Centrafrica: «so molengue ti mo», questo è tuo figlio


Dalla lettera di Natale di Padre Federico Trinchero da Bangui

Cari amici,

sono quasi certo d’indovinare la vostra prima domanda: “Quanti sono adesso i profughi al Carmel?”. Prima di rispondere a questa legittima domanda, vi dirò invece quanti sono i frati.  Quest’ultimi, per fortuna, sono infatti aumentati più dei primi.

Da settembre la nostra comunità ha raggiunto quota 21: 4 padri, 11 frati studenti, 1 postulante e 5 prenovizi. Non eravamo mai stati così tanti. C’è innanzitutto un padre in più. Si tratta di padre Arland che, dopo aver terminato gli studi in Italia, è venuto in aiuto alla nostra comunità. Gli studenti sono invece quasi raddoppiati con l’arrivo di ben 6 giovani frati che, dopo aver terminato il noviziato a Bouar, ci hanno raggiunto al Carmel per iniziare gli studi. L’età media è di 26 anni e siamo probabilmente una della comunità più giovani dell’Ordine. Per fortuna che ogni tanto viene a trovarci padre Anastasio, il fondatore del Carmel, la sua missione più amata. Con i suoi quasi 80 anni alza un po’ la media dell’età… ma quanto ad entusiasmo, iniziative e amore per l’Africa nessuno riesce ancora a batterlo!

Questo improvviso aumento della famiglia, e la prospettiva che in futuro il numero potrebbe aumentare ancora, ci ha costretto a fare qualche lavoro e alcuni acquisti per accogliere i nuovi arrivati: 6 stanze nuove, letti, armadi, tavoli in refettorio, sedie per la sala del capitolo e per la ricreazione. Un grande grazie a chi ci ha aiutato a sostenere queste spese. Siamo consapevoli – e la cosa ci fa ovviamente soffrire – che in Europa conventi e seminari hanno problemi ben diversi. Qui, invece, capita che siamo costretti a mettere due frati per stanza. È, per il Carmelo centrafricano, un momento fortunato e di particolare benedizione del Signore. Oserei dire che essere qui, in questo momento, è un grande privilegio. Ma anche e soprattutto una grande responsabilità. La formazione di questi giovani è e resta la nostra prima missione in questo giovane cuore dell’Africa e della Chiesa; una missione che ci occupa ogni giorno e che richiede pazienza… ma che ci diverte anche!

La situazione del paese è ancora precaria, soprattutto in alcune città. Tuttavia in capitale, almeno negli ultimi due mesi, non ci sono stati scontri particolari. Non è stato così nei mesi precedenti, quando quella tregua, miracolosamente iniziata dopo la visita di Papa Francesco, è stata fortemente minacciata con ancora morti, troppi morti, per quello che ci era sembrato l’inizio della pace.

Il quartiere del Km 5 di Bangui resta ancora un’enclave da cui i musulmani escono molto raramente e per la quale i cristiani passano solo frettolosamente, quasi chiedendo scusa del disturbo. Attoo a questa enclave si estende un grande anello disabitato, una sorta di terra di nessuno, dove i segni della guerra sono ben visibili. Qui, poco più di tre anni fa, cristiani e musulmani vivevano in pace. Ora, invece, ognuno sembra ostaggio dell’altro. Ci sono soltanto case sventrate o bruciate, tetti diroccati, erba alta, carcasse di macchine. Della parrocchia di Saint Michel restano più soltanto le mura. Al Km 5, un tempo, ogni centrafricano si sentiva come a casa sua: ora, invece, sembra quasi necessario chiedere il permesso prima di potervi entrare e la gente si saluta con un sorriso di reciproca diffidenza. Anche un campo di calcio, quasi un termometro inequivocabile di quanto sia ancora alta la febbre delle guerra, resta ancora deserto senza giocatori e spettatori.

Nel frattempo si è conclusa l’operazione Sangaris, dei militari francesi, con il grande merito di aver evitato una carneficina – a dicembre 2013 il rischio di un genocidio era più che reale – e di aver portato il paese ad elezioni quasi perfette. Di fatto nessuno ha contestato il risultato o ha messo in discussione la legittimità del nuovo presidente. Non è una cosa da poco, considerando la situazione difficile nella quale il paese era precipitato e facendo un confronto con altre realtà africane.

Ora il testimone è passato nelle mani dei 12.000 soldati dell’ONU, provenienti da diversi paesi del mondo e dislocati con grandi mezzi – e ingenti spese – su tutto il territorio. Purtroppo i caschi blu sovente sono criticati di inerzia, se non addirittura di complicità con i ribelli ancora attivi al nord.  E quindi non sono mancate le manifestazioni di protesta per chiedere la loro partenza e la costituzione di un vero esercito centrafricano (praticamente inesistente da ormai tre anni). Personalmente, pur non essendo particolarmente competente in materia, ritengo che, se l’ONU non ci fosse, la situazione sarebbe peggiore e che un esercito nazionale efficiente e affidabile non si crea in tempi brevi. Ci vorrà quindi del tempo perché la situazione del Centrafrica si stabilizzi in modo duraturo: basta poco per iniziare una guerra, ma per conquistare la pace ci vuole tempo, pazienza e coraggio. E anche personalità capaci di convogliare le forze e le ambizioni migliori del paese. Purtroppo il nuovo presidente Touadera non è riuscito ancora ad operare quella svolta che si sperava. Ma è ancora presto per un bilancio e nessuno può onestamente ritenere che l’impresa sia facile. Sono tuttavia visibili, almeno nella città di Bangui, due importanti segnali di pace: la regolarità delle lezioni nelle scuole e l’apertura di diversi cantieri per la costruzione o la riparazione di edifici, strade e ponti. Decine di giovani, prima disoccupati, sono fortunatamente impegnati a studiare o a lavorare (percependo per la prima volta nella loro vita un vero salario). Scuole e cantieri sottraggono masse di giovani che, prima e durante la guerra, erano il bacino di malcontento da cui le ribellioni reclutavano facilmente del personale per destabilizzare il paese. Detto in modo più semplice: pare che se uno studia o lavora abbia meno voglia e tempo di fare la guerra. Lo stesso arcivescovo di Bangui lo ha detto in modo alquanto chiaro: “ Un giovane che non va a scuola è un futuro ribelle”.       

E i profughi rimasti al Carmel quanti sono? Nell’ultimo censimento che abbiamo effettuato abbiamo registrato circa 3.000 persone. Decisamente di meno rispetto alle 10.000 del 2014… ma ancora tante, ormai un vero e proprio villaggio attorno al convento. Un giornalista di passaggio al Carmel ha definito il nostro campo profughi un  ‘microcosmo emblematico della drammatica crisi ancora in corso nella Repubblica Centrafricana’.

Molti profughi sono riusciti  a rientrare nelle loro case oppure ad acquistae o ricostruie una altrove. Questo significa che per i quartieri di Bangui ci sono circa 7.000 persone – forse anche di più – che hanno trascorso al Carmel qualche settimana, qualche mese o anche uno, due o tre anni. Spesso, quando percorro le strade in centro oppure al Km 5, mi capita di essere interpellato da qualcuno che, vedendo il mio volto, mi riconosce e grida: ” Bwa Federico, mbi lango na Carmel! Zone ti mbi 7. Padre Federico, ho dormito al Carmel! La mia zona era la numero 7 “. È anche capitato che qualcuno, in un impeto di eccessiva riconoscenza, abbia orgogliosamente sollevato un bambino, dicendo: ” So molengue ti mo! E questo è tuo figlio!”. Per fortuna, grazie al colore scuro della pelle del bambino, riesco sempre a scagionarmi da interpretazioni maliziose… Ma, inevitabilmente, il pensiero corre, con un po’ di nostalgia, ai quei fantastici giorni in cui un’efficiente sala parto aveva preso dimora nel nostro refettorio e tanti bambini dormivano in chiesa o giocavano nella sala del capitolo.

Ovviamente i bambini sono sempre la maggioranza degli abitanti del nostro campo profughi. Tenete conto che tutti quelli che hanno meno di tre anni sono nati qui, mentre quelli che ne hanno solo qualcuno in più – e sono arrivati ben legati sul dorso della loro mamma in fuga –  qui al Carmel hanno imparato a camminare e a parlare. Per tutti questi bambini – che forse non hanno ancora visto la città – il mondo, di fatto, coincide con il Carmel: un villaggio di tendoni di plastica e legno, palme e terra rossa, attorno ad un Convento in mattoni dove abitano degli uomini che non hanno né mogli e né figli, ma ai quali ci si rivolge quando c’è qualche problema per trovae la soluzione.

Sempre a proposito di bambini vi annuncio – ma, mi raccomando, acqua in bocca, altrimenti ci rovinate la sorpresa – che domani pomeriggio scatterà, sempre dalla Francia (ma con la collaborazione della Svizzera) l’operazione Toblerone. L’operazione Sangaris era per calmare i grandi, questa invece è per fare contenti i bambini. Alcuni giorni fa 150 kg di barrette di cioccolato (sani e salvi, nonostante la temperature decisamente non svizzere!) sono sbarcati al Carmel e saranno il dono di Natale di quest’anno per tutti i nostri bambini. Questo è infatti il quarto Natale che festeggiamo in compagnia dei nostri amici. Ho sempre manifestato il sogno di poter regalare, almeno una volta, qualcosa di buono e di mai visto e gustato a tutti i bambini del Carmel… che hanno perso una casa e molte altre cose, ma non il loro appetito. Un grande grazie a chi mi ha permesso di togliermi questa grande e dolce soddisfazione.

Concludo con un altro sogno che è anche il mio augurio per voi e soprattutto per il Centrafrica.

Ketenguere, che significa ‘piccolo prezzo’, è uno degli incroci più frequentati di Bangui per la vendita degli alimentari e per trovare una moto-taxi. Si trova molto vicino al Km 5 e a soltanto 3 km dal Carmel. Qui, nelle fasi più drammatiche della guerra, venivano immancabilmente bruciati dei pneumatici e innalzate barricate. Ketenguere è diventato più volte una sorta di confine invalicabile: da una parte la guerra, dall’altra la paura. A pochi metri da questo incrocio è stato abbandonato, e ormai quasi incagliato nella terra, un pulmino di colore verde (che potete ben vedere nella foto in allegato). Non ha più le ruote ed è in pessimo stato. Ma – come spesso capita sui mezzi di trasporto pubblico a Bangui – porta una scritta davvero impegnativa: “Savoir pardonner. Saper perdonare”. Da quando è incominciata la guerra il motore si è spento, nessuno ha mai più provato ad accenderlo, nessuno ha mai più avuto il coraggio di salirci sopra… e, inevitabilmente, pochi hanno raccolto la sfida di ‘saper perdonare’. La stato in cui si trova questo mezzo di trasporto mi sembra molto simile alla situazione in cui si trova il Centrafrica.

Allora, ecco il sogno.

Ho sognato che questo pulmino, rimasto senza gasolio, senza ruote, ma sopratutto senza autista e passeggeri, all’improvviso venga rimesso in moto. Ho sognato che al volante si sieda il nostro coraggioso arcivescovo, il neo Cardinale Dieudonné Nzapalainga, sicuramente la persona che, più di ogni altra, non si è mai stancata di chiedere ai centrafricani di ‘saper perdonare’ supplicandoli di uscire dal vortice della vendetta. A bordo ho sognato che possano sedersi i bambini di Bangui. E dietro, siccome le batterie saranno sicuramente scariche, dopo così tanto tempo, e ci sarà bisogno di una buona spinta per far partire il motore, ho sognato che si mettano a spingere, con tutta la loro forza ed energia, i giovani di Bangui. E, una volta acceso il motore, ho sognato che questa simpatica carovana possa attraversare il Km 5… per poi proseguire fino a Bambari, Bocaranga, Bria… e poi, se ne avete bisogno, anche fino a voi.

Questo è il mio biglietto di auguri da Bangui: che ognuno di noi abbia l’audacia di salire su questo pulmino e chiedere come destinazione di condurci là dove sappiamo qualcuno sta aspettando il nostro perdono. C’è gasolio abbastanza per arrivare fin dove non abbiamo ancora avuto, almeno per ora, la forza e il coraggio di andare. Con l’umile consapevolezza che Qualcuno, pur di saperci irrimediabilmente perdonati, non ha temuto di vestirsi della nostra carne e di salire per primo su questo pulmino del perdono e della pace.

Buon Natale!

Padre Federico Trinchero

Qui sotto il link della puntata del 22 Dicembre del programma Today (TV 2000) dedicata al Centrafrica e al Carmel:

http://www.tv2000.it/today/2016/12/23/today-centrafica-risalire-dallabbisso-puntata-22-dicembre-2016/




Caro Gesu bambino


Non ho più l’età per scriverti la letterina di Natale, ma mi piace tornare un po’ bambino. Ti scrivo mentre il mondo cerca di digerire la notizia dell’elezione di mister Trump a presidente degli Stati Uniti. C’è chi scrive di una rivoluzione, se positiva o negativa non si sa. A me pare però che il fatto che i mercati finanziari non si preoccupino più di tanto la dica lunga. Probabilmente saranno ancora loro a dettare le regole della realpolitik. «Cane non mangia cane», si dice. Dopotutto prima che presidente, Trump è un miliardario e, anche se eletto coi voti degli impoveriti, non me lo vedo dalla parte dei poveri, degli esclusi, degli stranieri e per la pace. Se fosse stato lui il faraone quando la tua famiglia è dovuta fuggire da Betlemme, non so se avreste ottenuto il visto di ingresso in Egitto. A ogni modo lo attendiamo alla prova dei fatti.

Caro Gesù Bambino, come penso ti abbia già ampiamente raccontato papa Francesco, se tu venissi al mondo oggi ti troveresti proprio in un bel casino, non solo per le innumerevoli guerre che fanno stragi di gente indifesa mentre rimpinguano le casse dei signori delle armi, ma anche per le enormi disuguaglianze sociali che stanno riducendo in stato di povertà o semischiavitù gran parte della gente a vantaggio di una minoranza sempre più ricca che può perfino infischiarsene di leggi e governi. Quando sei nato si calcola che ci fossero circa 160/200 milioni di persone in tutto il pianeta, oggi dicono che siamo quasi 7 miliardi e mezzo. Nonostante ai tuoi tempi la schiavitù fosse un fatto normale, non credo che succedesse quello che accade oggi, che cioè le 62 persone più ricche da sole (e lo scrive Forbes) abbiano la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone), e vivano questo senza rimorsi, convinti anzi di essere benefattrici dell’umanità e modelli da imitare. I re Mida di oggi mettono le mani non solo sulle risorse minerarie del pianeta (e dove non ci riescono direttamente lo fanno attraverso i signori della guerra, le mafie, i predoni e i guerriglieri vari), ma anche sulle sementi, sulle piante e i fiori, su tutto, brevettando e patentando a tutto spiano, come se fossero loro i creatori del mondo. Immagina che hanno perfino provato a monopolizzare la pioggia, tassando chi la raccoglieva dal tetto di casa.

E stanno mettendo le mani anche sul tuo Natale, svuotandolo di te per riempirlo di cose. Da festa dell’accoglienza della vita lo stanno trasformando in un mercato planetario all’insegna del buonismo fatto spettacolo. Guardare te, invece, fa bene alla testa e al cuore, perché ci apre a orizzonti nuovi, ci dà la chiave per capire il senso vero della vita, ci inviti ad alzare la testa e a vedere con fiducia questa nostra umanità.

Sai, se c’è una cosa che mi ha sempre colpito molto di te è che hai voluto nascere povero tra i poveri, in periferia, condividendo la sorte della maggioranza degli uomini, la cui ricchezza non sta in quello che possiedono ma nel calore del cuore. E sei nato in disparte, fuori dalla confusione e dal clima da fiera del caravanserraglio (no, non era certo un «albergo» come intendiamo noi) dove tutti i viaggiatori si fermavano. Sei nato in un luogo più adatto a quell’atto «sacro» che è una nascita, nella quiete del luogo dove si tenevano al caldo gli animali più piccoli e deboli. Cucciolo tra i cuccioli, tu sei stato accolto dalla premura semplice, efficace e sbrigativa di donne abituate alla durezza della vita, alla normalità di un parto, capaci di dare sicurezza a tua madre, giovane e inesperta. Hai voluto essere accolto dal calore e dalla fragilità dell’umanità più autentica e più semplice, lontano dalla pompa dei potenti e dal servilismo che li circonda. Nascesti fidandoti della povertà di chi ha nulla ed è capace di dare tutto, come quei bimbi che escono alla vita sui precari gommoni dei migranti, negli ospedali bombardati di Aleppo o nelle tendopoli dei terremotati.

Sei nato «nella pienezza del tempo», dice Paolo ai Galati. Pensa che quand’ero bambino mi hanno perfino fatto credere che tu avessi scelto il tempo migliore per nascere, il «tempo» della pace garantita dal potere di Roma, dominatrice del Mediterraneo. Adesso capisco quanto fosse falso tutto ciò perché ignorava le sofferenze causate da quel dominio, che usava quel censimento non certo per dare una vita migliore ai tuoi genitori e alle gente come loro, ma per sfruttarli meglio.

Nascendo così hai iniziato la vera rivoluzione che continua ancora oggi: quella di affidare il futuro del mondo ai poveri, ai piccoli, a chi non ha mezzi ma ha solo la ricchezza di una «umanità autentica», quella stessa umanità che tu hai scelto diventando uno di noi per farci diventare come te.

Con la tua nascita ci hai detto che credi nell’uomo, che Dio crede in noi. È bellissimo questo. Soprattutto oggi, quando, fiaccati dalla crisi, dalla mancanza di prospettive e dall’incattivimento della società, siamo tentati dalla sfiducia e dallo scoraggiamento. Grazie Gesù Bambino.




Droghe e tossicodipendenza


Foto di: Chiara Grimoldi – Dossier a cura di: Paolo Moiola |


Sommario |

Un problema insolubile? |

Il crack, effimera euforia |

Donne e crack |

La drammatica caduta della speranza |

Pochi vincitori, milioni di vinti |

Glossario e bibliografia

In this picture taken on September 24, 2016, medics check the dead body of an alleged drug dealer gunned down by unidentified men in Manila. Philippine President Rodrigo Duterte defended his threat to kill criminals as "perfect" and vowed no let-up in his war on crime, as the death toll surged past 3,700. / AFP PHOTO / NOEL CELIS
Corpo di pusher ucciso nelle Filippine. / AFP PHOTO / NOEL CELIS


Un problema insolubile?

Droghe, fallimento globale

In Portogallo, dall’aprile del 2001, il consumo, il possesso e l’acquisizione di ogni tipo di droga per uso personale non rappresenta più un crimine (www.sicad.pt). La misura ha avuto successo. Lo dicono i numeri (riduzione dei morti per overdose, dei contagi da Hiv, ecc.) e i giudizi di organizzazioni inteazionali. Nelle Filippine, avviene esattamente il contrario: il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel maggio 2016, ha dato l’ordine di uccidere spacciatori e consumatori di droga senza inutili arresti e processi. Una giustizia sommaria che, a metà settembre, aveva già fatto 3.426 vittime, 1.491 uccise dalla polizia e le restanti da civili. In Italia, nel 2015 si sono registrati 45.823 ingressi totali negli istituti carcerari, di questi 12.284, pari al 26,8 per cento (un detenuto su 4), in violazione dell’articolo 73 della legge antidroga (detenzione di sostanze illecite). «Come ogni anno e come ogni altro paese occidentale impegnato nella war on drugs – si legge nel 7° Libro bianco sulla legge sulle droghe del giugno 2016 -, la cannabis e i suoi derivati sono le sostanze più prese di mira dal sistema proibizionista. Quasi il 50% delle segnalazioni e delle operazioni antidroga hanno avuto come oggetto i cannabinoidi, nonostante questi siano le sostanze meno dannose per i consumatori, e il loro mercato sia quello in cui i consorzi criminali sono meno coinvolti».

Che la cosiddetta «guerra alla droga» sia fallita ormai lo dicono in molti e da tempo. La dichiarazione più clamorosa, risalente al giugno 2011, è stata quella della «Commissione globale per le politiche sulle droghe», organismo prestigioso anche se quasi sempre inascoltato. «Le immense risorse – si legge nel suo circostanziato rapporto – dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo». Ancora più duro il comunicato della Commissione uscito ad aprile 2016, subito dopo la chiusura della sessione delle Nazioni Unite dedicata alle droghe (Ungass on drugs): «La Commissione è profondamente delusa […]. Il documento (della sessione speciale, ndr) sostiene un inaccettabile e datato status quo legale. […] Non chiede la fine della criminalizzazione e incarcerazione degli utilizzatori di droga».

Paolo Moiola

Questo dossier parte dal crack, un sottoprodotto della cocaina diffusosi a partire dal Brasile (su MC – l’elenco degli articoli è a pag. 49 – ne abbiamo già parlato). La dottoressa Luana Oddi, medico al Sert di Reggio Emilia, ci spiega perché questa droga ha preso piede anche da noi, perché è considerata molto pericolosa e come la sanità pubblica cerca di aiutare i suoi consumatori. Nel dossier, oltre alle foto, abbiamo usato alcuni grafici, tratti da rapporti inteazionali, con l’obiettivo di far meglio comprendere la problematica al pubblico più giovane, normalmente più esposto. A chiudere, un’intervista a un terapeuta, don Domenico Cravero, che a Torino segue varie comunità di recupero fondate soprattutto sul lavoro nell’agricoltura biologica, e un commento di Sandro Calvani, che ha seguito la problematica delle droghe nella veste di direttore di alcune agenzie delle Nazioni Unite. Pur nella diversità dell’analisi e delle possibili soluzioni, entrambi arrivano a un punto: al di là delle responsabilità e delle debolezze dei singoli consumatori, le droghe sono una manifestazione di società malate. (pa.mo.)

Drug bag


L’esperienza del Sert di Reggio Emilia

Il crack, effimera euforia

 

Spesso la diffusione di una droga è determinata dalla sua disponibilità in uno specifico territorio geografico, in relazione a fattori climatici, economici, politici e storici. L’uso di sostanze ha origini antiche: da sempre l’uomo ricorre a derivati di piante o animali con effetti psicotropi per fini trattamentali/sciamanici o spiritualistici/ritualistici. Oggi le vie di comunicazione, avvicinando i continenti e le culture, hanno reso le droghe sempre più disponibili e soprattutto le hanno «sradicate» ai loro abituali e tradizionali contesti di uso (Guede da Silva, 2012; Santorini, 2013). La scoperta, poi, delle sostanze psicotrope come mezzo di scambio commerciale e di proficuo guadagno, ne ha implementato la diffusione e il cosiddetto consumo edonistico (Guede da Silva, 2012).

Sud e Nord

Si possono così evidenziare differenti fenomeni e stili di consumo a seconda dell’area del mondo presa in considerazione. In particolare grandi sono le differenze tra i paesi del Sud del mondo (spesso produttori e detentori del consumo tradizionale e culturale di sostanze psicotrope) e i paesi occidentali, che si configurano, in genere, come i principali fruitori dei derivati delle droghe naturali (derivanti cioè da prodotti vegetali, minerali o animali) e che riconoscono nel loro consumo finalità spesso edonistiche o di automedicazione (lenire un’angoscia esistenziale, una depressione dell’umore, un dolore cronico non rispondente ai farmaci, ecc.).

Accade così che l’acquisizione di nuove modalità di consumo, separate da specifici contesti (setting) e finalità (ritualistiche, religiose, curative), favorisca il nascere e la propagazione dell’uso tossicomanico delle droghe.

Nel mondo le più diffuse sono l’eroina, la cocaina e la cannabis (grafici alla pagina 42, ndr). Tra queste, come evidenziato da uno studio di David J. Nutt del 2010 (in The Lancet), la cocaina, dopo l’eroina, è la sostanza più dannosa, in termini di danni sociali, sanitari e individuali. In particolare le conseguenze più spiccate sono associate al consumo della cocaina per via endovenosa e al crack. La comparsa del crack è fatta risalire già agli anni ‘70 in Brasile, paese simbolo di questa sostanza, sollievo e dannazione allo stesso tempo soprattutto per le esistenze disperate delle favelas. È da qui che il crack ha iniziato a diffondersi. Negli anni ‘80 ci fu la sua diffusione epidemica nelle strade degli Usa.

Dalla cocaina al crack

Che cosa sono la cocaina e il crack? Il crack è un derivato della prima, sostanza di antichissima storia e classificata, in relazione ai suoi effetti, tra gli psicostimolanti, definiti come la classe di sostanze che eccitano il sistema nervoso centrale, aumentano l’attenzione e riducono l’affaticamento. La cocaina è estratta dalle foglie della coca, pianta appartenente alla famiglia delle Erythroxylaceae ed originaria delle regioni tropicali centro e Nord occidentali dell’America del Sud (il 60% è prodotta in Perù, il 20% in Bolivia, il 15% in Colombia). Più notoriamente l’uso voluttuario della cocaina (idrocloridrato) consiste nell’assunzione in forma di polvere cristallina chiamata con una serie di espressioni gergali diverse: «coca», «neve», «Charlie».

La cocaina idrocloridrato viene consumata tramite aspirazione con le narici o, meno frequentemente, iniettata in vena dopo essere stata disciolta in acqua (Emcdda, 2001).

L’espressione gergale «crack» designa la cocaina trattata per essere fumata o, più precisamente, per inalae i vapori che danno effetti immediati e intensi. Per poter inalare la cocaina è necessario trasformare il prodotto in polvere nella forma di base, che ha infatti, un punto di fusione più basso di quello della prima, rendendola più idonea ad essere scaldata e trasformata in vapore. Il crack ha l’aspetto di cristalli, e ha ormai sostituito quasi completamente la cosiddetta freebase (vedi Glossario sul sito), rispetto alla quale si ottiene con un processo più semplice: il cloridrato di cocaina diluito in acqua, viene mescolato con bicarbonato di sodio e scaldato. Da tale reazione si ottengono piccoli agglomerati solidi detti «rocks» (rocce, sassi, pietre). Questi cristalli sono bruciati, per essere inalati, in una pipa d’acqua e quando esposti al calore provocano un singolare rumore (scricchiolante), da cui – probabilmente – il caratteristico nome di crack.

I vapori del crack

Una dose di crack contiene mediamente 100-200 mg di cocaina. Il crack è di aspetto simile a pietre, a pezzetti di stucco o scaglie di sapone (foto a pagina 37). Sul mercato si può trovare preconfezionato in piccoli sacchetti o contenitori di plastica, pronto per essere utilizzato.

Per fumare il crack, si ricorre generalmente a pipe speciali, il cui fornello è coperto da una maglia metallica (o stagnola traforata). Su tale fornello è posta la sostanza che, scaldata con la fiamma, produce il vapore da aspirare. Un altro strumento molto diffuso e di ampio utilizzo a causa della sua economicità è la bottiglia di plastica.

L’assunzione del crack avviene tramite l’aspirazione dei vapori (e non dei prodotti della combustione come avviene, ad esempio, con le sigarette). Ciò è importante, in quanto i vapori sono assorbiti molto più velocemente del fumo. Questo attribuisce al crack proprietà farmacocinetiche molto simili a quelle della cocaina assunta per via endovenosa: come questa, infatti, permette la rapida entrata in circolo e quindi nel sistema nervoso centrale della sostanza, foendo euforia in modo quasi istantaneo. Il fumatore di crack inala profondamente i vapori trattenendoli nei polmoni per il tempo più lungo possibile, in modo da aumentae al massimo l’assorbimento.

Gli effetti sull’esistenza: vivere per il crack

La via inalatoria, così come quella endovenosa, garantisce la maggiore rapidità d’effetto grazie alla vastità del letto venoso polmonare che permette un subitaneo assorbimento. Questa è sicuramente la caratteristica farmacocinetica più rilevante dal punto di vista clinico: le concentrazioni ematiche e cerebrali si elevano rapidamente, fornendo un intenso stato di benessere e una intensa euforia (rush). A tale rapida insorgenza degli effetti corrisponde una durata altrettanto breve degli stessi (dai due ai cinque minuti). Passato l’effetto, l’umore si abbassa e l’abusatore abituale di crack si ritrova in uno stato di profondo malessere (crash, crollo) la cui intensità è proporzionale all’intensità dell’euforia. Gli effetti del crack sono così intensi che il consumatore si concentra esclusivamente nella ricerca e al consumo della sostanza. Dopo essere stato invaso dagli effetti di potente euforia, il crackomane sviluppa un’incontrollabile compulsione e un irrefrenabile desiderio di ripetere il consumo della sostanza. È tale desiderio invasivo e urgente, in inglese craving, il sintomo nucleare della dipendenza patologica. Esso può portare il crackomane alla perdita di interesse per quelli che fino ad allora erano stati elementi prioritari della sua vita, financo quei bisogni primari connessi con la sopravvivenza, quali dormire, mangiare, ecc. (Galera, 2013): ecco allora che inizia il processo di declino e perdita di affetti, lavoro, relazioni, salute. La necessità di procurarsi la sostanza spinge la persona a furti, spaccio, prostituzione e ciò particolarmente vero per il crack, essendo il consumo di tale sostanza frequentemente associato ai contesti più marginali e poveri. La compulsività dell’uso associata alla caduta delle inibizioni e alla riduzione della percezione dei rischi, tipici effetti delle sostanze ad azione psicostimolante, espone, inoltre, a rischi sanitari rilevanti, ad iniziare da quello infettivologico, con scambio di materiale di consumo e con la pratica di relazioni sessuali promiscue e senza ricorso al condom, aumentando la probabilità di trasmissione di malattie sessuali (e nel caso delle donne, di rimanere incinte) (Gessa, 2008).

Il consumatore di crack – più frequentemente ed in quantità mediamente superiori di 10 volte rispetto a quello di cocaina per via intranasale – può assumere la sostanza in modalità binge (letteralmente abbuffata), cioè continuativamente, ininterrottamente per ore o giorni e fino ad esaurimento delle scorte (run, ad indicare per l’appunto, una maratona di assunzione) (Gessa, 2008).

Vivere gli effetti euforizzanti e psicotropi del crack può significare, quindi, l’inizio di una spirale in cui il consumatore quotidianamente vede come sua unica priorità il crack e i mezzi per procurarselo, a dispetto delle conseguenze dannose a esso associate (Guede da Silva, 2012).

Lo sviluppo della dipendenza

I consumatori di crack possono diventare rapidamente dipendenti. In particolare, rispetto ai cocainomani per via intranasale, gli assuntori di crack hanno un più alto rischio (circa il doppio) di sviluppare dipendenza perché usano la sostanza con più frequenza, in più larghe quantità e sono più sensibili agli effetti della sostanza (Rosselli, 2011). La modalità inalatoria causa un rush quasi istantaneo, la «botta« (high) del crack, ma anche un «calo» (crash) più intensi rispetto a quelli sperimentati con la cocaina per via nasale. Cosa succede dopo aver consumato crack? Tale fase – di durata variabile tra i 15 e i 30 minuti – è caratterizzata da euforia, accresciuta performance cognitiva e motoria, ipervigilanza, labilità affettiva. L’intensa euforia è descritta come un’irrefrenabile eccitazione sessuale (full body orgasm). Si percepisce un aumentato senso di onnipotenza e sicurezza e una ridotta percezione della fatica (oltre che dei propri limiti).

Con il mantenimento dell’uso gli effetti positivi e piacevoli diminuiscono per dare spazio a sintomi indesiderati, di tipo prevalentemente psichico: accentuazione dell’ansia, dell’irritabilità e della paranoia, fino a sviluppare un vero e proprio quadro psicotico caratterizzato da anedonia (incapacità di provare piacere), allucinazioni, idee di persecuzione, delirio.

La crisi d’astinenza e le sue fasi

L’interruzione del consumo di crack nei soggetti da esso dipendenti si accompagna all’insorgenza di un quadro di malessere dovuto proprio alla mancanza della sostanza: è la crisi di astinenza. Questa può comparire, in alcuni casi, anche dopo un breve periodo di consumo, specie quando esso sia stato caratterizzato da forte compulsività o qualora siano presenti fragilità psicologiche e sociali, fattori predisponenti allo sviluppo di un disturbo da uso. Quando il consumo diventa continuativo o la persona sviluppa una vera e propria astinenza, si va incontro a un quadro che possiamo suddividere in tre fasi.

  • Fase I – Crash: si verifica quando le scorte di dopamina si esauriscono e compare il senso di fatica. È questa la fase iniziale dell’astinenza da cocaina: drastico abbassamento del tono dell’umore (depressione) e della energia fisica, che compare già 15-30 minuti dopo la cessazione dell’uso e che persiste per almeno 8 ore e può durare fino a 4 giorni. In questa fase il consumatore sperimenta depressione, che diventa presto disforia (alterazione dell’umore in senso depressivo), ansia, paranoia, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione, anoressia, insonnia e craving. Quindi nelle 8-24 ore successive, il soggetto presenta ipersonnia e astenia fisica. Seguiranno alcune settimane di profonda anedonia e – da una a dieci – di craving feroce.
  • Fase II – Sindrome disforica tardiva: inizia 12-96 ore dopo l’uso della sostanza e può durare dalle 2 alle 12 settimane. I primi 4 giorni il consumatore presenta sonnolenza, craving, anedonia, irritabilità, problemi di memoria e idee di morte. In tale fase alto è il rischio di suicidio e di ricaduta, vista come un mezzo per interrompere il quadro di malessere psico-fisico.
  • Fase III – Estinzione: i sintomi disforici e di malessere della precedente fase iniziano a diminuire o si risolvono completamente e il craving diventa ridotto in intensità e frequenza di presentazione.

La velocità di progressione tra i diversi stadi, dipenderà dalla frequenza, intensità, tempo di assunzione, ma anche dallo stato psicologico, fisico e socio-sanitario della persona.

