Cooperazione:

speranze e contraddizioni


Da un’analisi della situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia a un anno e mezzo dalla nascita dell’Aics (l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), al punto sulla riforma del Terzo settore. Da uno sguardo sull’Europa e sulle sue strategie per lo sviluppo a uno sull’effetto Trump nell’aiuto allo sviluppo statunitense.

«La battaglia è stata vinta». Così la direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, Laura Frigenti, scriveva alla fine del 2016 nella relazione annuale, dodici mesi dopo la creazione dell’ente che dirige. L’Agenzia è una delle principali novità introdotte dalla legge 125/14, nota come «riforma della cooperazione allo sviluppo». Obiettivo di questo ente è quello di gestire in maniera più snella, efficace e trasparente interventi e fondi della cooperazione sul modello di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Regno Unito che un’agenzia dedicata alla cooperazione l’hanno già da tempo.

La battaglia cui la direttrice Frigenti si riferisce è quella per il raggiungimento degli obiettivi che l’Agenzia si era data per il suo primo anno di vita. Fra questi: raccogliere l’eredità della struttura che l’aveva preceduta – la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, o Dgcs, del ministero degli Esteri – a cominciare dagli oltre mille progetti in corso, riscrivere le procedure, gestire il passaggio fra due sistemi di contabilità differenti, attivare le sedi estere, erogare almeno la metà dei fondi messi a disposizione della cooperazione che ammontavano a poco meno di mezzo miliardo di euro.

In effetti, molti obiettivi sono stati raggiunti e in alcuni casi superati – sempre secondo la relazione annuale, i fondi erogati, ad esempio, sono stati più della metà, e cioè oltre il 60 per cento – ma su altri resta molto da fare.

Segnali contraddittori

La sensazione complessiva è che, pur rappresentando l’Agenzia – così come tutta la riforma della cooperazione – un passo in avanti significativo ed epocale, il sistema Italia digerisca solo molto lentamente il nuovo e maggiore peso che, sulla carta, si è deciso di dedicare alla cooperazione allo sviluppo. Gli esempi di queste opposte spinte sarebbero numerosi ma alcuni, forse, rendono l’idea più concretamente di altri.

Il primo riguarda il personale dell’Agenzia, che ha un’importanza fondamentale per raggiungere la piena operatività. E questo personale a marzo 2017 non era ancora al completo. Dei duecento funzionari previsti per le sedi in Italia (Roma e Firenze), sessanta non erano ancora stati reclutati. Solo a novembre 2016 un emendamento alla legge di bilancio ha aumentato il Fondo per il pubblico impiego in modo da permettere all’Agenzia di bandire il concorso per l’assunzione dei sessanta tecnici. Di questi, spiegava il responsabile delle relazioni istituzionali, internazionali e della comunicazione dell’Agenzia Emilio Ciarlo su Vita.it la scorsa estate, «20 dovrebbero provenire dall’amministrazione pubblica e i 40 restanti dal di fuori, con una formazione universitaria nel settore della cooperazione allo sviluppo e con quattro o cinque anni di esperienza professionale in un’Ong o un organismo internazionale». Un’iniezione di giovani competenti e motivati, insomma, che dovrebbe dare una spinta decisiva all’Agenzia.

Ma, un anno dopo la sua nascita – il 4 gennaio 2016 – l’Agenzia mancava pure di buona parte dei suoi dirigenti. Lo ha ricordato su Onuitalia.com il consigliere politico della rete di Ong Link 2007, Nino Sergi: oltre ai sessanta funzionari di cui sopra, mancavano all’appello ancora buona parte dei livelli dirigenziali. I dirigenti, infatti, dovrebbero essere diciotto mentre a febbraio 2017 erano solo otto. «Si tratta, in fondo, di poche persone», sottolinea Sergi, «ma indispensabili al funzionamento dell’Agenzia che, così limitata, continua a vivere in un comatoso limbo che solo le buone volontà stanno tenendo in vita».

Il secondo elemento è lo «scomparso» illustre dell’organigramma della cooperazione, come sottolinea ancora Sergi: il Cics (Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo), organo di cui fanno parte il presidente del Consiglio e la stragrande maggioranza dei ministri. Si è riunito una volta sola, nel 2015 e, secondo un tweet di Mario Giro, viceministro degli esteri, anche una seconda volta il 23 marzo 2017: «Approvato il doc. triennale: +attori +azione comune». Due volte in venti mesi non sono molte per un organo cui la legge 125/2014 attribuisce un compito fondamentale, quello di coordinare tutte le attività di cooperazione allo sviluppo e assicurare che le politiche nazionali siano coerenti con i suoi fini.

Perché il Cics è importante? Per dirla in maniera estremamente semplificata: perché, se funzionasse come dovrebbe, impedirebbe alle politiche pubbliche di disfare quello che la cooperazione fa.

La cooperazione italiana viene da lunghi anni di subalternità e di risorse limitate; un coordinamento costante con gli altri centri decisionali del governo e un organico dell’Agenzia completo nei livelli dirigenziali, giovane e preparato nei comparti tecnici, sono elementi indispensabili perché gli interventi siano efficaci. Per questo ogni rallentamento su questi aspetti rischia di svuotare nei fatti la legge e il tipo di cooperazione che essa intende realizzare.

Il colpo di mano dell’8×1000

Sempre in tema di segnali contrastanti, è del marzo scorso la notizia dell’approvazione del cosiddetto emendamento Realacci in Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. L’emendamento stabilisce che per i prossimi dieci anni la quota di otto per mille che i contribuenti assegneranno allo Stato andrà tutta per il recupero dei beni culturali danneggiati dal terremoto in centro Italia.

«Finisce con questo colpo di mano», commenta un post sul blog info-cooperazione, «la possibilità di impiegare una parte del fondo 8×1000 alla “fame nel mondo”, una quota che a singhiozzo negli anni aveva co-finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo delle Ong italiane soprattutto in Africa. L’ultima approvazione di progetti risale al 2014, anno in cui con circa 6 milioni di euro furono cofinanziati 40 progetti. Non è chiaro se il decreto appena approvato andrà a intaccare anche la quota dell’otto per mille assegnata all’Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo. A decorrere dall’anno 2015 infatti, una quota pari al 20% del fondo 8×1000 a gestione statale è stata destinata a finanziare le attività dell’Aics».

La riforma del Terzo Settore

Un anno fa la riforma del Terzo Settore (o settore di chi si impegna nel sociale senza scopi di lucro – no profit) è diventata legge, la 106/2016, e il primo dei provvedimenti attuativi è stato approvato a febbraio scorso: si tratta del decreto legislativo che istituisce il servizio civile universale, ora aperto a cittadini italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Nelle parole del direttore di Vita.it, Riccardo Bonacina, nel giugno 2016, la riforma poteva essere più coraggiosa nell’innovare, ma è «la miglior legge possibile» date le circostanze e permette quantomeno di realizzare tre sogni: in primis quello di un «pavimento civilistico» che oltre a definire che cosa sia il Terzo Settore «rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali, provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza».

La riforma comunque ha ricevuto anche diverse critiche. A cominciare da quelle mosse alla Fondazione Italia Sociale, organismo che la legge 106 istituisce «con lo scopo di sostenere […] la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati».

Presidente della Fondazione è Vincenzo Manes, imprenditore, finanziere, filantropo e consigliere dell’ex premier Matteo Renzi. Manes stesso l’aveva definita «Iri del sociale», rievocando la spinta modernizzatrice che l’Istituto per la ricostruzione industriale ebbe negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento; ma c’è chi vede la Fondazione come un ente di cui si poteva fare a meno e chi lo liquida come un favore a un amico dell’ex primo ministro.

Ma Italia Sociale non è il solo aspetto a suscitare perplessità. Il Comitato piemontese Volontariato 4.0 in un documento del febbraio scorso attribuiva alla legge 106 lo stravolgimento dei Centri di Servizio per il Volontariato che, avendo a disposizione le stesse risorse del passato, dovranno ora assistere molti più fruitori, cioè «tutti i soggetti del no profit, associazioni di promozione sociale, cooperative, holding della solidarietà». Il Comitato punta il dito anche contro lo sdoganamento di un «volontariato liquido e ibrido, senza identità, senza appartenenza, senza forza rappresentativa, temporaneo ed occasionale» che arriva a «istituzionalizzare lo status di volontario singolo», non legato cioè a una realtà associativa.

Gli altri decreti attuativi, dopo quello sul servizio civile, dovrebbero essere inviati alle Camere entro il 15 di questo mese, almeno stando a quanto dichiarato a marzo da Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro. Seguiranno poi i commenti delle commissioni parlamentari e la possibilità di fare decreti correttivi entro un anno.

