Guerra, minerali e code di maiale

 

 Gli stati dell’Unione birmana da sempre in guerra sono quelli con maggiori risorse. Sembra impossibile che paesaggi tanto belli, abitati da gente tanto vivace e attiva, siano stati, e in certi casi siano ancora, teatri di guerra e violenze.
La seconda parte del racconto di viaggio della nostra corrispondente si snoda nelle terre meno turistiche, perché più colpite dal regime, in cui si attende con speranza il cambiamento.

Ho deciso di spostarmi nell’estremo Sud Est del Myanmar, nella regione del Thanintharyi, al tempo degli inglesi conosciuta come Tenasserim. Sull’aereo che mi porta a Myeik incontro Leon, ingegnere cinese. Siamo gli unici visitatori di questa antica città di commerci, famosa da secoli per il suo porto. Raggiungiamo insieme la guest house, poi scendiamo a piedi verso il lungomare. La vista del fango nero, dell’immondizia e della plastica sul bordo mare mi urta. L’aria è calda e umida, il cielo grigio, ma la gente è vivace e attiva. Lo si deduce dal traffico di moto che rende difficile attraversare le strade.

Incontriamo Michel, ragazzo dall’aspetto sveglio, che si offre di accompagnarci nei dintorni. Visitiamo gli allevamenti di aragoste, esportate in Cina, Hong Kong e Singapore, e di pipistrelli, venduti a caro prezzo. Queste sono attività che, con le miniere e la pesca, danno ricchezza alla città.

Michel, il suo vero nome è Thu Yain Tun, lavora da quando aveva dieci anni. Ha imparato a fare il falegname e il meccanico. Dato che era bravo a scuola, lo hanno mandato per tre anni a Yangon: ora parla benissimo l’inglese e dà lezioni, anche nella scuola della Chiesa battista.

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Tenasserim

La regione Thanintharyi è ricca di minerali preziosi come oro e platino. Al tempo della colonia, la sua produzione di zinco copriva il fabbisogno indiano. Per molti anni è stata off limits per gli stranieri perché in pochi conoscono l’inglese. John Kin Maung, un anziano ottantaseienne, invece lo parla molto bene. «La mia famiglia era originaria del Tamil Nadu, India – mi spiega -. Gli inglesi avevano bisogno di forza lavoro, non riuscivano a far lavorare i birmani, che non erano motivati». John ricorda con piacere la sua Convent school. «Quando c’erano gli inglesi tutto funzionava bene e le scuole cattoliche davano una buona istruzione. Quelle statali invece sono tuttora di livello molto basso. Si è cominciato a insegnare l’inglese quando la figlia del generale Ne Win, che studiava medicina, aveva voluto andare a Londra e si era scoperto che non era preparata». Scuote il capo e mi invita a casa sua, dove abita con figlia e nipoti. La sera, prima di cena, un gruppo di giovani si raduna per fare conversazione in inglese. Sono ragazzi svegli, curiosi. Hanno tutti lo smartphone e ci mettiamo a cantare le vecchie canzoni americane dei pionieri.

Per il fine settimana sono previste due celebrazioni. La prima è l’Union day, giornata simbolo di un paese diviso. Domani sarà il 13 febbraio, anniversario della nascita del generale Aung San, padre di Aung San Su Kyi.

Scopro che John ha una moglie che vive a Nay Pyi Taw, la nuova faraonica, assurda capitale del paese. Dopo 12 anni di carcere duro, nello stesso periodo in cui Aung San Su Kyi era ai domiciliari, lei ora è parlamentare del partito National League for Democracy. «Non ci vediamo molto. Raramente mia moglie viene a Myeik».

Matrimonio karen

MIEYK-Mergui_Padre Gregory(33)Gregory è il giovane vice parroco di Myeik. Nato in un villaggio karen della regione che ha visto violenze inaudite durante la dittatura, a dieci anni fu inviato a Yangon per studiare. Il padre fu ucciso dall’esercito governativo un decennio fa nel suo villaggio, mentre cercava di difenderlo.

Ci sono sette moschee a Myeik, porto importante da almeno cinque secoli. La grande pagoda dorata sulla collina fin dall’alba è meta di fedeli che pregano e porgono offerte al Buddha. Oggi sono invitata a un matrimonio karen nella Chiesa battista, quella che è riuscita a fare più proseliti nel paese sin dall’ottocento. Arrivo che la cerimonia è già terminata e si sta facendo colazione, nel cortile tra la chiesa e il dormitorio dei ragazzi. Sono i Pwo Karen, tutti in costume bianco rosso e blu. Amici e parenti sono arrivati da Yar Aye, una delle isole che punteggiano la costa Sud Est del Myanmar e formano l’arcipelago Mergui. Sono agricoltori e pescatori e hanno viaggiato per otto ore su barche veloci. Con la marea bassa non si può partire: il mare qui è molto basso, oltre che caldissimo.

La mamma della sposa è una bella donna dall’aria serena: ha sei figli. La maggiore, di 39 anni, vive sull’isola e dirige la scuola per i sei villaggi. Gli altri figli hanno studiato e trovato lavoro a Yangon.

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Loikaw, stato Kayah

Dall’aeroporto di Yangon sono partita per Loikaw, la capitale dello stato Kayah, il più piccolo del Myanmar, ma il più ricco di tradizioni ed etnie: Kayah, Kayoh, Karenni, Pa O, Kayen, Shan. Il bimotore a elica con 18 passeggeri si alza in volo su una coltre di polvere rossiccia, il colore di questo paese durante la stagione secca. Sorvolando Yangon noto la rete di canali che consente l’irrigazione delle risaie, verdissime.

Brenda è una giovane olandese, unica straniera, oltre me, sul volo: lavora per una Ong che opera a Loikaw, città aperta ai visitatori individuali da pochi mesi. La città si trova a circa 1000 metri di altitudine, circondata da monti e ricca di orti e giardini. Fa caldo, siamo sui 36°, ma verso sera la temperatura si abbassa molto. Esco dalla Guest house dell’Amicizia in cui sono alloggiata e sulla via principale trovo pronta una grigliata di spiedini vari: verdure, patate, pesci e code di maiale. La cuoca è abile, spennella gli spiedini con una salsa piccante e il prezzo molto basso: un dollaro.

U Soe Htwe è il padrone di casa che mi accoglie con grande gentilezza. È molto prudente nel parlare della difficile situazione di questa regione. U Soe aveva studiato ingegneria a Yangon, e nel 2002, ma a causa della guerra, ha dovuto lasciare il suo lavoro nelle miniere dello stato Kayah. Le due figlie sono riuscite a emigrare negli Usa, dove lavorano come infermiere, e la casa di famiglia è stata trasformata in pensione. Dei figli maschi, uno lavora a Nay Pi Taw, l’altro è rimasto in casa, con la famiglia. La moglie di U è una signora molto attiva in un’associazione per la promozione della donna birmana, ed è spesso in viaggio per Nay Pi Thaw. Nella locanda, immagini di Aung San Su Kyi sono appese ovunque. Gli altri ospiti sono quasi tutti operatori di Ong e volontari. I soli turisti sono una giovane armena di Boston e un canadese con i quali combino una gita nei dintorni. Il nostro autista è un geologo colto, che ha perso il suo lavoro in miniera anch’egli nel 2002. Ci porterà nelle vallate dove vivono le donne Padaung. Qui anche le bambine portano gli anelli al collo e vivono molto meglio delle loro sorelle senza anelli. Hanno case pulite e vendono monili e sciarpe colorate. Stanno anche asfaltando la strada che porta nei loro villaggi sulle montagne, rimasti isolati finora. Non vedo turisti.

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Chiese

Loikaw ha alcune belle pagode, ma quello che colpisce è il numero delle chiese cattoliche. Una nuova cattedrale è stata costruita in stile locale, con decorazioni dorate, in contrasto con la semplice chiesa dei primi missionari.

Frequento la parrocchia di san Giuseppe, situata non lontano dall’ospedale nuovo, donato dai giapponesi. Partecipo alle funzioni del pomeriggio e conosco il parroco, padre Giulio, un Karen molto ospitale che mi offre gustose fette di mele e si propone di portarmi a visitare i villaggi dove i missionari del Pime, molti anni fa, hanno portato il Vangelo. «Arrivavano a piedi, da Taungoo, 500 km di strade impervie. Si era ai primi del Novecento. Hanno vissuto come i nostri contadini, lavorando la magra terra di queste montagne». Terra povera per coltivare, ma ricchissima di minerali, oro e pietre preziose.

Padre Galbusera è morto nel 2000, aveva 89 anni. La prima tappa la faremo nel villaggio in cui operò, dove troviamo la sua tomba ricoperta di fiori bianchi. Visitiamo alcune chiese, incontriamo i parroci. Avevo notato povertà nei villaggi, ma quando facciamo visita alla zia di Giulio, mi rendo conto del dramma di questa gente. Non c’è acqua, né luce, mentre nei grandi complessi militari che troviamo lungo la strada arriva luce, telefono, tutto. La zia ha 86 anni, un viso nobile, asciutto come tutto il corpo. I piedi credo non abbiano mai visto scarpe, veste una maglia piena di macchie, un loungji e un turbante. Ha avuto dieci figli, di cui quattro morti. Una figlia si avvicina, anche lei ha dieci figli di cui due morti. Un pronipotino le salta in grembo, li fotografo. Lei ci offre un sacchetto di foglioline. Si raccolgono da un albero e si cuociono col curry.

Nonostante tanta presenza cattolica, alcune piccole pagode spuntano sulle cime di questi monti ricchi di minerali. Gli stati birmani in guerra da anni sono proprio quelli più dotati di risorse naturali. Gli inglesi sapevano che questa era la loro colonia più ricca.

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Hpa An, stato Kayin

Ritoo a Yangon e prendo il bus per Hpa An, la capitale del Kayin, altro piccolo stato da sempre in guerra, abitato dai Karen. Mi aveva detto qualcuno: vai nel Nord, sulle montagne, a Hpa Pom, ti siedi in riva al fiume, e vedrai tutti i tipi di pietre preziose. Pare sia vero.

Continuo a conoscere persone che lavoravano nel settore: geologi, ingegneri minerari e altri che hanno perso il lavoro nel 2002, all’inizio della guerra.

Questa regione del Myanmar è meravigliosa. Siamo in una piana alluvionale, percorsa da un grande fiume, il Thanlwin, che scende dalle montagne della Cina, e finisce il suo corso nel mare delle Andamane. Nelle fertili risaie a perdita d’occhio vedo case coloniche ombreggiate da grandi alberi che ricordano il Tirolo. Le famiglie hanno tanti bambini che ci salutano. Pare impossibile che questo territorio sia stato per anni devastato dalla guerra. Le montagne sono guglie di calcare in cui si aprono profonde grotte in parte ricoperte da vegetazione dove gli abitanti hanno creato luoghi di culto buddhista. Ne ho vista una, grandiosa, dove si trovano stupa dorati, migliaia di buddha di ceramica, piccoli e grandi, serpenti sacri e le immagini dei Nat, gli spiriti ancora venerati dal popolo. Una lunga fila di monaci di pietra si allinea lungo la strada che conduce dalla grotta alla fonte miracolosa. La popolazione è buddhista-animista, ma il conducente del mio taxi sostiene di essere buddhista-cattolico. Al tramonto scendo sulla riva del fiume, quando i pescatori rientrano nei villaggi. Come la mattina, anche la sera si alzano fumi dalle case. Si bruciano i rifiuti, le foglie secche, e si accendono i fornelli per cuocere e friggere il cibo.

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Domenica delle Palme

Con qualche difficoltà riesco a trovare la chiesa cattolica della città. Mi siedo in un banco accanto a due giovani, Claire e Aye Pyone, che mi offrono le palmette che hanno intrecciato per la festa. Sono l’unica straniera e dopo la messa si avvicina un giovane prete, padre Ignazio. Ha trentanove anni ed è nato in un villaggio remoto nel Nord dello stato Kayin. La mamma è morta giovane, non si sa di cosa, perché non esiste assistenza sanitaria. Il papà era catechista e si recava nel villaggio materno, Le Too Po, per insegnare i canti. Là si sono conosciuti i suoi genitori. I villaggi e il Knu (Karen National Union) devono gestire le scuole, dove si parla la lingua kajin, molto diversa dal birmano. Qui gli alberi di teak sono stati tagliati da molti anni e non ricrescono più. Hpa An è diocesi dal 2009, prima dipendeva da Yangon. Davanti alla chiesa ci sono due belle case, una per le suore e l’altra per gli studenti dei villaggi remoti.

Campi profughi

Faccio colazione alla Guest House con ceci e chapati che la giovane moglie del padrone ha comprato al mercato. Khin Myo Thite è musulmana e appartiene al gruppo etnico più antico, i Mon, che ha dominato per secoli il paese. «Mio marito non sa l’inglese, appartiene alla generazione che non ha avuto la scuola superiore a causa della guerra». Da un anno la frontiera con la Thailandia, molto vicina, è stata riaperta. Arrivano da Bangkok giovani con zaino in spalla, e Khin dà loro una sistemazione e le indicazioni di cui hanno bisogno. Esco per andare a comprare frutta al mercato. Il pozzo davanti alla moschea è sempre attivo, con donne e uomini che riempiono i bidoni d’acqua. Sono in compagnia di Lillian, medico inglese che lavora da anni nei campi profughi in Thailandia. «Conosco il popolo del Myanmar – mi dice -, ora voglio conoscere il paese e rimango fino all’ultimo giorno consentito dal visto».

Parliamo dei campi profughi, dove vivono ancora molti birmani che sono stati cacciati dai villaggi. Vivere in un campo significa avere cibo, acqua e sanità, ma non è una vita normale. Difficile avere un lavoro, svolgere un’attività. Chi ha lasciato gli orrori della guerra non vuole più ritornare a casa.

Claudia Caramanti
(fine seconda parte – continua)

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L’atlante della giustizia ambientale


Nel mondo assumono sempre maggiore importanza i cosiddetti conflitti ambientali. Popolazioni locali, organizzazioni, singoli cittadini, reti di studiosi si oppongono a progetti «di sviluppo» dannosi per il territorio e rischiosi per la sostenibilità della vita sulla terra.
Da due anni esiste un atlante on line che offre un colpo d’occhio complessivo sui conflitti in corso nel mondo, e informazioni specifiche su ciascuno. Ecco il punto sui dibattiti riguardanti la giustizia ambientale e la sua rilevanza nel contesto globale.

Il rapporto di Global Witness del 20121 lancia un allarme sugli elevati livelli di violenza contro attivisti, cittadini e comunità rurali impegnati su tematiche ambientali e conflitti territoriali. Il titolo del rapporto, Deadly Environment (ambiente mortale), risveglia indignazione e ribellione nel lettore. Le cifre, negli ultimi anni, raggiungono il doppio zero: nel 2011, si è avuta la media di una vittima a settimana. I casi e numeri indicati nel report sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e diffuso, che sta coinvolgendo nuovi spazi, luoghi fisici e simbolici, e unendo gruppi sociali in una causa comune.

01 philippe leroyer Demonstration against the Notre Dame des Landes airport - 22Feb14, Nantes (France

Repressione crescente

Tanto in America Latina, Africa e Asia, come in Europa e Nord America, persone che si oppongono a attività estrattive come miniere, pozzi di petrolio e gas flaring2, a dighe, ma anche a discariche inquinanti e a grandi progetti di infrastrutture, subiscono una crescente repressione da parte di governi e milizie, in collusione con compagnie private e statali. Questi attivisti denunciano gli impatti sociali e ambientali del sistema economico estrattivo capitalista e il suo elevato metabolismo sociale. Nel suo ultimo libro3, Naomi Klein chiama Blockadia quelle azioni di opposizione, quei territori resistenti, come le remote foreste canadesi dove comunità di first nation (abitanti originari) bloccano la strada e impediscono la costruzione di oleodotti e gasdotti.

Piazza Taksim contro Erdogan

Turchia, Istanbul, Taksim Gezi Park 2013: gli abitanti della città sul Bosforo scendono in strada per difendere il parco cittadino più famoso della città, e mostrare la loro contrarietà al centro commerciale che dovrebbe sorgere al suo posto. In gioco non ci sono solo gli alberi del parco, ma una visione, un’idea politica di ciò che Istanbul deve offrire ai suoi cittadini. La contrarietà al mall e alla speculazione edilizia nell’area circostante si manifesta tra persone di diversa età ed estrazione sociale che, forse, mai nella loro vita precedente avevano pensato di scendere in strada o di partecipare ad azioni dimostrative. Per la prima volta in Turchia si trovano dalla stessa parte, e devono affrontare una dura repressione dello stato e delle forze dell’ordine. Nella discussione, emergono aspre critiche che mettono in difficoltà il governo di Recep Tayyip Erdogan.

Contro il bene comune

Dinamiche simili sono avvenute negli ultimi anni in Francia presso l’area dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo aeroporto di Nantes, ribattezzata Zona da Difendere (Zad, dall’acronimo francese), a Stoccarda in merito alla paventata ristrutturazione della stazione dei treni, per non parlare della Val Susa e della decennale opposizione al Tav. Trasporti e infrastrutture, ma anche energia e industria estrattiva, sono al centro di intensi dibattiti e opposizioni in Europa, tra sostenitori di una politica espansiva e di grandi appalti per rilanciare l’economia e coloro che si oppongono a questa ideologia di sviluppo per i suoi impatti sociali ed ecologici e alla dominazione di potenti lobbies economiche e politiche.

Notizia dell’inizio del 2015, per esempio, è il cosiddetto Piano Junker, che sta investendo 315 miliardi di euro in grandi infrastrutture in Europa, con la creazione di un nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) e il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti (Bei). Trasporti ed energia sono due colonne portanti del piano e rappresentano la maggior parte dei progetti candidati, cosiddetti di «interesse comune» (Pic). I criteri decisionali e di valutazione dell’opportunità o meno di aprire cantieri, e da parte di quale impresa, non sono chiari e certamente non sono frutto di una discussione democratica e informata in ciascun paese membro.

I trattati di cosiddetto «libero» commercio dell’Unione europea con partner di altri continenti, come il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, cfr MC ottobre 2015, p. 64) con gli Stati Uniti o il Ceta (Accordo economico e commerciale globale) con il Canada, sono un altro cardine del meccanismo che porta le istituzioni a smettere di perseguire il bene pubblico a favore della concentrazione della ricchezza in mano di pochi.

Nuove forme di mobilitazione

Critiche al modello di accumulazione di ricchezza e impunità si stanno diffondendo in modo trasversale tra gruppi sociali distinti: l’opposizione alle esplorazioni per fracking4, per esempio, ha fatto il suo ingresso nei salotti della classe media in Polonia, mentre il caso della miniera di oro a Ro?ia Montan?, che prevederebbe la rimozione di diverse montagne nel territorio degli Apuseni (Monti del tramonto), parte della catena dei Carpazi occidentali, ha risvegliato la società civile rumena in quello che è considerato il più grande movimento civico del paese dopo la rivoluzione del 1989.

Tali mobilitazioni creano forti legami nazionali e inteazionali, e spesso azioni congiunte, tra comunità locali che subiscono le conseguenze sociali e ambientali di una stessa attività, o gli abusi di un’impresa.

I progetti di Enel-Endesa, per esempio, sono stati contestati dalla Patagonia cilena (contro i progetti idroelettrici nella regione australe) al Guatemala (contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo), alla Colombia (contro quella di El Quimbo). Ma anche in Spagna, per la rete d’alta tensione (Mat), e in Italia, sul Monte Amiata (Grosseto) e a Porto Tolle (Rovigo). La rete italiana Stop Enel sta intentando un cornordinamento fra i comitati in Italia, e scambi con comunità estere che vivono nelle località coinvolte dai progetti dell’azienda.

La rete di Oilwatch attenta al tema dell’estrazione di petrolio, o l’alleanza Gaia sulle alternative all’incenerazione dei rifiuti, o ancora la Campagna Internazionale contro l’Impunità delle Multinazionali, sono altri esempi di azioni di pressione congiunte su governi, istituzioni e imprese private a livello globale.

Mining conflicts in Latin America_EJAtlas

L’atlante globale della giustizia ambientale

Per fornire nuovi strumenti e metodologie di ricerca, accademici e organizzazioni per la giustizia ambientale hanno creato l’«Atlante Globale della Giustizia Ambientale» (Ejatlas, Environmental Justice Atlas), all’interno del progetto di ricerca Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona. L’atlas è stato lanciato online nel marzo 2014, ed è in costante espansione; oggi conta più di 1.600 casi di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo5. Vi si trovano informazioni circa mobilitazioni, campagne, petizioni e conflitti a livello locale, su progetti industriali, infrastrutture urbane, centrali elettriche per le quali si siano registrate istanze d’opposizione e forti critiche da parte di comunità locali, residenti dell’area, comunità scientifica o internazionale.

L’Ejatlas dimostra che esiste una presa di coscienza presso comunità in tutto il mondo rispetto alla difesa di un ambiente che non è costituito solo da parchi naturali e zone delimitate da conservare, ma è il fondamento della vita e della sua continuità. Descrive i tratti comuni di tanti movimenti sociali che vedono nello sfruttamento ambientale i rapporti di potere tra governi, imprese e comunità locali, in linea con il fenomeno che Henri Acselrad, professore della Universidade Federal do Rio de Janeiro (Ufrj), chiama environmentalization (ambientalizzazione) delle lotte sociali. L’Ejatlas dimostra infine che non si tratta di movimenti «nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile), come alcuni sostengono (tra cui il think tank italiano Nimby Forum), ma di genuini movimenti di solidarietà tra comunità anche molto distanti e diverse tra loro, benché certamente la mobilitazione di solito inizi per ciascuno nel proprio territorio, per ragioni di affezione emotiva e conoscenza delle sue caratteristiche. L’Ejatlas rende più evidente che quanto risulta nocivo alla salute a Ponte Galeria (frazione di Roma Capitale), lo è anche nella discarica di Dandora a Nairobi, e che la repressione violenta di cittadini della Val di Susa segue la stessa logica di controllo e imposizione che sta dietro la costruzione di dighe nei territori indigeni del Guatemala.

Fracking Frenzy_EJAtlas

Recuperare i saperi locali

Molti studiosi, tra cui l’economista ecologico Joan Martinez Alier, cornordinatore scientifico dell’Ejatlas, sostengono che sia già in corso un’alleanza tra movimenti ambientalisti e coloro che spingono verso una ridefinizione dei rapporti economici, produttivi e commerciali ispirati da concetti di equità sociale e rispetto. Se pensiamo alle proposte della Decrescita, così come a quelle dell’agroecologia, della riconversione urbana, ai gruppi di co-produzione tra famiglie e agricoltori, questo diventa evidente.

Lo storico italiano Marco Armiero, osservando che la convergenza fra giustizia ambientale, il movimento altermondialista, e le comunità di base è avvenuta già da tempo, al di là delle pubblicazioni scientifiche, sembra lanciare un appello al mondo accademico perché ne prenda coscienza e inizi a parlarne. Uno degli obbiettivi principali del progetto è proprio quello di superare, nell’ambito della giustizia ambientale, la visione dicotomica tra il sapere «scientifico» e quello «popolare», soprattutto in relazione a questioni vitali e a volte incerte come gli impatti socio-ambientali, oltreché sanitari ed economici, di un mega progetto minerario o energetico o dei trasporti, e così via. Infatti gli interessi corporativi e politici, insieme a un sapere troppo «istituzionale», hanno drammaticamente negato la partecipazione dei diretti interessati alle decisioni, silenziando i saperi locali, propri ad esempio di culture indigene, comunità montane, di piccoli pescatori, di agricoltori, che custodiscono un grosso patrimonio di conoscenze sul territorio e sulle sue fragilità. Recuperare tali saperi, riconoscere la loro dignità e integrarli nei criteri «scientifici» ufficialmente riconosciuti, deve essere un obiettivo del mondo accademico e universitario, e la metodologia di ricerca in Ejolt spinge in questa direzione. Una volta che tale frontiera tra saperi si vedrà sfumata, si indebolirà anche il sistema che concede potere a un attore piuttosto che all’altro, agli investitori di una grande multinazionale del petrolio piuttosto che al rappresentante scelto democraticamente di una comunità, ad esempio, nel Delta del Niger.

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Per una geografia dell’eguaglianza

L’uso delle mappe è considerato di estrema importanza per la visualizzazione di questo sapere e di una geografia dell’ineguaglianza. Se diamo un’occhiata all’Ejatlas, scopriamo storie sconcertanti che riguardano anche paesi insospettabili, come quella dell’uccisione di un giovane nell’ottobre 2014 durante la repressione di una pacifica manifestazione presso la diga di Sivens nella democratica Francia. Il logo dell’Ejatlas, che rappresenta un mondo «rovesciato», simboleggia proprio la messa in discussione dello status quo del sapere e del potere geopolitico. Esponenti della cartografia critica hanno fatto notare come le mappe siano state strumento di oppressione e conquista di territori attraverso la costruzione di un determinato sapere geografico. Secondo il geografo Nietschmann, «è stato conquistato più territorio degli indigeni attraverso mappe che con armi». Ma possiamo sperare che le mappe aiutino ora a riformulare il sapere per rispettare una maggiore giustizia ambientale. L’Ejatlas dà il suo contributo in tale direzione.

Daniela Del Bene


NOTE:

1 Http://www.globalwitness.org/sites/default/files/A_hidden_crisis.pdf

2 È la pratica di bruciare il gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio. Ogni anno se ne bruciano nel mondo 140 miliardi di metri cubi: realizzare infrastrutture per utilizzarlo, infatti, comporterebbe un notevole costo. Si tratta di una quantità di gas pari al 30% di quello utilizzato dall’Unione europea, superiore al consumo attuale annuo dell’intera Africa.

3Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (titolo originale: This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate), Milano, Rizzoli, 2015.

4 La tecnica del fracking, o della fratturazione idraulica, consiste nel liberare gas o petrolio contenuti nel sottosuolo in rocce impermeabili tramite la loro fratturazione. I rischi ambientali di questa tecnica sono molti: consuma enormi quantità di acqua; nel processo vengono impiegate sostanze chimiche che possono contaminare le falde sotterranee; non sono completamente evitabili fughe di gas metano, che si disperde nell’atmosfera.

5 Tra i partner del progetto che maggiormente hanno contribuito alla mappatura dei casi attuali e storici, il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca), che ha pubblicato anche una mappa dell’Italia, Fiocruz e la Rete Brasiliana di Giustizia Ambientale hanno contribuito su salute e ambiente in Brasile, l’Osservatorio Latinoamericano sui Conflitti Minieri ha contribuito sull’espansione del settore in America Latina e Caribe, il World Rainforest Movement su sfruttamento forestale e piantagioni, Accion Ecologica dell’Ecuador e Oilwatch su estrazione e inquinamento da attività petrolifere, per nominae solo alcuni.


Daniela Del Bene
Dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Autonoma di Barcellona e co-editrice dell’Ejatlas, membro della Xarxa per la Sobirania Energetica (Xse), Catalogna, Spagna.


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Un atlante costruito con il contributo di tutti

L’Atlante globale della Giustizia ambientale (Ejatlas), nell’ambito del progetto Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona, è nato per costruire una base di dati a livello globale tramite una piattaforma online costruita in maniera congiunta tra ricercatori, organizzazioni locali ed esponenti di movimenti. I singoli conflitti ambientali sono narrati attraverso una ricca scheda tecnica che include le ragioni economico-produttive alla loro base, le tendenze degli investimenti nel settore, gli impatti del progetto, gli attori del conflitto e le caratteristiche della mobilitazione da parte degli oppositori.

Chiunque sia interessato a contribuire alla mappa mondiale e ha accesso a dati su vertenze locali, può iscriversi alla pagina web http://ejatlas.org/accounts/new o contattare il gruppo di ricerca dell’Ejatlas all’indirizzo ejoltmap@gmail.com.

Per contribuire all’Atlante italiano, può inserire i propri dati nella pagina web http://atlanteitaliano.cdca.it/accounts/new. I dati relativi a ogni caso vengono raccolti attraverso una scheda di circa 100 voci, contenenti sia dati qualitativi che quantitativi, e esaminati attraverso un processo di moderazione e validazione delle informazioni. Una volta geolocalizzato sulla mappa, il caso viene pubblicato online e reso disponibile al pubblico per commenti e feedback. In qualsiasi momento il caso potrà venire aggiornato o arricchito di ulteriori informazioni. In alcuni casi poi, dati geografici vengono applicati alle mappe per permettere analisi spazio-geografica e mappe tematiche.

Daniela Del Bene


ejatlas-logoEJAtlas

Questo è il primo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas. Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’atlas le relative schede informative.

www.ejatlas.org
www.ejolt.org
http://atlanteitaliano.cdca.it




Scivolando nel baratro

 

Neppure il tempo di riprendersi da una guerra civile durata 15 anni. Un presidente vuole ricandidarsi, a dispetto della Costituzione. Un popolo che non ci sta e chiede vera democrazia. La repressione è violenta. Intanto c’è chi si arma nella foresta.

«Aspetta, senti questi colpi?», stiamo parlando via computer con un giornalista di Bujumbura, capitale del Burundi, quando sento in cuffia diversi spari singoli, seguiti da almeno tre raffiche di mitra. «Stanno sparando vicino a casa mia», continua un po’ turbato, ma non troppo. Poi torna il silenzio e la conversazione riprende normalmente. «Ieri ho rischiato di cadere in un’imboscata. Ero in auto con mia moglie, di passaggio su una grossa arteria di Bujumbura. Alcuni poliziotti inseguivano dei motociclisti e volevano ucciderli. Altri poliziotti sono sopraggiunti e stavano per sparare verso i fuggiaschi, ma noi eravamo in mezzo. Poi si sono fermati perché i loro colleghi sarebbero stati sulla traiettoria. Sono scene che si vedono nei film!».

Il piccolo paese dell’Africa centrale, da nove mesi a questa parte, sta vivendo una crisi politica sempre più acuta e sta, di fatto, precipitando in una nuova guerra civile.

Le premesse

Dopo una guerra fratricida durata dal 1993 al 2003, con strascichi fino al 2008, gli accordi di Arusha (2000) e Pretoria (2003) misero le basi per una nuova Costituzione che ha portato alla coabitazione delle diverse forze in campo. Il paese ha vissuto quindi un decennio di relativa pace.

Con le prime elezioni del nuovo corso (2005) sale al potere Pierre Nkurunziza, ex comandante guerrigliero, ora capo politico del partito Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Ma è alle elezioni successive, nel 2010, che il partito di Nkurunziza viene accusato di brogli elettorali (cfr. MC maggio 2011 e giugno 2013). Lui tira dritto e, mentre l’opposizione boicotta il secondo tuo, il suo partito prende la quasi totalità dei seggi in parlamento. Nkurunziza diventa presidente-padrone del paese, iniziando a imporre metodi da «partito unico». Restrizioni alla libertà di stampa, violenze verso i leader di opposizione e i giornalisti, uso della tortura tornano a essere all’ordine del giorno, così come le fughe all’estero dei perseguitati.

La nuova Costituzione prevede un limite di due mandati di cinque anni per il presidente della Repubblica. L’uomo forte di Bujumbura non vuole lasciare il potere e si inventa un cavillo per potersi ripresentare. Così il 25 aprile dello scorso anno presenta ufficialmente la sua candidatura. Immediata è la reazione della società civile e della gente comune che scende in piazza per manifestare il proprio dissenso.

Ma le manifestazioni erano state proibite, e subito si registrano scontri tra polizia e popolazione indifesa.

Nei giorni seguenti il governo impone il silenzio alle radio private, prima fra tutte la scomoda Radio pubblica africana (Rpa). Sono una decina le vittime dei primi giorni. La comunità internazionale si schiera all’unanimità contro la terza candidatura, ma non riesce a far desistere il presidente.

Tentato golpe ed elezioni farsa

Il 13 maggio, forti della pressione popolare che continua nelle strade e di una visita all’estero del presidente, un gruppo di generali tenta di rovesciarlo. Ma i fedelissimi di Nkurunziza riescono ad arginarli e ad arrestare diversi golpissti, mentre alcuni riescono a scappare.

Nel frattempo oltre 100.000 burundesi fuggono nei paesi confinanti: Tanzania, Repubblica Democratica del Congo e, soprattutto, Rwanda. Qui, appoggiati dal presidente rwandese Paul Kagame, alcuni esuli si organizzano e si armano.

Anche questa volta Nkurunziza va avanti, gestisce le elezioni di luglio, alle quali non partecipano gli osservatori inteazionali, e si conferma al potere. Ormai la stretta sugli oppositori politici e sui media indipendenti è totale. Inizia una vera e propria caccia all’uomo: chiunque si opponga, o si sia opposto, alla terza candidatura, diventa un potenziale «nemico della patria», a cominciare dagli stessi compagni di partito del presidente non allineati.

Verso la guerra civile

Il conflitto sale di livello l’11 dicembre scorso. I gruppi dell’opposizione armata, ormai presenti nel paese, escono allo scoperto, attaccando tre campi militari, due a Bujumbura e uno nell’interno. Il bilancio si salda con 12 morti tra gli assalitori, che riescono a recuperare armi dell’esercito regolare. Questa data sancisce la presenza della ribellione sulle colline intorno alla capitale Bujumbura. Si fanno chiamare Forze repubblicane del Burundi (Forebu) e Resistenza per uno stato di diritto in Burundi. A capo del Forebu sarebbe il generale Godefroid Niyombare, leader del tentato golpe di maggio.

Anche la repressione fa un salto di qualità. Nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 dicembre la polizia rastrella i quartieri cosiddetti «contestatari» dove si annidano gli oppositori. La mattina sono oltre 150 i cadaveri di giovani trovati lungo le strade della città, che ben presto le autorità fanno scomparire.

«L’opposizione armata si è ormai dichiarata. Sono ben equipaggiati, hanno preso anche materiale radio dai depositi dell’esercito, e sono sulle colline intorno a Bujumbura», ci racconta un cornoperante straniero che chiede l’anonimato. «Ogni tanto fanno delle incursioni in città. L’altro giorno hanno assaltato la casa del presidente del Parlamento, nel quartiere Mutanga Nord». E continua: «L’esercito è diviso. Non tutti sono d’accordo con il potere. Ci sono disertori che raggiungono la ribellione. Chi resta non si esprime contro, altrimenti lo fanno secco».

Il lavoro di rastrellamento nei quartieri lo fa la polizia. Avviene ormai ogni notte. «Ai posti di blocco o a fare le perquisizioni sono sempre gli stessi poliziotti, perché molti si rifiutano. Inoltre ci sono diversi rwandesi tra loro, mercenari. Hanno le stesse divise, ma si capisce la loro provenienza perché parlano kinyarwanda e non kirundi (due lingue molto simili, parlate nei due paesi, ma con evidenti differenze, ndr)». Si tratta dei famigerati interamwe, gli hutu rwandesi che vivono nel confinante Congo Rd dai tempi del genocidio in Rwanda (1994), in costante guerra con il regime di Kagame.

«Questo spiega perché i quartieri a maggioranza tutsi, come Nyakabiga, sono maggiormente presi di mira», ci dice il nostro interlocutore. Intanto, a fine gennaio Amnesty Inteational mostra le prove di fosse comuni.

Conflitto etnico?

La questione etnica, che sembrava risolta grazie agli accordi di Arusha, rischia di riaffiorare.

Il giornalista burundese, raggiunto via computer, ci spiega: «C’è una piccola dose di etnicismo, ma in realtà è piuttosto un problema politico. Ovvero tutti quelli che sono contro il terzo mandato sono messi nello stesso gruppo e sono da eliminare, che siano essi hutu o tutsi. Però se vivi in un quartiere come Musaga, Nyakabiga, Jabe, a maggioranza tutsi, è più facile che, una volta arrestato, tu sia ucciso».

E continua: «La polizia cerca oppositori nei quartieri, tutti i giorni e le notti. E se sei un giovane tra i 15 e i 20 anni vieni subito arrestato». I giovani fermati sono picchiati e drogati, alcuni finiscono in carcere, altri vengono rilasciati.

«Un giovane che conosco, di 15 anni, si trovava in centro per caso, e durante un rastrellamento lo hanno preso. Dopo averlo picchiato e imbottito di pasticche lo hanno liberato. Ora è a casa in stato di choc», ci racconta il cornoperante. «Qualche giorno fa hanno arrestato 104 ragazzi nel quartiere di Mutakura. Alcuni li rilasceranno, altri li terranno in prigione. Ci sono 26.000 prigionieri nelle carceri».

Continua il giornalista: «Oltre alla polizia, i miliziani imbonerakure sono molto attivi. Si tratta della lega dei giovani del partito al potere. Sono potenti e pattugliano i quartieri soprattutto la notte. In un grosso quartiere, Ciarama, a Nord della capitale, ogni famiglia deve pagare loro 1.000 franchi (60 centesimi, nda) per assicurare la sicurezza dell’area. È un quartiere nuovo, ci sono molti militari e dignitari e vogliono mantenere questa milizia». Gli imbonerakure sono una vera e propria milizia al servizio del potere, utilizzata per i lavori più sporchi e agiscono nella totale impunità.

Verso il collasso

Il presidente vive ormai nascosto: «Nkurunziza non risiede quasi mai in capitale, ma resta nella sua città natale, Ngozi, nel Nord del paese», conferma il giornalista.

Rincara il cornoperante: «Non può neanche fidarsi dei propri compagni di partito. I soldi sono finiti e avrà difficoltà a pagare la polizia, i funzionari, i ministri e il loro entourage. Per ora cerca di recuperare soldi dalle Organizzazioni inteazionali, obbligandole ad aprire conti in valuta alla Banca della Repubblica del Burundi. Il resto lo farà la corruzione. Inoltre, alle Ong inteazionali arrivano insolite ingiunzioni di pagamento di tasse non giustificate».

I finanziatori, per prima l’Unione europea, hanno congelato i fondi, mentre gli investitori hanno rallentato. L’economia è bloccata: «I prezzi degli alimenti sono raddoppiati in città, perché i contadini non si arrischiano a venirli a vendere. Nelle campagne si sopravvive con l’agricoltura di sussistenza, ma in capitale diventa difficile e comunque dispendioso, procurarsi da mangiare», continua il cornoperante.

Dialogo, tra sordi

Dei tentativi di «dialogo» si svolgono il 28 dicembre 2015 a Kampala, in Uganda. Qui si incontrano governo burundese, opposizione e società civile. Questo incontro fa seguito a quello tenuto poco prima delle elezioni e fallito perché abbandonato dai rappresentanti dell’esecutivo.

Il governo burundese rifiuta di riconoscere, e quindi dialogare, con il Consiglio nazionale per il rispetto dell’accordo di Arusha e il ritorno dello stato di diritti in Burundi (Cnared). Si tratta di una piattaforma composta da ex compagni di partito del presidente, oppositori e società civile che chiede al presidente di farsi da parte. Ci racconta il giornalista burundese: «Nel dialogo a Kampala, il governo ha detto che non può sedersi con il Cnared. Alla testa della piattaforma, nella quale si incontrano tutti gli oppositori in esilio, c’è Léonard Nyangoma, anche lui ex ribelle. Tutti i vecchi del Cndd che si sono opposti al terzo mandato. Il governo non vuole parlare con loro. La situazione si complica. La mediazione del presidente ugandese Museveni non è abbastanza forte». Il governo accusa i membri del Cnared di aver partecipato al tentato golpe del maggio 2015. Così la data successiva prevista dalla mediazione per il dialogo, il 6 gennaio, salta.

Intanto il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) vorrebbe mandare una missione multinazionale di interposizione per bloccare l’escalation di violenze, ma il governo di Nkurunziza non ne vuole sapere e la vede come una «forza d’invasione straniera».

«Sì, l’Ua vuole inviare delle truppe, ma il governo le ha rifiutate. L’ultima parola è all’Ua, ma per intervenire in un paese membro sono necessari i due terzi dei voti favorevoli dell’assemblea. Io non penso che si potranno avere, perché la maggior parte dei presidenti sono dei dittatori, e sono al potere da decine di anni. C’è Kagame che ha ufficializzato il suo terzo mandato (potrà governare fino al 2034, nda), Museveni ha più di 20 anni al potere, Mugabe è il più vecchio».

Così pure l’iniziativa dell’Ua, decisa il 18 dicembre, rimane senza seguito.

Tre scenari per il futuro

Anche l’Onu vuole evitare il peggio e potrebbe finanziare la missione dell’Ua. L’operazione più veloce sarebbe spostare in Burundi parte dei caschi blu della Minusco, presenti nel vicino Congo.

Un rapporto confidenziale per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, realizzato da Hervé Ladsous, capo delle operazioni per il mantenimento della pace in Burundi, diventato pubblico a inizio gennaio, ha ipotizzato tre possibili scenari futuri. Primo: la situazione resta stabile, con gravi ripetute violazioni dei diritti umani. In questo caso occorre favorire una missione dell’Ua. Secondo: la violenza sale di livello, in seguito a una scissione nell’esercito o a un assassinio politico. La guerra diventa aperta tra fazioni e si diffonde in tutto il paese. Non ci sono negoziati politici. Il rischio umanitario interessa due milioni di persone. Terzo: le violenze divampano e assumono una connotazione etnica, con incitazione a crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.

Il memorandum ipotizza l’invio di una missione di caschi blu, possibile solo con risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Fatto più allarmante, secondo l’autore del testo: «L’Onu non sarebbe attualmente in grado di proteggere la popolazione burundese senza un aiuto degli stati membri». Un primo effetto del rapporto è la missione del consiglio di sicurezza nel paese il 20 gennaio.

Il consigliere per la comunicazione della presidenza del Burundi, Willy Nyamitwe, reagisce immediatamente con un tweet: «Il rapporto mente». Anche il cornoperante ci confida la sua visione: «Può essere un periodo che durerà. Può instaurarsi una guerra civile. Sono andati troppo oltre. A livello internazionale gli interventi economici per mettere in difficoltà il governo sono stati fatti. Ma questi sono ex guerriglieri, abituati a stare in foresta, a vivere con poco, ad ammazzare. Quindi resisteranno fino alla fine».

Marco Bello

 




Storia del Giubileo 5. L’anno sabatico


Abbiamo chiuso la puntata precedente (cfr. MC 01-2/2016, p. 28) affermando che l’AT parla di due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo. Abbiamo anche aggiunto che non bisogna confonderli, come spesso si fa, perché sono distinti tra di loro pur essendo connessi dal fatto che il Giubileo è uno sviluppo dell’Anno Sabatico. Precisiamo subito che Anno Sabatico e Giubileo, su cui tanto s’infioretta in commenti estemporanei, sono solo una «teoria» (sabatica e giubilare). Pur essendo descritto con rigorose norme dettagliate, assolutamente nulla ci garantisce che «la legge sia mai stata applicata» prima del ritorno dall’esilio di Babilonia (sec. V a.C.; cfr. R. de Vaux o.p., Les institutions de l’Ancien Testament, vol. I, 264-270, Paris, Les éditions du Cerf, 1958, qui 268).

Quest’affermazione molto impegnativa di uno dei più grandi biblisti del ‘900, che cercheremo di illustrare, è un motivo in più per evitare di leggere la Bibbia «alla lettera», che è il modo migliore per rovinarci la salute: occorre approfondire sempre i testi nel loro contesto storico e sociale. La Bibbia – non lo ripeteremo mai abbastanza – ha una storia travagliata e non è un libro scritto a tavolino, né una raccolta di codici e norme studiate in una biblioteca asettica, ma è il frutto di una lenta riflessione che nasce dalla vita per dare un senso all’esistenza, motivandola con ragioni di fede che per loro natura sono universali. Il punto di partenza deve essere la condizione socio-economica di quei tempi, cioè tutto quello che oggi chiameremmo «lo stato del welfare».

L’anno sabatico tra debiti e pegni

L’istituto «Anno Sabatico» riflette la predicazione sociale dei profeti Amos, Osea, Primo Isaia (sec. VIII-VII a.C.), specialmente nella Palestina del Sud, cioè nel regno di Giuda che ha il suo epicentro attorno al tempio di Gerusalemme. Le norme riguardanti il Giubileo invece sono codificate un paio di secoli più tardi, non prima del sec. VI-V a.C., e riflettono la situazione socio-economica del dopo esilio, quando ci fu non solo la ricostruzione del tempio e di Gerusalemme, ma anche la ristrutturazione e la riorganizzazione della società nei suoi assetti economici, politici, religiosi e sociali.

 Nel NT non si parla mai né di Anno Sabatico né di Giubileo, tranne forse che in un fugace cenno in Lc 4,17-19, quando Gesù, iniziando il suo ministero, si presenta come il profeta della Misericordia di Dio, citando un passo del Terzo Isaia (61,1-2), del V sec. a.C., modificandone il senso:
«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù annunciando la «liberazione degli oppressi» che è «l’anno di grazia del Signore», tralascia l’espressione seguente del profeta: «Gioo di vendetta per il nostro Dio». Oltre a questo testo, in tutto il NT non c’è nessun altro cenno al Giubileo o all’Anno Sabatico. Nella prossima puntata parleremo dell’istituzione dell’Anno Sabatico che viene fatta prima del Giubileo biblico.

Il Deuteronomio al capitolo 15 (sec. VII-V a.C. ca.) descrive l’Anno Sabatico in relazione alle persone che sono coinvolte in una delicata e complessa questione di debiti e pegni. Per un debito contratto, uno poteva dare in pegno di garanzia la sua stessa libertà o il figlio, più spesso la figlia. Ogni sette anni, tutto questo doveva essere azzerato, ricostruendo la «status quo ante».

«1Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione (shemittàh). 2Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. 3Potrai esigerlo dallo straniero (Nokrì]); ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere. 4Del resto non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà in possesso ereditario, 5purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore, tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do» (Dt 15,1-5).

La questione era tanto complessa che si arrivò a valutare il valore delle proprietà fondiarie e patrimoniali in base agli anni che separavano dal settimo, l’anno sabatico. L’Anno Sabatico è un vero e proprio editto «di liberazione» dalla schiavitù. Nessuno che facesse debiti per necessità poteva essere ridotto in schiavitù per sempre. È la relativizzazione sia del denaro sia dei vincoli economici che devono sempre e comunque essere subordinati alla persona.

Viene spontaneo pensare – e così è – che durante l’esilio di Babilonia e specialmente dopo, al momento del rientro in patria, la norma dell’Anno Sabatico conceente gli schiavi, venisse estesa alla terra e agli animali per dare forza a una legge difficile da digerire da parte dei residenti che si trovavano di fronte i rimpatriati, i quali esigevano la restituzione delle terre che erano stati costretti ad abbandonare cinquant’anni prima, senza loro colpa.

Da parte loro, i residenti consideravano i nuovi arrivati come importuni e «forestieri» per cui la tensione sociale era alle stelle. Bisognava porre un rimedio e il legislatore ricorse all’istituto dell’Anno Sabatico che venne addirittura collocato al tempo della legislazione sinaitica, come «volontà espressa del Dio liberatore» per farla accettare da tutto il popolo.

La legislazione di Esodo e Levitico

Nel libro dell’Esodo leggiamo:

«9Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto. 10Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, 11ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. 12Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno farai riposo, perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,9-12).

Il libro del Levitico dice le stesse cose, ma in modo più dettagliato:

«2Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. 6Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; 7anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà”» (Lv 25,2-7).

I testi appartengono al «codice dell’alleanza» e contengono due indicazioni, una relativa alla terra (Lv 25,2-4; Es 23,10-11) e l’altra, solo nel testo di Esodo, al riposo settimanale (Es 23,12). Tutto è racchiuso dentro un precetto che riguarda «il forestiero», assunto come misura sia della propria identità (anche voi siete stati forestieri – Es 23,9) sia del riposo che deve essere riconosciuto (è un diritto!) a tutte le categorie «fragili» esistenti in natura (animali e persone, Es 23,12).

La preoccupazione sociale di salvaguardia non concee solo le persone giuridicamente abilitate, ma anche quelle che non hanno diritti e non hanno da mangiare, come i poveri, quelle sottomesse come gli schiavi e il forestiero, ma anche gli animali domestici e selvatici. È facile dedurre che qui si afferma il principio che «Dio è padre di tutte le cose», cioè della terra nel suo insieme.

In ebraico l’espressione «non la sfrutterai» (Es 23,11) è «tishmetennàh» dal verbo «shamàt – lasciare cadere/abbandonare/rimettere»; in altre parole: quello che la terra produce nel settimo anno deve essere «lasciato cadere» cioè essere «proprietà» dei poveri e degli animali selvatici. Si afferma anche l’attenzione particolare che si deve al «forestiero» (ebraico «ghèr»; greco «prosêlytos»), citato due volte all’inizio e alla fine del testo di Esodo, quasi a volee sottolineare l’importanza, perché gli stessi Ebrei che ritornavano o che erano nati a Babilonia erano dai residenti trattati come «forestieri».

 Ghèr: lo straniero integrato e residente

Tre termini si usano nella Bibbia ebraica per definire lo «straniero»:
1. Zar/straniero oltre confine, con cui non si hanno rapporti. Siccome «nemico» in ebraico si dice «zar» (stessa radice), qui straniero e nemico sono sinonimi.
2. Nockrì/straniero nomade. È lo straniero temporaneo, quello che si ferma il tempo necessario per una sosta. È questa figura che diventa segno di Dio «che passa» e mette alla prova.
3. Ghèr è lo straniero residente che è integrato e fa parte del popolo; costui è «straniero» solo di nascita (origine). Egli è protetto giuridicamente e socialmente perché la sua presenza in terra d’Israele richiama alla coscienza del popolo di Dio di essere stato «straniero» in Egitto, oppresso e molestato dal faraone: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto» (Es 22,20).
In questo atteggiamento è già anticipata la radice dell’amore del prossimo come sarà formulata dal libro del Levitico per cui l’esperienza personale diventa misura dell’accoglienza dell’altro, posta anche come fondamento dell’identità di Dio stesso: «Amerai il prossimo tuo come te stesso: Io-Sono il Signore» (Lv 19,18) che Gesù assumerà come criterio centrale di tutta la Legge e della morale del suo Regno di Dio: «Ama il Signore… ama il prossimo tuo» (Lc 10,27). Non più «due amori», uno per Dio e uno per il prossimo, ma un unico amore a perdere senza chiedere in cambio nulla: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua vita e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso [ton pl?sìon h?s seautôn»] (Lc 10,27; cf Mc 12,30-31).

Una legislazione «impossibile» da applicare

Occorre domandarci, però, se una norma del genere fosse concretamente praticabile; se, infatti, si si fosse attuata in modo rigoroso, non solo si sarebbero fermate l’economia agricola e pastorale (senza nutrimento, anche gli animali morirebbero), ma si sarebbe prodotto l’effetto di distruggere l’esistenza del popolo. Gli antichi popoli che circondavano Israele, con la terra avevano un rapporto di natura «sacrale», e il riposo settennale, tramandato nella memoria collettiva fin dalla notte dei tempi, poteva essere vissuto come un atto religioso «di restituzione» alla divinità della sua proprietà: ogni sette anni si faceva riposare la terra per affermare che l’uomo non ha diritto assoluto sulla terra, ma possiede solo un usufrutto. Tutto questo è un’ipotesi perché, nella Bibbia, solo dopo l’esilio comincia a fare capolino, mentre prima non v’è alcun testo che ne parli.

Nei tempi antichi non esisteva un metodo di concimazione integrato come lo sperimentiamo oggi, per cui era necessario fare riposare la terra al fine di farle recuperare i sali e le sostanze necessarie alla coltivazione. È certo che gli Assiri e i Cananei (prima degli Israeliti), usassero sistemi di alternanza della coltivazione, per cui dove si coltivava orzo, l’anno successivo di seminavano legumi e così via. Non è strano pensare che durante l’esilio gli Ebrei ne avessero appreso l’uso insieme alle tecniche che al rientro dall’esilio introdussero in Israele.

Il metodo delle coltivazioni a rotazione, cioè a raccolti alternati, s’impose e si perfezionò in vista dell’Anno Sabatico. La proprietà terriera venne divisa in sette lotti, rendendo non solo possibile l’attuazione dell’Anno Sabatico, ma anche redditizia la programmazione del riposo sabatico: ogni sette anni, solo un lotto restava incolto mentre gli altri sei erano coltivabili.

In tempi di crisi

In questo sistema socio-economico che si è sviluppò nei secoli, si aggiunse la teologia elaborata durante lo stesso periodo. I profeti del sec. VIII, prima dell’esilio, avevano centrato la loro predicazione sulla giustizia sociale come espressione compiuta della religiosità autentica. Basta leggere Isaia, Amos e Osea per rendersi conto degli strali che venivano lanciati contro le classi agiate che sfruttavano i poveri per capire che la condanna di Dio era assoluta perché non poteva darsi alcuna religione che non si facesse carico dei problemi sociali che si affrontano solo nella «giustizia sociale», che oggi definiremmo con termine moderno «equa redistribuzione della ricchezza».

La predicazione dei profeti fu ripresa durante l’esilio (II e III Isaia), dando sviluppo a quella teologia sociale che la casta sacerdotale codificò poi specialmente dopo l’esilio stesso. Durante l’esilio, il pericolo della «secolarizzazione» era stato grande perché con la distruzione di Gerusalemme e del tempio, erano crollate tutte le certezze del popolo, si era alimentata la depressione psicologica, la religione non era più un rifugio consolatorio e per di più, in terra straniera, mancavano gli strumenti per coltivare la propria identità e la stessa appartenenza religiosa. Non c’era il tempio, non vi erano più i sacrifici, non vi era più il culto; mancava tutto ciò che dava senso e vita al popolo quando viveva nella terra promessa. Terra promessa? Davvero Dio aveva fatto promesse? Dov’è Dio? Chi è Dio?

Nei tempi di crisi tutto si mette in discussione, anche le certezze che prima sembravano granitiche. Bisognava reagire, e ricostruire il cuore e la mentalità del popolo e non permettere che si rassegnasse alla disfatta. Compito della teologia sacerdotale era ricreare le condizioni per riorganizzare la religione non più attorno al tempio, che non c’era più, e alle sue attività cultuali, ma attorno alla «Parola» che sostituiva il «Santuario». Nasceva a Babilonia la «Sinagoga», cioè la casa della convocazione dell’assemblea, che si riuniva per leggere il proprio presente alla luce del proprio passato. Si ricostruirono le tradizioni e le s’inventarono anche, s’ingigantirono contenuti e portata di eventi passati che storicamente erano stati fatti appena significativi come l’esodo, come le figure dei patriarchi Giacobbe, Isacco e Abramo, ma questo appartiene alla prossima puntata.

Paolo Farinella, prete
(5, continua)




Il presidente che iniziò al Boca

 

Dal 10 dicembre a guidare l’Argentina c’è un nuovo presidente, il conservatore Mauricio Macri, figlio di un ricco imprenditore italiano. La sua carriera pubblica iniziò nel 1995 quando fu eletto alla presidenza del Boca Juniors, una delle più conosciute e titolate squadre di calcio al mondo. Adesso Macri è alla guida di una nazione dove i problemi – a cominciare da quelli economici – non mancano mai. E la sua coalizione, riunita sotto la slogan Cambiemos (Cambiamo), non ha la maggioranza al Congresso.