L’intervento medico

Dal punto di vista medico tra i principali sintomi da monitorare e trattare vi sono quelli psichici, che possono caratterizzare tanto la fase di intossicazione acuta che quella di astinenza e che spesso sono anche il motivo primario di ricorso alle cure mediche e farmacologiche. L’attenzione medica al riconoscimento e al trattamento di tali quadri deve essere prioritaria in quanto essi peggiorano la prognosi, pongono a rischio non solo di ricaduta, ma anche di autolesione (fino al suicidio), aumentano il rischio di abbandono delle cure (Roselli Marques, 2011).

L’alta percentuale di disturbi psichici a volte è l’esito finale della continuativa azione della cocaina sui circuiti neuronali (depressione, psicosi, discontrollo degli impulsi e della rabbia), altre volte è preesistente al consumo di crack, che appare pertanto sintomo di un disturbo di personalità o del tentativo di autocura della persona.

Sebbene una quota di nostri consumatori di crack siano accomunati da un passato di consumo iniettivo di altre droghe, frequentemente il crack si inserisce all’interno di una gamma di policonsumo (alcol, cannabis, benzodiazepine). Ad esempio, al fine di ridurre l’angoscioso stato emotivo tipico del crash o per attenuare l’ansia e la paranoia conseguente al ripetuto consumo, i consumatori cronici di crack sono soliti ricorrere all’uso di sostanze ad azione sedativa quali alcol, benzodiazepine (nel territorio reggiano è diffusissimo il Rivotril) o ancora l’eroina.

È bene specificare che l’uso di alcol combinato con la cocaina sniffata ha un significato farmacologico e clinico diverso dall’associazione con il crack. Nel primo caso, infatti, l’alcol serve principalmente a rinforzare gli effetti positivi della cocaina (prolungando ed attenuando l’intensità dell’azione euforizzante, impedendo che questa viri verso sentimenti di ansia ed eccessiva agitazione psico-fisica) ed è assunta prima o in contemporanea alla cocaina. Nel secondo caso, invece, ha soprattutto la finalità di auto-trattamento e prevenzione della disforia e dell’agitazione e degli altri effetti indesiderati del crack, oltre a ridurre la secchezza della bocca (Dias, 2011).

Da non dimenticare poi, l’impatto sulla salute fisica, con aumentato rischio di contrarre malattie infettive specie sessualmente trasmissibili o conseguente a scambio di paraphealia (oggetti connessi all’uso di droghe, ndr) (Cruz, 2013). La compulsività e la frequenza d’abuso sono fattori in grado di influire su tale rischio: i consumatori giornalieri hanno un rischio di contrarre l’Hiv superiore di 4 volte rispetto ai consumatori non abituali (De Beck, 2011).

Il condizionamento dell’ambiente

La velocità con cui si instaurano il declino socio-sanitario, oltre alle complicanze cliniche correlate, nel caso del crack è particolarmente spiccata. Ciò è in parte da relazionarsi alle caratteristiche farmacologiche della sostanza, ma in parte anche alla estrema fragilità sociale dei contesti in cui il crack è maggiormente diffuso. Il crack è stato largamente commercializzato in quartieri poveri di risorse e caratterizzati da disordine sociale e le cui popolazioni, spesso appartenenti a minoranze razziali ed etniche, godevano di scarse possibilità economiche o di miglioramento del loro stato. La popolazione consumatrice di crack in Brasile è concentrata principalmente nella popolazione urbana, giovane e marginalizzata: è la droga delle favelas.

Ma anche in altre aree geografiche i crackomani vivono condizioni di precarietà economica, socio-lavorativa e abitativa (sono spesso senza fissa dimora), sovente coinvolti in atti di criminalità. Hanno una esistenza molto disagiata, ma soprattutto di grave solitudine primariamente dal punto di vista relazionale, provenendo frequentemente i consumatori da famiglie assenti o pluri-problematiche, tra i principali fattori di rischio associati alle condotte di consumo.

Più di ogni altra malattia, la dipendenza è la prova che la nostra salute e quindi il nostro malessere sono fortemente influenzati dall’ambiente in cui si vive. L’individuo e l’entità psico-mente di cui è costituto sono influenzati continuamente dall’interazione con l’ambiente esterno, sia nella sua componente comportamentale, che psicologica e organica (ricordiamo l’epigenetica e la neuro-psico-endocrino immunologia).

Gli studi generalmente concludono che un contesto di vita svantaggioso, l’esclusione sociale, la carenza di risorse economiche e lavorative, aumentano il rischio di sviluppare i disturbi di uso. Basti pensare alla crisi economica, considerata da tutti i più importanti studi epidemiologici, un fattore di aggravamento dei consumi di sostanze.

Nella specificità di Reggio Emilia tale sostanza ha incontrato un altro tipo di fragilità: la popolazione migrante che vive in stato di irregolarità. La mancanza di una dimora, di un lavoro, di una rete sociale, la lontananza dai legami familiari, il fallimento di un progetto migratorio su cui era fondata la speranza di riscatto personale ma anche di tutta la famiglia, porta la persona a rifugiarsi in un oblio chimico che annulla temporaneamente le preoccupazioni, i pensieri, la sofferenza e che rende meno duro vivere in strada o all’interno di case abbandonate.

Cocainomani e crackomani

Da quanto detto si comprende che essenziale è la distinzione tra cocainomane e crackomane. Tra queste due tipologie di consumatori – colui che aspira per via nasale la cocaina a scopo per lo più ricreativo e colui che inala crack – esistono confini molto rigidi. Citando la relazione dell’Osservatorio europeo: «Chi consuma cocaina ad uso ricreativo è altra cosa rispetto ai gruppi emarginati come i giovani senza fissa dimora, chi è dedito alla prostituzione e i consumatori problematici di eroina che fumano cocaina “base/crack”, oppure si iniettano cocaina mescolata con eroina, in aree a macchia di leopardo all’interno di determinate città» (Emcdda, 2001).

Quello che si sta osservando, però, negli ultimi anni e anche nella nostra città è la crescente sfumatura del confine tra cocaina e crack sia per la diffusione di tale tipologia di sostanza tra i «consumatori della notte», sia per le «tendenze» del mercato delle droghe, che evidentemente offre di più questo tipo di sostanza. Sempre l’Osservatorio europeo inoltre, segnala in vari paesi dell’Unione, compresa l’Italia, la pratica di mescolare la cocaina «base/crack» con il tabacco in un mix da fumare. In più, la presenza sul mercato di crack già pronto rende questo prodotto più appetibile.

Strategie di riduzione del danno

Crescenti sono le evidenze orientate a supportare o incoraggiare l’introduzione di programmi di riduzione del danno che prevedano la distribuzione di materiali sterili e sicuri necessari per fumare (Ti, 2012) o almeno una serie di precauzioni da adottare in caso in cui lo scambio della pipa diventi inevitabile (ad esempio usare dei boccagli). Ciò al fine di ridurre il rischio di diffusione delle malattie infettive così come di lesioni locali della bocca legate allo scambio e al riuso della pipa (bruciature, tagli, ulcere) (Duff, 2013).

Molti paesi hanno avviato l’apertura di Supervised Smoking Facility (sulla falsariga delle cosiddette «stanze del buco»), luoghi in cui poter inalare il crack, permettendo un aumento dell’accesso a pipe pulite, una riduzione dello scambio e foendo un ambiente più sicuro dove consumare, alternativo alle cosiddette «crack houses» (locali improvvisati senza la minima tutela sanitaria). Inoltre, strutture di questo tipo portano beneficio anche alla comunità circostante in termini di riduzione delle scene aperte di consumo (Duff, 2013).

Oltre ad approfondire gli studi tesi a individuare interventi di riduzione del danno più orientati all’uso di crack, si stanno raccogliendo esperienze di autocontrollo del consumo, cioè modalità di uso del crack che si accompagnino a strategie o attività in grado di alleviare il craving a esso associato (Krawczyk, 2015; Zuffa, 2010).

I servizi che offrono la vasta gamma di interventi, in cui le strategie della riduzione del danno si integrino con quelle terapeutiche di tipo farmacologico e psicologico, ciascuna rispondente a fasi motivazionali diverse della persona, sono quelli con il migliore esito (outcome) (Krawczyk, 2015).

Consumatori e servizi di cura: le barriere

Per la cocaina non esiste un farmaco efficace  come, ad esempio, per l’eroina (buprenorfina e metadone) o l’alcol (baclofene, disulfiram-antabuse, alcover-Ghb e naltrexone). E forse anche per l’impossibilità a rispondere con una pillola su misura a tale disturbo, i dati relativi agli accessi ai servizi sanitari segnalano che solo una piccola parte dei consumatori necessitanti di cura o interventi sociosanitari arrivano a fae domanda (Ti, 2011).

Ciò è legato però anche all’esistenza di barriere e fattori che ostacolano l’arrivo ai servizi: tempi, liste di attesa, stigma, servizi strutturati sulle esigenze del personale e non su quelle del consumatore. Ad iniziare, ad esempio, dal limitato orario di apertura dei Sert: il crackomane consuma di notte per tutta la notte, «crolla» al mattino, quando gli ambulatori aprono e si risveglia solo in tarda mattinata, quando gli ambulatori chiudono. A ciò si aggiungono caratteristiche del consumatore che possono ritardare l’arrivo ai servizi di cura: scarsa motivazione al cambiamento, non consapevolezza della problematicità del disturbo di uso, autostigmatizzazione e motivi culturali che non «permettono» di considerare il carattere socio-sanitario delle dipendenze e degli abusi da sostanze. La difficoltà di accesso appare ancora più grande per alcune categorie, ad esempio le donne, tra le più interessate dal problema del crack: per loro è la paura dello stigma o delle ripercussioni sulla custodia dei propri figli a fare la differenza.

Per un nuovo approccio

Servizi a bassa soglia riducono le difficoltà di accesso favorendo l’emersione del sommerso, specie della frangia più marginalizzata dei consumatori. La caratteristica di questi servizi è un approccio non giudicante e attento alle ragioni e alle fragilità sociali. Ciò li rende più appetibili, in quanto in grado di rispondere ai bisogni primari e come tali più sentiti dall’utenza confermando la teoria della piramide di Maslow (pasti, servizi igienici e docce, bagagliaio, un letto dove riposare, lavatrice). Dall’accoglimento e soddisfazione di tali bisogni e dal legame cosiddetto «lento» instaurato con le persone può nascere una relazione terapeutica di fiducia attraverso cui la persona può essere orientata ai servizi di cura sanitari oltreché ad un processo motivazionale di cambiamento delle proprie condotte di consumo.

Luana Oddi

TO GO WITH AFP STORY BY ANELLA RETA A pregnant drug addicts walks along a street at "Crackolandia," a place where drug users addicted to crack cocaine have been gathering for the past seven years to smoke their freebase in downtown Sao Paulo, Brazil, on December 9, 2009. In rags and bare feet, they walk through Sao Paulo's dilapidated city center like ghosts. Some beg for change that goes straight to purchasing the drug that has wasted away their bodies as surely as it has their personalities, their futures and their sense of self-worth. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA
Donna incinta per la strade di “Crackolandia,” a Sao Paulo, Brasile. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA


Donne e crack

I problemi più seri sono per le donne incinte e i loro figli.

La dipendenza da cocaina denota una particolarità di genere, risultando il rapporto femmine/maschi, in termini di frequenza di consumo, più alto rispetto a quanto osservabile con altre tipologie di droghe (con prevalenza tendenzialmente maggiore nel genere maschile). Con il crack, ciò è ancor più vero, arrivando a riscontrare in specifici contesti caratterizzati da disagio sociale grave, addirittura una maggiore prevalenza del consumo di crack tra le donne che non tra gli uomini (Pope, 2011). E questo, nonostante la maggior parte delle donne dichiari di aver iniziato a usare crack insieme o indotta dal proprio partner, anch’egli consumatore.

Le donne consumatrici di cocaina e crack tendono, a parità di entità di consumo, a sviluppare più rapidamente dell’uomo dipendenza patologica e conseguenze sanitarie correlate (Pope, 2011). Le donne tendono a soffrire maggiormente di disturbi psichici e in particolare di depressione che è uno dei fattori associati all’induzione e alle recidive dei disturbi di uso, e che – nello specifico del crack -, trova una forma di autocura nelle proprietà psicostimolanti di questo. Gli stati umorali negativi aumentano il craving e il rinforzo positivo dell’azione euforizzante della cocaina e una più grave sindrome d’astinenza. Tutto ciò comporta che a dispetto di una più alta motivazione ad aderire ai trattamenti, le donne consumatrici di crack abbiano esiti dei trattamenti peggiori (Johnson, 2011).

Le donne adottano più frequentemente modalità tipo binge di consumo e ricorrono più frequentemente a comportamenti sessuali a rischio (sesso non protetto con aumentata trasmissione di malattie veneree e infettive, promiscuità sessuale) o alla prostituzione in cambio di soldi o droga (gli uomini sono invece più di frequente coinvolti in attività criminali o di spaccio) (Sherman, 2011; Bertoni, 2014).

Le donne sono più spesso vittime di violenza agita nei contesti più marginali di consumo di crack e più frequentemente subiscono violenza sessuale e fisica da parte dei loro partner. In tale situazione il crack è visto come mezzo per dimenticare, non sentire, lenire il dolore dei traumi fisici ed emotivi subiti. Insomma, un mezzo per sopravvivere (Krawczyk, 2015).

Di particolare importanza tra le conseguenze dell’uso di crack sono gli effetti nella donna in gravidanza, fase in cui il metabolismo della cocaina è ridotto, il che implica una maggiore tossicità sia sulla madre che sul concepito. Oltre all’aumentato rischio di aborto e nascita prematura, il crack può essere responsabile di una serie di alterazioni fisiche e comportamentali che hanno permesso di riconoscere questi bambini esposti al crack come «crack babies».

I neonati nati da donne che abbiano consumato ripetutamente la sostanza possono manifestare una sindrome di astinenza la cui frequenza e il cui grado di intensità sono influenzati dal riscontro o meno di positività urinaria del neonato (il che dipende dall’interruzione o meno dell’uso di sostanza, in prossimità del parto, da parte della madre). Essa è caratterizzata da irritabilità, sudorazione profusa, ipertonia e disturbi del sonno, tremori, pianto continuo e inconsolabile, suzione eccessivamente energica, ma non più efficace, instabilità del sistema nervoso autonomo (tachicardia, sudorazione, ipertermia), peso e altezza più bassi alla nascita, ridotta circonferenza cranica. Con la crescita si possono strutturare difficoltà comportamentali e neurologiche (anomalo tono muscolare, disturbi della postura), disturbi dell’apprendimento e deterioramento cognitivo (QI più basso, disturbi del linguaggio, disturbi dell’attenzione), che tendono a comparire con frequenza più alta rispetto ai loro coetanei non esposti a cocaina.

Nei bambini delle madri consumatrici di crack, a causa del più alto rischio di contrarre infezioni, si è riscontrata una associazione più alta con infezioni da Hiv ed epatite C che possono trasmettersi per via transplacentare più frequentemente e più facilmente anche perché il crack inficia il regolare sviluppo ed attività del sistema immunitario del neonato.

Gli effetti dannosi del crack, così come accade per ogni altra sostanza che sia assunta in gravidanza, sono amplificati, indotti e/o associati alle conseguenze sul benessere psico-fisico dell’unità madre-bambino, dei fattori socio-economici e psicologici vissuti dalla madre, che agiscono la loro azione aldilà o insieme al consumo della cocaina.

Luana Oddi

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Torino / La?testimonianza

La?drammatica?caduta della?speranza

Domenico Cravero è un parroco della provincia torinese (prima a Settimo, poi a Poirino). È soprattutto un sacerdote che, oramai da una vita, lavora come psicoterapeuta a fianco delle persone con problemi di droga. «Ho iniziato – racconta – a interessarmi concretamente dei ragazzi consumatori di sostanze stupefacenti nel novembre del 1975. Abitavo a Venaria e nell’oratorio della parrocchia m’imbattei con quella realtà. In città c’era già una piccola comunità di accoglienza. La mia prima messa – era il 1977 – la celebrai tra loro. Da allora non ho mai smesso di occuparmi di questa emergenza. Che continua oggi in forme molto diverse e più nascoste».

Nel 1984 padre Cravero fonda una comunità e un’associazione di volontariato (Associazione solidarietà giovanile, Asg) e poi a una cooperativa sociale (Terra Mia). Attualmente coordina il progetto terapeutico ed educativo in otto comunità, curando in particolare la formazione degli operatori. Ogni comunità si specializza su un particolare servizio terapeutico o educativo nell’area minori, adulti e mamma bambino. Viene trattata non solo la condizione della tossicomania, ma anche il disagio mentale nella molteplicità delle sue forme. Una casa è adibita per l’accoglienza e l’accompagnamento al lavoro di profughi. È attivo anche un dormitorio per persone senza fissa dimora alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Oltre alle comunità ci sono anche due case-famiglia per l’accoglienza di minori (a Scalenghe e a Carmagnola).

Le comunità – distribuite nel territorio torinese (Torino, Moncalieri, Marentino, Grugliasco, Carmagnola) e a S. Benedetto Belbo (Cuneo) – si sostengono attraverso l’agricoltura biologica. I prodotti agricoli sono venduti in un negozio della cooperativa, La bottega dei Mestieri, a Torino  (via Foà 59) e nei mercati rionali. Sono attivi anche laboratori di trasformazione di alimenti e un servizio di vendita e distribuzione di panieri alimentari.

Padre Cravero, come descriverebbe l’universo delle droghe nel 2016?

«Oggi le droghe non fanno più paura, a livello sociale, e non sono considerate un’emergenza. Effettivamente è cambiato molto: ci sono farmaci sostitutivi e molta più tolleranza.

Il problema però rimane. Sono numerosi gli assuntori, anche se ormai non si considerano più droghe quelle chiamate leggere. Questo è un inganno. Il pericolo delle droghe, infatti, non sono tanto i danni arrecati alla salute. Non si tratta quindi di un’emergenza sanitaria. Anche per la cura dell’Hiv ci sono per fortuna farmaci efficaci. Il problema delle droghe è etico. Le droghe leggere o pesanti limitano fino ad azzerare la creatività e il protagonismo delle nuove generazioni. Sono una risposta passiva (in gergo il consumo si dice “farsi”) e alienante in un arco dell’età evolutiva dove massimo può essere l’apporto dell’innovazione e della creatività in tutti gli ambiti. Il danno più grave delle droghe consiste quindi nel bloccare il rinnovamento della società che avviene, da sempre, attraverso il contributo delle giovani generazioni che sono il presente e il futuro della collettività».

Come lei ha ricordato, pare che un tempo si parlasse molto di più di tossicodipendenza. Sono diminuiti coloro che fanno uso di droghe o è cambiata la società?

«Non sono diminuiti gli assuntori. Sono se mai cresciute le condizioni di sicurezza verso i danni immediati alla salute e questo è un gran bene. Quella che è cambiata di più è la società che sta vivendo da un po’ di anni una drammatica caduta della speranza. Si crede sempre meno nel progetto di cambiarla. Anziché modificare le ingiustizie e le condizioni che ci rendono inumani si preferisce modificare il modo con cui ci percepiamo. Siamo al più grave stadio del narcisismo: la modificazione artificiale dello stato mentale al posto del sano piacere di trasformare il mondo».

In base alla sua esperienza, quali sono le droghe più pericolose? In questi anni c’è stata una loro moltiplicazione?

«Le droghe sono tanto più nocive quanto più bloccano la creatività e rendono passivi e abulici i giovani. Il danno quindi è soggettivo e non misurabile chimicamente, essendo il vero problema un impoverimento umano (quindi etico) e non solo un rischio sanitario. C’è stata, a mio modo di vedere, una moltiplicazione e, insieme, una buona capacità di “gestirne” il rischio per la salute. Apparentemente quindi va tutto bene: si muore molto meno per overdose».

La domanda di droga è trasversale alle classi sociali. C’è un substrato psicologico comune, secondo lei?

«Nelle tossicomanie c’è sempre un problema di salute mentale o di pesanti condizionamenti psicologici. I tossicomani dovrebbero quindi sempre essere curati e mai abbandonati. Con i tagli sanitari e la perdita della speranza oggi invece è forte la tentazione dell’abbandono. Le tossicomanie riguardano però, fortunatamente, solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione. Il grosso del consumo riguarda l’abuso e la tossicodipendenza. Qui i numeri sono alti, anche tra gli adolescenti. Qui si colloca il vero danno umano e sociale».

I piccoli spacciatori sono reclutati soprattutto tra gli immigrati. Come si può affrontare questo problema?

«Certamente non solo tra gli immigrati. Secondo la mia osservazione molti dei consumatori (italiani) sono a loro volta piccoli spacciatori… Nella mia cooperativa stiamo facendo un’esperienza davvero entusiasmante nell’accoglienza degli immigrati e dei profughi giovani (e anche minori). Questi ragazzi hanno tantissimo da insegnarci e da darci. Siamo riusciti a recuperare molte terre abbandonate (in pianura e in collina) e a costruire un’unità produttiva agricola che con i soli italiani mai avremmo potuto fare. È un esempio molto concreto che l’abuso si batte con la creatività e il lavoro. Non basta certo l’informazione e neppure la terapia. Ci vuole il protagonismo attraverso il lavoro».

Ci parli del percorso di recupero dei tossicodipendenti ospitati nella sua Comunità.

«Da due anni sto sviluppando un sistema di cura attraverso l’agricoltura sociale. Ho chiamato questo percorso terapeutico “agricura”».

I «costi» della tossicodipendenza vengono pagati non soltanto dai consumatori, ma anche dalle loro famiglie e dallo Stato (in termini di spesa sanitaria, di sicurezza, eccetera). Che fare?

«Tocca alle istituzioni e alle famiglie organizzate (per esempio attraverso le “scuole dei genitori” un’attività di educazione degli adulti nelle scuole pubbliche) invertire esattamente il processo. I giovani devono accorgersi che gli adulti li stanno aspettando e credono nelle loro possibilità. Il problema drammatico di oggi è l’inazione dei giovani, la perdita del loro contributo. Le droghe sono solo una falsa soluzione, umiliante perché illusoria. I giovani hanno diritto di trovare ben altro nelle piazze, nelle strade, nelle discoteche… delle loro città».

Il mercato della droga costituisce un business globale ad altissima redditività anche a causa del proibizionismo. Da tempo,  in Italia, si litiga  attorno alla legalizzazione della cannabis. Che pensa al riguardo?

«Non voglio negare valore a questo dibattito che ha le sue ragioni. Io stesso ho partecipato in più occasioni a questa ricerca. Personalmente però percorro un’altra strada: incidere non sull’offerta ma sulla domanda di sostituti artificiali del desiderio e del piacere di vivere. Nessun piacere artificiale potrà mai competere con la soddisfazione di avere un posto e una missione nella società, con la felicità di avere degli amici e delle persone affidabili attorno a sé».

Paolo Moiola

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Bangkok / L’analisi

Pochi vincitori, milioni di vinti

Secondo statistiche ufficiali, nel mondo almeno 246 milioni di persone consumano droghe illecite. Le (costosissime) misure repressive non funzionano. Occorrerebbe investire su informazione ed educazione, ma la questione, pur globale, da sempre divide stati, governi e istituzioni.

Nelle questioni che appassionano gli esperti di affari internazionali è difficile trovare un dibattito più annoso e profondamente divisivo che la questione delle droghe. Da quando i Sumeri cominciarono a usare oppio 5.000 anni fa, le coltivazioni, i traffici e il consumo di sostanze narcotiche e psicotropiche sono stati sempre in testa alla classifica delle preoccupazioni e dei guai nelle relazioni internazionali. E visto dalla parte della gente, ben oltre dunque gli aspetti istituzionali, scientifici, legali ed economici, non c’è questione globale che ha fatto soffrire popoli e famiglie più delle droghe.

Non per caso la Convenzione mondiale sull’oppio nel 1912 fu il primo trattato internazionale di carattere multilaterale e globale, cioè il primo documento del diritto internazionale ratificato da molti paesi, dopo il trattato della Croce Rossa sottoscritto nel secolo precedente. Tutti gli altri temi sottoposti a consultazioni, ad accordi e a leggi inteazionali sono venuti dopo, a partire dalla Società delle Nazioni nel 1919 e poi con le Nazioni Unite a partire dal 1945. Nei secoli precedenti al 1912 la produzione e il traffico di droghe ha prodotto guerre in diverse parti del mondo, gli effetti di alcune delle quali non si possono dire spenti nemmeno oggi, come testimonia per esempio la questione di Hong Kong, che fu generata dalla prima guerra dell’oppio conclusasi nel 1842. E da allora non c’è mai stata nel mondo una coltivazione di droghe che sia stata pacifica, cioè che non abbia generato o acuito conflitti gravi e sanguinosi che sono durati per decenni. Negli anni più recenti, nel Triangolo d’Oro e in Colombia a partire dagli anni ’60, in Afghanistan a partire dagli anni ’80, droghe considerate illecite dai trattati inteazionali, accompagnate sempre da colossali traffici di armi, violenza illimitata, corruzione ed enormi flussi di denaro sono state ovunque gli ingredienti essenziali di conflitti disumani e duraturi.

Si può dire dunque che per oltre un secolo la questione delle droghe, perfino quando ha ottenuto qualche forma di consenso teorico, come espresso per esempio nella Convenzione unica globale sugli stupefacenti nel 1961, non ha mai davvero consolidato un vero consenso pratico, né sulle questioni generali, né sulle questioni particolari. Nessun accordo di politiche sulle droghe, raggiunto e firmato da quasi tutti i governi del mondo, sembra avere la forza di ridurre significativamente le percentuali importanti di contrari, come invece è successo per quasi tutte le altre grandi questioni globali, come ad esempio la questione di parità di diritti della donna, la questione della discriminazione razziale, la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, la questione del cambio climatico, etc. Sono abbondanti le prove della mancanza di consenso sulle buone pratiche di risposta alle tre aree principali del problema droga: la produzione, il commercio e il consumo. La Global Commission on Drug Policy, in prima linea nel criticare le attuali politiche proibizioniste, repressive e spesso violente di lotta alla produzione, commercio e uso di droghe, è formata da diversi ex capi di stato e di governo, soprattutto dei paesi che più hanno sofferto gli effetti della secolare guerra alla droga, e ne è membro anche Kofi Annan ex segretario generale delle Nazioni Unite. A livello nazionale, in grandi paesi federali come gli Stati Uniti, Germania, Brasile, sono numerosi i governi locali che hanno scelto e applicano politiche di tolleranza per l’uso di droghe considerate illecite in opposizione evidente alle leggi federali. In altre aree, come nell’Unione europea, si applicano politiche molto diverse, che potremmo definire una casistica a 360 gradi, cioè lo stesso commercio e consumo di una droga specifica viene considerato un crimine perseguibile in alcuni paesi e del tutto normale e legale in altri, con decine di sfumature diverse in ogni paese. Non c’è metodo più efficace per creare confusione e demolire la credibilità dell’informazione ufficiale su un rischio di salute che quello di divulgare e legiferare di tutto ed il contrario di tutto tra paesi vicini.

Conseguenza di società malate

Tra le cause di tanta confusione c’è certo la mancanza comune di coerenza tra la realtà e ciò che i governi promettono di fare nei trattati internazionali, ma gli elefanti nella stanza (che nessuno vuol vedere) sono altre due questioni. La prima è il fatto che le misure – violente o minacciose – di repressione che dovrebbero scoraggiare la produzione, fermare i traffici e punire il consumo, oltre che non rispettare i diritti umani, semplicemente non funzionano. La seconda è il fatto che sia l’opinione pubblica che i governi e perfino la maggioranza dei consumatori non vogliono ammettere che, dietro alle tossicodipendenze, ci sono sempre società civili malate, famiglie disfunzionali e soprattutto persone con malattie mentali non riconosciute e non curate. E anche la produzione e il commercio di droghe illecite in qualche modo sono sintomi di un sistema socio-economico fallito, insano per tutta la nazione in cui si verifica.

Finché ci sarà domanda

In tutte le mie esperienze sul campo, nel Triangolo d’oro, come in Bolivia e in Colombia, la politica più efficace di cooperazione con le comunità impoverite e marginalizzate dove venivano prodotte cocaina o eroina è sempre stata il trasferimento di potere sulle scelte di sviluppo sostenibile alla gente vittima della situazione. Quando la gente ha accesso alle decisioni che cambiano la realtà socio-economica sceglie sempre attitudini e attività legali con accesso e successo sul mercato. A livello locale nei paesi produttori di droghe, lo sviluppo alternativo – che sostituisce le coltivazioni illecite con altre produzioni lecite – è economicamente fattibile e sostenibile, ma richiede anche uno stato di diritto capace di difendere i diritti di tutti. A lunga scadenza e su scala mondiale però i soldi spesi in modo più efficace sono quelli che riducono la domanda di droghe illecite, che – legalizzate, decriminalizzate o no – saranno comunque sempre prodotte da qualche parte e trafficate fino a che ci sarà domanda. L’esperienza di forti riduzioni di consumi di tabacco e di alcool, due droghe lecite in quasi tutto il mondo, ha dimostrato che campagne di informazione ed educazione ben fatte possono ridurre i consumi fino al 90%.

In un mondo dove, ormai da decenni, almeno 246 milioni di persone usano droghe illecite e ci sono 207.000 morti l’anno relazionati con il consumo di droghe (United Nations World Drug Report 2016), una nota di speranza andrebbe cercata nel costruire pace nella mente di tutti coloro che hanno a che fare con questa realtà.

Sandro Calvani




Sommario mc dicembre 2016

 


Dalla lettera a Gesù Bambino al dossier sulle droghe e la tossicodipendenza, questo numero spazia dal Congo Brazzaville alla Repubblica del Condo, dall’Ecuador al Brasile, dal Sudafrica all’Europa. In questo numero si conclude anche la storia del Giubileo, scritta da Paolo Farinella, prete.


Caro Gesù Bambino
di Gigi Anataloni | editoriale                   link al pdf sfogliabile | link a visione classica


2016_12-mc-sm_pagina_35_resizeDossier

Droghe e tossicodipendenze – Non è il paese delle meraviglie
Testi di: Luana Oddi, Sandro Calvani, Domenico Cravero e Paolo Moiola
Foto di: Chiara Grimoldi – A cura di: Paolo Moiola
dossier                                                    link al pdf sfogliabile | link a visione classica

 


Articoli

2016_12-mc-sm_pagina_10_resizeFocus sulla repubblica del Congo Brazzaville: petrolio, legname e diritti /2
Lo spettro della guerra
di Marco Bello
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2016_12-mc-sm_pagina_16_resizeGiustizia di transizione. Le Commissioni per la Verità / 1
Nello spirito dell’Ubuntu
di Annaliza Zamburlini
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2016_12-mc-sm_pagina_22_resizeCos’è «Ico», la rete mondiale delle città di accoglienza
Voci (perseguitate) fuori dal coro
di Giulia Bondi
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2016_12-mc-sm_pagina_27_resizeGli «Incontri Matrimoniali» accolgono la sfida del Papa
Amoris Laetitia e famiglia missionaria
di Mario Barbero
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2016_12-mc-sm_pagina_30_resizeEsperienza educativa al Kilombo do Kioiô
Dal Folclore, cultura e vita
di Diniz Viera
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2016_12-mc-sm_pagina_51_resizeStorie e volti di radio /7
La fatica di essere diversi
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dieci pagine di missione giovane per raccontare un estate speciale

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Rigoberta, il riscatto maya
Gianni Minà | Persone che conosco
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Indice dell’annata 2016
con ricerca per area geografica, rubriche, tematiche di interesse, personaggio e popoli

a cura della Redazione
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Dossier droghe


Vai al Dossier Droghe e tossicodipendenze


Glossario essenziale

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Dipendenza – Tossicomania – Craving

La dipendenza è considerata dall’OMS una malattia cronica ad andamento recidivante, che riconosce come eziopatogenetici fattori biologici, sociali e psicologici. Più corretto è parlare di addiction cioè di tossicomania: «condizione psichica caratterizzata da un comportamento sostenuto da una forte spinta (craving) intensa, sintonica e ricorrente verso la consumazione di un oggetto o di un atto, senza la capacità di limitare il comportamento anche in presenza di condizioni che producono conseguenze negative sul grado di accettazione e soddisfazione individuale» (Maremmani, Pacini – manuale trattamento ambulatoriale con metadone). Da un punto di vista neurobiologico la tossicodipendenza da eroina è un disordine del comportamento appreso e indotto dall’uso cronico delle sostanze alla cui base sono presenti precise alterazioni del sistema della motivazione e della gratificazione. Dal punto di vista comportamentale la dipendenza è caratterizzata da: perdita di controllo sull’uso; ricerca compulsiva della sostanza indotta dal craving (desiderio intenso, ossessivo e urgente per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto o comportamento gratificante), uso delle sostanze nonostante le conseguenze negative.

Disforia

Alterazione dell’umore in senso depressivo, ma associata ad agitazione e irritabilità, sensazioni di frustrazione, fino a manifestazioni di aggressività sia fisica che verbale.

Free base

Sostanza ottenuta trattando il cloridrato con etere ed ammoniaca, che evapora sotto il calore generato da un apposito cannello (base pipe), permettendone la inalazione. Viene da molti considerato come una versione «europea» del crack e come quest’ultimo agisce rapidamente, con alto rischio di intossicazione acuta. La stessa letteratura scientifica è spesso ambigua nella classificazione e differenziazione di queste due forme di cocaina. In realtà entrambe queste forme hanno le stesse caratteristiche chimiche, essendo entrambe forme alcaloidi, e come tali fumabili, della cocaina, ma si usano con tecniche differenti. La cocaina freebase si ottiene dissolvendo, a caldo, la cocaina cloridrato nell’acqua e quindi aggiungendo una sostanza basica come l’ammoniaca. A tale soluzione viene aggiunto l’etere, solvente organico che ne permette l’estrazione per vaporizzazione. Tale sistema permette la rimozione di tutte le sostanze adulteranti solubili in acqua, dalla quale viene separato l’estratto in forma di piccoli cristalli, che sono pertanto più «puri» in quanto privi o contenenti minime quantità di sostanze da taglio. A causa della possibile permanenza di etere, però, i fumatori di cocaina sono ad alto rischio di ustioni, in quanto l’etere può causare esplosioni a contatto con la fiamma.

