RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti