascita di tutta la persona in un modo del tutto nuovo, al di fuori della nostra esperienza spazio-temporale (kronos) ma nella dimensione del tempo di Dio (kairos).

Prendiamo l’esempio di Gesù risorto. Dalla descrizione che ne abbiamo nei Vangeli sappiamo che Gesù si può toccare, porta i segni della passione, parla e ascolta, cammina e mangia. Eppure Gesù entra in una stanza chiusa senza passare dalla porta, si presenta in luoghi diversi e scompare come è apparso, e via dicendo… tutti indizi che ci fanno capire come sia la persona vera e concreta di Gesù, quella che i discepoli hanno incontrato, ma anche come lui sia «altro», il Risorto.

Concludo citando il «Catechismo della Chiesa Cattolica» che citando san Paolo usa l’immagine bellissima del seme e del fiore/pianta per spiegare l’unità e la diversità tra la nostra vita presente e la vita da risorti.

«N. 999 Come (risuscitano i morti)? Cristo è risorto con il suo proprio corpo: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24, 39); ma egli non è ritornato ad una vita terrena. Allo stesso modo, in lui, “tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti”, ma questo corpo sarà trasfigurato, in “corpo spirituale” (1 Cor 15, 44).

«“Ma qualcuno dirà: ‘Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?’. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco… Si semina corruttibile e risorge incorruttibile… È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (1Cor 15,33-37.42.53).

«N.1000 Il “come” supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nella fede. […]».

Credo proprio che l’immagine del seme e dell’albero, o, se vogliamo usarne un’altra simile, quella dell’uovo e dell’uccello, sia quella che meglio può aiutarci a capire il mistero dell’unità/unicità nella diversità che c’è tra il nostro esistere nel tempo/kronos e nell’eternità.

Obrigada

Carissimi fratelli,
vi scrivo dalla parrocchia di Massinga, diocesi di Inhambane, Mozambico. Leggo sempre la rivista appena arriva nella nostra missione. Oggi desidero proprio farvi i complienti per la qualità del vostro servizio giornalistico che presenta non solo «le nostre missioni» ma il panorama del mondo attuale. Mi riferisco in particolare ai vostri dossier che ci aiutano a vedere le tragedie, i conflitti, le miserie e anche i progressi dell’umanità con lo stesso sguardo di Cristo, uno sguardo che suscita sentimenti di misericordia, compartecipazione e ci fa chiedere «qual è la mia parte in tutto questo?». Così possiamo riscoprire le vere radici dell’umanesimo cristiano in noi stessi e nella nostra società.

Un’altra rubrica della rivista che è fantastica è «4 chiacchiere con i Perdenti» di un valore letterario e storico da meritarsi un premio. Mi piace anche «Persone che conosco». Infine, dall’inizio alla fine, la rivista non ha niente che non valga la spesa leggere. Obrigada (grazie)! Mi sento orgogliosa di voi.

Sr. Bénides Clara Capellotto, missionaria della Consolata, Inhambane, Mozambico, 08/12/2016

Grazie di cuore. Garantito che non l’abbiamo pagata per tutti questi elogi!


Il Nastro d’argento a Gianni Minà

Dopo il Berlinale Kamera al festival di Berlino del 2007, Gianni Minà, che da ottobre 2015 firma su MC la rubrica «Persone che conosco», è stato insignito del Nastro d’argento alla carriera per il suo lungo viaggio nella realizzazione di documentari, special e racconti storici tramite immagini, iniziato oltre mezzo secolo fa. Così ha deciso l’Sngci (Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani) per premiare anche il più recente scornop giornalistico realizzato da Minà: «L’ultima intervista di Fidel», una testimonianza concessagli dal leader cubano nel settembre del 2015 che ora rappresenta un documento di grande importanza storica. In questa stagione, che lo ha visto premiato al Festival di Toronto lo scorso settembre, Minà ha raccolto consensi anche con il lungometraggio «Papa Francesco, Cuba e Fidel» (presentato, in anteprima nazionale, a Torino nell’aula magna di MC lo scorso 22 novembre) nel quale trovano spazio tutti i protagonisti della controversa storia di Cuba e dell’embargo Usa: dagli ex presidenti Barack Obama e Jimmy Carter a Raul Castro, dal sostituto Segretario di stato Vaticano mons. Becciu all’ex arcivescovo dell’Avana Jaime Ortega, al teologo della liberazione Frei Betto, fino allo stesso papa Francesco. La cerimonia di consegna del premio, alla Casa del Cinema di Roma, è prevista per il 3 marzo 2017. (MC)

Facevano 200 (+2) anni in due

Lo scorso 28 settembre padre Giovanni Battista Demichelis (quello con il cappello in testa nella foto) è «nato al cielo». Nativo di Sampeyre (Cn) aveva vissuto tra noi 100 anni e 26 giorni, celebrando 75 anni di sacerdozio di cui ben 44 in Colombia dove è rimasto dal 1948 al 1992, prestando il suo servizio a Guataquí, San Vicente del Caguan, Doncello, Rionegro, Modelia, Tocaima, Calí, Bogotá, Puerto Rico e Paujil. Tornato in Italia è stato rettore della chiesa del Beato Allamano per alcuni anni e poi confessore nella stessa, servizio che ha smesso solo quando ormai ultra novantenne si è ritirato ad Alpignano.

Nella foto, scattata ad Alpignano il 23 giugno 2016, sta spingendo la carrozzella su cui è seduto padre Bartolomeo Malaspina. A quel tempo i due, insieme, facevano 200 anni e aspettavano il 23 gennaio 2017 per celebrare i 202. Ma il 7 gennaio 2017 anche padre Bartolomeo ha ricevuto un’offerta che non ha potuto rifiutare e i due sono ora insieme nel giardino di Dio, dove godono della compagnia di Colui che è stato la ragione della loro vita e degli altri 801 missionari e 940 missionarie della Consolata che li hanno preceduti lassù. Padre Bartolomeo Malaspina era nato a Sezzadio (Al) nel 1915, sacerdote nel 1939, nel 1941 era stato arruolato come cappellano militare e mandato in Tunisia. Fatto prigioniero dagli inglesi nel 1943, aveva fatto con i soldati sopravvissuti tre durissimi anni di prigionia, durante i quali era stato dato per morto dai superiori perché impossibilitato a comunicare con Torino. Rientrato in Italia ha insegnato scienze naturali a generazioni di missionari e dal 1978 ha curato la conservazione e l’allestimento del «Museo etnologico e di scienze naturali» nella Casa Madre di Torino, servizio svolto fino al 2008. Rimasto ancora arzillo e servizievole in Casa Madre, solo nel maggio 2016, ormai centenario, si è ritirato ad Alpignano per farsi trovare pronto all’ultimo appello. (MC)


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Liberia: Angeli contro il virus

Presenti nel paese dal 1963 le missionarie della Consolata hanno rappresentato un baluardo contro l’epidemia di ebola. Con umiltà e coraggio hanno curato le persone colpite dal virus e sensibilizzato la popolazione per ridurre l’espandersi della malattia. Oggi si prendono cura degli orfani. Ecco il racconto di quei giorni terribili.

Monrovia. Determinate, allegre e sempre indaffarate, Anna Rita, Annella, Eugenia e Clotilde sono le suore italiane della Consolata in missione in Liberia, piccola nazione dell’Africa occidentale. Insieme a loro Abela, dalla Tanzania, e Lucy, liberiana. Una dopo l’altra arrivate nel paese negli anni Sessanta, hanno vissuto due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003) e non si sono fermate nemmeno quando il virus ebola, nel 2014, ha iniziato a mietere vittime con una facilità e una rapidità disarmanti.

Tra i 70 e gli 80 anni, vere forze della natura, sono sempre al servizio della comunità e anche in quel difficile, lungo periodo dell’epidemia non si sono risparmiate schierandosi in prima linea.

Fino a poco tempo fa impegnate anche a Ganta, città del Nord al confine con la Guinea, in un centro in cui vengono curate lebbra e tubercolosi, oggi le missionarie sono divise tra Buchanan, cittadina a Sud di Monrovia dove gestiscono una scuola frequentata da oltre 1.000 bambini, e la contea di Harbel, a 80 km dalla capitale, nei pressi dell’aeroporto.

«È stato un periodo tremendo quello dell’ebola: la malattia ha colpito tutte e tre le zone dove noi eravamo e siamo operative. Ogni giorno vedevamo morire persone che conoscevamo bene. A volte mi sono sentita impotente, ma ho sempre pensato che dovevo fare tutto ciò che era in mio potere per aiutare la mia comunità», ricorda con voce pacata suor Anna Rita Brustia, mescolando italiano e inglese in pieno stile liberiano. «Il governo e il sistema sanitario non erano pronti per gestire l’emergenza e le persone non erano informate: la cosa più difficile è stata far comprendere agli abitanti del posto che dovevano adottare alcune misure di sicurezza», precisa suor Annella Gianoglio (si veda MC novembre 2014).

Lavoro di squadra

Così le suore della Consolata hanno formato una squadra di 70 volontari incaricati di andare nei villaggi per sensibilizzare le persone circa le norme di igiene da rispettare, oltre che per verificare se c’erano casi sospetti da trasportare nei centri di trattamento istituiti dall’Ong Medici Senza Frontiere. «Li chiamavamo Health social mobilizers ed erano le persone che frequentavano il nostro corso di animazione pastorale durante il quale facevamo, insieme a due Health promoters (promotori di salute, ndr), sensibilizzazione contro l’Hiv. Non appena si sono palesati i primi casi di ebola nella nostra zona, abbiamo trasformato il gruppo per lottare contro il virus. Abbiamo iniziato a lavorare in questo senso ancora prima che il governo e l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarassero l’emergenza e, quindi, in largo anticipo rispetto alle varie Ong che sono poi arrivate», racconta suor Anna Rita con umiltà.

A farle eco suor Eugenia Tappi che ammette: «Siamo state delle miracolate, me ne rendo conto solo ora. In quel periodo pensavo solo a ciò che dovevo fare giorno per giorno». «Setacciavamo quotidianamente i villaggi e se c’era qualche persona con sintomi sospetti mostravamo ai famigliari le precauzioni da seguire e poi lo segnalavamo alle sorelle», le fa eco Emmanuel Crusol, liberiano, capo squadra dei Social mobilizers.

Lavarsi le mani di continuo, non stringersele, non avere contatti, non frequentare luoghi affollati, a messa sedersi a una distanza di un metro l’uno dall’altra: l’indottrinamento promosso dalle missionarie della Consolata è stato costante. Ancora oggi, sia nel giardino della scuola di Buchanan sia davanti alla chiesetta che sorge accanto alla struttura dove vivono le sorelle, presso Harbel, vi è un grande bidone colmo di acqua clorata (con candeggina). «Molte persone si lavano ancora le mani prima di entrare in chiesa e altri faticano a stringersele: la paura persiste», dice suor Anna Rita.

Un mondo di orfani

Oltre alla paura, però, l’ebola ha lasciato anche un numero spaventoso di orfani: «Solo nella contea di Harbel ce ne sono 614. Appena finita l’emergenza erano 616 ma poi due sono morti. Chi ha perso solo la madre, chi il padre, chi entrambi. In ogni caso si tratta di vite spezzate», continua la missionaria interrompendosi in una breve pausa. A colmare il silenzio ci pensa suor Eugenia: «Noi ci prendiamo cura di loro, sfruttando al massimo i pochi mezzi che abbiamo. Per esempio aiutiamo le famiglie che li hanno presi in carico a pagare le rette scolastiche per offrire loro la possibilità di un futuro migliore». In Liberia, come in molti altri paesi africani, non esiste infatti la cultura dell’orfanotrofio: a preoccuparsi dei bambini che rimangono senza genitori ci pensano i parenti. Così si creano famiglie enormi, difficili da gestire.

«Mia sorella è morta dopo aver contratto l’ebola, i suoi due figli ora vivono con me e i miei tre bambini. Cerco di crescerli al meglio, dando loro dei pasti ogni giorno. Non riesco a pagare la scuola per tutti, è impossibile. Anche perché qui in Liberia la vita è davvero cara dal momento che quasi tutti i beni di prima necessità vengono importati», racconta un uomo che vive e lavora ad Harbel.

Ci sono anche famiglie, però, che rifiutano i piccoli rimasti orfani perché portano con sé lo stigma del virus. «Andiamo nelle case e cerchiamo di far comprendere alle persone che questi bambini sono come tutti gli altri, hanno solo più bisogno perché rimasti soli. Facciamo sensibilizzazione. Adesso, per fortuna, iniziamo a vedere qualche risultato, complice il passare del tempo che fa sentire sempre più lontano quel terribile periodo», spiega Anna Rita minimizzando sempre ciò che fa.