Merla – Oxi

Nel Nord America un’altra tipologia di cocaina fumata è la cosiddetta «Merla», un preparato fangoso derivato della cocaina contenente un’alta percentuale di solventi, in particolare acidi ottenuto da batterie per auto, a volte in combinazione con diversi solventi organici. Anch’esso riconosce il Brasile come terra originaria di provenienza.

Più recentemente un altro analogo del crack è circolante in Brasile, l’«oxi», una denominazione, che sta per oxidation e coniata dagli stessi consumatori di droga dello stato di Acre (situato nella parte nord-ovest della foresta pluviale amazzonica), da dove tale droga si sta diffondendo raggiungendo le principali città del Brasile, come Manaus e Brasilia, e negli scorsi anni, anche gli stati dell’America del nord. È fatta di avanzi di pasta di cocaina cucinati con quantità variabili di benzina o kerosene e calce (la diversa proporzione tra tali sostanze determina il colore della oxy, variabile dal viola al giallo al bianco). L’oxy, può essere fatta rientrare nel gruppo di quelle sostanze psicostimolanti diffusesi nel periodo della crisi e accomunate dai bassi costi e dalla facilità di produzione, così da poter essere sintetizzate in casa, dando una soluzione all’impossibilità di poter accedere alle sostanze del mercato della droga per mancanza di risorse monetarie. Tutto ciò a prezzo di danni fisici conseguenti all’uso, nella fase di preparazione, di additivi di scarsa qualità e spesso tossici.

Piramide di Maslow

La piramide dei bisogni di Maslow è una scala gerarchica dei bisogni, su cui si basa il modello motivazionale proposto nel 1954 dallo psicologo Abraham Maslow. Essa prevede la disposizione dei bisogni, dalla base al vertice della piramide, partendo da quelli primari (bisogni essenziali alla sopravvivenza), fino a quelli, salendo, più immateriali: la soddisfazione dei primi permette la elaborazione ed emersione di quelli superiori, più complessi. Sinteticamente le 5 classi di bisogni individuati da Maslow sono: i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno); di salvezza (protezione e sicurezza); di appartenenza (essere amato e amare, far parte di un gruppo, partecipare, ecc.); di stima (essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc.); di autorealizzazione (realizzare la propria identità, occupare un ruolo sociale, ecc.).

Psicostimolanti

Sono le sostanze in grado di esplicare un’azione eccitante. Il più noto psicostimolante è la caffeina, la droga di uso più comune, che si trova in eguale quantità in the e caffè (circa 100-150 mg per tazza), nonché nel cacao e nelle bevande alla cola (circa 50 mg per tazza). Anche se si tratta senz’altro della sostanza psicostimolante più blanda, una overdose di caffeina può causare sovrastimolazione, tachicardia e insonnia. Tra gli altri psicostimolanti vi sono oltre la cocaina, la nicotina, gli antideoressivi e le anfetamine, quest’ultime causa di sensazioni di euforia particolarmente intense.

Sostanze psicotrope

Per sostanza ad azione psicotropa (o farmaco psicotropo o psicotropo) si intende un qualsiasi medicamento o principio attivo in grado di agire sulle funzioni psichiche e sul SNC, si da modificarle. Gli effetti psicotropi si riferiscono a tali modificazioni che possono essere di tipologia differente: depressiva (psicolettica), eccitatoria (psicoanalettica) e di alterazione (psicodislettica).

Ser.T

Acronimo di «Servizi per le Tossicodipendenze», che sono servizi pubblici ad accesso gratuito e diretto: non è richiesto il pagamento di ticket, né la richiesta del medico di base. In molte regioni le aziende sanitarie hanno mutato tale sigla in Ser.D. ad indicare, più correttamente, un servizio deputato alla cura delle Dipendenze Patologiche sia quelle derivanti dal consumo di una sostanza (tossicodipendenze) sia quelle cosiddette comportamentali o «senza» sostanza (gioco patologico, shopping compulsivo, web addiction, ecc.).

Servizi a bassa soglia

Nel campo delle tossicodipendenze si parla di bassa soglia qualora ci si riferisca a quei servizi che sono facilmente accessibili agli utenti e, come tali, anche in grado di raggiungere la potenziale utenza costituente il cosiddetto sommerso (persone che potrebbero aver bisogno di cure, ma non riescono a raggiungere i servizi stessi), andando loro incontro (lavoro di outreach, fuori dalle strutture). Per essere a bassa soglia di accesso, un servizio deve richiedere pochi ed essenziali requisiti alla persona, accogliendo questa nella sua condizione socio-sanitaria attuale. Per le dipendenze ciò si traduce in assenza di vincoli burocratici (accesso anche a persone senza una residenza anagrafica o stranieri non regolari) e di richiesta di disintossicazione o di trattamento volto all’interruzione del consumo.

Disturbo da uso

Nel DSM 5 l’uso patologico di sostanze psicoattive viene incluso nella categoria dei Disturbi Correlati a Sostanze, comprendenti sia i disturbi secondari all’assunzione di una sostanza di abuso (incluso l’alcornol), sia i Disturbi da Uso di Sostanze, che raggruppa in un’unica categoria sia la dipendenza che l’abuso.

Recidiva

Come da dizionario: «Ricomparsa dei sintomi di una malattia in un paziente che ne era stato colpito in precedenza e che ne era guarito». Nel caso dei disturbi da uso, la recidiva si riferisce alla ripresa delle condotte consumatorie e alla riattivazione del craving.

Anedonia

Come da dizionario medico; «incapacità di provare piacere», quadro psico-emotivo spesso associato alla depressione.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Rapporti e relazioni

  • European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction (Emcdda) – Europol, EU?Drug Markets Report. In-depth Analysis, Lisbona 2016; http://www.emcdda.europa.eu
  • United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), World Drug Report 2016, Vienna 2016; http://www.unodc.org
  • Global Commission on Drugs, Guerra alla droga – Rapporto, Ginevra 2011; http://www.globalcommissionondrugs.org
  • Goveo italiano-Dipartimento politiche antidroga-Presidenza del Consiglio dei ministri, Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, Roma 2015; http://www.politicheantidroga.gov.it

Testi in inglese

Bastos FI, Bertoni N. Mendes A, et al. Smoked Crack cocaine in contemporary Brazil: the emergence and spread of Oxy. Letters To Editor. Addiction, 2011;106, 1190–1193.

Duff P, Shannon K, et al. Sex-for-Crack exchanges: associations with risky sexual and drug use niches in an urban Canadian city. Harm Reduction Joual, 2013;10:29.

Cruz MS, Fischer B, et al. Pattes, determinants and barriers of health and social service utilization among young urban crack users in Brazil. BMC Health Services Research, 2013;13:536.

DeBeck K, Wood E, et al. Public crack cocaine smoking and willingness to use a supervised inhalation facility: implications for street disorder. Substance Abuse Treatment, Prevention, and Policy, 2011;6:4.

EMCDDA. Cocaine and ‘base/crack’ cocaine 2001, selected issue. Annual report on the state of the drugs problem in the European Union, 2001.

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Guedes da Silva FJ Jr and Ferreira de Souza Monteiro C. The meanings of death and dying: the perspective of crack users. Rev. Latino-Am. Enfermagem, 2012;20(2):378-83.

Krawczyk N, Veloso Filho CL and Bastos FI. The interplay between drug-use behaviors, settings, and access to care: a qualitative study exploring attitudes and experiences of crack cocaine users in Rio de Janeiro and São Paulo, Brazil. Harm Reduction Joual, 2015;12:24.

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Sterk CE, DePadilla L, et al. Neighbourhood structural characteristics and crack cocaine use: Exploring the impact of perceived neighbourhood disorder on use among African Americans. Int J Drug Policy, 2014;25(3):616–623.

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Articoli in italiano

EMCDDA. Relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga nell’Unione europea, 2001.

EMCDDA. Relazione europea sulla droga. Tendenze e sviluppi, 2016

Zuffa G. Cocaina, il consumo controllato. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2010.

Zuffa G, Voller F, et al. Indagine sull’uso di sostanze legali e non nel mondo giovanile: i modelli, i contesti e le traiettorie dei consumi. ARS edizioni, 2012.

Libri in italiano

AA.VV., Cocaina. Consumo, psicopatologia, trattamento, Edz, Cortina Editori, 2009.

Aao G. Cocaina e crack. Usi, abusi e costumi, Edz. Feltrinelli, 1993.

Carlotto M, Carofiglio G, De Cataldo G., Cocaina, Edz. Einaudi, 2012.

Gessa GL., Cocaina, Edz Rubbettino, 2008.

Samorini G., Animali che si drogano, Edz. Shake, 2013.

Taussing M., Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca, Edz. Mondadori Bruno, 2007.




Congo Brazzaville lo spettro della guerra


Per la gente del Congo Brazzaville l’ultimo anno è stato particolarmente difficile. Ha visto una modifica costituzionale e un’elezione, entrambe fortemente contestate. La coscienza civica e democratica è elevata, ma la risposta del potere è la repressione. E il sistema tende a fagocitare lo stato di diritto.

È il 30 settembre scorso, quando un gruppo di armati assalta il treno che corre tra la capitale, Brazzaville, e Pointe Noire, città costiera, ritenuta la capitale economica della Repubblica del Congo. Quattordici sono i morti. Nello stesso periodo si verificano altri attacchi con vittime, tutti nel dipartimento del Pool, regione da sempre «calda» nel Sud del paese. I media parlano della rinascita di una guerriglia, e il ministro della Giustizia si affretta a dire che si tratta di ex miliziani ninja-nsiloulou, noti dalla guerra civile (1999-2003). Ma la questione resta controversa e i dubbi sono molti.

Intanto i vescovi del Congo Brazzaville, nel loro messaggio conclusivo della 45esima assemblea plenaria (10-16 ottobre) chiedono, tra l’altro: « […] ai nostri responsabili politici di operare nel senso del dialogo, allo scopo di un ritorno definitivo della pace in Congo in generale e nel Pool in particolare. Lo stato prenda le sue responsabilità di garante della pace e dell’unità nazionale».

Ma cosa è successo negli ultimi mesi nella Repubblica del Congo? Si è davvero preparata una nuova guerra? E quali le cause? Occorre fare un passo indietro.

Il paese del presidente

Denis Sassou Nguesso è presidente della Repubblica del Congo dal 1979. Fa eccezione il periodo di presidenza di Pascal Lissouba dal 1992 (tramite elezione) al 1997 anno in cui Nguesso riprende il potere con la forza. È la fine della prima guerra civile. Sarà poi eletto nel 2002 e 2009.

La Costituzione del Congo, nella sua revisione del 2002, prevede due soli mandati presidenziali di sette anni per la stessa persona, e un limite di età di 70 anni. Nguesso, 71 anni, alle elezioni del 2016 ha due impedimenti per succedere a se stesso. Ma è una vecchia volpe, e, come ci dice un giornalista congolese, «un seguace di Machiavelli. È bravo a creare situazioni strane per controllare tutto e tutti».

Fin dal 2013 il presidente trama per organizzare un referendum di modifica costituzionale, che è annunciato nel 2014 e si realizza il 25 ottobre 2015. Le manifestazioni organizzate contro il referendum dai movimenti della società civile e dall’opposizione sono represse nel sangue: almeno quattro i morti e numerosi gli arresti tra i leader dei militanti anti Nguesso.

Diritti umani cercasi

«La situazione dei diritti umani in Congo è da sempre preoccupante ma dal 2013 a oggi assistiamo a un peggioramento totale», ci dice Trèsor Nzila, direttore esecutivo dell’Observatornire Congolais pour les Droits de l’Homme (Ocdh), autorevole organizzazione di difesa dei diritti umani con base a Brazzaville, raggiunto telefonicamente. «Assistiamo a un’intensificazione della repressione delle libertà politiche. Sono finiti in carcere una cinquantina di prigionieri d’opinione, come diversi membri dell’opposizione. I giornalisti che hanno linea editoriale critica rispetto al deficit di democrazia sono sanzionati a più riprese dal Consiglio superiore per la libertà di comunicazione. I difensori dei diritti umani sono minacciati; i movimenti sindacali sono attaccati. La giustizia è strumentalizzata. Le forze di polizia torturano, uccidono e reprimono le manifestazioni pubbliche in totale impunità. Non c’è un settore dei diritti umani in cui si può dire che ci sia un miglioramento».

Il referendum fa il suo corso e il risultato, contestato da opposizione e società civile, introduce una modifica della Costituzione, rendendo il presidente Sassou rieleggibile.

«In Congo la nuova Costituzione è stata imposta con la violenza alla popolazione», ci racconta un altro attivista dei diritti umani, di Pointe Noire. «Questo referendum aveva carattere politico, ma quello di cui il popolo aveva bisogno non era il cambiamento costituzionale affinché il presidente rimanesse lo stesso, quanto piuttosto l’avere dei dirigenti scelti dagli elettori, che governano in modo responsabile, rendendo conto del loro operato. Un governo che risponda alle aspirazioni della popolazione in termini di rispetto delle libertà e in particolare dei diritti economici e sociali», continua la nostra fonte, che chiede l’anonimato. «La Costituzione com’è oggi non è stata votata dalla maggioranza della popolazione. La prova è che i congolesi che si sono opposti a questo processo sono stati repressi nella violenza. È stato un vero colpo di stato istituzionale».

Le elezioni precotte

Il 20 marzo 2016 è il giorno delle elezioni. Denis Sassou Nguesso – chiamato monsieur huit pour cent (signor otto per cento), perché si diceva che non avrebbe avuto più dell’8% – capisce di essere in svantaggio. Come sua abitudine «ha comprato parte dell’opposizione e parte della società civile. Chi resiste riceve intimidazioni. Oggi a Brazza se sei nell’opposizione che il potere chiama “radicale”, vieni arrestato arbitrariamente e imprigionato, o muori in condizioni strane, avvelenato, nella tua casa incendiata. Diversi attivisti sono morti così», ci racconta una giornalista che ora vive in esilio e chiede l’anonimato.

«La gente è andata a votare in massa, sperava nel cambiamento, perché c’era stato un lavoro per sensibilizzare la popolazione alla partecipazione. Era pure addestrata a sorvegliare il proprio voto», ci spiega Christian Mounzeo, presidente del Rencontre pour la paix et les droits de l’homme (Rpdh). Ma il governo impone il black out delle comunicazioni interrompendo collegamenti telefonici, messaggistica e internet per 48 ore per pretese misure di ordine pubblico, in realtà per impedire l’organizzazione di possibili rivolte. Un gruppo di 200 militanti viene disperso dalla polizia a seggi chiusi, perché vuole seguire lo spoglio.

Continua Mounzeo: «Sono rimasti fino a tardi nei pressi dei seggi per tentare di verificare il conteggio. Dalla somma dei risultati delle zone a maggiore densità di popolazione ci si accorge che il presidente non ha vinto. Ad esempio a Point Noire, la seconda città del paese (circa un milione di abitanti, ndr), Nguesso ha avuto una percentuale piuttosto bassa. Come anche a Brazzaville, dove la maggioranza della popolazione ha votato per Guy-Brice Parfait Kolelas (arrivato poi secondo con 15,05% di voti, ndr). Se si fa la somma anche con altre città del Sud, il presidente non può aver vinto a livello nazionale». Ma i risultati ufficiali, proclamati dalla Corte Costituzionale alle 3,30 di notte, il 4 aprile, confermano la vittoria di Nguesso al primo tuo con il 60,39% dei voti. Il terzo arrivato secondo i risultati ufficiali è l’ex generale Jean-Marie Michel Mokoko con quasi il 14% degli scrutini.

L’ex generale e il presidente

Mokoko, nel ‘92, quando era Capo di stato maggiore, si era opposto all’idea di golpe di Nguesso contro Lissuba per difendere la democrazia. Era poi rimasto agli alti livelli dell’esercito, ma la gente lo ricorda per la sua integrità e perché lo considera estraneo ai circuiti di corruzione.

Ricorda la giornalista: «A un certo punto la gente ha cominciato a sollecitare Mokoko, perché voleva un cambio nella gestione del paese, allora lui ha deciso di presentarsi, ma Sassou, non ha apprezzato. Durante la campagna elettorale c’è stato un sentimento di rinnovamento e di speranza per questa candidatura. Pur essendo un uomo del Nord (come il presidente, ndr), la gente lo voleva anche a Point Noire, e lo ha accompagnato ai comizi con molto calore. Quando ha depositato la sua candidatura, il numero di iscrizioni sulle liste elettorali è triplicato».

All’indomani della votazione, mentre a Brazzaville scoppiano disordini, Mokoko e altri esponenti dell’opposizione vengono arrestati. Per Mokoko le accuse sono gravi: attentato alla sicurezza dello stato, detenzione di armi e creazione di disordini. In pratica, secondo il regime, avrebbe tentato un colpo di stato. «Ma il dossier d’accusa è vuoto», sostiene la giornalista.

Toano i ninja?

L’opposizione ritiene che i risultati siano «rubati» e chiama la popolazione alla mobilitazione pacifica subito dopo la votazione.