San Paolo (Brasile), 7 febbraio. L’hotel è pieno di argentini in attesa di un volo per l’Europa. L’occasione è propizia per fare qualche domanda. «Come si sta comportando il nuovo presidente?», chiediamo a un gruppo di loro. «L’uomo si sta dando da fare per chiudere con l’epoca di Cristina», è il coro unanime. Facciamo notare che la (ex) presidenta ha varato programmi sociali importanti e che ha combattuto a livello internazionale contro la speculazione finanziaria, un cappio al collo dell’Argentina. I cosiddetti «fondi avvoltornio» (fondos buitre) ne sono ancora oggi la manifestazione più vergognosa e intollerabile (sotto qualsivoglia punto di vista). Non riusciamo tuttavia a convincere i nostri interlocutori, i quali – con visibile disapprovazione – elencano gli ultimi casi di corruzione. Forse è una casualità o forse sono le normali contumelie – consuete in (quasi) tutto il mondo – nei riguardi dei rappresentanti politici. Di sicuro Mauricio Macri, l’inatteso vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso dicembre, rappresenta un cambio in un certo qual modo «storico» perché si colloca al di fuori – almeno in teoria – delle due grandi coalizioni politiche argentine, quella giustizialista-peronista (di cui fa parte la corrente kirchnerista, una sorta di peronismo di sinistra) e quella radicale.

Handout picture released by the City Govement of Buenos Aires, showing Pope Francis (L) greeting Buenos Aires Mayor Mauricio Macri (C), his wife Juliana Awada and their daughter Antonia, during a private audience in Vatican City on September 19, 2013. AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca --- RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca " - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / GCBA / Antonello Nusca
AFP / GCBA / Antonello Nusca

Il calcio è potere

Chi è, e da dove proviene il nuovo presidente? Figlio di un italiano che in Argentina ha costruito un impero economico1, Macri ha trovato la sua personale rampa di lancio non nel mondo dell’impresa, bensì in quello del calcio, che nel paese latinoamericano costituisce – senza timore di smentita – una vera e propria «religione». Soprattutto quando si parla del Boca (Juniors), la squadra dell’omonimo quartiere di Buenos Aires, fondata nel 1905 da un gruppo di ragazzi figli di immigrati italiani. Il Boca è uno dei club più famosi a livello mondiale, in cui hanno militato campioni celebrati, come Diego Armando Maradona e oggi Carlos Tévez.

Macri ne è stato lungamente (dal 1995 al 2008) presidente, e soprattutto un presidente vittorioso. Durante e dopo quell’esperienza di dirigente calcistico, si collocano anche le sue fortune politiche, prima come deputato nazionale e poi come governatore del distretto di Buenos Aires, cuore pulsante del paese.

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Conservatore e liberista

Le prime mosse di Macri sono state quelle proprie di un politico conservatore e liberista.

Alcuni giorni dopo la sua entrata alla Casa Rosada, il neopresidente ha annunciato (14 dicembre) la sua prima misura di carattere economico: l’eliminazione delle tasse (retenciones) sull’esportazione per i produttori agricoli di frumento, mais e carne; la riduzione di quella per i produttori di soia (il prodotto principe delle esportazioni, una fonte d’oro e di disastri ambientali). Un regalo di enorme valore per i latifondisti argentini, che dal 2008 lottavano contro il regime fiscale imposto da Cristina Kirchner Feández. La seconda misura è stata varata pochi giorni dopo: la cancellazione del regime di controllo cambiario sul dollaro, che limitava gli acquisti della valuta statunitense per cittadini e imprese. La liberalizzazione ha prodotto una immediata svalutazione della moneta nazionale, il peso, rendendo i prodotti argentini più competitivi (ma facilitando anche la fuga di capitali e l’inflazione).

La politica economica del neopresidente piace ai ricchi. E probabilmente piacerà anche alle istituzioni inteazionali che contano, tra cui non rientra l’Assemblea generale della Nazioni Unite. Va ricordato che quest’ultima, il 10 settembre 2015, aveva votato una risoluzione – con 136 voti a favore, 41 astensioni e 6 contrari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Giappone, Germania e Israele) – per limitare le azioni dei fondi speculativi nei confronti dei debiti sovrani (dell’Argentina e di molti altri paesi). Si era trattato di una bella vittoria per Cristina, ma una vittoria meramente morale, senza alcuna ricaduta pratica. L’inefficacia di quella risoluzione ha ribadito come nel mondo finanziario le decisioni siano prese da pochissimi a spese della stragrande maggioranza.

Tanto per intenderci, a pochi giorni dalle elezioni argentine il Financial Times aveva pubblicato un articolo con un titolo emblematico: Anything bests Feández (Qualsiasi cosa sarà meglio di Cristina)2.

Il de profundis del Clarín

Se è vero che al Congresso la coalizione di Macri (Cambiemos) non ha la maggioranza, è altrettanto vero che il neopresidente non si troverà a dover combattere con il Grupo Clarín, come invece è capitato ai governi di Néstor e Cristina Kirchner.

Il Gruppo Clarín è di gran lunga la principale industria editoriale dell’Argentina3. Ad esso fanno capo giornali (tra cui il quotidiano El Clarín), televisioni, radio, reti di comunicazione. Tra il Clarín e i Kirchner – rei di voler limitare per legge (Ley de Medios) il monopolio mediatico del gruppo – è sempre stata guerra. Una guerra senza esclusione di colpi.

Subito dopo la vittoria di Mauricio Macri, il gruppo editoriale non solo ha recitato il de profundis del kirchnerismo, ma ne ha scritto le memorie, non salvando praticamente nulla dei 12 anni di governo. Lo ha fatto, utilizzando le sue migliori risorse umane e tecnologiche, con il corposo dossier El legado K (L’eredità K)4 e con il film Ficción K, el documental del relato (Commedia K, il documentario del racconto)5.

Quello fatto dal Clarín è un dipinto a tinte fosche, quasi da far rimpiangere l’epoca di Carlos Menem (1989-1999) o addirittura i tempi della dittatura (1976-1983): un paese diviso, l’aumento della povertà (1 argentino su 4), la distruzione dell’agricoltura e dell’allevamento, la forte contrazione dell’industria. Anche la battaglia per i diritti umani – con la celebrazione dei processi a un migliaio di militari golpisti – alla fine viene interpretata come un’arma di seduzione e di acquisto di consensi nelle mani dei Kirchner6.

Adesso tutto cambierà, prevede il dossier del Clarín. «Il quinquennio 2016-2020 e il nuovo scenario politico – vi si legge – offrono una piattaforma di opportunità per avanzare»7.

Talentuosa, ma indisciplinata

Qualunque sia l’eredità lasciata dall’epoca dei Kirchner, la presidenza di Mauricio Macri non sarà comunque una passeggiata. Il quadro economico generale è problematico e imprevedibile, sia a livello nazionale che latinoamericano. Il paese rimane potenzialmente molto ricco, ma afflitto da patologie che paiono inguaribili (corruzione generalizzata, diseguaglianze sociali marcate).

Semplificando, si potrebbe forse dire che l’Argentina è un po’ come i suoi calciatori: talentuosa, ma indisciplinata.

Paolo Moiola
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Il fondatore è Francesco Macri, nato a Roma nel 1930.
(2) Articolo del 21 ottobre, reperibile sul sito del quotidiano britannico: www.ft.com
(3) Il sito: www.grupoclarin.com.ar
(4) Il dossier sui 12 anni di kirchnerismo si può leggere liberamente a questo link: http://especiales.clarin.com/el-legado-K/
(5) Il documentario si può vedere liberamente a questo link: http://www.clarin.com/politica/Ficcion-capitulos-peor-relato_0_1489651181.html
(6) Silvana Boschi, Las conquistas que terminaron siendo manipuladas por el relato, in dossier citato.
(7) Dante Sica, La industria, de la expansión a una fuerte contracción, in dossier citato.




Una porta santa nel deserto

 

Quando il vescovo di Inhambane ha annunciato che anche Guiúa sarebbe stata meta del pellegrinaggio giubilare, ci siamo sentiti più che imbarazzati. Certo il titolo di «Santuario di Maria Regina dei Martiri» era stato conferito con tanto di decreto vescovile tre anni fa. Ma il Santuario è appena il cimitero dei nostri catechisti martirizzati nel 1992 con una cappella che ci riunisce ogni 22 del mese per venerae la memoria e il 22 di marzo per il grande pellegrinaggio diocesano.

Essere meta del giubileo vuol dire pellegrinaggio, indulgenza e anche «porta santa». Dove troviamo una porta santa nel deserto di Guiúa?

Padre Gabriele Casadei, uomo di grandi idee e realizzazioni, ha fatto due colonne di mattoni all’entrata del Cimitero dei Martiri, in fondo al grande viale. Ma le porte? In un container spedito anni fa da amici di Lissone (Lecco), c’erano giunte delle grandi lastre di lamiera che erano rimaste nel magazzino perché non avevamo la più pallida idea di come utilizzarle. Ecco, finalmente realizzato il loro destino: diventare la porta santa. Una volta poste una accanto all’altra, appoggiate ai due pilastri, chiudono bene il passaggio al santuario e fanno un figurone. Non è la bellezza della porta, abbiamo spiegato ai fedeli, ma è l’atto di entrare da quella porta nel santuario, come pellegrini bisognosi della misericordia del Signore, che conta. E così abbiamo iniziato la celebrazione.

Ci siamo radunati attorno alla fontana con la statua della Madonna benedicente, e abbiamo iniziato: lettura del Vangelo e della Bolla del papa. Erano tanti i nostri cristiani: la maggior parte proveniente dai villaggi lontani fino a 30 Km. Albertina, anziana catechista di Ngala, era partita alle tre del mattino, assieme a quasi tutto il villaggio. Così pure Filomena, Jacinto, Felizmeta si erano messi in viaggio a piedi sulle dune della nostra terra, per arrivare presto alla missione. Bambini, giovani, adulti e anziani. Vedendo donna Simplícia che, curva su se stessa, reggendosi appena col suo bastone, camminava lentissimamente, ultima nella processione, mi sono chiesto: «Chi glielo ha fatto fare?». La risposta mi è subito venuta: «Solo il Signore e la sua Misericordia, Lui solo». Poi la processione è iniziata con tutta la solennità del caso. Non avevo un piviale viola, ma uno bianco, donato da qualche sacerdote lombardo, arrivato anch’esso con un container: bellissimo. Avevo pensato di indossarlo il giorno del Corpus Domini per la processione, ma aveva piovuto così tanto che non avevo voluto bagnarlo. Questa è stata la sua occasione. Croce, incenso, Vangelo, come il papa in san Pietro, e la processione si è snodata lungo i viali della missione verso il Cimitero dei Martiri. I fedeli cantavano con fervore e gioia, senza stancarsi: le litanie dei santi, canti di giubilo, canti di misericordia… non sentivamo i raggi violenti del sole, né il freno della sabbia.

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Davanti alla porta santa un profondo silenzio. Il tamburo, quello che si usa per gli annunci importanti, rullava lungamente. «Io sono la Porta», dice Gesù nel Vangelo. Io ho pregato: «Aprite la porta della giustizia», e il popolo ha risposto: «I giusti entreranno in essa». Per tre volte ho battuto col martello, e la porta finalmente si è aperta. Applauso, canto, poi in ginocchio in silenzio. Silenzio profondo di preghiera. «Il Signore ci doni la sua Misericordia». Davanti a noi, un bellissimo quadro del Gesù Misericordioso che tutti accoglie col suo cuore che emana luce e calore. Quindi, bagnando la mano nell’acqua benedetta e segnandosi col segno della croce, i fedeli entravano nel santuario, ordinatamente con devozione, preghiera e canto. Nella cappella non ci stavamo tutti. Il sole di dicembre era davvero cocente, ma alcune nuvole e brezza leggera alleviavano la calura, e così, seduti attorno alla cappella, tutti con tanta devozione hanno partecipato alla santa messa.

«Il Dio di misericordia ci perdona e ci accoglie. Adesso, attraversata ancora questa porta, torniamo alle nostre case e portiamo a tutti, in casa e nel villaggio, compassione e misericordia».

Sandro Faedi

DA GUIÚA PER LA MISSIONE

Un altro gruppo di 14 famiglie, formate nel Centro Catechistico Nazionale di Guiúa, ha ricevuto il mandato missionario, per le diocesi del Mozambico.

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«Ricevete la Bibbia, annunciate con la parola e la vita il nome del Signore Gesù». Con queste parole il vescovo di Inhambane, mons. Adriano Langa, durante la Messa del 26 novembre scorso ha inviato 14 famiglie di catechisti alle proprie comunità di origine, dopo il corso realizzato in Guiúa.

Guiúa, è un piccolo villaggio a 12 km dalla città di Inhambane, in Mozambico, sede della omonima diocesi, dove nel 1970 si aprì il Centro di Promozione Umana per formare alla leadership sociale e religiosa i laici più dinamici e inviarli nei villaggi più lontani e remoti della regione. Il centro fu attivo fino al 1987, quando un gruppo di guerriglieri lo assaltarono uccidendo il catechista Peres Manuel e rapendo molti altri, rilasciati solo dopo alcuni mesi. Era la lunga guerra civile.

Nel 1992, quando già il dialogo tra le parti in conflitto era ben avanzato, il centro fu riaperto. Ma nella notte tra il 21 e 22 marzo dello stesso anno ci fu un altro attacco. I guerriglieri sequestrarono tutti, grandi e piccoli, e li radunarono in una radura a 3 km dal centro. Là, furono interrogati, maltrattati e infine barbaramente trucidati. I morti furono 23. Sono i Catechisti Martiri di Guiúa, le cui tombe sono meta di pellegrinaggi e venerazione. Dodici anni dopo, nel 2004, il Centro Catechistico riaprì con 17 famiglie, segnando l’inizio di una nuova tappa nella vita della chiesa del Mozambico.