«Portiamo avanti un lavoro che abbiamo cominciato all’apice dell’epidemia», interviene suor Annella, di poche parole ma molto precisa. In quel momento di estrema emergenza era infatti fondamentale cercare di soddisfare i bisogni primari delle persone: tutto era bloccato, molte aziende chiuse, importazioni ferme, attività rallentate. «La gente non riusciva a procurarsi il cibo, anche perché molte persone avevano dovuto abbandonare il lavoro, così, oltre alla scarsa disponibilità di prodotti, a mancare erano anche i soldi. Inoltre i bambini che man mano perdevano i genitori erano allo sbaraglio», continua.

Fame ed emarginazione

La meticolosità delle suore nell’organizzare gli interventi ha permesso loro di salvare la vita a molte persone. A testimoniarlo il registro con l’elenco di tutti gli orfani di Harbel sul quale al tempo segnavano con attenzione la quantità di cibo fornita a ciascuno con accanto la firma della persona che li aveva presi in carico. «A cornordinarci c’era sister Maria Teresa Moser che ora purtroppo è dovuta rimpatriare a causa di problemi di salute. Siamo perfettamente consapevoli che donare il cibo non sia il modo giusto per risolvere i problemi di queste persone. In una situazione come quella però se non l’avessimo fatto, oltre alle vittime dell’ebola ci sarebbero stati anche tanti morti di fame», riprende suor Anna Rita.

Nel dicembre del 2015 le missionarie si sono preoccupate di registrare i 614 orfani al governo: «Noi continuiamo a fare ciò che possiamo ma le autorità devono attuare un intervento radicale dall’alto per sostenere questi ragazzi. A gestire la situazione dovrebbe essere il ministro delle Pari opportunità, ma per ora ha fatto poco o nulla», afferma con sconforto Eugenia.

«I nostri fondi ci permettono di aiutare economicamente solo poche famiglie. Ad alcuni bambini che frequentano la scuola a Buchanan non facciamo pagare le rette», spiega suor Clotilde mentre si avvicina a Patience, studentessa di 13 anni intenta a giocare con gli altri ragazzi durante l’intervallo. «Mio papà era un muratore, ha preso l’ebola e si è ammalato. Adesso vivo con mia mamma e i miei cinque fratelli. Mangiamo una volta al giorno, però possiamo frequentare la scuola perché le suore ci aiutano. Mi piace venire a lezione. Quando durante l’epidemia l’istituto è rimasto chiuso io mi sentivo molto triste», dice con maturità.

Ci sono anche ragazzi che sono stati abbandonati dai genitori: «Le persone che hanno contratto il virus e sono sopravvissute sono state emarginate dalla comunità, la paura era troppo forte», spiega Annella che viene interrotta da Clotilde: «Mi ricordo di un padre che portava i figli nella nostra scuola. Era un sopravvissuto. A un certo punto però è sparito. Dicono che sia scappato nella foresta perché non sosteneva più l’isolamento». A conferma di quanto raccontano le missionarie, vi è la testimonianza di Lela Glay, 45 anni, sguardo spento: «Ho contratto l’ebola andando a trovare un mio caro che si era ammalato. Da quel momento è stato l’inferno. Sono sopravvissuta ma i problemi non sono finiti: prima sono stata a lungo emarginata da amici e parenti, ora mi trovo a fare i conti con le conseguenze fisiche lasciate dal virus. Ho fortissimi dolori alle giunture che non mi permettono più di lavorare». Così anche lei è stata presa sotto l’ala dalle missionarie della Consolata.

Lo sguardo al futuro

Suor Anna Rita e le altre fanno parte della storia del paese e non smettono di guardare avanti. «Nel caso ci fosse una nuova epidemia il governo e il sistema sanitario sarebbero pronti a intervenire tempestivamente. Lo abbiamo già provato: dichiarata ebola free l’11 maggio 2015, i due casi che ci sono stati successivamente sono stati isolati immediatamente. Noi continuiamo a sensibilizzare le persone anche perché ci sono convinzioni popolari che rappresentano un ostacolo: come la credenza che all’origine della malattia ci sia il malocchio, giu giu, in lingua locale».

Oltre ai drammi lasciati dall’ebola, le suore affrontano i problemi di sempre. Come la situazione degli insegnanti: «Hanno stipendi molto bassi e fanno fatica a vivere. La corruzione così dilaga anche nelle scuole: i genitori li pagano per promuovere i propri figli e i maestri a volte accettano, così arrotondano. Noi cerchiamo di far fronte a questo problema, nei limiti del possibile», spiega Clotilde mentre richiama i bambini all’ordine.

Così, anno dopo anno, le suore missionarie della Consolata sono diventate un po’ liberiane anche loro e, soprattutto, sono divenute il punto di riferimento della comunità.

Valentina Giulia Milani




Cooperazione: I muri che uniscono


Oltre 20 anni fa un professore universitario capisce l’importanza del diritto alla casa. Da quel giorno mette le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei baraccati. Inventa una tecnica costruttiva semplice ed efficace. Riproducibile da chiunque. Oggi, dopo la sua scomparsa, la sua famiglia e i suoi allievi continuano la sua opera. Perché tanto resta ancora da fare.

Gourcy, Nord del Burkina Faso. Dopo una giornata di lavoro e incontri arriviamo all’Auberge Cites. Una piccola oasi di buganville rosse, fucsia e arancioni nel secco e giallo panorama saheliano. Pur essendo fine novembre, quest’anno le temperature sono ancora elevate. Sarà a causa del cambiamento climatico, dicono i Burkinabè. Siamo sudati e coperti di polvere, situazione piuttosto tipica da queste parti. Scesi dall’auto vediamo subito due «nassara» («bianchi» in lingua moore), in maglietta e pantaloncini, piuttosto accaldati, seduti a un tavolino a sorseggiare una bevanda. Ci presentiamo. Sono la professoressa Gloria Pasero Mattone e suo figlio, Massimiliano Mattone. Vengono da Torino, sono a Gourcy per una missione nell’ambito della loro associazione, «Mattone su Mattone onlus». Sebbene avessimo già sentito parlare di loro, è la prima volta che li incontriamo. Subito la conversazione si fa interessante.

«L’attività che stiamo svolgendo qui rappresenta, in un certo senso, l’attività che mio marito Roberto Mattone, docente al Politecnico di Torino, scomparso sette anni fa, aveva iniziato proprio in Burkina Faso, a Nanorò, con la costruzione di un mercato coperto». Dopo una breve pausa, che tradisce una certa emozione nel parlare del compagno di una vita, la professoressa, ormai in pensione, prosegue: «Dopo la scomparsa del professore, questo sistema costruttivo che lui aveva messo a punto, facile, innovativo, sostenibile per quanto concerne l’uso dei materiali, facilmente appropriabile da chi non è muratore, è stato diffuso in altri paesi dell’Africa e dell’America Latina». Continua: «Recentemente è nata una proposta del comune di Grugliasco (To) per collaborare a questo progetto e con grande entusiasmo l’associazione ha aderito alla richiesta». Gloria Pasero, anch’essa alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, oltre ad essere docente e moglie, è stata l’assistente del professor Roberto Mattone per molti anni.

Così, dopo il tramonto, nella penombra, con il placarsi del caldo torrido e il sopraggiungere delle zanzare, tra un blackout elettrico e l’altro, Gloria e Massimiliano ci raccontano l’incredibile storia del «blocco Mattone».

L’idea di Mattone

Il professor Roberto Mattone, architetto, da sempre è attratto dalle tecnologie per costruzione cosiddette «povere», che utilizzano i materiali locali. Ha lavorato, tra l’altro, con il gesso, le fibre di sisal, il ferrocemento. Negli anni ’80 a Torino c’era la scuola del professor Giorgio Ceragioli che aveva creato una grande sensibilità sull’habitat adattato ai paesi in via di sviluppo. «L’attività di Roberto era autonoma, ma certo si è inserita in questa corrente di pensiero e di lavoro» ricorda la professoressa. Roberto Mattone inizia a occuparsi di costruzioni in «terra cruda» all’inizio degli anni ’90. Si reca in Brasile e le condizioni di vita nelle favelas lo colpiscono particolarmente. Il professore ha ottenuto un finanziamento dal Cnr (Consiglio Nazionale della Ricerca) per una ricerca dal titolo: «Abitazioni a basso costo nei paesi in via di sviluppo». Lo studio si svolge in partenariato con il professor Normando Perazzo Barbosa dell’Universidade Federal da Paraíba a João Pessoa. «Una realtà, quella delle favelas – ricorda la professoressa – che dopo 25 anni in alcuni casi non è cambiata di molto, come ho potuto constatare personalmente».

Il primo passo è quello di individuare il materiale da utilizzare: «Il più diffuso era la terra. Gli abitanti erano però molto scettici, perché terra significa povertà. Loro volevano i blocchi di cemento». In Brasile, soprattutto nel Nord Est si utilizza terra e fango su intelaiature di bastoni per fare delle casupole molto precarie e malsane, tipiche degli strati sociali più poveri. Sistema costruttivo chiamato «Taipa».

Innovazione «povera»

Il professore, con la sua ricerca, inizia a produrre mattoni in terra cruda stabilizzati con l’aggiunta di cemento e compattati con presse manuali. Ma non basta. Modifica la forma del blocco parallelepipedo convenzionale, facendone una specie di grande Lego, il gioco di costruzioni. «Il blocco fu dotato di risalti e riscontri che servono a facilitare la posa dei mattoni per fare i muri solidi senza bisogno di particolari strumenti o competenze», spiega Massimiliano. I favelados della zona in cui Roberto Mattone lavora, sono tagliatori di canna da zucchero e nulla sanno di costruzioni: impossibile trasformarli in muratori, occorre un sistema costruttivo particolarmente semplice. «Il blocco opportunamente modificato si posa facilmente per erigere muri, senza l’uso della cazzuola o del filo a piombo. Inoltre c’è bisogno di pochissimo legante tra un blocco e l’altro (circa 3 mm), mentre per i blocchi di cemento ne vengono usati 2,5 centimetri. E questo, oltre a semplificare, riduce notevolmente i costi».

Roberto Mattone adotta una pressa manuale, che modifica opportunamente in laboratorio e convince la casa costruttrice, la Altech francese, a farne una produzione. Recentemente i professori del Politecnico di Torino Giuseppe Quaglia, Walter Franco e Carlo Ferraresi, in collaborazione con l’ingegner Matteo Asteggiano, hanno realizzato una nuova pressa, che è quella attualmente usata nei progetti dell’associazione.

I materiali, il tipo di terra e stabilizzazione, le forme dei blocchi sono testati e migliorati da Roberto Mattone in un laboratorio allestito in facoltà, che diventa un luogo di formazione di generazioni di studenti, alcuni dei quali seguiranno le orme del professore e sono oggi membri dell’associazione. «Roberto – continua Gloria Pasero – era riuscito a raggiungere un obiettivo ottimale: quello di coniugare la ricerca scientifica con la solidarietà». Nasce così il «blocco Mattone – Politecnico di Torino».

La casa auto costruita

Costruire la propria casa, sulla propria terra, con la terra stessa diventa un mezzo di riscatto e di dignità per i più poveri ed emarginati. Il primo luogo in cui viene sperimentato il blocco è la favela Cuba da Baixo a Sapé, nello stato di Paraiba, in Brasile. È il 1995. Per Roberto Mattone «non bastava mandare l’attrezzatura e un manuale d’istruzioni». Si tratta di gente demotivata, rassegnata. Avranno voglia, riusciranno? È il dubbio che lo assale.

«Allora insisteva sul fatto che bisogna andare sul posto, condividere il lavoro con loro, cogliere i loro dubbi, lavorare con loro. Dimostrare che le cose che si propongono sono valide e alla loro portata, lasciarlo verificare dalla gente, in una dinamica di “appropriazione” della tecnica da parte degli abitanti-costruttori stessi. Fu così che i poveri di Cuba da Baixo videro che i mattoni non si scioglievano in acqua e che i muri eretti erano resistenti come quelli in cemento».

Lavoro sul campo

Massimiliano e sua madre sono in Burkina Faso per questo. Ci invitano il giorno successivo a visitare il cantiere dove stanno insegnando a un gruppo di giovani burkinabè a fabbricare il blocco Mattone. Una decina di giovani sono ormai abili nella produzione di mattoni stabilizzati. Dopo aver preparato con cura l’impasto di terra ricavata non lontano, con    5-10% di cemento, la miscela viene messa nella pressa. Con un semplice movimento di una persona sulla leva il blocco in terra cruda è prodotto. Subito viene testato con una pressione manuale e se ha difetti costruttivi o di solidità viene scartato. In caso contrario è riposto con cura in fila su dei teli di plastica stesi a terra, a «maturare». Qui i blocchi sono innaffiati periodicamente e devono passare almeno quattro settimane prima che siano pronti all’uso. I ragazzi sono molto contenti e sfornano un mattone dopo l’altro. Moussa Konkobo è uno dei giovani coinvolti: «Sono muratore e durante questa formazione posso dire che abbiamo imparato a fabbricare questo tipo di blocco. Abbiamo mischiato terra e sabbia con cemento e poi ci hanno insegnato a utilizzare la pressa. Costruiremo una piccola casa di prova con questi blocchi».