Il 3 e il 4 aprile nei quartieri Sud di Brazzaville, uomini armati attaccano posizioni governative e si scatena uno scontro armato con le forze dell’ordine. I quartieri Sud, abitati da popolazioni del Sud del paese, sono sempre stati in opposizione al presidente Nguesso. Il governo denuncia subito un ritorno delle milizie ninja, all’epoca della guerriglia comandate da Frédéric Bintsamou, detto pasteur Ntumi.

Ma un altro militante dei diritti umani ci confida: «Non c’erano i ninja. Le ultime elezioni presidenziali dal punto di vista dell’opposizione sono state organizzate in modo civile. Anche alle manifestazioni, la gente era cosciente che qualsiasi sbavatura avrebbe dato adito al potere per dargli addosso. Inoltre, le manifestazioni si svolgevano sotto il controllo dell’esercito, della polizia. Ma ci sono delle milizie (filo governative, ndr) che hanno realizzato la repressione».

La giornalista ci spiega: «Il governo ha detto che erano stati i ninja ad attaccare, ma quando si incrociano le testimonianze, ci si rende conto che non è vero. L’attacco è cominciato la sera stessa della proclamazione ufficiale dei risultati. Delle informazioni dicono che erano milizie vicine al potere che hanno sparato per creare una diversione e poi proclamare la vittoria di Nguesso».

Si chiede Trèsor Nizila: «È una strategia per bloccare la mobilitazione che sarebbe seguita la proclamazione dei risultati?». In effetti oltre ad esercito e polizia, sono presenti diverse milizie che «suppliscono» a certi lavori che i corpi ufficiali non possono fare.

«Il potere compra tutti, a colpi di milioni. È facile comprare dei giovani. Ad esempio c’è un gruppo di ex ninja che aveva fatto alleanza con un deputato vicino al potere. Vengono chiamati il gruppo dei Douze apotres (dodici apostoli, ndr) e sono loro alla base degli attacchi del 4 aprile. Questo gruppo non è sotto Ntumi. E la gente non si riconosce con loro. Ho l’impressione che la popolazione sia presa in ostaggio, non ci sono vere rivendicazioni».

Repressione «scientifica»

È da sottolineare che una repressione selettiva nei quartieri Sud della capitale è iniziata fin dall’indomani del referendum dell’ottobre 2015. Una testimone ci racconta: «Nei quartieri Sud tutte le sere la polizia prelevava dei giovani, e della gente sospettata di militare nell’opposizione. Li bastonava e chiudeva nel commissariato quelli che resistevano, gli altri morivano per le botte e la polizia ha iniziato a gettare corpi nei quartieri o nel fiume. Ma tutti avevano paura e non dicevano niente».

In seguito agli scontri a Brazzaville, il 5 aprile scorso il governo manda gli elicotteri a bombardare la regione del Pool, storicamente contestataria. L’effetto è che almeno 5.000 persone lasciano le proprie case per rifugiarsi nella foresta.

Racconta la giornalista: «Hanno lanciato le operazioni ad aprile, con il pretesto di andare a prendere Ntumi e ucciderlo, ma da allora hanno isolato il Pool e bombardano tutti i giorni. Mons. Portella Mbuyu, vescovo di Kinkala, capoluogo del Pool, ha denunciato queste violenze. Anche se si cercano i ribelli, quando si bombarda è la popolazione che subisce. Hanno poi proibito alle Ong di andare sul posto, in modo da sigillare il dipartimento».

Inoltre, in questa zona passa la via di comunicazione più importante tra le due maggiori città del Congo: Brazzaville e il porto di Pointe Noire. Oggi la strada si può percorrere solo in convogli, mentre la ferrovia è bloccata dall’assalto al treno del 30 settembre. Così rifornire di merce Brazzaville è diventato difficile.

«Il potere dice che ex ninja di Pasteur Ntumi hanno attaccato posizioni dell’esercito. A nostro avviso non è una tesi credibile», sostiene il direttore dell’Ocdh. «Non ci convince perché Ntumi è stato integrato nel potere, come consigliere speciale del capo di stato fino alla vigilia di questi attacchi, dal 2007, quando ha lavorato con il presidente. E Nguesso non era al corrente che il suo collaboratore stava addestrando una milizia e si rifoiva di armi? Inoltre il dipartimento di Pool è un dipartimento sotto controllo totale ed effettivo dello stato. Non si capisce come le forze di sicurezza e i servizi segreti non sapessero cosa si stesse muovendo.

Hanno deciso di bombardare i villaggi per cercare un individuo, costringendo così cittadini poveri e traumatizzati a vivere nella foresta in condizioni difficili. Non sembra credibile per un governo che si rispetti e che si prenda cura della popolazione».

In effetti i ninja sono stati smobilitati dopo il 2007, mentre anche la città di Brazzaville è blindata dalle forze dell’ordine, per cui è difficile spiegare pure gli attacchi del 3 e 4 aprile.

Gli «amici» alla finestra

La Francia, gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno riconosciuto le elezioni. Ma, sempre secondo Nzila, «ho l’impressione che la comunità internazionale non voglia interessarsi alla situazione politica e dei diritti umani in Congo, nonostante sia molto preoccupante. Questo silenzio mi sciocca. È inammissibile che istituzioni come l’Ue e le Nazioni unite che promuovono i diritti umani, i valori democratici, lo stato di diritto, non siano in grado di assistere la popolazione congolese in questo momento difficile, quando i suoi governanti la reprimono».

Parlando di futuro, secondo la giornalista: «Questo è un potere che non scende a patti. Crea le condizioni per rendere precaria la vita della gente. Mette il paese sotto pressione, uccide le contestazioni. Crea la paura, fa tornare la psicosi della guerra nella gente che ha già vissuto le sue atrocità, per poterla quindi controllare».

Uno scenario possibile che Trèsor Nzila vede è: «Il malcontento sociale aumenterà e porterà la gente a esprimersi, a fare scioperi per paralizzare le istituzioni. La prima risposta del potere sarà la repressione. Fino a dove andrà la contestazione e fin dove la repressione, non si sa».

Marco Bello




Sudafrica nello spirito dell’ubuntu


Dopo decenni di apartheid, segregazione razziale e violenze, negli anni ‘90 il Sudafrica si è trovato a gestire la transizione verso un nuovo modello di convivenza. Cosa fare con il fardello del passato? E con i carnefici? Come aiutare le vittime a ricucire la loro dignità? In un contesto in cui la responsabilità dei crimini commessi era condivisa da un’ampia parte della popolazione, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione è stata uno strumento utile, ancorché imperfetto, per progettare un nuovo paese.

Dagli anni Settanta, decine di paesi – dall’Argentina al Sudafrica, dal Perù allo Sri Lanka, da El Salvador a Timor Est – hanno fatto ricorso allo strumento delle «commissioni per la verità» per agevolare la transizione da un’epoca di violazioni dei diritti umani a una di maggiore democrazia. Si tratta di esperienze molto eterogenee che presentano alcuni tratti comuni quali l’esigenza di fare luce sulle violenze perpetrate, di mettere al centro le testimonianze delle vittime. L’obiettivo è quello di promuovere la giustizia e favorire la riconciliazione. La commissione più nota a livello internazionale è, senza dubbio, quella sudafricana, di cui nel 2016 è ricorso il ventennale.

As a car bus behind him, a young South African participates in a civil disturbance outside the Auduza Cemetery.
UN Photo/P Magubane, UN Photo/x

Risanare le ferite

«Noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva (nell’originale inglese, restorative justice, nda), a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la punizione o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu (cfr. box qui a destra), fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso»1.

Con queste parole Desmond Tutu, arcivescovo anglicano, insignito del premio Nobel per la pace nel 1984, esprime, in maniera magistrale e con l’autorevolezza di chi ha subito in prima persona l’oltraggio dell’apartheid, il cuore della concezione di giustizia propria della Truth and Reconciliation Commission (Trc) sudafricana, lo strumento di cui è stato presidente ideato da alcune eminenti personalità di quella che sarebbe stata definita la «Nazione arcobaleno» allo scopo di fare i conti con la storia d’ingiustizia vissuta dal paese e di gestie la pesante eredità per il futuro.

Un difficile compromesso

La Trc è stata il frutto del difficile compromesso tra due posizioni antitetiche: quella del governo e del National party (Np) che volevano l’amnistia incondizionata per i crimini dell’apartheid, considerati un «errore» da superare, e quella dei movimenti di liberazione nazionale, capeggiati dall’Anc (African national congress, partito di cui Nelson Mandela è stato presidente), che chiedevano l’istituzione di tribunali speciali per l’incriminazione e la condanna dei responsabili del regime di segregazione razziale e delle gravissime offese ai diritti umani che avevano segnato il paese. Ciascuna delle due opzioni (l’amnistia incondizionata o l’istituzione di un tribunale penale internazionale, sul modello di Norimberga) avrebbe, con tutta probabilità, ulteriormente esacerbato il clima d’odio e allontanato la possibilità di cooperazione tra le diverse componenti etniche del Sudafrica.

La Trc è nata da una concezione «rivoluzionaria» del rapporto tra verità e giustizia. L’accertamento della verità, infatti, non doveva essere finalizzato all’attribuzione di una condanna, ma alla concessione del perdono e alla «riparazione» delle persone offese. L’idea era quella che per voltare la pagina del passato, prima si dovesse scriverla e proclamare.

I tre comitati

La Commissione per la verità e la riconciliazione era articolata in tre sottocommissioni.

Il Committee on human rights violations (Comitato sulle violazioni dei diritti umani) aveva il compito di ricevere, analizzare e inserire in un database nazionale le denunce delle violenze subite dalle vittime, e di svolgere le inchieste necessarie ad accertarle. Le persone offese erano invitate a testimoniare nella propria lingua, nel corso delle udienze pubbliche che venivano organizzate in prossimità dei loro luoghi di vita.

Davanti all’Amnesty Committee (il comitato per l’amnistia) i perpetratori – esponenti del regime o suoi avversari, bianchi, neri, meticci – erano chiamati alla «full disclosure of facts» (cioè la rivelazione dettagliata delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate), indispensabile per l’eventuale concessione dell’amnistia. A questo comitato spettava il compito di verificare che sussistessero le condizioni per la concessione del provvedimento di clemenza, cioè che i crimini «confessati» rientrassero tra quelli previsti dalla Trc (uccisioni e gravi maltrattamenti, torture e rapimenti), che fossero stati effettivamente commessi con finalità politiche tra il 1960 e il 1994 e che la rivelazione di fatti e responsabilità fosse completa. La maggior parte delle domande di amnistia sono state respinte per la mancanza di una di queste condizioni. Sia le udienze dei perpetratori che quelle delle vittime hanno ricevuto grande copertura mediatica.

Infine, il Reparation and rehabilitation committee (il Comitato per la riabilitazione e la riparazione) doveva occuparsi di determinare l’ammontare, la forma e il tipo di riparazione e di risarcimento spettanti a coloro che venivano riconosciuti vittime. Aveva inoltre il compito di indicare al governo le misure necessarie a ottemperare il diritto alla riabilitazione sociale delle vittime.

I numeri di una scelta libera e volontaria

Le vittime che si sono presentate spontaneamente per raccontare le gravi violazioni dei diritti umani subite sono state 22.500. Sono state tra le 1.700 e le 2.500 le persone, appartenenti sia all’Np che all’Anc e agli altri gruppi di liberazione, che hanno chiesto l’amnistia, molte delle quali per più di un reato2. Hanno beneficiato di un provvedimento d’amnistia totale 1.167 richiedenti, d’amnistia parziale 1453.

La scelta di assumersi pubblicamente la responsabilità dei crimini commessi era libera e volontaria, ma coloro che non chiedevano l’amnistia o i cui atti non rientravano nell’ambito di competenza della Commissione (ad esempio non erano stati commessi con una chiara motivazione politica) o la cui «confessione» non era ritenuta completa, sapevano di poter incorrere, in futuro, in un’incriminazione da parte del sistema penale ordinario.

Far emergere la verità

Le amnistie concesse dalla Trc, individualizzate e condizionate, non hanno nulla a che vedere con le amnistie generali adottate da molti paesi latinoamericani al termine dei periodi di dittatura che hanno ostacolato l’accertamento della verità (si veda, ad esempio, il dossier su El Salvador, MC luglio 2014, ndr). In Sudafrica, l’amnistia è stata utilizzata come strumento per favorire l’emersione della verità sul passato.

La concessione dell’amnistia per crimini gravissimi è stata una delle questioni che hanno sollecitato il maggior numero di critiche e su cui gli esperti di diritto internazionale ancora dibattono.

Desmond Tutu, presidente della Commissione, ha risposto così alle critiche di quanti sostenevano che i provvedimenti di clemenza adottati dalla Trc sacrificavano la giustizia e incoraggiavano l’impunità: «Chi chiede l’amnistia deve ammettere di essere responsabile degli atti per i quali chiede di essere amnistiato, e in questo modo viene affrontata la questione dell’impunità. Inoltre, salvo circostanze eccezionali, l’esame della richiesta di amnistia avviene in udienze pubbliche. Chi chiede l’amnistia deve perciò fare le proprie ammissioni alla luce del sole. Proviamo a immaginare cosa significa tutto ciò. Spesso questa è la prima volta che la famiglia di chi presenta la domanda di amnistia, o la comunità a cui appartiene, scopre che quella che in apparenza era una brava persona, era, per esempio, un torturatore incallito, o un membro degli squadroni della morte che assassinarono numerosi oppositori del passato regime. Insomma, c’è un prezzo da pagare, per l’amnistia…»4.

I risultati del lavoro della Trc sono confluiti in un documento finale, i cui primi cinque volumi sono stati pubblicati nel 1998. Il lavoro del comitato per l’amnistia si è protratto per ulteriori due anni, a causa della complessità e della lunghezza dei procedimenti. I due volumi conclusivi del report sono stati pubblicati nel 20033.

La verità collettiva fonda la «Nazione arcobaleno»

Nella visione di Mandela, Tutu, Boraine e delle altre anime della Trc, il truth telling, il racconto della verità, la centralità della narrazione delle vittime e dei rei, costituiva non solo lo strumento per concedere gli indennizzi alle prime e le amnistie ai secondi, ma anche la via per costruire uno shared sense of the past (un comune senso del passato) che avrebbe contribuito alla nascita della nuova nazione sudafricana.

La verità personale (che, provenendo dalla memoria del singolo individuo – vittima o reo -, è costitutivamente condizionata dall’elaborazione emozionale e razionale condotta negli anni e dalla prospetticità e selettività dei meccanismi del ricordo), dopo essere stata a lungo «incarcerata» nell’intimo sofferente delle vittime e nella coscienza dei perpetrators (dei responsabili), poteva finalmente trovare sfogo e ascolto davanti alla Commissione. La narrazione comunitaria delle esperienze dei singoli, unita alle indagini svolte e alle prove raccolte per una ricostruzione il più possibile fedele di quanto accaduto, avrebbe permesso la genesi di una verità collettiva, sociale, ampia, da approfondire ulteriormente e da tramandare alle successive generazioni.

I leader politici sudafricani hanno intuito che solo «facendo i conti» con la storia e con la sua eredità – attraverso la ricostruzione pubblica del contesto storico-politico in cui l’apartheid era stato concepito e applicato, l’accertamento della verità fattuale dei singoli episodi criminosi che rientravano nel mandato della Trc, la fiducia nella «verità narrativa» della popolazione e l’audacia del perdono – sarebbe stato possibile gettare le fondamenta di una nuova entità collettiva, la Raimbow Nation, la quale, auspicavano, avrebbe contenuto in sé le garanzie di non ripetizione del passato.

Giustizia dell’incontro

La dimensione collettiva della risposta alla domanda di giustizia per il sanguinoso passato si è giocata anche nella scelta di dare la priorità all’incontro faccia a faccia tra le vittime e i perpetrators, piuttosto che alla celebrazione dei processi penali, durante i quali le persone offese notoriamente rivestono un ruolo di minima importanza. La celebrazione di udienze pubbliche, infatti, non solo favoriva il coinvolgimento attivo dell’intera comunità ma, fatto altrettanto, se non più importante, permetteva l’incontro (sempre libero e volontario) tra le vittime e i responsabili, diretti o indiretti, dei crimini. Trovarsi di fronte al carnefice, ascoltare le sue spiegazioni, interrogarlo, accusarlo, essere finalmente liberi di dirgli (o urlargli) il proprio dolore ha potuto, almeno in alcuni casi, aiutare le vittime a ridurre la rabbia, «ri-umanizzare» il nemico, incamminarsi sulla via della «guarigione» e, a volte, a intraprendere la via del perdono.

Per il reo, l’incontro con la vittima ha costituito un’occasione unica per entrare in contatto con il dolore causato, prendee coscienza (cosa che la giustizia retributiva del sistema penale non favorisce) e per aprirsi alla richiesta del perdono e alla riparazione.

A vent’anni dalla sua istituzione

A vent’anni di distanza dalla sua istituzione, le opinioni sulla Trc sono discordi. Essa è stata oggetto di numerose critiche, che ne hanno messo in luce difficoltà, problematicità e obiettivi mancati. Ad esempio, è stata giustamente stigmatizzata l’insufficienza delle riparazioni di cui le vittime hanno potuto effettivamente beneficiare.