Al corso appena terminato hanno partecipato 14 famiglie da tre diocesi, per un totale di 70 persone. I catechisti hanno studiato teologia, pastorale, storia, politica e legge al mattino, mentre al pomeriggio hanno fatto pratica di agricoltura, falegnameria, meccanica, informatica per prepararsi a essere animatori della vita sociale e cristiana dei loro villaggi. Le signore, oltre che in teologia e catechesi, hanno migliorato le loro conoscenze di cucina, puericultura, cucito, infermieristica. I bambini si sono sistemati nelle varie scuole secondo l’età. La chiesa missionaria che ha portato a maturità la giovane chiesa africana, può stare tranquilla. Questi fratelli e sorelle, neo catechisti, continueranno con buon spirito evangelico il lavoro che Gesù ha lasciato ai suoi, con dinamismo e creatività, per annunciare a tutti che Lui è il Signore.

S. F.




Non solo fumo

 


La cannabis, nella storia, ha sempre curato le malattie dell’uomo. Nell’era moderna è stata messa al bando, ma da alcuni anni le sue proprietà terapeutiche sono state rivalutate. E le leggi italiane iniziano ad adeguarsi.

La storia della cannabis o canapa (cannabis sativa) si intreccia con la storia dell’uomo, al punto tale che l’uso di questa pianta è più antico della scrittura. Le sue origini si collocano dopo l’ultima glaciazione nell’Asia centrale, da dove è riuscita a colonizzare tutto il pianeta. La canapa, coltivata in Asia da migliaia di anni è stata a lungo utilizzata nell’alimentazione e per ricavarne fibra tessile. La prima Bibbia a caratteri mobili venne stampata da Gutenberg su carta di canapa e lino.

Questa preziosa pianta è ben nota da migliaia di anni anche per le sue proprietà psicoattive e per le sue virtù terapeutiche. Per quanto riguarda queste ultime, la prima citazione dell’uso della cannabis a scopo terapeutico si trova in un testo tradizionale della medicina cinese, il Shen Nung Ben Ts’ao, che sarebbe stato composto nel 2.737 a.C. dal fondatore della scienza medica cinese, l’imperatore Shen Nung. Qui si trovano indicazioni sull’uso della pianta per la cura dei dolori di origine reumatica e gottosa, dei disturbi ginecologici e della malaria. I chirurghi cinesi impiegavano inoltre la cannabis come anestetico.

Oltre alla pianta della canapa, in Cina venivano utilizzati per scopi medici i suoi semi, come antiemetici, nelle intossicazioni e nei casi di dismenorrea, mentre l’olio e il succo da essa ricavati erano diffusamente utilizzati nella cura delle malattie della pelle, delle ulcere, delle ferite e della lebbra.

L’uso a scopo terapeutico della cannabis è riportato anche in diversi manuali di medicina ayurvedica, la medicina induista tradizionale. In India la cannabis era usata per stimolare l’appetito e per curare la lebbra.

Nell’antica Roma, la cannabis per uso medico venne introdotta nel primo secolo d.C. e le sue proprietà vennero descritte da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, da Dioscoride, scienziato e medico, nel suo De materia medica, e da Galeno, uno dei più importanti medici dell’epoca antica, che utilizzò questa pianta per il trattamento di varie patologie e che produsse la tintura galenica di canapa, la quale venne utilizzata per secoli in varie parti del mondo come analgesico e anestetico. Galeno descrisse le proprietà della cannabis e di oltre 600 tipi di piante e di altri rimedi naturali nel trattato De natura medica, che influenzò la medicina fino agli inizi del diciottesimo secolo.

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Fuori legge

Agli inizi del ventesimo secolo, diversi interessi economici come la produzione dei materiali sintetici derivati dal petrolio e lo sviluppo dei medicinali di sintesi, portarono all’introduzione negli stati occidentali di misure sempre più restrittive e orientate alla criminalizzazione della cannabis, vista solo come sostanza stupefacente. Questo determinò l’abbandono della canapa sia per la produzione di tessuti, che di rimedi farmacologici di origine naturale. Le coltivazioni di cannabis scomparvero in breve tempo e la pianta nel 1975 venne definitivamente messa al bando in tutte le sue varietà. Il clima di ostilità, che si sviluppò nel ventesimo secolo nei confronti della cannabis è ben rappresentato dal fatto che, negli Usa prima e nel resto del mondo occidentale poi, essa venne chiamata marijuana, termine che imita il vocabolo messicano marihuana, con cui viene designata la cannabis, usata come sostanza stupefacente in Messico. La demonizzazione della cannabis per molto tempo dissuase buona parte del mondo scientifico dalla conduzione di ricerche approfondite su di essa, dal momento che gli scienziati che se ne fossero occupati avrebbero rischiato la propria reputazione, per cui fino a metà del secolo scorso era ancora sconosciuto il suo principio attivo.

Finalmente un chimico organico israeliano, Raphael Mechoulam, ebbe il coraggio di intraprendere questo studio, e nel 1964 riuscì a isolare il principale principio attivo della cannabis, cioè il delta-9-tetraidrocannabinolo (Thc), la sostanza con proprietà psicoattive. In seguito Mechoulam e la sua equipe riuscirono a isolare molte altre sostanze dalla cannabis, tra cui un altro componente cruciale, il cannabidiolo (Cbd), capace di modulare l’attività del tetraidrocannabinolo prolungandone l’azione e limitandone gli effetti collaterali. Questo non è il componente psicoattivo, ed è quindi senza effetti sul cervello. Questa sostanza ha una certa efficacia come anticonvulsivante, sedativo e analgesico, aiuta a contrastare il diabete, le infezioni batteriche e i tumori maligni, serve a proteggere i nervi e ha effetti documentati contro le psicosi e gli stati d’ansia. Oggi sono oltre 600 le sostanze derivate dalla cannabis e appartengono alle famiglie dei cannabinoidi, dei flavoni e dei terpeni.

Una foglia, molte proprietà

I cannabinoidi sono più di 60. Oltre ai due già citati, sono importanti: la tetraidrocannabivarina, che accelera il raggiungimento dello stato euforico, ma ne diminuisce di molto la durata e sembra utile per combattere il diabete di tipo II, oltre ad avere mostrato un effetto preventivo contro i tumori maligni; la cannabicromina, che sembra capace di combattere gli stati di depressione e le infiammazioni e ha mostrato un effetto inibitore nei tumori al seno e nella leucemia. L’industria farmaceutica ha prodotto diversi cannabinoidi sintetici, ma questi sembrano mostrare minore efficacia e maggiori effetti collaterali rispetto ai derivati naturali. L’equipe di studiosi israeliani, non solo riuscì a scoprire i principi attivi della cannabis, ma nel 1992 riuscì a isolare la sostanza prodotta dal corpo umano che si lega agli stessi recettori del tetraidrocannabinolo, a cui dette il nome di anandamide, dal termine sanscrito ananda, che significa «gioia suprema», il primo endocannabinoide scoperto.

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Leggeri effetti collaterali

In pratica il sistema degli endocannabinoidi regola l’assorbimento energetico del nostro organismo, il movimento dei nutrienti, il loro metabolismo e la loro conservazione. Gli endocannabinoidi regolano diverse funzioni del sistema nervoso, dell’apparato cardiovascolare, del sistema riproduttivo e del sistema immunitario. Inoltre essi aiutano il nostro sistema nervoso a comunicare, funzionando da messaggeri tra una cellula e l’altra.

Le sostanze ricavate dalla cannabis, in primis il delta-9-tetraidrocannabinolo, avendo la capacità di legarsi agli stessi recettori degli endocannabinoidi, possono risultare di estrema utilità nella cura di un numero importante di patologie, senza i pesanti effetti collaterali di molti farmaci di sintesi. Tra le patologie per le quali esistono evidenze incontrovertibili dell’efficacia dei derivati della cannabis ci sono il trattamento della nausea in chemioterapia e la stimolazione dell’appetito nei pazienti con sindrome da deperimento Aids-correlata.

Ci sono poi patologie per cui esistono promettenti evidenze preliminari di efficacia dei derivati della cannabis, per le quali sono necessarie sperimentazioni cliniche controllate, cioè: sclerosi multipla, terapia del dolore, sindrome di Gilles de la Tourette, glioblastoma, artrite reumatornide, glaucoma, epilessia, ictus e traumi cranici, prevenibili grazie agli effetti neuro protettivi e antiossidanti.

Infine c’è un gruppo di patologie per le quali esistono evidenze di efficacia meritevoli di ulteriori approfondimenti, che sono: lesioni midollari (paraplegia, tetraplegia), malattie neurodegenerative (distonie, Parkinson, corea di Huntington, Alzheimer), asma bronchiale, malattie autornimmuni e patologie infiammatorie croniche (lupus eritematoso, morbo di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi), sindromi ansioso-depressive e altre sindromi psichiatriche, patologie cardiovascolari, sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze, prurito intrattabile, tumori.

Gli effetti collaterali sono gli stessi per tutti i farmaci a base di cannabinoidi e dipendono dalla dose e dalla condizione psicofisica del paziente, ma solitamente scompaiono nel giro di poche ore. Tra i più comuni ci sono le temporanee alterazioni dell’attività psichica (euforia, sedazione, ansia, alterata percezione del tempo, depressione, prestazioni cognitive diminuite) e motoria (debolezza muscolare), accelerazione della frequenza cardiaca, ipo salivazione, labile stabilità ortostatica. Non sono noti casi di morte riconducibili all’uso di cannabis.

Nuove leggi

Negli ultimi anni sono sempre di più i paesi che, mediante leggi meno restrittive, hanno consentito l’accesso ai trattamenti terapeutici a base di farmaci derivati dalla cannabis. In Italia, il decreto Dm 18 aprile 2007, che prevedeva l’aggiornamento delle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope, ha stabilito l’inserimento nella sezione B della tabella Medicinali, di almeno tre sostanze derivanti dalla cannabis. Inoltre il Dm 23 gennaio 2013 ha disposto l’inclusione di medicinali di origine vegetale a base di cannabis (sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture) nella sezione B. Questo significa che anche il medico di base può prescrivere cannabis e derivati per trattamenti domiciliari. I costi della cura non sono a carico del paziente, ma del sistema sanitario regionale, grazie a una legge regionale adottata da Sicilia, Abruzzo, Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Lombardia e Piemonte, non ostacolata dal governo, che però ha ribadito che i farmaci in questione vanno prescritti esclusivamente «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente».

View of a marijuana plant, part of the weed plantation with 18,000 plants who has been found in a forest, near the German border, in Reuver, The Netherlands, on August 26, 2014. The street value of 18,000 plants fluctuates around 20 million euros. AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN ***netherlands out*** / AFP / ANP / MARCEL VAN HOORN
AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN

Italia, un passo indietro

Esiste però un problema rappresentato dal fatto che l’utilizzo dei farmaci a base di cannabis e derivati è ancora particolarmente difficoltoso per la quasi totale assenza sul mercato italiano di prodotti registrati e materie prime. Finora, in Italia, un solo prodotto cioè il Sativex, ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio, ma è stato inserito in classe H, quindi è disponibile solo presso gli ospedali. Per tutti gli altri prodotti a base di cannabis e derivati, è necessario ricorrere all’importazione dall’estero. Tali prodotti possono essere utilizzati sul territorio nazionale importandoli direttamente, oppure acquistandoli tramite alcune aziende italiane, che sono state recentemente autorizzate al commercio all’ingrosso di preparazioni vegetali a base di cannabis. L’acquisto di medicinali registrati all’estero non deve gravare su fondi pubblici, tranne nel caso che l’acquisto venga richiesto da una struttura ospedaliera, per l’impiego in ambito ospedaliero.

La Regione Piemonte il 15 giugno 2015 ha però approvato la legge regionale n. 11, la quale prevede, rispetto alla normativa nazionale, che quando la terapia a base di medicinali cannabinoidi e preparazioni galeniche magistrali avviene in ambito domiciliare, la spesa per tale terapia sia a carico del servizio sanitario regionale. Questa legge definisce inoltre la possibilità di centralizzare acquisti, stoccaggio e distribuzione dei farmaci alle farmacie ospedaliere abilitate territoriali, dove il cittadino può accedere gratuitamente ai trattamenti prescritti, in modo da ridurre la spesa pubblica.

Per ridurre i costi dell’importazione dei farmaci cannabinoidi è stato approvato nel 2014 un progetto di produzione in Italia presso lo stabilimento farmaceutico militare toscano, ma al momento quest’ultimo non ha ancora reso disponibili questi farmaci.

Medicina sì, fumo no

In Italia oggi, il via libera alla cannabis per uso medico non significa libera coltivazione della pianta, né libero consumo con il fumo di preparazioni vegetali. Non va dimenticato che l’assunzione degli stessi principi attivi attraverso il fumo comporta un’assunzione di dosaggi non riproducibili e non prevedibili, poiché dipendenti da diverse variabili individuali e ambientali, senza alcun vantaggio terapeutico, ma con il rischio di una progressiva riduzione delle capacità cognitive e, negli adolescenti, di un’aumentata predisposizione all’insorgenza di malattie psichiatriche. Secondo recenti studi, la cannabis, se usata in questo delicato periodo, può alterare lo sviluppo cerebrale, riducendo la formazione di solchi e di circonvoluzioni della corteccia cerebrale e lo spessore di quest’ultima.

Rosanna Novara Topino

 




Non si eliminano così anche gli ulivi

Leggo: «“I paesi coinvolti dal virus zika devono autorizzare la contraccezione e l’aborto”. È questo l’ultimo appello sull’epidemia lanciato stavolta non dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma direttamente dall’Onu. L’alto commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, Zeid Raad al-Hussein, ha fatto sapere che garantirà alle donne in questi paesi anche consulenza su salute sessuale e riproduttiva. Ma soprattutto ha rivolto un invito ai governi e parlamenti: “Le leggi e le politiche che restringono il loro accesso a questi servizi devono essere riviste con urgenza, allineandosi agli obblighi inteazionali sui diritti umani per garantire il diritto alla salute per tutti”, ha affermato al-Hussein. “Chiediamo a questi governi di cambiare tali leggi, perché come possono chiedere alle donne di evitare gravidanze?”, ha aggiunto Cecile Pouilly, portavoce dell’alto commissario» (da repubblica.it, 05/02/2016). Parole pesanti queste, come la morte.