Anche la scelta della terra è stata fatta in modo scientifico. «Abbiamo chiesto a increduli cooperanti e missionari in viaggio tra Burkina e Italia di mettere in valigia campioni di terra, in modo da poterli verificare prima di affrontare noi il viaggio». Racconta Massimiliano. «Abbiamo così potuto fare diversi test in laboratorio in Italia, per misurare se la terra era adatta. Solo dopo questa certezza si può andare avanti con il progetto formativo». È una procedura che l’associazione adotta sempre: in queste settimane sono sotto test a Torino alcuni campioni di terra di Capo Verde.

Solidarietà senza confini

«L’interesse nel migliorare le condizioni di vita della gente era dentro di lui da sempre. Il mattone è poi stato ideato grazie alla ricerca in Brasile». Ricorda ancora Gloria Pasero parlando del marito. «Portare avanti questa scelta ha voluto dire penalizzare la carriera. Questa si faceva puntando su temi high tech. Lui era motivato da altre considerazioni: la solidarietà, la spinta umanitaria».

Questa esperienza di auto costruzione di case a basso costo per migliorare le condizioni di vita dei più poveri ha una potenzialità dirompente nel mondo di oggi, proprio a causa della vastità dei bisogni in termini di habitat.

Dopo la prima esperienza in Brasile il professore non si ferma. Entra nel giro degli accademici che si occupano di terra cruda, in Brasile e non solo. Il blocco Mattone viene «esportato» in altri paesi e continenti. «Mio marito impostò un analogo progetto con l’Università Tecnologica Nazionale Argentina, a Santa Fé».

I coniugi Mattone sono proprio in Argentina per predisporre le attività, quando, nel 2008, il professore muore improvvisamente. È un fulmine a ciel sereno. Un dramma. Gloria Mattone capisce che il suo compito è quello di continuare la missione del marito. Si fa forza, esce dalle retrovie e diventa la protagonista. Sempre con molta umiltà. Il 23 marzo 2009, a sei mesi esatti dalla scomparsa di Roberto Mattone, nasce l’associazione «Mattone su Mattone onlus», creata da famigliari, amici e colleghi dell’architetto.

«Al Politecnico non c’era nessuno che aveva seguito queste cose», ci racconta la professoressa. «Il rettore di allora mi invitava ad andare avanti per continuare l’attività di Roberto».

Il blocco Mattone, grazie all’associazione, approda così in Senegal, Tanzania, Etiopia, Costa d’Avorio e poi in Burkina Faso. Oggi sono arrivate richieste da Messico e Repubblica Democratica del Congo, mentre Capo Verde è già in fase di studio.

Puntare all’autonomia

«L’obiettivo quando si inizia in un paese è la riproducibilità dell’esperienza – spiega Massimiliano – una volta fatta la formazione pratica e acquisita la pressa, un’associazione locale, una cornoperativa o una piccola impresa, può diventare produttrice di bocchi stabilizzati in totale autonomia e diffonderne le tecniche costruttrici».

È anche una possibilità di creazione di impiego per giovani in Africa. Proprio per questo, recentemente, la formazione e la pressa sono stati inseriti in un progetto della Regione Piemonte finanziato dal ministero dell’Interno italiano in Senegal.

Il progetto che visitiamo oggi in Burkina Faso fa parte di un altro programma di cooperazione più vasto che coinvolge oltre al comune di Gourcy, il comune di Grugliasco (To), il Coordinamento dei comuni per la pace della provincia di Torino (Cocopa) e l’Ong Cisv. In alternativa a progetti più strutturati l’associazione cerca i fondi per i propri interventi con i sistemi classici: il 5×1000, la promozione o la vendita di manufatti da parte di soci volontari. Se non ci sono finanziamenti esterni l’associazione prende in carico tutte le spese vive, e i volontari non hanno mai alcun compenso, ma offrono il loro lavoro gratuitamente.

Sono molte le sollecitazioni che arrivano, anche grazie all’uso di internet e dei social. «Ci contattano, chiedono, interagiscono. E talvolta stabiliamo così nuove collaborazioni», racconta Massimiliano. «C’è molto interesse». Lui, che di professione fa il restauratore, dedica molto del suo tempo all’associazione come volontario, con l’idea che, in qualche modo «sia un dovere ereditario». Anche le sorelle Manuela e Monica sono coinvolte così come altri membri dell’associazione.

Mentre scriviamo la professoressa Pasero e suo figlio Massimiliano sono tornati in Burkina, per insegnare ai giovani la posa del blocco Mattone per la costruzione di un’abitazione.

Averli incontrati ci ha ricordato che la solidarietà autentica è ancora possibile, e prende svariate forme, come quella di trasmettere una conoscenza per promuovere diritti e dignità.

Marco Bello




Buddhismo: Tra Oriente e Occidente


È la corrente più antica del Buddhismo. Quella della liberazione dall’eterno ciclo morte-rinascita, praticata dai monaci della foresta. Dalle sue tecniche meditative nasce in Occidente la «Mindfulness», per una maggiore consapevolezza di emozioni e pensieri. Con l’idea di aumentare la qualità della vita.

«Ho rivelato la scienza che distrugge le radici della vita e della morte. Dopo di me questa scienza non morirà con me, ma continuerà perenne nel pensiero e, esteriormente, nella pratica del giusto operare e del retto intendere».

In queste parole del Buddha (in italiano anche Budda) storico troviamo racchiusa una saggezza profonda, che mette in luce come i suoi insegnamenti siano sviluppati in modo da oltrepassare confini geografici e culturali, andando oltre l’epoca in cui vennero diffusi. Non conosciamo l’esatto anno della nascita del Buddha, si ritiene che il periodo da considerare sia quello che va dal 536 al 563 a.C.

Sappiamo con certezza che egli discendeva da una famiglia nobile, della stirpe degli Shakya, e che visse presso Kapilavastu, l’attuale area di Lumbini, in Nepal (un sito protetto dall’Unesco dal 1997 proprio per la sua importanza a livello storico-filosofico). Il padre, il re Suddhodana, e la madre Maha-Maya gli diedero il nome di Siddharta. La sua vita, almeno fino all’età di 29 anni, fu caratterizzata dalla prosperità, lontano dalle sofferenze del mondo. In questa prima fase della sua vita Siddharta si dedicò con grande impegno allo studio di testi religiosi e di poemi classici. Nonostante tutte le attenzioni del padre e la protezione di chi gli era accanto, qualcosa a un certo punto cambiò, come era stato profetizzato. Infatti, Siddharta ancora bambino, oltre a essere stato presentato al tempio del dio Abhaya – come era consuetudine per l’epoca nella regione in cui nacque l’induismo – ricevette la visita del saggio Asita, il quale annunciò al re Suddhodana che suo figlio sarebbe diventato o un grande imperatore o un asceta che avrebbe liberato il mondo dalla sofferenza. Fu per questa profezia che Siddharta venne tenuto all’oscuro dai mali che affliggono il genere umano.

Nel mondo reale

Verso i 30 anni però, il suo impulso in direzione della ricerca spirituale lo spinse a varcare la porta del palazzo reale. Povertà, malattia, morte si mostrarono a lui nel loro più freddo e inquietante aspetto. Fu così che il velo dell’ignoranza venne squarciato e Siddharta comprese la vanità dei piaceri terreni e la vacuità della vita. Abbandonò – come Francesco d’Assisi secoli dopo e ad altra latitudine – agi, vesti nobiliari, lasciò la famiglia e il palazzo reale per abbracciare una vita da asceta errante. Per anni si dedicò alla pratica meditativa e diventò così un bodhisattva, un essere sulla via dell’«Illuminazione». Si nutriva pochissimo, talvolta – narra la leggenda – con un solo chicco di riso al giorno e spesso rimaneva così assorto nella sua meditazione da non curarsi dei bisogni del corpo. Dopo anni scanditi da preghiere, ritiri meditativi, privazioni e annullamento dei sensi, Siddharta divenne un «Illuminato», scoprendo «la Via di Mezzo» e realizzando la vera natura del mondo fenomenico (ovvero così come appare per il tramite delle esperienze sensoriali). Predicando ed errando, il Buddha giunse a Sarnath e qui, nel parco delle Gazzelle, pronunciò il suo primo sermone, col quale mise in moto la ruota del Dharma. Attorno al Buddha accorsero allievi, che poi divennero suoi discepoli e coloro che formarono la prima comunità monastica buddhista (Sangha). Verso il 483 a.C. a Kushinagar, avvenne il suo Parinirvana, la morte fisica, ovvero l’estinzione completa, quindi l’assenza di ulteriori rinascite.

Il Nirvana e le correnti

L’Illuminato non lasciò alcun testo scritto. La sua più importante eredità furono i discorsi che udirono i suoi discepoli e che poi vennero sistematizzati in una serie di raccolte. Dopo la morte del Buddha vennero organizzati diversi Concili che misero in luce differenti interpretazioni dei suoi insegnamenti. Il primo grande Concilio di anziani cercò di formulare alcune norme, ma nel corso del secondo emersero contrasti al riguardo. Fu in questa fase di transizione che sorsero varie correnti all’interno del buddhismo. Le più note sono quella Mah?y?na, quella Vajray?na e quella Therav?da.

Il buddhismo Mah?y?na, chiamato del «grande veicolo», costituisce lo sviluppo del buddhismo in senso filosofico e mistico. Strutturata in forme meno rigide, la scuola Mah?y?na pone al centro la compassione universale e il ruolo del bodhisattva, colui che agisce per liberare tutti gli esseri dal ciclo di morte e rinascita. È presente in Cina, Vietnam, Corea, Giappone, Nepal, in Tibet ed è ormai molto diffusa anche in vari monasteri edificati in Occidente.

Il buddhismo Vajray?na, detto anche «la via del diamante», è la corrente che più si è concentrata sulle pratiche rituali e sulla mistica. Si è affermata verso il VI sec., diffondendosi prevalentemente in Tibet, ma anche in Nepal, Cina e Giappone. Questa corrente esoterica attribuisce importanza centrale alla ripetizione di formule sacre (dette mantra) per raggiungere l’Illuminazione.

Abbiamo poi la tradizione Therav?da, che è la corrente buddhista più antica; i suoi seguaci ritengono infatti che racchiuda gli insegnamenti che ricalcano in modo originario le parole del Buddha.

Le tre correnti buddhiste hanno in comune diversi elementi, primo fra tutti l’idea della liberazione degli esseri dall’eterno ciclo di morte e rinascita, ovvero il samsara, la ruota della vita (un concetto che troviamo anche nell’induismo). Questo ciclo è causato dal karma, cioè dalle azioni compiute in vita. Solo compiendo azioni virtuose e percorrendo un cammino spirituale si può spezzare, raggiungendo la liberazione finale.

Le varie correnti buddhiste hanno inoltre in comune cinque importanti precetti a cui ogni monaco o anche buddhista laico deve conformarsi. Queste regole sono: astenersi dall’uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente; astenersi dal prendere ciò che non ci è stato dato; astenersi da una condotta sessuale irresponsabile; astenersi da un linguaggio falso o offensivo; astenersi dall’assumere bevande alcoliche e droghe. Queste sono le norme basilari di un cammino lungo, che permette al praticante di andare oltre la sofferenza.