A nostro avviso, le innegabili e inevitabili criticità nulla tolgono al coraggio di una nazione che, guidata da vittime esemplari quali Mandela e Tutu, ma non solo loro, ha saputo prediligere il dialogo e il perdono rispetto alla vendetta, l’unità rispetto alla separazione, la verità rispetto all’oblio.

Annalisa Zamburlini


Note

  1. D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, p. 46 e p. 32.
  2. A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Il Mulino, Bologna 2005, p. 190.
  3. P. B. Hayner, Unspeakable truths: transitional justice and the challenge of truth commissions, Routledge, New York-London 2011, p. 30.
  4. D. Tutu, Prefazione, in M. Flores (a cura di), Verità senza vendetta: l’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma 1999, p. 72.

Archivio MC

Sulla giustizia riparativa si vedano i dossier Giustizia riparativa. Rispondere ai delitti senza commettee altri, MC dicembre 2013, a cura di Luca Lorusso, e Un grido stanco ma tenace. El Salvador: dai massacri alla domanda di giustizia, MC luglio 2014 a firma di Annalisa Zamburlini.

Riferimenti bibliografici

  • A. Ceretti, Riparazione, riconciliazione, Ubuntu, amnistia, perdono. Alcune brevi riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana, in «Ars Interpretandi», 9 (2004), pp. 47-68.
  • A. Ceretti, Per una convergenza di sguardi, in Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (a cura di), Il libro dell’incontro, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 219 -250.
  • M. Flores, Verità senza vendetta, op. cit.
  • B. Hayner, Unspeakable truths, op. cit.
  • É. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le commissioni Verità e Riconciliazione, trad. it. di G. Prucca, ObarraO Edizioni, Milano 2010.
  • A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione, op. cit.
  • C. Villa-Vicencio, Vivere sulla scia della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sud Africa. Una riflessione retroattiva, in Flores M. (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 278-292.

La serie

Dagli anni Settanta, l’esperienza delle Commissioni per le verità si è diffusa in tutto il mondo con lo scopo di offrire ai singoli paesi interessati da un conflitto (spesso molto violento) un percorso di giustizia non solo punitiva, ma che tenga conto delle esigenze di verità delle vittime e che aiuti la transizione verso la pace sociale. Le esperienze sono molte, ciascuna con le sue specificità. Con questa serie di articoli a esse dedicati vogliamo conoscee alcune.

La prossima puntata, firmata da Wilfredo Ardito, professore di diritto ed esperto di diritti umani, riguarderà la Commissione del Perù.


Cenni alla storia del regime di apartheid

The bench is empty but this young black woman in a Johannesburg railway station would be breaking the law if she sat on it. There has been much talk recently about desegregating racially segregated public facilities. The reality defies the rhetoric. 1/Jan/1982. UN Photo/DB. www.unmultimedia.org/photo/

Le radici del conflitto che ha insanguinato il Sudafrica risalgono alla fine del XV secolo, quando un piccolo gruppo di portoghesi si insediò sul Capo. Seguì, nei secoli successivi, il colonialismo olandese e inglese, che portò all’affermazione dello strapotere dei bianchi sulla popolazione nera.

Nel 1910, l’allentamento delle tensioni tra inglesi e boeri (o afrikaner, contadini discendenti dai coloni olandesi), permise la costituzione dell’Unione Sudafricana, dotata di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva nelle mani dei bianchi (un milione e 250mila circa), in maggioranza afrikaner. La popolazione nera (quattro milioni e 500mila persone circa) fu gradualmente privata dei pochi diritti di cui ancora godeva. Per difendere le prerogative della popolazione nativa fu costituito nel 1912 l’African national congress (Anc), che non poté però impedire l’anno seguente l’approvazione di una legge che vietava ai neri l’acquisto di terre al di fuori delle riserve nelle quali essi erano stati confinati. Appena migliori erano infine le condizioni riservate ai circa 500mila coloureds (meticci) e ai quasi 200mila asiatici, in maggioranza indiani, immigrati nel corso del XIX secolo.

Nel secondo dopoguerra, il razzismo fu istituzionalizzato nell’apartheid, un feroce regime di segregazione razziale e di spoliazione dei diritti civili e politici, adottato dal governo – era in carica il National party (Np) – ai danni dei cittadini neri del Sudafrica e della Namibia, fino al 1990 amministrata dal Sudafrica.

A partire dagli anni ’60, non solo vi erano luoghi pubblici, autobus e professioni differenziati per i neri e per i bianchi, ma fu avviata la costruzione di ghetti per le singole etnie africane (i cosiddetti bantustans), dotati di autogoverno e destinati a diventare indipendenti (i loro abitanti quindi privati della cittadinanza sudafricana).

Nel 1960 l’African national congress (Anc) e il Pan africanist congress (Pac), partiti a difesa dei diritti della maggioranza nera della popolazione, furono messi al bando. Come risposta, essi abbandonarono la lotta nonviolenta che avevano appreso dall’esperienza gandhiana e utilizzato fino ad allora, e intrapresero una lotta armata che condusse all’arresto, tra gli altri, del leader dell’Anc, Nelson Mandela, nel 1962.

L’apartheid fu ripetutamente condannato e sanzionato dall’Organizzazione dell’Unità Africana, dall’Onu e dai membri afroasiatici del Commonwealth, dal quale il Sudafrica uscì nel 1961, proclamando la repubblica.

Dopo trent’anni di violenze, a fronte di una situazione economica sempre più precaria a causa degli elevati costi della politica di repressione e per gli effetti delle sanzioni economiche inteazionali, il presidente della Repubblica Frederik Willem de Klerk, eletto nel 1989, avviò i negoziati.

L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, leader dell’Anc, fu scarcerato dopo 27 anni di detenzione.

Il Goveo decretò la fine del bando nei confronti dei partiti d’opposizione e l’Anc e il Pac poterono partecipare ai lavori per la stesura di una nuova Costituzione. Il sistema giuridico-normativo dell’apartheid fu abolito e furono indette tre assemblee multipartitiche, durante l’ultima delle quali – nonostante le resistenze opposte dalle formazioni più estremiste di entrambi gli schieramenti – fu adottata la Costituzione Transitoria (1993).

Nella stessa sede fu affrontata la questione riguardante la domanda di giustizia che emergeva dal periodo storico e politico che si stava chiudendo. Le decisioni riguardanti il modo di affrontare l’eredità del passato, e in particolare la creazione della Truth and Reconciliation Commission (Trc), furono formalmente incorporate sia nel testo della Costituzione Transitoria che nella Costituzione definitiva, che fu adottata dall’Assemblea Costituente nel 1996.

Pietra miliare del cammino del nuovo Sudafrica furono le prime elezioni democratiche multirazziali, svoltesi nel 1994, che portarono alla nomina del primo presidente nero, Nelson Mandela, insignito l’anno precedente del Premio Nobel per la pace insieme all’ultimo presidente bianco, De Klerk, per aver evitato che il paese precipitasse nella guerra civile.

Mandela guidò un governo di coalizione formato dall’Anc, dal Np di de Klerk e dal Partito della libertà, espressione dell’etnia zulu. Dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione, il National party si ritirò dal governo, per assumere il suo ruolo democratico di partito d’opposizione.

A.Z.


Io sono perché noi siamo

«Ubuntu […] è una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. Quando vogliamo lodare grandemente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu”, “il tale ha ubuntu”. Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole; che condivide quello che ha. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita. Noi diciamo: “Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì: “Io sono umano perché appartengo, partecipo, condivido”. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni o bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono»1.

(Desmond Tutu)


Il mio Dio sovversivo

libro-tutu_resizeIl libro di Desmond Tutu pubblicato nel 2015 dall’Emi è un piccolo e intenso viaggio nel cuore della concezione di giustizia dell’arcivescovo anglicano di Città del Capo. Il premio Nobel per la pace del 1984, presidente della Trc, con uno stile sobrio e lineare parla del fondamento della sua idea di società, della sua battaglia per un paese e un mondo più giusto: il Creatore che ha fatto l’uomo a sua immagine, un Dio che si comunica con una forza speciale, «sovversiva», tramite la Parola e tramite coloro che nella storia sono stati e sono tutt’ora capaci di propoe la disarmata e irresistibile forza di capovolgimento.

«Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già – esordisce Tutu nell’incipit del volume -. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. “Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: ‘preghiamo!’. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: ‘Amen’. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”. […] Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. […] Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, figli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta […] non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore».

«Il mio Dio sovversivo» è un testo capace di andare, in poche pagine e con semplicità, al centro delle questioni fondamentali della vita individuale e sociale. Tutu ci parla di un Dio sovversivo che si manifesta all’umanità per dire a ciascuno che ogni uomo è uomo in quanto legato ad altri uomini; che ama ogni uomo come se ciascuno fosse l’unico ad essere stato creato; che Lui è un Dio di parte, schierato con l’umanità; che tutto ciò che ci offre non lo possiamo in alcun modo guadagnare, perché tutto è grazia, a prescindere da qualsiasi merito o demerito; e che, come tutto all’inizio è originato da Dio, tutto alla fine convergerà a Dio, «anche Satana […] perché neppure lui potrà resistere all’attrazione dell’amore divino; e allora Dio sarà davvero tutto in tutti».

Luca Lorusso




Profughi voci perseguitate dal coro


È una rete internazionale che aiuta un particolare tipo di profughi: intellettuali scomodi, minacciati dai regimi dei loro paesi. Connette città ospitanti in Europa e nel mondo. Dal 2006 sono 160 le persone accolte. Piccoli numeri che rappresentano intere popolazioni.

«Col primo, uno scrittore, la reazione dei vicini è stata di grande sconcerto. Non lo capivano, lui non salutava, spesso usciva in tuta mimetica, poi per molti giorni non usciva affatto, perché stava lavorando al suo libro. Poi è arrivata una coppia di iraniani, un teologo perseguitato per apostasia e la moglie, entrambi di mezza età, e sono stati subito molto amati. Potevano sembrare una coppia di contadini delle nostre colline». Così Maria Pace Ottieri, figlia dello scrittore milanese Ottiero Ottieri, a sua volta giornalista e scrittrice (è autrice, tra l’altro, di Quando sei nato non puoi più nasconderti dedicato all’immigrazione irregolare), ricorda le prime esperienze di accoglienza di scrittori perseguitati a Chiusi, cittadina di 8.000 abitanti sulle colline senesi.

Il primo, nel 2008, fu Victor Pelevin, popolare scrittore russo del dopo perestroika, seguito nel 2010 da Hasan Yousefi Eskevari con la moglie Golbabei Aliahmad Mohtaram. «Eskevari, studioso di storia, aveva fatto sette anni di prigione per avere affermato che la prescrizione di indossare il velo non si trova nel Corano», ricorda Maria Pace. La casa della famiglia Ottieri e la città di Chiusi sono inserite nella rete Ico, acronimo di «Rete internazionale delle città rifugio» (in inglese: Inteational Cities of Refuge Network). Della rete fanno parte 60 città in 16 paesi, per lo più in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Messico. Le «città rifugio» accolgono scrittori, giornalisti, artisti e musicisti costretti a lasciare il proprio paese. Il cornordinamento della rete, con sede nella città norvegese di Stavenger, riceve le richieste e propone gli abbinamenti tra artisti e città.

Intellettuali perseguitati

«La valutazione si fa in collaborazione con Pen Inteational, associazione di scrittori. La persecuzione deve essere documentabile. Altri criteri sono la quantità di produzione giornalistica o artistica, e la correlazione tra questa e le minacce», spiega Cathrine Helland, responsabile della comunicazione di Ico. «Per scegliere la città, dobbiamo valutare se sono aperte anche a coppie o famiglie o solo a singoli. Guardiamo anche alle relazioni diplomatiche tra paesi, per capire quante possibilità ci sono che l’autore possa ricevere un visto in tempi ragionevoli».

Gli oneri pratici e quelli economici, dall’alloggio a una borsa di studio con la quale gli autori si sostentano, spettano alle città.

Nel caso della Toscana, a farsi carico della parte economica è la Regione, mentre i comuni, di cui ora Chiusi è l’unico attivo, devono mettere a disposizione un cornordinatore che segua le persone nell’ottenimento del visto, nell’inserimento sociale, nell’accesso ai servizi. A Chiusi, la famiglia Ottieri dà la casa gratuitamente. In Norvegia i referenti del progetto sono in genere le biblioteche, mentre in città come Bruxelles o Cracovia sono associazioni letterarie o festival. Da paese a paese, costo della vita e burocrazia possono variare molto. «La formula che abbiamo trovato noi è chiedere visti per motivi di studio. Di fatto, gli scrittori cercano rifugio all’estero per continuare il proprio lavoro e la propria ricerca», racconta Marco Socciarelli, referente di Ico per il comune di Chiusi.

«C’è una forte correlazione tra le evoluzioni della situazione geopolitica e le richieste che riceviamo», riprende Cathrine Helland. «Nel 2014 abbiamo avuto un picco dalla Siria, e di recente sono molto aumentate quelle provenienti dalla Turchia, o dal Bangladesh, dove i blogger laici subiscono attacchi e minacce di morte, o ancora dal Burundi, dove le persecuzioni riguardano molti giornalisti radiofonici». In Bangladesh, nel 2015, per la prima volta uno scrittore che aveva presentato domanda a Ico, Ananta Bijoy Dash, è stato ucciso prima che potesse essergli proposta una città rifugio.

Dal 2006, anno della fondazione di Ico, le persone accolte sono state 160. Ma già dal 1999, molte delle città che aderiscono all’attuale rete partecipavano a un analogo progetto, nato su iniziativa di quello che allora si chiamava «Parlamento internazionale degli scrittori» presieduto da Salman Rushdie. Nell’ambito di quella prima iniziativa la Toscana ospitò diversi autori perseguitati, tra cui la premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievic.

Piccoli numeri, grande significato

I numeri sono piccolissimi, soprattutto se si pensa di paragonarli agli oltre 400 mila fuggiaschi che hanno tentato di entrare illegalmente in Europa, via terra o via mare, solo nei primi 9 mesi del 2016, secondo i dati dell’agenzia Frontex. Ma a chi ottiene ospitalità attraverso questa rete è concesso non solo un approdo, ma anche un viaggio sicuro.

«Per le città, l’adesione ha un valore allo stesso tempo concreto e simbolico», spiega Helge Lunde, tra i fondatori di Ico e suo attuale direttore. «Concreto, perché si può materialmente aiutare una persona a mettersi in salvo, e simbolico perché scrittori, giornalisti e artisti rappresentano in qualche modo il pensiero e i bisogni di altre persone, del loro pubblico, del loro paese. Ogni città che aderisce alla nostra rete consente a una voce fuori dal coro di continuare a farsi sentire».

Nel 2015, le richieste sono state 110 e le residenze offerte 27, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Nei primi nove mesi del 2016 sono arrivate 90 domande, 15 delle quali hanno potuto essere accolte.

Anni difficili

Il periodo di ospitalità è normalmente di due anni. «Nel caso di Malek Wannous, giornalista siriano, che si trova a Chiusi con la sua famiglia – riprende Marco Socciarelli – abbiamo deciso in via eccezionale di allungare la residenza per un altro anno. Loro vorrebbero tornare in Siria, ma è impossibile. E ora che la bambina più grande va a scuola non volevamo fosse costretta a un nuovo, traumatico spostamento».

Per gli scrittori e gli artisti, la città rifugio rappresenta la possibilità di continuare a lavorare, non senza difficoltà. «Si perdono fonti di guadagno, punti di riferimento, status», evidenzia Cathrine Helland. «A meno che un autore non sia molto conosciuto, non è semplice lavorare da un paese estero», fa eco Socciarelli. «Io sono contenta di arrivare a casa e sentire voci di bambini, sentire abitata questa casa, che mai si sarebbe aspettata persone da così lontano», dice Maria Pace Ottieri. «La cosa amara è che, per loro, questi due anni sono tra i più infelici della loro vita. Sono sradicati, sono dovuti partire per forza, non sanno quando e se potranno tornare indietro».

La loro voce, però, continua a farsi sentire. Anche con le scuole. «Molte volte i ragazzi nemmeno sospettano che si possa essere incarcerati o minacciati per le proprie idee», spiega Socciarelli. «La soddisfazione che abbiamo – aggiunge – è che qui a Chiusi sono stati completati libri importanti, che forse non avrebbero visto la luce senza il nostro aiuto».

Giulia Bondi


Intervista a Malek Wannous, rifugiato a Chiusi

Un posto dove andare

Malek Wannous

Gioalista e scrittore freelance siriano, Malek Wannous è originario di Tartous, città portuale di 150mila abitanti, affacciata sul Mediterraneo. Vive a Chiusi dal 2014, con la sua famiglia. Ha tradotto in arabo il libro di Vittorio Arrigoni «Gaza. Restiamo Umani».

Quando ha cominciato a sentirsi in pericolo, e quando ha deciso di partire?