L’Europa fra cooperazione e migrazioni

Di altro tipo di volontariato parla invece Silvia Costa, eurodeputata del Pd, presidente della Commissione cultura e istruzione al Parlamento europeo e firmataria di una risoluzione sul Servizio volontario europeo (Sve), il programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione europea e rivolto a giovani fra i 17 e i 30 anni. A questi ragazzi lo Sve offre l’occasione di prestare servizio in progetti in ambito umanitario, educativo, sociosanitario, culturale, sportivo per un periodo che va dalle tre settimane ai dodici mesi. In vent’anni ha visto la partecipazione di centomila giovani: dei cinquemila ragazzi che partono ogni anno, uno su cinque è italiano.

«Chiediamo alla Commissione europea», ha detto Costa dopo l’approvazione della risoluzione, «di definire finalmente un quadro giuridico europeo che definisca le attività e lo status di volontario per agevolare la mobilità europea e internazionale, nonché il riconoscimento delle competenze, sia nello Youth passaport che nell’Europass (strumenti per armonizzare la descrizione delle competenze dei cittadini all’interno dell’Unione, ndr)».

Quanto alle strategie per lo sviluppo, ne «Lo stato dell’Unione 2016» la commissione ha annunciato un nuovo il Piano europeo per gli investimenti esterni (Pie). «Lo strumento», si leggeva nel comunicato stampa del settembre scorso, «consentirà di stimolare gli investimenti in Africa e nei paesi del vicinato dell’Ue, in particolare per sostenere le infrastrutture economiche e sociali e le Pmi (Piccole e medie imprese, ndr), mediante la rimozione degli ostacoli agli investimenti privati». Il contributo previsto è di 3,35 miliardi di euro, che andranno a sostenere «le garanzie innovative e strumenti analoghi a copertura degli investimenti privati». Secondo la Commissione, questi 3,35 miliardi dovrebbero riuscire a mobilitare fino a 44 miliardi di euro d’investimenti e l’importo potrebbe raddoppiare se gli stati membri e gli altri partner contribuiranno con un finanziamento equivalente.

L’iniziativa è certamente in linea con la Comunicazione 263 del 2014, in cui la commissione ricordava che il settore privato fornisce il novanta per cento dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e che questo lo rende un partner essenziale nella lotta alla povertà. Altrimenti detto: se non si coinvolge il settore profit nello sviluppo non si va da nessuna parte.

Concord, la rete europea delle ong, ha tuttavia avanzato alcuni dubbi circa il Pie: «Il piano – si legge fra le raccomandazioni inviate alla Commissione – deve essere sganciato dalle politiche di controllo delle migrazioni e dagli obiettivi di breve termine della politica estera europea e non può dare per scontato che la crescita economica – in termini di punti di Pil – implichi automaticamente la creazione di posti di lavoro, e meno ancora di lavoro dignitoso e sostenibile».

L’effetto Trump sullo sviluppo

Con i loro 31 miliardi di dollari all’anno (nel 2016), gli Stati Uniti sono il secondo donatore al mondo dopo l’Unione europea per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo, il primo se si considerano gli Stati europei singolarmente. Ovvio che la proposta di budget dell’amministrazione guidata da Donald Trump fosse attesa con una certa apprensione nel mondo della cooperazione. E lo scorso 16 marzo le proposte presidenziali sono state rese pubbliche: Trump ha proposto per il Dipartimento di Stato e l’agenzia Usaid, gli enti governativi che gestiscono il grosso dell’aiuto, un budget di 25,6 miliardi di dollari, con un taglio pari al 28 per cento.

Altri tagli proposti sono al contributo alle Nazioni Unite – attualmente gli Usa ne sono il principale donatore, coprendo oltre un quinto dei 5,4 miliardi di dollari del budget Onu e quasi un terzo dei 7,9 miliardi per le operazioni di peacekeeping – e agli enti finanziari multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale.

Il presidente statunitense ha inoltre intenzione di staccare la spina a tutto ciò che riguarda la lotta al cambiamento climatico – eliminando la U.S. Global Climate Change Initiative e bloccando i pagamenti ai programmi delle Nazioni Unite in questo ambito – e di riorganizzare Dipartimento di Stato e Usaid, forse accorpando la seconda al primo, ipotizza qualcuno. Sopravvive invece la dotazione di risorse per il Fondo presidenziale di emergenza per la lotta all’Aids (Pepfar) e per il Fondo globale per la lotta a HIV/Aids, tubercolosi e malaria.

Rimane da vedere quante di queste proposte il Congresso effettivamente accoglierà; ma l’opinione pubblica mondiale ha già potuto farsi un’idea di come si traduce lo slogan «America first» in termini di fondi per lo sviluppo.

Chiara Giovetti