La corrente Therav?da

Il buddhismo Therav?da, conosciuto anche come scuola buddhista meridionale o H?nay?na (del piccolo veicolo), è presente in Sri Lanka, Laos, Cambogia, Birmania e Thailandia. Therav?da è una parola pali che significa «Dottrina dei più anziani dell’Ordine» o «Via degli Anziani», un nome derivante dalla stretta aderenza all’insegnamento originale e alle regole di vita monastica che il Buddha ha trasmesso. Nella dottrina Therav?da è fondamentale il concetto di liberazione del singolo dall’eterno ciclo di morte e rinascita: ciò significa che è l’individuo stesso, una volta comprese le cause della sofferenza come il desiderio, l’ignoranza (intesa come non conoscenza della realtà) e gli attaccamenti, a dover agire compiendo azioni virtuose per raggiungere il nirvana. La corrente Therav?da è caratterizzata al suo interno da una tradizione ancor più rigorosa, che è quella dei monaci della foresta. Si tratta di un sentirnero sviluppatosi soprattutto in Sri Lanka. Infatti, su quest’isola gli insegnamenti Therav?da sono stati conservati e protetti in modo particolare: fu qui che venne trascritto su foglie di palma il Canone Pali, sino ad allora tramandato solo in forma orale da monaco anziano a novizio, per evitare che potesse andare perduto. Il Canone Pali è anche chiamato Tipitaka, che in lingua pali significa «tre canestri» e comprende il Vinaya-pi?aka, relativo alle regole comportamentali e morali dei monaci; il Sutta-pi?aka che contiene varie raccolte di discorsi del Buddha; e l’Abhidhamma-pi?aka, più incentrato sulla filosofia buddhista. La tradizione Therav?da dei monaci della foresta è la più antica, essendo quella che più si attiene agli insegnamenti primigeni del Buddha. Questo sentirnero è detto anche dei «monaci morti in vita», poiché come pratica spirituale prevede l’abbandono dello stile di vita mondano: i monaci eliminano qualsiasi attaccamento e qualsiasi oggetto, incluso in molti casi anche il documento d’identità, a eccezione della ciotola e della veste. I jungle temples (gli eremitaggi della foresta) sono i luoghi dove i monaci vivono, studiano e praticano la meditazione dormendo in grotte naturali.

Mindfulness immaginale

Il buddhismo Therav?da negli ultimi decenni ha conosciuto un’espansione anche in Occidente per effetto dei suoi insegnamenti centrati sulla pratica meditativa. Molti laici si sono avvicinati a queste conoscenze per migliorare la qualità della loro vita, partendo da tecniche meditative buddhiste che calmano la mente e conducono a una maggiore consapevolezza delle emozioni e dei pensieri. Alcune ricerche scientifiche hanno infatti dimostrato come la meditazione buddhista produca numerosi effetti positivi: per esempio, sviluppa una mente dinamica, aumenta la creatività e stimola una sorta di risveglio mentale. Ciò è possibile poiché la meditazione agisce sulle sinapsi cerebrali e sulla produzione di endorfine, acuendo intuizione e gioia, come dimostrato da vari studi. Tra questi ricordiamo quelli compiuti dallo psicologo statunitense Richard Davidson (vedi bibliografia), il quale ha inserito la meditazione nella lista degli esercizi che allenano il cervello a sviluppare connessioni neuronali portatrici di felicità.

Da queste ricerche si è sviluppata in particolare negli ambienti statunitensi la Mindfulness, ovvero la meditazione applicata alle neuroscienze e alla psicologia, con l’intento di sanare stati psicofisici – quali ansia e angoscia – particolarmente dilaganti nella società contemporanea. In ambito europeo è sorta la Mindfulness immaginale, la quale, rispetto alla Mindfulness che viene dagli Stati Uniti, costituisce un passo ulteriore di avvicinamento della meditazione alla psicologia e alla psicoterapia. La Mindfulness immaginale unisce la tradizione orientale Therav?da all’approccio immaginale, ed è stata sviluppata da Selene Calloni Williams, scrittrice e documentarista esperta di filosofie orientali, insieme a Gotatuwe Sumanaloka Thero, monaco eremita buddhista. Era il 1982 quando Selene incontrò per la prima volta l’allora giovane novizio buddhista, il quale abitava in una grotta nell’eremo della foresta di Abharana, in compagnia del venerabile maestro Ghata Thera. Fu con loro che Selene imparò tecniche meditative legate alla tradizione Therav?da. L’impegno di Selene Calloni Williams e di Gotatuwe Sumanaloka Thero è rendere la meditazione fruibile a tutti, senza però snaturarne il carattere profondamente spirituale (temi approfonditi nel libro Mindfulness Immaginale, Edizioni Mediterranee, 2016).

In questo contesto, la parola mindfulness si allinea in modo specifico al termine sati, che in pali significa «consapevolezza», ovvero «attenzione cosciente». La Mindfulness immaginale si ispira da un lato ai principi della tradizione Therav?da, dall’altro, come suggerisce il nome, si rifà al movimento immaginale, che prende l’avvio in Occidente con la psicologia analitica e prosegue nella psicologia archetipica. Nella visione immaginale il corpo e il mondo sono interni alla psiche. «Il movimento simbolo-immaginale attinge alle psicologie immaginali d’Occidente e d’Oriente. L’efficacia del paradigma simbolo-immaginale sta nella sua capacità di favorire una percezione attiva degli eventi. A mezzo dell’applicazione della visione immaginale è possibile riappropriarsi della realtà come di un’emanazione della propria psiche e trovare in sé le energie per agire su questa emanazione in termini costruttivi», afferma Selene Calloni Williams. L’approccio immaginale unito alla filosofia Therav?da porta l’individuo ad abbandonare la gabbia dell’Io e a raggiungere il Sé: solo così si va oltre i comuni parametri mentali di vantaggio, svantaggio, piacere e dolore. In pratica il giudizio è sospeso. La visione di sé e del mondo è di assoluta equanimità.

Tra Oriente e Occidente

Il cammino della Mindfulness immaginale prevede un protocollo specifico denominato Imaginal Mindfulness meditation approach knowing and seeing strutturato in ?sana (posture yoga), pr?n?y?ma (tecniche di respirazione), meditazioni quotidiane ed esercizi di risveglio. Se attuato in maniera regolare questo percorso produce una serie di benefici, sia a breve, sia a medio lungo termine: praticando la Mindfulness immaginale le onde dei pensieri si stabilizzano, si tranquillizzano e otteniamo la pacificazione della mente; sviluppiamo e affiniamo l’attenzione cosciente; impariamo a vivere in una condizione priva di pensieri dicotomici, come bello/brutto, buono/cattivo; viviamo nell’assenza di giudizio; riusciamo a trasvalutare, cioè ad attribuire un diverso giudizio di valore agli eventi e a ciò che ci accade. I problemi, i disagi sono amici, poiché permettono di vedere gli attaccamenti inconsci e liberarci da essi. La trasvalutazione ci aiuta ad allentare tutti i condizionamenti sociali, culturali, familiari che ci portiamo dietro.

Silvia C. Turrin




Albania: Il call center dell’Europa


Durante la lunga dittatura comunista l’isolamento del paese era scalfito soltanto dalle televisioni commerciali italiane. L’italiano divenne la lingua straniera più parlata. Dopo l’arrivo (nel 1992) di un regime più democratico, l’Albania è rimasta un paese con molte contraddizioni ma in rapida crescita. Il sistema economico liberista e i bassi salari hanno attratto consistenti investimenti. Con l’Italia in prima fila.

Non c’è paese dove l’Italia sia più rilevante, eppure per la maggioranza degli italiani l’Albania rimane il più lontano dei posti vicini: un «Oriente sotto casa». Tra le due sponde adriatiche la storia ha pesato più della geografia. Nei due millenni dell’era cristiana, il navigatissimo canale d’Otranto ha funto anche da fossato culturale: di qui Roma, Rinascimento e capitalismo; di là Bisanzio, Impero Ottomano e comunismo. In tempo di Guerra fredda, l’Italia costituzionale fu ben lieta di scordare l’ex colonia mussoliniana. Paradosso dei paradossi, in quegli stessi anni le nostre Tv commerciali esercitarono un ineguagliabile potere fascinatorio sulle vittime del comunismo più isolato d’Europa. Frutto della contingenza internazionale, questa sorta di colonialismo involontario riuscì la fare ciò che il fascismo non avrebbe osato sognare: fece dell’italiano la seconda lingua d’Albania, e dell’Italia «Lamerica» degli albanesi. A venticinque anni dall’attracco della nave Vlora al porto di Bari (8 agosto 1991; si legga a pag. 27, ndr), sebbene risiedano in Italia mezzo milione di albanesi, è ancora difficile parlare di «reciproca conoscenza». Questo perché tra i due paesi il rapporto non è mai stato alla pari. I pregiudizi degli anni Novanta sono finalmente tramontati, ma allo «stereotipo leghista» è andata via via sostituendosi una narrazione giornalistica tanto positiva quanto plastificata: l’Albania indicizzata su Google è un paese dinamico che ha davanti a sé la crescita che gli italiani hanno già consumato. Buona o cattiva che sia, anche questa semplificazione non rende giustizia alla realtà: è un disinteresse con il segno più. Chi, da italiano, voglia conoscere l’Albania, dovrà smettere di usare se stesso come unità di misura. «Mi ricorda il Sud Italia del dopoguerra» o «il mare è bellissimo, sembra la Grecia» sono frasi che parlano di noi.

In questo articolo proveremo a fare un po’ d’ordine partendo dalla storia per arrivare fino ai giorni nostri.

Dentro i confini del 1913

Gli albanesi esistono da prima del loro stato. Sulle origini (illiriche?) della lingua e dell’etnia albanese esistono discussioni accorate ma meno studi, quello che è certo è che sangue e idioma furono le basi ideologiche della Rilindje, il Risorgimento albanese. Inizialmente restii ad abbandonare la compagine ottomana, i patrioti che il 28 novembre 1912 proclamarono da Valona la nascita dell’Albania – nello stesso simbolico giorno in cui, cinquecento anni prima, l’eroe nazionale Skanderbeg aveva dichiarato guerra ai turchi dal suo feudo di Kruja -, lo fecero con il placet della potenze europee, nel tentativo di arginare l’espansionismo serbo e greco che, da Nord e da Sud, spingeva sulle province albanesi della Sublime Porta (termine indicante l’Impero ottomano, ndr). La nascita dello stato albanese somiglia a quella di altri stati emersi dalla dissoluzione dei grandi imperi multietnici. È una storia fatta di visione e di afflato ideale, ma anche di contingenza e di realismo politico. Il riconoscimento internazionale arrivò nel luglio 1913, durante la Conferenza di Londra (sostenitrice della necessità di uno stato albanese era proprio l’Italia liberale). Nel febbraio dell’anno seguente gli stati europei fissarono confini e governo del Principato d’Albania: per dare un’idea del livello di empatia che gli albanesi del tempo dovettero provare nei confronti del nuovo assetto statuale basti ricordare che a insediarsi sul trono fu un perfetto estraneo: il principe Guglielmo di Wied, uno dei nipoti della Regina Elisabetta di Romania. Giunta al porto di Durazzo il 7 marzo 1914, sotto la protezione di una sparuta milizia olandese, la famiglia reale resistette fino al 3 settembre, quando una rivolta la costrinse ad abbandonare il paese. Da quel giorno, l’indipendenza formale dell’Albania ha subito diverse interruzioni – all’occupazione italiana durante la Grande guerra seguirono il debole regno di Zog, l’occupazione fascista del 1939 e mezzo secolo di comunismo – ma i confini stabiliti dagli ambasciatori del 1913, i quali non includono tutti gli albanesi entici, sono gli stessi dell’Albania odierna.

Il comunismo di Hoxha

Questi precedenti giocarono un ruolo determinante all’indomani della II guerra mondiale. Scelto dagli iugoslavi nel fuoco della Resistenza condotta contro i nazisti che dopo l’8 settembre avevano occupato i territori italiani della Balcania (Badoglio lasciò in Albania 130 mila soldati privi di ordini), il comandante partigiano Enver Hoxha governò l’Albania comunista dal 1944 al 1985 (anno della sua morte) combinando spregiudicate alleanze internazionali a un discorso politico nazionalista di stampo appunto risorgimentale. Nei primi anni del dopoguerra l’Albania sembrava avviata a diventare la settima repubblica della Federazione Jugoslava, ma nel giugno del 1948 Stalin ruppe con Tito. Per conservarsi al potere, Hoxha preferì schierarsi con l’Urss, lasciando il Kosovo alla Jugoslavia e resuscitando sul piano interno la secolare narrazione anti serba. Un decennio dopo, il copione sarebbe stato simile: ribelle alle ingerenze sovietiche dello «slavo Krusciov» l’Albania Popolare siglò un’improbabile alleanza con la Cina di Mao: tra gli applausi dell’Occidente, i sottomarini sovietici abbandonarono i porti mediterranei mentre la scelta dottrinaria del marxismo-leninismo isolava il piccolo paese balcanico anche all’interno del Secondo mondo (quello, appunto, orbitante attorno all’Urss).

Il comunismo albanese fu una risposta violenta ai bisogni di una società agropastorale, rimasta a livelli di vita primordiali: ad appena un milione di abitanti – per l’80% contadini poveri, con il 9% della terra del paese a disposizione – un leader finalmente «autoctono» offrì la possibilità di credere al progresso materiale della propria patria. Il prezzo pagato dagli albanesi per la modernizzazione realizzata da Hoxha non è ancora materia di storici altrettanto «locali». Le difficoltà che gli albanesi incontrano nella rielaborazione del loro passato recente si devono al fatto che in quella dittatura «il comunismo» fu poco più di una grammatica dell’economia e della propaganda: una lingua straniera utilizzata per adattare al contesto della Guerra fredda quella peculiare narrazione etnica che affonda le sue radici nell’identità culturale albanese e il cui frutto moderno è, appunto, lo stato albanese. Studiare il regime enveriano implicherebbe la sua comprensione all’interno della storia che lo ha preceduto; se, ancora oggi, quest’operazione viene rimandata è perché l’intoccabile mito nazionalista fonda anche l’Albania democratica. Purtroppo, nessuna coscienza storica ha mai illuminato il cammino della nascente democrazia albanese: né a livello accademico, né a livello di élite politiche. Il risultato, visibile, sono ferite non rimarginate. Lasciate senza spiegazioni, le persone comuni, cresciute lacerate tra due mondi, sanno soltanto che si stava peggio (o meglio) «quando c’erano i comunisti»: come se anche questi ultimi fossero invasori venuti da fuori.

Passaggi complessi

L’Albania è uno stato balcanico e in quanto tale si pensa e si racconta come «unico» (il nazionalismo balcanico è fondato sull’appartenenza etnica) e «mutilato» (non soltanto del Kosovo, ma anche di parte della Macedonia e del Sud della Grecia). Nel 2014 hanno fatto il giro del mondo le immagini di Serbia-Albania, partita valida per la qualificazione all’Europeo di Francia, sospesa per rissa dopo che un drone telecomandato aveva fatto piovere sullo stadio una bandiera dell’«Albania etnica» munita di Kosovo. L’accaduto venne derubricato a «poco edificante folklore sportivo», ma non sfuggì alle cancellerie europee la rinuncia del primo ministro albanese Edi Rama alla storica visita in programma pochi giorni dopo a Belgrado (gli ultimi leader a incontrarsi erano stati Hoxha e Tito, nel 1948). Se il mito risorgimentale della nazione rimane il discorso politico più comprensibile all’opinione pubblica interna, l’Europa è oggi presente nelle esternazioni di tutti i politici albanesi, indipendentemente dall’appartenenza di partito. Come lo stesso Rama ama ricordare in ogni visita all’estero, «l’Albania è il paese più europeista d’Europa». Un’asserzione che contiene elementi di verità, ma che non indaga le ragioni di questa propensione. Per la maggior parte degli albanesi l’Ue – che il giornalismo albanese confonde volentieri con la Germania di Angela Merkel – è un club di paesi ricchi dal quale non si vuole venire esclusi. Che l’integrazione esiga dei doveri è chiaro a tutti, ma che questa implichi il superamento culturale dell’idea di confine nazionale non è ben spiegato ai cittadini albanesi: né dai propri politici nazionali, ferventi europeisti anzitutto quando parlano in inglese, né dalla delegazione della Commissione europea aperta a Tirana, che con i suoi report monitora l’avanzamento delle riforme necessarie all’apertura dei negoziati d’adesione, faticando a rendersi comprensibile al di fuori di una ristretta cerchia di privilegiati della capitale.

Lo sbandierato «europeismo» di un’Albania, che – dal 2014 – è ufficialmente candidata all’Ue, va dunque collocato all’interno di quella generica e ingenua «esterofilia» che ha accompagnato il passaggio del paese dal socialismo paranoico al liberismo selvaggio. Da questo punto di vista, la discontinuità incarnata dal governo Rama si ridimensiona.

Dopo Sali Berisha

Le elezioni politiche del 2013 hanno posto fine all’era di Sali Berisha – il leader del Partito democratico (la destra albanese) che dal 1992 aveva gestito, seppur con qualche interruzione, la transizione dal comunismo. Ma, nonostante la vittoria di una ritrovata coalizione socialista, la strategia economica del paese rimane appiattita sul paradigma neoliberista: apertura alla delocalizzazione estera, riassorbimento della domanda di lavoro affidato agli investimenti stranieri, nessuna tutela per i lavoratori albanesi che rimangono in patria. La proliferazione di call center internazionali che lucrano sul plurilinguismo dei giovani retribuendolo 200 euro al mese è la manifestazione più simbolica dell’assenza di politica nazionale. Più di dieci anni fa, sulle pagine di questa stessa rivista, Pier Paolo Ambrosi osservava che «finché una parte importante della popolazione, a causa delle serie condizioni di povertà in cui vive, rimane praticamente esclusa dal circuito economico, essa non avrà alcun legame né interesse verso le forme di pratica della democrazia». Questa drammatica considerazione è altrettanto attuale oggi, e trova conferma nelle promesse clientelari che precedono ogni tornata elettorale, nell’elezione del faccendiere Ilir Meta a presidente del parlamento, nelle proteste di diversi governi europei per le domande d’asilo che ancora giungono dall’Albania e nel fenomeno di «spedizione» di minori non accompagnati denunciato di recente proprio dai servizi sociali italiani. I gommoni non ci sono più, ma la corruzione, il disagio sociale, la disillusione e il conseguente sogno d’emigrazione a tutti i costi sono lungi dall’essersi esauriti.

Tra corruzione e riforme

Per cercare di traghettare il paese nel futuro, il nuovo governo «socialista» ha rilanciato con abilità l’immagine dell’Albania all’estero – talvolta sbandierando che «qui da noi non ci sono i sindacati», talvolta ottenendo importanti riconoscimenti come l’agognata candidatura all’Europa – ma ha anche affrontato difficili riforme, come quella dell’Università, mirata a fare ordine nel caotico panorama degli istituti privati, e quella della giustizia, che dovrebbe aprire la strada a una magistratura finalmente indipendente. Nonostante la corruzione del sistema politico e sebbene il parlamento continui a dimostrarsi permeabile agli interessi della criminalità organizzata, la riforma della giustizia è passata all’unanimità. La stampa internazionale e le istituzioni europee hanno salutato con soddisfazione il «risultato epocale», fingendo di non sapere che nei giorni immediatamente precedenti la delegazione Ue e l’ambasciatore americano in persona avevano minacciato i deputati albanesi di pesanti ritorsioni nel caso in cui avessero votato contro. In attesa che il futuro ci dimostri che in questo caso il fine europeo ha giustificato i mezzi, è doloroso constatare come una volta superato lo strapotere di Berisha la «democrazia albanese» non possa ancora togliersi le virgolette.

Ammessi i ritardi socio economici, dopo vent’anni di sviluppo caotico ma ininterrotto, l’Albania continua a possedere un notevole potenziale. Stiamo parlando di un paese demograficamente giovane, straripante di bellezze naturalistiche e seduto su un invidiabile patrimonio storico: al confine (strategico) tra Oriente e Occidente, balcanica ma non iugoslava, ex comunista ma non ex sovietica, musulmana ma occidentalizzata, la storia di questo piccolo stato è costellata di apparenti contraddizioni che una volta accettate dal popolo, che ne è custode, potrebbero sprigionare la loro inestimabile ricchezza.

Statue, piramidi, rifugi

Per godere delle contraddizioni albanesi, basta una passeggiata nel centro di Tirana: una città cui la speculazione edilizia degli anni Novanta ha negato per sempre l’aggettivo «turistica», ma che anche per questo risulta interessante a tutti i visitatori stranieri, peraltro in crescita esponenziale. Facciamo due passi in piazza Skanderbeg: in quale altra piazza del mondo s’incontrano a distanza di pochi metri gigantismo sovietico, neoclassico italiano e una moschea ottomana? Circondato dal pastiche architettonico dei dominatori stranieri, al centro della piazza campeggia la statua equestre dell’eroe dell’etnia: uno Skanderbeg invincibile, mitologico e, in quanto tale, poco propenso a valorizzare le strepitose contaminazioni che, certo figlie delle sconfitte, hanno reso unica l’Albania. Pochi metri più a Sud, lungo il boulevard di costruzione italiana, si trova la «Galleria nazionale delle arti». Se al suo interno un piano è dedicato alle opere del regime, la celebre statua di Stalin che, fino al 1968, occupava il posto di Skanderbeg è nascosta, incappucciata, dietro l’edificio. Nello stesso oblio versa l’incredibile piramide che la figlia del dittatore volle erigere a memoria del padre (1988). Per tutta la transizione democratica, questi segni, fonte di fascino e d’interesse per i forestieri, sono stati ragione d’imbarazzo per gli albanesi: il «Baffo» è rimasto in punizione dietro la galleria che poteva ospitarlo e la piramide, altrettanto abbandonata, ha rischiato a più riprese la demolizione. Soltanto nel novembre 2014, in occasione dei 70 anni dalla Liberazione, Edi Rama ha finalmente messo mano alla memoria collettiva, aprendo alla cittadinanza il rifugio militare che Hoxha fece costruire tra il 1970 e il 1972 alle pendici del monte Dajti. Ogni ambiente del sotterraneo, furbescamente ribattezzato Bunk’Art, è oggi adibito a museo. In una delle stanze più visitate, nominata «camera di Hoxha», foto a mezzo busto del dittatore circondano una televisione d’epoca: in onda, a loop, le immagini del suo funerale. Sono indimenticabili le facce dei bambini albanesi che si assiepano davanti a quella Tv. I genitori, timorosi di un passato che hanno vissuto, in genere fanno per tirarli via; ma i piccoli insistono, ipnotizzati da una storia che in fin dei conti è anche loro. Sono quei bambini, e non vecchi eroi a cavallo, il futuro, l’unico possibile, dell’Albania. Futuri cittadini cui i governanti attuali dovranno saper fornire una memoria e una direzione: un motivo per rimanere. Quando la giovane Albania democratica si dimostrerà capace di accettare, ricostruire e raccontare in autonomia la propria complessa storia, nel cuore dei suoi giovani figli nasceranno senza dubbio nuove motivazioni, il desiderio di scriverne il seguito.

Nicola Pedrazzi*

* Nicola Pedrazzi (Bologna, 1986) è giornalista pubblicista e redattore dell’agenzia stampa NEV-Notizie Evangeliche. A nome dell’Università di Pavia ha speso in Albania tre anni di ricerca dottorale. È stato corrispondente da Tirana per l’Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) e per Kosovo 2.0.




Giappone: Il prezzo del Mercato


Tra i grandi paradossi dell’era moderna non c’è solamente quello di un mondo diviso tra chi soffre la fame e chi invece ha fatto dello spreco una parte integrante del proprio stile di vita, c’è anche quello di un mondo in cui, mentre molti soffrono per la disoccupazione (il tasso in Grecia è del 28%, in Spagna del 26% e quella giovanile in Italia del 40%), altri soffrono (e muoiono) per troppo lavoro. Emblematico un caso di morte da troppo lavoro a Tokyo che ha scosso la coscienza dell’intero Giappone.

Lei aveva solo ventiquattro anni, lavorava presso una delle più grandi agenzie pubblicitarie del Giappone. A Natale del 2015 si è gettata dal terzo piano, dalla stanza del dormitorio nella quale viveva.

Seppure i morti sul lavoro in Giappone siano all’ordine del giorno, questo suicidio ha avuto una risonanza mediatica senza precedenti.

Matsuri, questo il nome della giovane donna, lavorava per la Dentsu, ovvero il gigante della pubblicità noto proprio per le troppe ore di lavoro a cui sottopone i sui dipendenti e per una gestione del personale spietata. Una delle prime morti per troppo lavoro nella stessa azienda risale addirittura al 1991 quando un uomo, anche lui di ventiquattro anni, si era impiccato in casa. Nel 2000 la più alta corte del Giappone aveva stabilito che quel suicidio era stato causato da insostenibili condizioni di lavoro. In quell’occasione l’azienda aveva concordato con la famiglia della vittima un risarcimento di quasi due milioni di dollari.

Il caso di Matsuri è diventato emblematico perché grazie ai social media su cui lei regolarmente comunicava possiamo ricostruirne passo per passo il lungo calvario: dalla grande euforia iniziale per essere stata assunta da una grande azienda, sino ai messaggi finali, quelli che in rete sono diventati virali. È da questi ultimi che si capisce distintamente lo strazio interiore della giovane: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita», si legge in uno dei suoi tweet.

Una storia di «successo»

Matsuri aveva ventitré anni quando è entrata nell’azienda dopo una laurea presso l’Università di Tokyo (una delle più importanti di tutto il Giappone). Era una ragazza piena di speranza e di ottimismo, così l’hanno descritta i suoi amici.

L’azienda Dentsu aveva ridotto il numero di dipendenti da 14 a sei all’interno della divisione nella quale Matsuri era impiegata. Ma il carico di lavoro non era diminuito. Matsuri aveva iniziato il suo primo lavoro accumulando la bellezza di 100 ore di straordinari al mese. Sul suo micro blog raccontava la crescente fatica di tenere il passo con quei ritmi forsennati: «Il mio capo mi ha detto che i documenti che ho scritto dopo il ritorno dalle vacanze erano spazzatura. Sono mentalmente e fisicamente devastata»; «Ho perso ogni sentimento, tranne il desiderio di dormire»; «Forse la morte è un’opzione molto più felice».