Scusate, ma quando leggo notizie come quella sopra riportata mi viene da chiedermi quale concezione abbiano i burocrati dell’Onu della persona umana. Non vedo molta differenza ideologica tra queste sentenze che escono dal Palazzo di Vetro e quelle che piovono da Bruxelles a proposito degli ulivi pugliesi infettati di Xylella. Gli ulivi si tagliano, i feti si eliminano, tutto nel nome della salute e della sicurezza. Gli ulivi stanno lì dove sono stati piantati 10, 100, 1000 anni fa. Il parassita li attacca e loro non possono neppure scuotere i rami per resistere. Ma la persona umana?

Si dice che non si può «chiedere alle donne di evitare gravidanze». Allora via tutti gli ostacoli e i limiti a «anticoncezionali e aborto», per garantire il «diritto alla salute per tutti». Per tutti, eccetto i nuovi figli e figlie in attesa di nascere. Ma rischiano di nascere malati! E poveri. Allora, per sicurezza, uccidiamoli prima. E per evitare problemi di coscienza, cambiamo le leggi cosicché quella che in realtà è un’operazione di eugenetica diventa un’operazione umanitaria.

Non intendo entrare nel merito della vexata quaestio dei contraccettivi, e neppure mettere in discussione il dovere delle istituzioni nazionali e inteazionali di proteggere la salute di tutti. Neppure mi sogno di sottovalutare il dramma vissuto da migliaia di famiglie nelle regioni colpite dal virus, famiglie, tra l’altro, che già vivono in situazioni di gravissima povertà. Mi voglio limitare a condividere con voi il profondo disagio che provo di fronte alla deriva molto materialista della nostra società. Mi preoccupa un mondo nel quale si ha paura ad accogliere alcune migliaia di bambini probabilmente malati perché, in fondo, non si pensa in termini di sofferenza (per loro e le loro famiglie), ma piuttosto in termini di spesa e guadagno e non si ha nessuna intenzione di investire per migliorare l’habitat degradato in cui nascono. Quello stesso mondo non esita a sganciare migliaia di bombe in Siria e spende miliardi in armamenti, ha i fondi per nuovi stadi e le Olimpiadi, ma non trova i soldi per chi fugge da guerre e miseria, per risanare le periferie urbane e costruire nuove scuole, e non osa credere nella gratuità dell’amore, come quello di genitori disposti ad accogliere e amare un figlio anche malato. Ricordo una giovane famiglia che si rifiutò di permettere ai medici di interrompere l’alimentazione del loro bimbo prematuro per accelerae la morte inevitabile. Visse solo 22 giorni quel piccolo. Ebbe un nome e una storia. Oggi, andando al cimitero, quei genitori possono dire «ti abbiamo tanto amato», senza portare il peso di un «ti abbiamo ucciso».

È proprio la capacità di amare gratis, anche contro il buonsenso, che ci caratterizza ed è una delle dimensioni più belle e sorprendenti del nostro essere uomini. Più bazzico il Vangelo, più rimango affascinato dalla fiducia che Dio ha nell’uomo: una fiducia tale da credere che l’uomo sia capace di comportarsi da Dio, di essere perfetto come Dio è perfetto, di essere misericordioso come Dio è misericordioso, capace della stessa gratuità di Dio.

Il problema è che siamo noi uomini a non credere negli uomini. Si parla tanto di umanità, di «diritti umani». Ci si riempie la bocca di libertà, sicurezza, diritti. Ma chi ha una concezione più alta dell’uomo? Chi promette sicurezza e salute eliminando dolore e sensi di colpa? O chi crede nella capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare «noi» e non solo «io»?

Amo gli ulivi e ho perplessità sulle soluzioni drastiche usate per «difenderli», ma gli uomini sono ben più degli ulivi. Sono capaci di amare, e questo è il più grande antidoto alla malattia e alla morte.




La cooperazione nel carrello della spesa

 

In questo numero proponiamo una riflessione e qualche indicazione per chi vuole fare solidarietà internazionale tutti i giorni. A partire dalla spesa al supermercato. O, meglio ancora, nel piccolo negozio di quartiere e di paese.

Cominciamo con un esempio concreto. Sono le sette di sera e ti trovi al supermercato di quartiere per fare la spesa settimanale. Mentre metti nel carrello i soliti prodotti, tuo figlio, accanto a te, ben esposto a un bel po’ di cartoni animati mescolati a pubblicità, sta facendo di tutto per sottrarti la guida del carrello e condurlo a velocità supersonica lungo le corsie de negozio. All’improvviso si ferma come folgorato davanti al banco frigo: ha visto la sua merendina preferita. Cerchi di convincerlo a provae un’altra, che costa un po’ meno e forse è anche più sana, ma lui pianta una grana epocale che rischia di finire con lacrimoni caldi e grida disperate fra gli sguardi indignati degli altri clienti. Alla fine cedi: dopo una lunga giornata di lavoro e a pochi minuti dalla chiusura del supermercato non hai proprio le energie per gestire una scenata.

Toi a casa e, dopo cena, t’imbatti in un articolo sul giornale: la multinazionale Merendinia, produttrice del dolcetto tanto amato da tuo figlio, è accusata di sfruttare il lavoro minorile in Costa d’Avorio, nelle piantagioni di cacao dalle quali viene uno degli ingredienti della merendina. Ripensi allo scorso Natale, quando hai donato cinquanta euro a un’organizzazione che lavora proprio in Costa d’Avorio, dove i bambini sono spesso costretti a lasciare la scuola per andare a lavorare, in condizioni di semi schiavitù, nelle piantagioni locali. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di contrastare il fenomeno sostenendo attraverso il microcredito le famiglie dei bambini e riportando questi ultimi a scuola.

E se fossero gli stessi bambini? Se è così, allora significa che con cinquanta euro dati all’associazione per Natale fai studiare un bambino, mentre con un euro di merendina a settimana per cinquanta settimane all’anno finanzi chi impedisce a quel bambino di andare a scuola.

Sull’onda della scoperta appena fatta ti metti a navigare su internet e poi a esplorare la tua casa: il detersivo per i piatti, nell’etichetta posteriore, reca il logo di un’altra grande multinazionale, anche questa accusata di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, così come il cibo per la gatta, che leggi essere prodotto con pesce pescato da piccoli schiavi birmani in Thailandia. Te ne vai a dormire con un bel mal di testa: sembra che qualsiasi cosa faccia (o compri), sbagli.

behind-the-brandsChe cosa c’è a monte?

È ovvio che questa ricostruzione del quotidiano di una persona è fittizia e si limita a connettere fra di loro alcune informazioni: è difficile risalire con questa accuratezza la catena che porta nelle nostre case cibo e oggetti la cui produzione ha causato un danno a un preciso essere umano in Africa, Asia, America Latina.

E, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, c’è anche il panorama visto dal Sud del mondo: i lavoratori delle piantagioni Del Monte in Kenya, infatti, non hanno alcuna intenzione di boicottare la multinazionale. Dicono: «Noi la vogliamo eccome, la Del Monte, perché ci dà lavoro. Vogliamo solo che ci paghi meglio e che non ci faccia perdere la salute». Che dire poi del latte in polvere – spesso Sma milk (prima di proprietà della farmaceutica Pfizer e dal 2012 della Nestlè) o Bebelac (Danone) – che si vede fra le braccia dei bambini nei campi di rifugiati siriani? Ovvio che nell’immediato serve il latte Danone in Siria e serve il lavoro offerto dalla Del Monte in Kenya. Ma che cosa sta a monte della malnutrizione dei bambini siriani o delle lotte dei contadini keniani? Se c’è un campo rifugiati con dei bambini malnutriti è perché c’è un’emergenza umanitaria generata da un conflitto. Se i lavoratori keniani chiedono salari più alti e diritti basilari è perché non li hanno.

Il punto, allora, è come evitare che una soluzione immediata – il latte, il lavoro – ipotechi una soluzione più duratura, stabile ed equa. Come evitare, cioè, che una multinazionale sia così potente da imporre sempre, e non solo nei casi di emergenza, il latte in polvere? O che le grandi piantagioni trasformino i paesi del Sud del mondo in infei ambientali abitati da masse di salariati a basso costo dove non è più possibile alcuna iniziativa autonoma locale e da cui le persone continueranno a emigrare, come e più di oggi?

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Il potere del consumatore

Ma che c’entrano il genitore e la merendina con questi fenomeni così vasti e lontani? C’entrano per il fatto stesso di fare la spesa. Facendo la spesa si compie un gesto apparentemente insignificante: basta mettersi sul cavalcavia di un’autostrada e osservare il gran numero di camion che trasportano i prodotti che consumeremo per sentire noi stessi e la nostra borsa della spesa irrilevanti.

Ma il consumo può essere un’arma molto potente. In un piccolo supermercato di quartiere, in un negozio di paese, la scelta di un solo cliente sposta poco o nulla. Ma quella di dieci consumatori già appare nelle tendenze di vendita che il negoziante esamina a fine mese. E quella di cento consumatori lo costringe a cambiare gli ordini ai fornitori.

Sulle conseguenze economiche e politiche delle scelte consapevoli di consumo è in corso una approfondita riflessione: il «votare con il portafoglio» di cui parla ad esempio l’economista Leonardo Becchetti.

Il mondo del consumo consapevole, però, non è né semplice né lineare. Somiglia, in certe sue sfaccettature, al mondo che ci hanno raccontato le nonne, in cui era impensabile mangiare lasagne di martedì, si lavavano i panni con la cenere e non si buttava niente. Dopo decenni di ipermercati e di consumo compulsivo, quella sobrietà sta – per scelta o per necessità – tornando pian piano ad apparire nel dibattito pubblico. Ma la narrativa delle origini a volte sembra più che altro al servizio del marketing e rimanda alla naturalità di un’età dell’oro forse mai esistita. Non negli ultimi cent’anni, almeno, se è vero che anticrittogamici e concimi chimici erano in uso in Italia già negli anni Venti del secolo scorso e che a partire dagli anni Sessanta diverse varietà di frumento sono state irradiate: uno degli esempi più noti è il grano Creso, ottenuto nel 1974 dopo un processo di irraggiamento del grano Senatore Cappelli.

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Il chilometro zero

Ma veniamo agli aspetti del consumo consapevole legati alle economie (e quindi agli abitanti) del Sud del mondo e limitiamoci per brevità all’ambito alimentare. Uno dei principi molto in voga negli ultimi anni è quello del chilometro zero, cioè, in estrema sintesi, il consumo di prodotti il più vicino possibile alla zona di produzione. Al di là dell’ovvio vantaggio per i produttori locali, il chilometro zero favorirebbe l’ambiente perché trasporti più brevi implicano meno emissioni di CO2. Quelle stesse emissioni di cui tanto s’è parlato al Cop21 – la conferenza sull’ambiente che si è svolta a Parigi alla fine dello scorso anno – e il cui effetto nefasto sul clima colpirebbe specialmente i paesi del Sud del mondo. Ecco dunque che il consumo locale in Europa o Stati Uniti aiuta indirettamente anche i paesi del Sud del mondo attraverso la riduzione delle emissioni. Tutto bene, allora? Quasi. Se il consumo locale viene da serre riscaldate con impianti fotovoltaici forse sì. Ma se, per alzare la temperatura nelle serre, si bruciano tonnellate di gasolio, allora forse no. In questo caso può darsi che trasportare frutta dall’Africa o dall’America Latina produca meno danno all’ambiente del chilometro zero di serra. La stagionalità dei prodotti, dunque, è l’altro elemento da considerare: a gennaio sono sostenibili i cavolfiori, non i pomodori.

Ma non è finita qui: secondo uno studio del britannico Istituto Internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Inteational Institute for Environment and Development), circa un milione e mezzo di coltivatori africani dipendono dal consumo dei loro prodotti nel Regno Unito. Vale la pena, si chiede lo studio, di privare del sostentamento un milione e mezzo di persone per ridurre le emissioni britanniche dello 0,1 per cento eliminando i voli dall’Africa carichi di frutta e verdura? Non sarebbe meglio ridurre invece gli oltre duecento chilometri che in media un inglese percorre in auto annualmente per andare ad acquistare cibo? Le emissioni prodotte da questi spostamenti rappresentano lo 0,38 per cento del totale annuale, quattro volte quelle generate dal trasporto aereo di frutta e verdura dall’Africa.

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Il commercio equo

Altro grande protagonista del consumo consapevole è il commercio equo e solidale, o fair trade di beni provenienti dal Sud del mondo prodotti con criteri non solo orientati al profitto ma anche a garantire un reale beneficio per le comunità locali. Le più recenti critiche al fair trade vengono da una ricerca di un’università inglese, la Scuola di studi Orientali e Africani (Soas), e dallo studio dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla della Rosa Luxemburg Foundation. In breve, le conclusioni raggiunte dallo studio Soas sono che in Etiopia e Uganda – i paesi presi in esame dalla ricerca – le condizioni dei lavoratori appartenenti al circuito del commercio equo sarebbero addirittura peggiori rispetto a quelle dei lavoratori del circuito tradizionale, mentre Sylla insiste specialmente sui limiti del sistema di certificazione per ottenere il «bollino fair trade» che, a detta del ricercatore senegalese, penalizza proprio i paesi più poveri e meno organizzati, in particolare quelli africani. A partire dallo studio di Sylla, l’Economist si è spinto a concludere che il commercio equo è servito più a tranquillizzare le coscienze nei paesi ricchi che a contrastare seriamente la povertà nei paesi in via di sviluppo. Come se l’eticità stessa fosse anch’essa un bene di consumo che si compra insieme alle banane. Secondo i critici del fair trade, insomma, il cibo soddisfa un bisogno fisico, il fatto che il cibo sia «etico» soddisfa un bisogno morale, ma entrambe le cose sono, in definitiva, merce.

La risposta di Agices, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, non si è fatta attendere: il presidente Alessandro Franceschini ha ammesso che, in effetti, su «15 milioni di euro di importazioni da produttori di commercio equo da parte delle organizzazioni nostre socie, solo l’11% arriva dal continente africano». E che «c’è ancora molto da lavorare». Ma ha anche sottolineato che lo studio Soas prende in considerazione solo due paesi foendo perciò una lettura parziale. Quanto alle certificazioni, il sistema rappresentato da Agices si basa sulla relazione tra organizzazioni nel Nord e nel Sud del mondo, «il cui lavoro è reciprocamente garantito», più che sulla certificazione.

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Quasi un secondo lavoro

Si potrebbero fare molti altri esempi, non solo relativi al cibo, di come le nostre scelte di consumo pesano sui luoghi e le persone nel Sud del mondo che hanno prodotto ciò che consumiamo. Come si fa a orientarsi? Difficile sottoscrivere senza riserve affermazioni come: se compri prodotti fair trade, se fai acquisti a chilometro zero, allora sei sicuro di non far danni. E questa forse è una prima indicazione: aderire una volta per tutte, in maniera fideistica, a una linea di consumo critico è… acritico.

Per informarci su quel che consumiamo ci sono strumenti come il sito promosso dalla Ong Oxfam Scopri il Marchio che, per ogni prodotto selezionato, mostra una valutazione della multinazionale produttrice basata sul trattamento dei lavoratori, sul rispetto del diritto alla terra, sull’attenzione per l’ambiente. Altro strumento è il rapporto diretto e fiduciario con chi vende, un rapporto che la Grande distribuzione organizzata (Gdo) ha indebolito ma che ci permetterebbe di ottenere informazioni e chiedere conto della provenienza di quel che acquistiamo.

Inutile illudersi: tutto questo si scontra con i colossi della Gdo e della grande produzione, con le loro efficientissime macchine di marketing che remano nella direzione opposta, e trovare le informazioni per contrastare questi fenomeni richiede tempo, a volte così tanto che sembra quasi un secondo lavoro.

E, naturalmente, il presupposto è che fare questa operazione di conoscenza ci interessi: il genitore che fa la spesa di corsa e probabilmente con un limite di spesa preciso spesso non ha né tempo né voglia di approfondire e compra quel che è più conveniente. Ma il prezzo di questo apparente risparmio di tempo e denaro è piuttosto salato: significa rinunciare in partenza a tentare di scegliere non solo quello che mettiamo nel carrello, ma anche quali salari avremo domani se il mercato mondiale ci impone di renderli competitivi con il quelli bassi del Sud del mondo, o quanti migranti economici e ambientali busseranno ancora alle porte dell’Europa perché i loro paesi sono stati devastati da cambiamento climatico, monocolture su grande scala, estrazione mineraria selvaggia.

Chiara Giovetti




Ipazia d’Alessandria

PAZIA dIpazia, figlia del responsabile della famosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, Teotecno detto Teone, visse negli anni a cavallo del IV e V secolo dopo Cristo, epoca in cui la decadenza dell’Impero Romano cominciava a farsi sentire, mentre in contemporanea nasceva un nuovo ordine politico e sociale. Filosofa, astronoma e matematica, Ipazia era una stimata studiosa e un simbolo di tolleranza nella sua città cosmopolita. Sebbene le sue opere scientifiche siano andate perdute, la testimonianza che ci ha lasciato è quella di una donna forte che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e allo studio pur vivendo in un’epoca di scontri religiosi e in cui tendenze culturali differenti si contrapponevano ferocemente.

Ritratto-immaginario-di-IpaziaIpazia, sei stata una donna fortunata, non solo perché Teone, tuo padre, era il responsabile della biblioteca di Alessandria d’Egitto, ma anche perché sei cresciuta in quella che ai tuoi tempi era ritenuta la capitale del sapere dell’Impero Romano.

La mia città natale, per quei tempi, era veramente un contenitore eccezionale dello scibile umano, basti pensare che nella famosa biblioteca erano conservati più di cinquecentomila volumi e rotoli in cui era contenuto tutto il sapere prodotto fino a quel tempo nel mondo allora conosciuto. Grazie a questa particolarità, Alessandria era ritenuta uno dei principali poli culturali ellenistici.

Ma oltre a questo mondo accademico culturalmente ricco e vivace che ti circondava, hai potuto conoscere altre realtà dell’Impero?

Feci dei viaggi in Grecia e in Italia, venendo così a contatto con gli illustri pensatori e filosofi dell’epoca, ero stimolata poi da mio padre affinché approfondissi gli studi e accrescessi il mio bagaglio culturale. Mi attirò molto la scuola neoplatonica che studiai a fondo, tanto da diventare insegnante di questa corrente filosofica oltre che di matematica.

Possiamo dire che benché fossi una donna diventasti un’autorità e un indiscusso punto di riferimento culturale nello scenario dell’epoca?

Lo studio mi appassionò sempre, fin da bambina, e una volta raggiunti certi traguardi scrissi trattati di matematica e compilai anche tavole astronomiche sui moti dei corpi celesti che ebbero un notevole rilievo.

È vero che insieme a tuo padre fosti l’autrice di un commento in tredici volumi sull’Almagesto di Tolomeo, una mastodontica opera che conteneva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’antichità?

Non solo, mi occupai anche di meccanica e di tecnologia applicata, arrivai persino a costruire uno strumento per determinare il peso specifico di un liquido e a progettare un astrolabio che serviva per calcolare il tempo, per definire la posizione del sole, delle stelle e dei pianeti.

Una donna colta come te era una rarità in quei tempi caratterizzati dalla misoginia aristotelica. Per questo venivano da ogni parte dell’Impero per ascoltare le tue lezioni…

Alcuni ritenevano che, dal punto di vista filosofico, io avessi aperto dei sentirneri nuovi che prospettavano un orizzonte sconfinato per quanto riguardava l’intelligenza umana. Questo in germe fu l’origine dello scontro con la nuova religione che si andava diffondendo, ovvero il cristianesimo, in quanto i più fanatici del gruppo neoplatonico ritenevano inconciliabile il razionalismo che affondava le sue radici nella filosofia greca con il cristianesimo.

La nomina del vescovo Cirillo a patriarca di Alessandria nel 412, fu una vera iattura non solo per te ma per l’intero mondo alessandrino.

Io non riesco a capire come una religione fondata sull’amore e sulla misericordia di Dio, potesse indurire a tal punto il cuore degli uomini. I cristiani che uscivano da secoli di persecuzione, una volta raggiunto il potere si comportavano esattamente come gli altri. Cominciarono col cacciare gli ebrei della città e iniziarono una metodica epurazione degli «eretici» neoplatonici.

Per te, pagana dalla condotta e morale irreprensibile, maestra e punto di riferimento per il mondo culturale, non solo della tua città, non dovevano esserci problemi, anche se ti trovavi a vivere in mezzo a tensioni non indifferenti.

La situazione in città diventava ogni giorno più critica: i cristiani, incredibile ma vero, erano sempre più intolleranti. Dopo aver avuto con l’Imperatore Costantino nel 313 il permesso di praticare la propria fede alla luce del sole, con l’editto di Teodosio nel 380, che faceva del cristianesimo la religione ufficiale dello stato, divennero il gruppo dominante in grado di influire sulle scelte dell’Imperatore e di imporre la propria volontà anche a quelli che cristiani non erano. Questo loro atteggiamento influenzò in modo deleterio tutta la vita sociale della città.

Infatti il vescovo Cirillo entrò in rotta di collisione con il prefetto Oreste che cercava di mantenere l’ordine sul territorio.

È vero, Oreste, incapace di mantenere l’ordine in città dopo che gli ebrei, una notte, massacrarono molti cristiani, e di conseguenza, il vescovo li aveva fatti cacciare confiscando i loro beni, chiese l’intervento dell’Imperatore d’Oriente Teodosio II a Costantinopoli. L’imperatore però, influenzato dalla sorella Pulcheria, non soddisfò le richieste di Oreste. Pulcheria era molto legata al vescovo Cirillo di cui si considerava discepola e, di fatto, agiva come se fosse l’imperatrice perché il fratello era ancora minorenne.

Cirillo nella sua ottusa e rigida visione religiosa del mondo mal sopportava il consenso e la stima che buona parte della società del tempo ti attribuiva.

Con il passare del tempo si convinse che l’ostacolo maggiore all’affermazione del messaggio della nuova religione fossi proprio io, e incominciò a ostacolarmi e diffamarmi in tutti i modi possibili e immaginabili.

Si può dire quindi che il mandante del tuo assassinio sia stato proprio lui?

Egli istigò un gruppo di monaci parabolani, una confrateita cristiana che nella Chiesa alessandrina si dedicava alla cura dei malati, specie degli appestati, e alla sepoltura dei cadaveri, sperando così di morire per Cristo. Tra i compiti che si erano attribuiti c’era anche quello di difendere il vescovo e gli altri cristiani.

Com’è che ti catturarono?

Mi tesero un agguato e, dopo avermi legata, mi trascinarono fino alla chiesa che era stata costruita sopra il Cesareion (un tempio sacro a Cesare), quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano. Strappatemi le vesti, mi scorticarono fino alle ossa con ostrakoi (conchiglie di ostrica o cocci di vasi o di tegole). Dopo avermi fatto letteralmente a pezzi, trasportarono i brandelli del mio corpo in un posto detto Cinaron e bruciarono il mio cadavere per non lasciare tracce.

Considerando il clima di terrore che Cirillo aveva instaurato, ovviamente nessuno aprì un’inchiesta sul tuo assassinio.

Per la verità il prefetto Oreste chiese che fosse fatta luce su quanto era accaduto. L’Imperatore da Costantinopoli mandò ad Alessandria un suo emissario per approfondire la faccenda, ma questi, come giunse in città, fu contattato da Cirillo che lo corruppe con una forte somma di denaro. Con la sua richiesta Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l’ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili.

Quindi il tuo sacrificio rischiava di essere dimenticato?

Fu un filosofo neoplatonico, Damascio, che, quasi un secolo dopo, incolpò Cirillo del delitto. Uno storico ariano mio contemporaneo, affermò che il mio assassinio non fu opera di un linciaggio della folla come si volle far credere, ma di alcuni fanatici appartenenti a un gruppo di monaci che aveva trasformato il messaggio cristiano in un’ideologia da imporre a ogni costo, anche con la forza, spadroneggiando sulla città e tutti i suoi abitanti. Certo è che Cirillo, anche se non direttamente responsabile della mia morte, colse l’occasione per cancellare ogni memoria di me, ordinando la distruzione di tutti i libri da me scritti e degli strumenti scientifici da me inventati.

Dopo la tua morte, Alessandria si avviò a una rapida decadenza perdendo tutto lo splendore che faceva di quella città egiziana una perla dell’Impero Romano.

Non solo, oltre alla decadenza della città ci fu anche il crepuscolo del pensiero greco, la filosofia neoplatonica venne addirittura tolta dall’insegnamento dall’Imperatore Giustiniano, un fatto che ebbe ripercussioni negative non solo sulla città ma sull’intero mondo romano bizantino.

 

La figura e la testimonianza di Ipazia si staglia lungo i secoli fino ai nostri giorni. Essa viene ricordata ancora oggi come la prima donna filosofa e matematica della storia. Bisognerà attendere il diciottesimo secolo, il secolo dei lumi, per trovare altre donne come lei, quali furono Maria Agnesi e Sophie Germain, studiose e insegnanti matematica e filosofia.

Nel celebre affresco di Raffaello: «La scuola di Atene» l’unica figura femminile rappresentata, secondo gli esperti, è proprio lei: Ipazia di Alessandria.

La_scuola_di_Atene. Ipazia
La_scuola_di_Atene. Ipazia

Nota redazionale.

La storia di Ipazia ha avuto nuova popolarità nel 2010 all’apparire del film «Agorà», pellicola diretta dal regista cileno premio Oscar Alejandro Amenabar incentrata sulla vita della filosofa neoplatonica barbaramente uccisa da monaci cristiani nel V secolo (vedi foto qui sopra).

Nell’intervista immaginaria di queste pagine, è stata scelta una posizione molto critica nei confronti dei cristiani e del loro vescovo Cirillo. In realtà è impossibile descrivere in poche pagine la complessità della situazione del tempo e soprattutto riuscire a spiegare bene quello che realmente è successo. L’assassinio di Ipazia, certo vittima di fanatismo e intolleranza, si colloca in un periodo particolarmente convulso e teso della vita di Alessandria, sia dal punto di vista politico che religioso. Un certo revival pagano, l’ostilità degli ebrei che avevano perpetrato un massacro di cristiani e la presenza di gruppi di monaci con una religiosità al limite dell’eresia, non facilitavano le cose. Inoltre Cirillo di Alessandria non è stato un villano fanatico qualunque, ma un santo amato e venerato dalla Chiesa sia cattolica sia ortodossa come «padre della Chiesa» e maestro della fede. Una visione che stride con quella che lo descrive come mandante frustrato e geloso di un assassinio così brutale.

L’unico autore contemporaneo ai fatti che ne scrive, Socrate Scolastico (380-440ca.), nel suo racconto non accusa Cirillo dell’assassino, anche se conclude che essi causarono «una non piccola ignominia» sia al vescovo che a tutta la comunità cristiana di Alessandria. È solo Damascio (458-538), un filosofo neoplatonico che ha scritto la sua storia quasi un secolo dopo, ad accusare apertamente Cirillo.

In rete si può trovare del materiale per l’approfondimento. Da notare che in Wikipedia i testi in italiano sono molto poveri e un po’ partigiani, mentre nella versione inglese si trova una documentazione più articolata e approfondita.
Interessante pure l’articolo Ipazia di Alessandria: verità e menzogne, pubblicato in mirabilissimo100.wordpress.com il 6 maggio 2010.