Moltissimi giapponesi si sono commossi quando questi tweet sono stati resi noti e hanno lasciato messaggi di solidarietà. In particolare, numerosi sono stati i messaggi da parte di donne infuriate nel sapere che a Matsuri, sul procinto di crollare mentalmente e fisicamente, veniva richiesto da parte del capo (di sesso maschile) di mostrare un maggior appeal femminile, e di mantenere un aspetto più attraente. Un tipo di richiesta che non è affatto un caso isolato: sono molte le lavoratrici in Giappone che prima o poi ricevono questo tipo di richiesta durante la loro carriera.

La mattina di Natale (2015) la ventiquattrenne ha inviato il suo ultimo messaggio, diretto alla madre che viveva a Shizuoka, non molto distante da Tokyo. Il testo era un laconico: «Grazie di tutto». La madre, presagendo la disgrazia, ha chiamato immediatamente la figlia pregandola di non uccidersi. Ma neppure la voce di sua madre è stata sufficiente a farla desistere.

Karoshi

Certamente il concetto di lavorare troppo non riguarda solo i giapponesi (in molti altri paesi, e non solo dell’Asia, lavoratori sono sottoposti a orari da schiavi senza neppure il beneficio di giusti salari), ma in Giappone la questione è presa molto più seriamente, al punto da coniare un termine ad hoc per parlarne.

Karoshi, (parola composta da tre caratteri kanji, ? ? ?, che significano letteralmente “eccessivo”, “lavoro”, “morte”), è il termine per definire appunto la morte da troppo lavoro.

Le cause di morte possono essere attacchi di cuore o ictus risultato di lunghi periodi di stress. Spesso però il super lavoro porta direttamente al suicidio, fenomeno per il quale esiste un’altra parola specifica, ? ? ??, karojisatsu. E mentre il Giappone sta tentando di aprire ai nuovi migranti (per lo più cinesi e filippini) per bilanciare il declino delle nascite e dunque delle nuove generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro, anche gli stranieri cominciano a tremare per i trattamenti a cui potrebbero essere sottoposti, vedendo quanto è accaduto recentemente a una filippina di ventisette anni che ha fatto karoshi. I suoi straordinari avevano toccato il picco di 123 ore in un mese.

Un fenomeno diffuso

Il primo caso ufficialmente riconosciuto come suicidio per stress da lavoro nel Sol Levante fu registrato nel 1969, ma è solo un decennio più tardi (1978) che venne creato il vocabolo specifico karoshi e solo negli anni ’80 venne riconosciuto come un serio problema sociale, non a caso proprio durante il boom economico.

In quegli anni alcuni dirigenti aziendali di alto livello erano morti senza alcun accenno di malattia pregressa. Queste morti vennero riprese dai media suscitando una crescente preoccupazione. È a questo punto che il governo iniziò la raccolta e la pubblicazione di informazioni sul karoshi come possibile causa di morte.

In un recente sondaggio del governo giapponese – una ricerca mirata a circa 10.000 aziende e 20.000 lavoratori – si è dimostrato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro.

Lo studio ha rilevato che circa il 22 per cento dei dipendenti giapponesi accumula più di 50 ore al mese di straordinari, mentre nel Regno Unito e in Francia le percentuali sono del 10-15 per cento.

Il 22,7 per cento delle imprese ha riferito che alcuni dei loro impiegati producono più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore – circa quattro ore al giorno da aggiungere al normale orario di ufficio – sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di darsi la morte si intensifica in modo drammatico.

Il top delle aziende stacanoviste sarebbe però il 12% del totale, quelle i cui dipendenti toccano la vetta delle 100 ore di straordinari al mese. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore Information Technology e delle comunicazioni, come anche quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto.

Va aggiunto che il lavoro supplementare di ogni impiegato è composto anche da straordinari non dichiarati, detti furoshiki, (nome che deriva dalla tradizionale stoffa giapponese per avvolgere – dunque nascondere – scatole o regali). E tantissime sono le ore di straordinario che non vengono registrate e che quindi non vengono prese in considerazione dalle statistiche.

Ora l’obiettivo del governo giapponese è quello di abbassare la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana per arrivare a una soglia «salutare» del cinque per cento del totale dei lavoratori.

Super lavoro, storia antica

Il mondo del super lavoro in Giappone non è però una realtà recente, risale a prima della seconda guerra mondiale, in un periodo dove le leggi sul lavoro appena esistevano. Quel periodo è stato immortalato sia nel cinema che in letteratura. Su tutti spicca il saggio di Tsuneichi Miyamoto, Nihon zankoku Monogatari (Racconti crudeli dal Giappone). Miyamoto descrive nei minimi dettagli la situazione dei lavoratori sfruttati negli anni precedenti la guerra. In quelle storie ci troviamo di fronte a una realtà brutale in cui uomini e donne, giovani e vecchi, venivano spogliati dei loro diritti e costretti a turni massacranti di 15 ore al giorno.

Erano gli anni ’20, quando si lavorava gomito a gomito all’interno di fabbriche tessili improvvisate in spazi ridottissimi. Non erano rare le epidemie di colera e tubercolosi che decimavano in pochissimo tempo i lavoratori. Chi si ammalava veniva semplicemente abbandonato. In questo sistema di lavoro molti si suicidavano.

Ma il Giappone di oggi non ha apparentemente nulla a che fare con quello di un secolo fa, e i giovani giapponesi non fanno certo i lavori massacranti dei loro antenati, lavori oggi svolti quasi totalmente da immigrati stranieri.

In più il curriculum di Matsuri era invidiabile: laureata nella più importante università del paese, giovanissima, aveva trovato impiego nella più grande agenzia pubblicitaria del Giappone. Nonostante il clamore suscitato dalla sua morte e, conseguentemente, da tutto ciò che di torbido è emerso sulla compagnia per la quale lavorava, sono tantissimi i giovani che ancora oggi ambiscono lavorare per quell’azienda.

Vita e lavoro

Una possibile spiegazione di questo atteggiamento apparentemente irragionevole la si può ricavare da un recente sondaggio. Si è dimostrato come il 90% dei lavoratori giapponesi non comprenda affatto il concetto di equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla vita privata, in quanto per molti il lavoro coincide esattamente con la propria esistenza: quattro su cinque dipendenti sono pronti ad annullare tutti i propri impegni pregressi nel caso venisse chiesto loro di fare degli straordinari.

Lo sa bene Emiko Teranishi, 67 anni, a capo di una rete nazionale di familiari delle vittime di karoshi, la quale ha recentemente raccontato la vicenda di suo marito. Era un manager in un ristorante di soba noodle (tagliatelle giapponesi) nella prefettura di Kyoto, lavorava più di 4000 ore l’anno (oltre 10 ore al giorno nei 365 giorni dell’anno, ndr). Si è suicidato in seguito a una lunga depressione dovuta alla mancanza di sonno causata dal troppo lavoro.

Solo pochi giorni prima della sua morte il marito aveva avuto il coraggio di parlare con il proprio capo circa i propri disturbi di salute: non aveva più appetito, non riusciva a dormire ed era esausto.

Una società gerarchizzata

Ma perché i lavoratori si lasciano convincere così facilmente a compiere straordinari oltre le proprie forze fisiche e mentali? Solo dieci anni fa tutti gli analisti di questo fenomeno avrebbero risposto: per mostrare la fedeltà alla loro azienda. Ma oggi la flessibilità lavorativa è una realtà anche in Giappone, e un impiego a vita per la stessa azienda è un fatto più unico che raro, la risposta va cercata nel rispetto che i subalterni nutrono verso i propri superiori.

Basta pensare che già a partire dalle scuole medie, cioè ad appena 12 anni, si viene educati al valore e al rispetto assoluto della gerarchia sociale: ogni studente infatti deve rivolgersi al proprio compagno/a di età superiore (basta anche un solo anno) con un linguaggio formale (keigo) ovvero mostrando una riverenza implicita già a partire dalla scelta delle parole. Questa formalità viene abbandonata solo nel caso in cui la persona che si trova nella posizione gerarchica superiore ne concede la possibilità.

I giovani a rischio

E non c’è da meravigliarsi che a togliersi la vita siano i più giovani. In Giappone infatti i ragazzi già un anno prima della laurea iniziano a partecipare a dei colloqui di lavoro chiamati shukatsu. Lo shukatsu comporta intensi colloqui con decine di aziende. È un lavoro vero e proprio – ci sono decine di manuali su come prepararsi al meglio per lo shukatsu – che comporta stress elevatissimi.

Ragazzi appena laureati e già in recruit suit (uniforme nera standard che si indossa durante la ricerca di lavoro), affrontano decine di colloqui con la più grande paura: quella di non riuscire a trovare immediatamente un buon lavoro. Ed è per questo che partecipano al maggior numero di colloqui possibile (mediamente sono 60), così da assicurarsi un impiego anche al di là dei propri interessi di studio: ciò che conta è tornare a casa e mostrare ai propri genitori un posto sicuro sul quale poter costruire un futuro.

Un professore di una nota Università giapponese ha recentemente innescato una polemica ribadendo come quella dei ventenni di oggi sia una generazione di sfaticati che rispetto alle vecchie generazioni non avrebbe la stamina sufficiente per compiere il proprio dovere (vedi appunto le decine di ore di straordinari). Molti giovani hanno trovato il coraggio, anche grazie all’anonimato di cui godono nei social media, di far notare a quel professore come al giorno d’oggi è anche abbastanza normale che le ore di lavoro si riducano semplicemente perché gli strumenti tecnologici permettono a un impiegato di produrre molto di più di quanto non avvenisse trent’anni fa.

Riforma del lavoro

In ogni caso dopo l’ultimo scandaloso caso di suicidio per troppo lavoro il governo sembra aver finalmente preso atto della situazione, «La riforma del lavoro non è solo un problema sociale, è di tipo economico», ha detto recentemente il primo ministro Shinzo Abe ai giornalisti, «se rivediamo le regole del lavoro straordinario potremo migliorare l’equilibrio tra tempo dedicato alla vita e al lavoro, rendendo più facile per i dipendenti – tra cui donne e anziani – avere un lavoro sereno».

Cinquanta aziende, tra cui i grandi gruppi Daiwa Securities Group Inc. e Seven & I Holdings Co., hanno firmato un accordo per eliminare addirittura gli straordinari.

La Yahoo Japan Corp. sta prendendo in considerazione la possibilità di introdurre una settimana lavorativa di soli quattro giorni. Perfino il nuovo governatore di Tokyo, Yuriko Koike, ha recentemente messo per iscritto che il personale negli uffici governativi non può restare a lavoro oltre le otto di sera.

Questi sono tutti piccoli segnali ma se messi insieme dicono che forse, gradualmente, le cose in Giappone sul fronte del lavoro, possono davvero migliorare.

Cristian Martini Grimaldi*

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* Scrittore e giornalista. Ha vissuto negli Stati Uniti, India, Corea, Cina. Vive a Tokyo. Collabora con varie testate italiane ed estere, si occupa di cultura, religione, condizione delle minoranze e diritti umani in Asia ed Estremo Oriente (da www.huffingtonpost.com).




Insegnaci a pregare 2: Non sappiamo pregare


Separare lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo è un’operazione antistorica e contraria alla fede. Essa impedisce di sperimentare la presenza di Dio con cui instaurare un dialogo d’amore. Sant’Agostino, che pure è responsabile di quella separazione in occidente, così dialogava con il Signore: «Tu sei a me più intimo del mio [stesso] intimo e più profondo della mia [stessa] profondità – interior intimo meo et superior summo meo» (Confessioni, III, 6, 11). Non basta scegliere una chiesa vuota, magari buia o in penombra per illudersi di pregare. È solo un psicologismo riparatorio per consolarci e assolverci per la nostra sistematica assenza dalla vita di Dio. La preghiera non è «una» dimensione della spiritualità – in tal caso sarebbe un accessorio -; essa è uno «stato» permanente dell’essere credente, come l’aria che si respira lo è della vita.

Pregare è innamorarsi

Pregare! Parola magica e tragica insieme, piena di evocazione, parola difficile che spesso non sappiamo riempire, perché scomoda e di cui abbiamo smarrito il senso. Pregare! Che cosa significa? San Paolo, che ne ha vissuto dramma e consolazione, spina e tenerezza, ci avverte nella lettera ai Romani: «Noi non sappiamo pregare/chiedere» (cf Rm 8,26). La stessa Parola di Dio, quindi, ci mette sull’avviso che la preghiera si apprende, s’impara andando a scuola da Gesù, l’unico esegeta del Padre (cf Gv 1,18), il solo Maestro (cf Gv 13,13). San Paolo, ai Corinzi che s’inebriavano d’intelligenza e di «mente», scrive:

«11I segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio… noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato… 14Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito… 16Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? [cf. Is 40,13] Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor. 2,11-12.14.16).

Solo lo Spirito conosce Dio e, quindi, solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito. Per entrare in relazione con Dio, bisogna avere un rapporto stabile con lo Spirito che ci mette in contatto con il pensiero di Cristo, superando la tentazione di Àdam, sempre in agguato, che cerca di sostituire lo Spirito con le sue forze che si rivelano «follia» e presunzione. Occorre abbandonarsi alla tenerezza dello Spirito se non vogliamo precluderci «i segreti di Dio», cioè la sua intimità. Diversamente ci attorcigliamo nella follia del nostro narcisismo volontaristico per apparire chi non siamo, moltiplicando parole su parole, perdendo tempo senza raggiungere alcun frutto. Sapendo che ci saremmo impantanati nella preghiera di contrattazione mercantile, lo stesso Gesù, l’uomo spirituale per eccellenza, ci aveva già messo in guardia, prima di regalarci il «Padre nostro», avvertendoci: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8). Segue il «Padre nostro», composto da sette domande: tre sono centrate sulla persona di Dio e quattro sulle relazioni fondamentali tra le persone. Il numero sette in ebraico indica totalità, a dire che nel «Padre nostro» c’è tutto e il resto è superfluo. Il commento supplementare di Gesù al «Padre nostro» è la parabola degli «uccelli del cielo» e «dei gigli del campo» per confermarci che è tempo perso chiedere a Dio «ciò di cui abbiamo bisogno», perché lui conosce già le nostre necessità. Quando vogliamo pregare di solito entriamo in una chiesa o una cappella, o magari ci ritiriamo in un angolo quieto della casa, e subito cominciano a parlare e a chiedere. Ci siamo mai fermati a «perdere tempo» con Dio che pure diciamo di amare «sopra ogni cosa»? Ci siamo mai interessati a lui, indipendentemente dai nostri bisogni? Dio, come stai? Come è andata oggi? Sei stressato anche tu, in questo mondo frettoloso che si uccide da solo? Molto spesso trattiamo Dio non come un «Padre», né come un Amico, ma come un distributore automatico: entriamo, mettiamo la moneta e pigiamo il pulsante per avere quello che c’interessa. Buon giorno, buona sera e alla prossima puntata.

Abitudine e passione

Il problema, forse, è che non ci fidiamo abbastanza né di noi né di Dio e quando parliamo di Provvidenza, il nostro cuore pensa alla previdenza. Altro che Spirito! C’è uno scollamento tra la vita feriale e le parole che diciamo e per questo il mondo non può credere, perché noi non siamo credibili e non abbiamo mai pensato che dirsi credenti non significa «andare a Messa» o in processione, o «confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua»; ma soltanto assumersi la responsabilità della credibilità di Dio che passa attraverso la nostra credibilità. Parliamo di amore fraterno, di amore gratuito, di accoglienza, di poveri, di perseguitati, di crocifissi e poi nutriamo sentimenti razzisti davanti agli immigrati, guardandoci bene dal dirlo apertamente, ma pensandolo nel profondo della nostra paura. Dio, l’Eucaristia, la Parola sono un’abitudine che abbiamo ricevuto per tradizione e non sono mai entrati a circolare come sangue nelle vene della nostra esistenza di credenti in Dio. L’unico e il solo che ha preso sul serio questa pagina «sine glossa» è stato Francesco di Assisi, il solo di cui, come abbiamo accennato, si poté dire che «non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso».

La preghiera, infatti, non è un’attività, ma uno «stato» interiore di comunione/intimità tra Gesù e suo Padre, tra noi, Gesù e il «Padre nostro». È una consuetudine di dialogo affettivo e reale che si snoda lungo la vita, nella giornata, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non è un processo psicologico emotivo, anche se questi aspetti sono presenti, ma è una dinamica di relazione tra due persone che si conoscono, si stimano, si accolgono, si desiderano. Pregare è essere presente, non per educazione, ma esclusivamente perché l’altro è importante: la persona più importante, senza della quale non si può vivere. Spesso confondiamo la preghiera con la recita di formule più o meno complesse che esprimono solamente il nostro bisogno psicologico di «sentirci» protetti e al sicuro, col rischio che si possa confondere la preghiera con il parlare con se stessi. Ci affidiamo alle parole perché abbiamo paura del silenzio che è la condizione dell’ascolto.

La persona narcisista che si parla addosso, non è capace di ascoltarsi e di ascoltare, per cui di norma resta estranea non solo agli altri, ma anche a se stessa. Anche se utilizziamo i salmi e ci serviamo della Liturgia delle Ore, non è detto che stiamo pregando. Se non sappiamo pregare, occorre imparare a capire chi si è, a quale livello di profondità e per quale scopo si vive e conoscere il perno attorno a cui ruota tutta la nostra esistenza. Essenzialità e priorità: abbiamo mai pensato a individuarle? Il primo passo della preghiera è «sapere cosa vogliamo» da noi stessi, «dove» siamo nel cammino della nostra vita e nella storia della salvezza. Da questa prospettiva la preghiera è la costante verifica di questo percorso, illimpidirsi lo sguardo per vedere «dove» si è e «dove» si va, per non correre invano o, peggio, a vuoto. La preghiera non è una routine che si consuma ogni giorno con le stesse modalità: Lodi al mattino, Ora media durante la giornata, Vespro la sera e Compieta prima di andare a dormire. Possibilmente trafelati. Molti religiosi e cristiani che pregano con il «Breviario» spesso s’illudono di pregare solo perché «recitano» la preghiera ufficiale della Chiesa, perché «obbligatoria» e quindi «per non fare peccato», limitandosi inevitabilmente alla materialità delle formule, in fretta e senz’anima. Non si rendono conto che hanno ingannato se stessi, illudendo gli altri che eventualmente li osservano.

Se pregare è un rapporto d’amore, occorre essere innamorati (è un concetto che ritornerà spesso in questa nostra riflessione) e, in ogni rapporto d’amore, i due innamorati devono sapere chi sono per se stessi e l’uno per l’altra, scoprendosi reciprocamente come l’uno sia la parte migliore dell’altra. Non si può essere innamorati a orario, allo stesso modo non si può pregare con lo scadenziario alla mano, come se pregare fosse una tassa da pagare. Un esempio chiarirà questo aspetto importante. Tutti dovrebbero sapere che l’Eucaristia è la preghiera per eccellenza della Chiesa, l’atto centrale della vita di Dio che si manifesta nella vita dell’ekklesìa perché è l’azione con cui il popolo di Dio offre al Padre il Figlio che si dona all’umanità e allo stesso tempo lo riceve come benedizione da spargere nel mondo con il sacramento della testimonianza della vita.

Altri tempi, altra preghiera

I martiri di Abitène (vedi Box) nel 304 non esitarono a morire per celebrare l’Eucaristia domenicale e, al procuratore romano che voleva costringerli a desistere, risposero senza tentennamenti: «Sine dominico, non possumus», cioè «Senza la Messa domenicale, non possiamo vivere» (Atti dei Martiri di Abitène, XII), perché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il Perdono, la Fraternità, l’Universalità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso.

L’Eucaristia è non solo «un sacramento», ma la vita stessa della Chiesa perché è l’annuncio al mondo che Cristo è risorto e «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Come può, dunque, l’Eucaristia diventare un’abitudine, un atto di devozione, un dovere/obbligo/precetto «per non fare peccato»? Si può amare per dovere? Se l’amore fosse un dovere, nessuno amerebbe e nessuno si sposerebbe e nessuno avrebbe figli e figlie. Si ama e si può amare solo per amore, e per amore a perdere, non per averne una contropartita. Certo, l’amore ha dei doveri, che però ne sono conseguenza, mai la ragione. La maggior parte dei credenti, fa tranquillamente a meno dell’Eucaristia domenicale e se va a confessarsi, mette tutto a posto con «ho perso qualche Messa». Nelle stesse comunità religiose, la Messa è «una pratica di pietà» banale da sistemare alla meno peggio. Se nell’Eucaristia cerchiamo una consolazione sentimentale o vi «andiamo» per compiere un dovere necessario, perché vi siamo obbligati dalla «legge», siamo ancora nel vecchio mondo, anzi restiamo morti e incapaci di cogliere la novità della storia, cioè che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3,13). Partecipare all’Eucaristia è vivere esistenzialmente la preghiera piantati nel cuore di Dio perché il popolo convocato innalza sul mondo colui che è stato trafitto affinché tutti possano alzare lo sguardo su di lui e ricevere il dono dello Spirito: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; Zc 12,10).

Di fronte a questo evento che sconvolge la vita di Dio e quella della Chiesa, l’atteggiamento corrente è tragico: l’Eucaristia – la Messa – è trasformata in un «atto di devozione» privato e banale, «Dico Messa la mattina, così mi tolgo il pensiero per la giornata». Dire Messa! Una recita e null’altro. Nelle parrocchie le «Messe» sono misurate sulla persona del prete o delle intenzioni: Messe ripetute a ogni ora, anche se vi partecipano poche persone oppure tante Messe quanti sono i preti perché a ogni Messa corrisponde un’offerta. È un dramma avere legato l’Eucaristia a «un’offerta sinodale», mercificando anche il corpo di Dio. Quanti preti celebrerebbero la Messa se non fosse legata a una offerta? Non sta qui la ragione prima della secolarizzazione e dell’incredulità del mondo di oggi? I preti sono professionisti, non «sacramento» della gratuità di Dio. Non era questa l’intenzione, ma a forza di agire così si è arrivati a commercializzare anche l’atto supremo della preghiera e della gratuità fino a ridurlo a una pia pratica di devozione come tante.

Amare esige tempo

In molte parrocchie e chiese, per esempio, mezz’ora prima dell’Eucaristia, si recita il Rosario o si fa l’esposizione del Sacramento eucaristico che è o dovrebbe essere la conseguenza dell’Eucaristia celebrata. In questo modo «si riempie» il tempo con altri «momenti» perché non si è abituati né al silenzio né a essere silenzio di ascolto e di amore. Bisogna «fare», con l’esito finale che si finisce per fare male ogni cosa. In certi luoghi poi – molto di più nel passato, quando era un’abitudine – le parrocchie affittavano un confessore che stava fisso in confessionale durante tutta la Messa. Si «andava a Messa» per prendere due piccioni con una fava: «prendere Messa» e «mettersi a posto», finendo per non fare bene né l’una né l’altra cosa. Ciò che era importante era la presenza fisica, l’adempimento giuridico e formale, non l’atteggiamento spirituale del cuore. Determinante era arrivare alla Comunione «confessati». Pazienza se si era sacrificata la Parola di Dio, cioè la prospettiva vitale per cui Dio stesso si è scomodato per annunciarci il suo progetto di amore e si tornava a casa consci di aver compiuto il proprio dovere quantitativo… fino alla prossima volta. Le stesse Messe «a tutte le ore» erano finalizzate a facilitare la frequenza, senza alcun riferimento all’elemento comunitario, all’assemblea come «luogo» supremo dell’incontro d’amore tra Dio e il suo popolo. Tutte le Messe, tranne quella dei «bambini», erano deserte, con uno sparuto numero di presenti, sparpagliati nell’immensa chiesa, uno qua, l’altro là e il prete laggiù in fondo, quasi invisibile che recitava formule astruse per un dio sconosciuto. Ognuno per sé e Dio per tutti.

Raramente si sente dire: celebro l’Eucaristia nell’ora per me più importante della giornata. Gli Ebrei insegnano che ci vuole almeno un’ora di tempo per predisporsi all’incontro con Dio. Attenzione alle parole: non per incontrare Dio, ma solo per predisporsi all’incontro. Quando due innamorati si preparano per incontrarsi tra di loro, sono così contaminati dalla presenza, ancora assente, dell’altro che l’attesa è già più passionale dell’incontro perché la preparazione minuziosa e intensa si prende il tempo necessario, coinvolgendo tutta la gamma dei sentimenti umanamente possibili, dall’ansia al desiderio, dalla frenesia all’immaginazione. Tutto è finalizzato alla persona attesa che è potentemente presente prima ancora di averla incontrata. Se avviene questo nei rapporti umani perché a Dio consacriamo gli scarti di tempo e di energie? Pregare è come l’amore: perdere tempo per la persona amata. Lo sa bene il profeta Geremia che, dopo essersi lasciato sedurre, si abbandona, pur sapendo che soffrirà molto: «Mi hai sedotto e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Quando saremo in grado di pregare con queste parole, e queste parole avranno il sapore della carne e del sangue della vita, allora e solo allora, avremo finito il noviziato di apprendimento e potremo cominciare a entrare nella dinamica della vita di preghiera.

Paolo Farirella, prete
[2. – continua]


Abitène o Abitina

(in latino Abitinae) era una città della provincia romana, detta Africa proconsolaris, oggi Tunisia, a Sud Ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda secondo una indicazione di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona (cf. Contra epist. Parmeniani, III, 6, 2 = CSEL 51,141; cf anche J. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Altertumwissenschaft, I, 1, 101, s.v. Abitinae). Ad Abitène viveva una comunità cristiana. Il 24 febbraio dell’anno 303, l’imperatore romano Diocleziano aveva emanato l’editto contro i Cristiani, ordinando di distruggere i libri sacri, i luoghi di culto in tutto l’impero e proibendo, pena la morte, ogni assemblea per celebrazioni religiose. Il vescovo del luogo, Fundano, si adeguò immediatamente all’ordine imperiale, mentre 49 Cristiani, tra i quali vi era anche Dativo, senatore, e Restituta, continuarono a radunarsi illegalmente con il presbitero Saturnino, celebrando l’Eucaristia. Arrestati, furono tradotti a Cartagine, la capitale della provincia romana per essere processati, il 12 febbraio del 304, davanti al proconsole Anulino. Nessuno abiurò, ma tutti fieramente affermarono il loro diritto di essere cristiani e molti subirono la tortura, morendo. Uno di loro, Emerito, interrogato sul perché avesse disobbedito all’ordine dell’imperatore, rispose la frase ormai celebre: «Sine dominico non possumus – Non possiamo [vivere] senza [il giorno del] Signore», cioè senza la celebrazione dell’eucaristia domenicale (cf. Martyrologium Romanum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001; «Passio SS. Dativi, Saturnini Presb. et aliorum», in Pio Franchi Dei Cavalieri, Note agiografiche. Studi e testi, n. 65, fsc. 8, Città del Vaticano 1935).




Convivere con l’autismo


È un disturbo del cervello e della mente che può manifestarsi in forme molto diverse. Si stima che nel mondo le persone autistiche siano 60 milioni. Per le famiglie dei 500 mila autistici italiani le difficoltà sono tante.

Nel 2007 le Nazioni Unite hanno indetto per il 2 aprile la Giornata Mondiale della consapevolezza sull’autismo. Questa celebrazione annuale ha lo scopo di sensibilizzare la popolazione su una sindrome in aumento e ancora difficile da comprendere e nel contempo di sollecitare le istituzioni a migliorare i servizi e l’assistenza alle persone colpite e alle loro famiglie. In questo numero di MC parleremo delle caratteristiche note della malattia, mentre nel prossimo articolo vedremo quali possibili implicazioni può avere l’inquinamento ambientale sulla sua insorgenza e, più in generale, sullo sviluppo del cervello umano.

Il disturbo autistico

Fino a qualche decennio fa si pensava che l’autismo fosse una conseguenza del rifiuto del figlio da parte della madre in sua attesa, per cui si sottoponevano a inutili sedute psicologiche sia la madre che il bambino. Le conoscenze attuali ci permettono di dire invece che l’autismo è un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato, i cui sintomi compaiono nei primi tre anni di vita. È provato che questa patologia è associata a un disturbo dello sviluppo tanto del cervello (con alterazione delle strutture e delle funzioni nervose) che della mente (con alterazioni dello sviluppo psico-cognitivo ed emozionale).

Secondo il DSM IV-TR (Diagnostic Statistical Manual IV, redatto dall’American Psychiatric Association), il manuale dei disturbi mentali in uso presso gli specialisti, si tratta di una disabilità permanente, che perdura per tutta la vita. Le caratteristiche del deficit variano nel corso dello sviluppo di ogni individuo ed inoltre le manifestazioni della malattia possono essere molto diverse da bambino a bambino, andando da una lieve a una grave sintomatologia, tanto che si preferisce parlare di «Disturbi dello spettro autistico» o di «Disturbi pervasivi dello sviluppo». In realtà in questa categoria i clinici comprendono anche la sindrome di Asperger (che qualcuno considera una forma di autismo ad alto funzionamento, senza ritardo mentale), la sindrome di Rett, o altri disturbi (si veda la tabella). Circa il 50% degli autistici presenta ritardo mentale e il 30-40% epilessia.

Le principali aree di compromissione sono tre e riguardano l’interazione sociale, la comunicazione verbale e non verbale e il comportamento.

L’interazione sociale del soggetto autistico è caratterizzata dalla compromissione, dal ritardo o dall’atipicità dello sviluppo delle competenze sociali soprattutto nelle relazioni interpersonali. Il bambino mostra scarso interesse a relazionarsi con gli altri, tende all’isolamento e può mostrare un’apparente indifferenza emotiva agli stimoli o, al contrario, ipereccitabilità. Inoltre può esserci difficoltà a instaurare un contatto visivo.

La comunicazione dell’autistico è compromessa sia a livello verbale che non verbale. Si stima che circa il 25% degli autistici non sia in grado di comunicare verbalmente, mentre coloro che riescono a utilizzare il linguaggio spesso si esprimono in modo bizzarro, ad esempio con parole fuori contesto o con ecolalia, cioè con molteplici ripetizioni della stessa parola.

L’immaginazione risulta povera e stereotipata. Il bambino autistico difficilmente riesce a fare un gioco simbolico o di immaginazione. I suoi comportamenti sono ritualistici e ripetitivi e caratterizzati da scarsa flessibilità ai cambiamenti della routine quotidiana e dell’ambiente circostante, al punto da avere reazioni abnormi, come perdita di controllo, rabbia, aggressività nel caso in cui qualcosa cambi. Anche le posture e certe sequenze di movimenti possono risultare stereotipati.

Oltre alle tre principali aree di compromissione, la cui osservazione permette di porre la diagnosi di autismo, ci sono altri sintomi che da soli non bastano per fare questa diagnosi, ma che spesso sono presenti come la ipersensibilità agli stimoli sensoriali, le condotte autolesive e le aree di abilità. Ad esempio la capacità di contare un impressionante numero di oggetti in pochissimo tempo o di memorizzare l’elenco telefonico, come faceva il protagonista di Rain Man, film del 1988, che per la prima volta portò il problema dell’autismo sul grande schermo, mirabilmente interpretato da Dustin Hoffman nella parte del malato di autismo e da Tom Cruise, il fratello minore che se ne prendeva cura (in foto).

Più maschi che femmine

Per quanto riguarda la diffusione dell’autismo, non ci sono prevalenze geografiche o etniche, ma si tratta di una patologia ubiquitaria. C’è invece una prevalenza di sesso, poiché i maschi sono colpiti circa quattro volte più delle femmine. La stima di prevalenza più attendibile attualmente sembra essere di 10 casi su 10.000 bambini in età scolare. Secondo il Centers for disease control and prevention (cdc.gov), su dati 2012 riferiti a bambini di 8 anni, 1 su 68 è affetto da disordine autistico (aprile 2016). Confrontando questi dati con quelli del passato, si può dire che attualmente l’autismo è 3-4 volte più frequente di 30 anni fa. Molti studiosi pensano però che, più che un reale incremento della malattia, questa disparità di dati con il passato sia dovuta alla migliore capacità diagnostica di oggi, all’allargamento dei criteri diagnostici, all’abbassamento dell’età alla diagnosi, alla maggiore sensibilizzazione degli operatori e della popolazione in generale verso questo disturbo. Attualmente negli Stati Uniti le persone interessate sono circa 3,5 milioni. Nel mondo le persone autistiche sono circa 60 milioni e si stima che, in Italia, siano circa 500.000 (0,86% circa della popolazione), anche se tuttora nel nostro paese non esistono dati ufficiali.

Oltre al miglioramento della capacità di diagnosticare l’autismo, molti esperti imputano l’aumento del numero dei casi registrati negli ultimi trent’anni a cause genetiche ed epigenetiche. In NPJ Genomic Medicine sono stati pubblicati i risultati di uno studio condotto da S. Scherer all’Hospital for Sick Children di Toronto, in cui sono stati esaminati i campioni di Dna di 200 famiglie con un figlio autistico. In particolare sono state ricercate le mutazioni de novo, cioè quelle non ereditate dai genitori, ma insorte casualmente nel corso della vita nelle cellule germinali. È stato osservato che il 75,6% di tali mutazioni interessa gli spermatozoi e che la loro frequenza subisce un notevole incremento con l’aumentare dell’età del padre. Per quanto riguarda gli ovociti materni, le mutazioni de novo si presentano sotto forma di ammassi (cluster) dovuti a polimorfismi del Dna (variazioni nel numero delle copie di geni), che di solito vengono eliminati spontaneamente dal cromosoma materno. Le mutazioni de novo correlate allo spettro autistico riguardano in particolare geni coinvolti nella trasmissione sinaptica, nei meccanismi dell’espressione dei geni e nell’organizzazione della cromatina. Un’altra interessante ricerca condotta dagli scienziati del Centre national de la recherche scientifique di Marsiglia, mediante la risonanza magnetica nucleare effettuata su bambini di due anni di età, ha evidenziato nell’«area di Broca» del cervello (l’area che presiede alle funzioni del linguaggio e della comunicazione) una minore presenza di materia grigia nei cervelli dei bambini autistici, rispetto ai controlli normali. Questa ricerca ha il merito di avere dimostrato che un marcatore specifico dell’autismo è presente nel cervello già in tenerissima età. Da qui l’importanza fondamentale di una diagnosi precoce, che permetta l’avvio di interventi mirati capaci di sfruttare la neuroplasticità del cervello del bambino, in modo da attivarne le potenzialità, che rimarrebbero sopite con interventi tardivi.

Diagnosi e terapie

Fino a non molto tempo fa la diagnosi di autismo veniva posta tra i due e i quattro anni, ma attualmente gli specialisti ritengono che già intorno ai 18 mesi, quando i genitori si rendono conto che qualcosa non va, sia fondamentale sottoporre il bimbo a visita specialistica. Un esempio di grande recupero dalla malattia è rappresentato dalla dottoressa Temple Grandin, che – pur essendo autistica – è riuscita a conseguire un dottorato in zootecnica presso l’Università dell’Illinois e ha una carriera internazionale nell’ambito delle apparecchiature zootecniche. La Grandin, autrice di Emergence: Labeled Autistic (1986), sostiene che il suo recupero è avvenuto grazie all’intervento di insegnanti esperti a partire dai due anni e mezzo.

La scarsa conoscenza dei meccanismi biologici alla base dell’autismo è chiaramente un grosso limite per una terapia mirata, soprattutto in considerazione dei diversi gradi di disturbo dello spettro autistico. Questo implica l’indispensabilità di espandere la ricerca. Attualmente gli interventi a disposizione per migliorare la qualità della vita dei soggetti autistici sono di tipo farmacologico (limitati di solito ai momenti di maggiore instabilità) e di tipo abilitativo comprendenti diverse metodologie come le tecniche di analisi del comportamento, le tecniche di apprendimento basate sul rinforzo per migliorare le capacità cognitive e adattative, il gioco come tecnica di apprendimento, per migliorare gli aspetti emotivi relazionali. È fondamentale che i piani d’intervento siano personalizzati, così come lo è una stretta collaborazione e cornordinazione tra la famiglia del soggetto autistico, il servizio di neuropsichiatria infantile e la scuola.

L’Italia e la legge 134

Come si affronta il problema dell’autismo in Italia? Pur essendo noto da anni alla scienza, alla medicina e alla società, in Italia la prima legge dedicata specificamente a questo problema è la n. 134 emanata il 18 agosto 2015, contenente «Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie». Questa legge, che stabilisce le linee guida per i servizi, la formazione degli operatori sanitari, la definizione di équipe territoriali, la promozione dell’informazione e della ricerca, le buone pratiche terapeutiche ed educative e la cornordinazione dei vari interventi, rischia di rimanere però solo sulla carta poiché all’art. 4 si dice che «Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate alla relativa attuazione vi provvedono con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente». In tal modo spesso solo le famiglie più abbienti possono fare curare efficacemente i propri figli autistici, rivolgendosi a centri privati. Oltretutto non sempre l’offerta privata è sicura poiché il rischio di incorrere in terapeuti improvvisati, in questo campo, è elevato. Inoltre la legge si disinteressa degli autistici adulti, che al compimento dei 18 anni perdono ogni diritto ad essere seguiti gratuitamente da medici specializzati e da insegnanti di sostegno, rischiando di retrocedere nelle abilità acquisite. Per loro è prevista al massimo l’indennità di accompagnamento. Insomma, l’autismo è per sempre, ma la legge italiana non lo sa. Anche se forse qualcosa si muove. I nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), varati lo scorso 12 gennaio, recepiscono la citata legge n. 134 del 2015, per la diagnosi precoce, la cura e il trattamento individualizzato dei disturbi dello spettro autistico. Speriamo sia la volta buona.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – continua)