«Appena iniziata la guerra ho sentito che non ero al sicuro. O che non lo sarei stato nei giorni e nei mesi successivi. Non ho pensato subito di lasciare il paese, perché avevo lavoro, casa, famiglia, e speravo che la guerra sarebbe finita presto. Ma erano speranze vane. Dopo tre anni di guerra, ho iniziato a cercare un modo per andarmene».

Come ha saputo dell’esistenza di Ico?

«Me ne avevano parlato degli amici. Ero a conoscenza delle vicende di alcuni scrittori che erano stati aiutati da Ico. Ho presentato domanda, ho aspettato l’esito e infine sono potuto partire per approdare in questo posto sicuro».

Come si è svolto il vostro viaggio fino a Chiusi?

«Da Tartous siamo partiti per il Libano, e da lì abbiamo preso un volo diretto, da Beirut a Roma. È andato tutto liscio, per me, per mia moglie che era incinta, e per mia figlia. Ma, allo stesso tempo, è stato molto difficile lasciare il nostro paese. Quando siamo arrivati a Roma faceva caldissimo, più caldo che da noi. Ho comprato il biglietto del treno per Chiusi e per la prima volta in vita mia ho usato una macchinetta automatica! Da noi i treni sono molto vecchi, non li rinnovano da anni, e per viaggiare usiamo soltanto i pullman. Alla stazione di Chiusi ci aspettava Marco Socciarelli, di Ico, con sua moglie e sua figlia. Ci hanno accompagnato loro alla nostra nuova casa».

Qual è l’ultima immagine che ha della Siria, e il suo primo ricordo all’arrivo in Italia?

«L’ultima immagine sono le persone. Vedevo la gente camminare, andare al lavoro, dal medico, o a fare spese. Tutti sapevano che il loro futuro era incerto, o molto oscuro. Quando siamo arrivati, ho pensato a mia madre, alla mia famiglia, ai volti delle persone che ho lasciato in Siria. Ho pensato perfino alle strade su cui camminavo ogni giorno, per andare al lavoro o per fare sport».

Com’è la vostra esperienza a Chiusi? Come riesce a lavorare da qui?

«Inizialmente è stata dura, perché non conoscevamo la lingua. Gli unici amici che avevamo erano Marco e la sua famiglia. Ci hanno aiutati in tutte le esigenze pratiche: la burocrazia per il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria, l’iscrizione a scuola di mia figlia. Pian piano abbiamo fatto amicizia con i vicini, con le famiglie delle compagne di scuola, e abbiamo cominciato a uscire per una pizza, o una gita al lago. Il lavoro lo faccio a distanza: articoli e analisi politiche che trasmetto ai giornali via email, e di tanto in tanto qualche traduzione».

Che rapporti avete con la vostra ospite, Maria Pace Ottieri?

«Maria Pace e suo figlio ci hanno telefonato subito al nostro arrivo. Poi sono venuti a incontrarci, e ci hanno invitato nella loro casa di Milano. Siamo amici, e quando lei o suo figlio vengono a Chiusi passiamo ore insieme, a discutere di politica e di letteratura. Maria Pace è conosciuta per la sua generosità. Ci ha offerto la sua casa, come aveva fatto in precedenza per altri scrittori».

Con quali differenze culturali vi siete scontrati al vostro arrivo?

«Abbiamo trovato molte somiglianze tra la società siriana, libanese o palestinese e quella italiana. Anche i volti sono simili, forse perché apparteniamo tutti al Mediterraneo e abbiamo un’antica storia di scambi e relazioni. La società italiana è più modea e organizzata, perché per molti anni i governi dei paesi arabi non hanno fatto abbastanza per migliorare il tenore di vita delle popolazioni. Non abbiamo fatto troppa fatica a integrarci. Le differenze non mancano ma molte persone ci hanno aiutati a capire gli usi locali».

Come ha deciso di tradurre gli scritti di Vittorio Arrigoni (attivista e pacifista italiano ucciso a Gaza il 15 aprile 2011)?

«Avevo chiesto a un amico, traduttore e poeta siriano, di portarmi il libro dall’America, dove viveva, perché dalla Siria non potevo ordinarlo. Volevo solo leggerlo, ma quando sono arrivato alla ventesima pagina ho capito che dovevo tradurlo. Ho acceso il computer e iniziato subito. Pensavo che le storie di cui parla meritassero di essere conosciute, perché sono una testimonianza diretta dei crimini israeliani contro i civili palestinesi a Gaza. Ascoltare queste voci è indispensabile per “restare umani”. Ogni giorno sentiamo storie come quelle che lui racconta, e credo che ciascuno di noi sappia che il male fatto ad altri, oggi, potrebbe essere fatto anche a lui, in qualsiasi momento».

Cosa pensa del conflitto in corso in Siria? Come ha fatto a inasprirsi fino alla situazione odiea e cosa potrebbe fare la comunità internazionale per fermare il massacro di civili?

«La guerra siriana si è inasprita perché ogni guerra, dall’inizio, è destinata a diventare sempre più dura, fino all’apice della violenza, se non la si ferma. Un’altra ragione dell’escalation sono le interferenze di altre potenze. Sembra che la Russia stia fomentando la guerra per trae vantaggi quando sarà finita. Putin ha definito la Siria “il migliore campo di addestramento per il nostro esercito”. Usa la Siria per promuovere le proprie armi, sta firmando contratti per vendere armi a molti paesi. Credo che la comunità internazionale non abbia fatto seri tentativi di fermare la guerra, fin dall’inizio. Non hanno mai nemmeno cominciato a pensarci, fino a quando l’Isis e le ondate di profughi non hanno iniziato a bussare alle porte. Ora stanno cercando di intervenire, sono in ritardo, ma non è troppo tardi. Se agissero sulla Russia e sull’Iran, che tutto sommato sono paesi piuttosto deboli, questi obbedirebbero».

Cosa pensa della crisi dei rifugiati in Europa? La maggioranza delle persone, sebbene abbiano diritto alla protezione internazionale una volta arrivate, viaggiano lungo rotte pericolose e spesso mortali. Quale potrebbe essere, secondo lei, un’alternativa?

«Fermare la guerra, in modo che i siriani che ora sono in Europa possano rientrare in Siria. Fino a quel momento, credo si dovrebbero accogliere i rifugiati diversamente. Andrebbero migliorate le condizioni di vita dei campi profughi in Turchia, Libano, Giordania, sostenendo l’apertura di scuole in questi campi e assegnando borse di studio universitarie agli studenti siriani. In questo modo credo che i paesi europei subirebbero meno conseguenze e si tutelerebbero anche dal rischio che molti giornali hanno evidenziato, di fare entrare terroristi nascosti tra i rifugiati».

Dove vede il suo futuro quando lascerà Chiusi?

«Non sono ottimista. Tra pochi mesi dovrò lasciare l’Italia, a meno che non trovi un lavoro o qualche altra opportunità. Sarà difficile per me e la mia famiglia, e sarà un nuovo shock per mia figlia lasciare un luogo e degli amici con i quali si è ambientata per spostarsi di nuovo in un luogo sconosciuto. Sarà difficile imparare una nuova lingua ora che sa benissimo l’italiano. Ma al momento non abbiamo un posto dove andare».

Giulia Bondi




Amoris Laetitia famiglia missionaria


«Saluto i partecipanti dell’Associazione Incontro Matrimoniale e vi ringrazio per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti» (Papa Francesco, 10/9/2016).

Il 19 marzo 2016 papa Francesco ha firmato Amoris Laetitia (AL), l’esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia frutto dei due sinodi dei vescovi del 2014 e del 2015.

Il documento si apre con un tono positivo: nonostante il pessimismo talora diffuso e le difficoltà oggettive che la famiglia incontra in ogni parte del mondo, AL afferma che nelle famiglie si vive la gioia dell’amore e che l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una bella notizia.

AL è il frutto del lavoro dei due sinodi, ma è scritto nello stile narrativo di papa Francesco che ha il dono di farsi capire perché parla il linguaggio della gente. La lettura e riflessione su questo ricco documento impegnerà ogni cattolico (è indirizzata a tutta la Chiesa e segnatamente «agli sposi cristiani») laico, ordinato, consacrato e verrà arricchita dai contributi dei vescovi e teologi e soprattutto da tanti sposi. Già ai sinodi erano presenti varie coppie di sposi che hanno dato un contributo con le loro testimonianze di vita.

AL non è anzitutto un’esposizione dottrinale sulla famiglia, ma una narrazione della realtà quotidiana nelle sue varie sfaccettature. È una miniera di informazioni. Nel capitolo quinto, «L’amore che diventa fecondo», vi sono pagine indimenticabili che descrivono la vita concreta della famiglia nei suoi vari membri: papà, mamma, figli, nonni. Si tratta quasi di un manuale, la cui lettura e meditazione offrono ispirazione e guida.

Nel capitolo sesto che presenta alcune prospettive pastorali, AL insiste sul fatto che «le famiglie cristiane sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo la testimonianza giorniosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche» (n. 200). «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone» (n. 201). In modo particolare AL chiede di guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio (nn. 205-11) e accompagnare gli sposi nei primi anni della vita matrimoniale (nn. 217-22).

Incontro Matrimoniale (Im)

Nella Chiesa esiste da oltre cinquant’anni un programma che è nato proprio da questa «conversione missionaria» che non si ferma a un annuncio meramente teorico sganciato dai problemi reali delle persone.

Si tratta dell’Associazione Incontro Matrimoniale, nata in Spagna verso la fine degli anni ’50 a opera di un sacerdote e una coppia di sposi: padre Gabriel Calvo e Mercedes e Jaime Ferrer. Im si è diffusa in America Latina e quindi in Usa, con il gesuita padre Chuck Gallagher. Dagli Stati Uniti è arrivata poi in circa 90 paesi in tutti i continenti col nome di Worldwide Marriage Encounter. In Italia si chiama Incontro Matrimoniale e ha iniziato a operare nel 1978 spargendosi progressivamente in quasi tutte le regioni, raggiungendo circa 40 mila coppie in tutta la penisola.

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Padre Mario Barbero a Lomé, Togo, con gruppo di Im.

Il Weekend (We)

L’esperienza di base è un weekend, dal venerdì sera alla domenica pomeriggio, durante il quale tre coppie di sposi e un sacerdote offrono testimonianze su vari settori della vita di famiglia e i partecipanti hanno tempo per «parlarsi» in coppia, rivedere gli aspetti del loro vivere insieme, rinnovando l’impegno di amore che era stato all’origine della loro decisione di sposarsi.

«Perché dopo sposati ci si parla sempre meno?», è questa domanda che ha dato origine all’esperienza di Im. L’esperienza dice che col passare degli anni i coniugi, presi da tanti altri assilli come il lavoro, i figli, la carriera, trovano sempre meno tempo per parlarsi, parlare di sé e dei propri sentimenti, e limitano spesso la loro comunicazione a livello di servizio, trascurando il dialogo che è essenziale per la relazione.

Riscoprire e gustare il dialogo di coppia

Nella vita di coppia e di famiglia l’amore va imparato, praticato, ricostruito, e chi può testimoniarlo meglio di una coppia di sposi?

È questo che mi ha colpito quando per la prima volta, nel 1978 in Kenya, partecipai a un We del Marriage Encounter e vidi come la testimonianza delle coppie fosse efficace per stimolare i partecipanti – coppie e preti – a rinnovare la loro relazione con il dialogo e in un certo modo a risposarsi. C’è una caratteristica del programma Im che è proprio in linea con quanto richiede la Amoris laetitia: «Non fermarsi a un annuncio solamente teorico». Le coppie animatrici del we presentano la vita matrimoniale e familiare nella loro concretezza e questo fa molta presa sui partecipanti.

Ho avuto la grazia di vedere l’efficacia di questo programma in varie parti del mondo, tra africani, americani, europei. Il we sposi è un’esperienza di conversione, tantissime coppie dicono «ha cambiato la nostra vita di coppia, il nostro modo di relazionarci».

Oltre al programma per sposi, Im ha sviluppato anche programmi per fidanzati, per giovani (Choice) e il weekend per famiglie (vedi www.incontromatrimoniale.org).

Un’altra realtà impressionante è il lavoro silenzioso e delicato di migliaia di coppie e centinaia di preti che, ovunque sia presente Im, preparano le loro testimonianze, si prestano ad animare i vari we e offrono molteplici servizi per accompagnare i coniugi, i fidanzati, i giovani. Tutte persone che hanno sperimentato una «conversione missionaria» e s’impegnano perché tante altre persone e famiglie scoprano che «la famiglia è davvero una buona notizia».

Nel mondo vi sono milioni di coppie che hanno sperimentato Im. In Italia sono circa 40.000. Ma come mai è così poco conosciuto? Forse perché non è direttamente legato a una diocesi o a una parrocchia, forse perché non viene pubblicizzato abbastanza, ma conosciuto piuttosto per passa parola.

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Testimoni

Gianfelice e Imelda Demarie di Torino, con don Antonio Del Mastro, parroco di San Damiano d’Asti, dal 2014 sono i responsabili nazionali di Im e ne cornordinano le varie attività in Italia.

A loro abbiamo chiesto cosa significa l’esperienza di Im e quali sono le sue prospettive in Italia.

Gianfelice e Imelda
«
Innanzitutto grazie, padre Mario, per quest’opportunità, e poi un altro grazie va a voi missionari della Consolata in quanto noi, proprio grazie a voi abbiamo potuto conoscere e vivere Im.

Ti conosciamo da sempre ma abbiamo cominciato ad apprezzare il tuo coraggio nell’estate del 1984 quando ti abbiamo visto in azione in Kenya in un’estate che ci ha cambiato un po’ la vita.

Nostro zio, padre Giuseppe Demarie, allora maestro dei novizi a Sagana, ci fece vivere quell’esperienza. Ci portammo a casa uno zainetto pieno di umanità, di sorrisi, di concretezza e di sogni. Cominciò da lì un rapporto nuovo con la “missione”. Toati in Italia e nel giro di poco tempo contagiammo molte famiglie italiane ad “adottare” una famiglia bisognosa del Kenya. Fu solo l’inizio: padre Giuseppe poi, influenzato da te e dal tuo operato con le coppie del Kenya, ci invitò al we che ormai esisteva anche qui in Italia.

Sono passati 24 anni da quel giorno e possiamo dire che I’esperienza del we ci ha permesso di vivere in modo migliore il nostro “sì” detto 10 anni prima. Il cammino proposto da Im ci ha aiutati a prendere consapevolezza della bellezza di essere sposati dando un significato diverso al sacramento del nostro matrimonio. La decisione di amare ci ha permesso di superare gli alti e bassi della vita quotidiana e ci ha fatto capire quanto fosse arricchente per noi uscire dal nostro guscio e donare il nostro amore agli altri.

Dal marzo 1992 (data in cui abbiamo scoperto Im) a oggi abbiamo avuto modo di conoscere tantissime coppie e sacerdoti meravigliosi e ognuno ci ha arricchiti con la condivisione delle loro esperienze e sfide».

Don Antonio
«
Mi ritengo un sacerdote particolarmente fortunato, perché, con l’associazione Incontro Matrimoniale ho scoperto la bellezza del team ecclesiale: ogni impegno viene vissuto insieme tra prete e coppia, le responsabilità sono condivise. Preghiamo insieme, condividiamo la nostra vita di tutti i giorni, le giornie e i dolori, le difficoltà sono affrontate insieme. Quando vado a cena da Gianfelice e Imelda io mi sento a casa. Le loro figlie si confidano affettuosamente con me. Tutte le settimane ci incontriamo e decidiamo insieme ogni iniziativa. Noi non siamo un’eccezione felice. In Im a tutti i livelli, ogni servizio è condiviso tra una coppia e un sacerdote o religioso/a. Ciò che l’Amoris Laetitia ci invita a fare nelle parrocchie, nel dare responsabilità alle coppie insieme ai sacerdoti, noi lo sperimentiamo già da molto tempo e troviamo che sia una testimonianza d’amore eccezionale.

Affinché i preti scoprano fin dall’inizio questa esperienza di comunione, abbiamo organizzato, nel giugno scorso, per la prima volta in Italia un we studiato in speciale modo per i sacerdoti, accompagnati da una coppia ciascuno. Hanno potuto aprire il loro cuore, affrontare insieme le loro delusioni e insuccessi, per scoprire quanto è bello amarsi e decidere insieme di essere missionari tornando nel proprio ambiente di vita. Gesù ha mandato i discepoli a due a due in missione. Anche oggi ritornare a vivere una Chiesa missionaria, dove la prima testimonianza viene dalla testimonianza del modo di vivere insieme, mi sembra la novità più bella».

Il team

«Concludendo in team vi condividiamo il nostro sogno che è anche il nostro programma:

essere sempre più inseriti nella Chiesa per essere di aiuto alle coppie, alle famiglie, ai giovani e ai sacerdoti e religiosi che desiderano approfondire e migliorare il loro cammino di relazione.

Un sogno che è stato confermato il 10 settembre scorso quando nell’udienza generale cui parteciparono settemila persone di Im da tutto il mondo, papa Francesco, salutandoci, ci ha ringraziato “per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti”».

Mario Barbero*

*Missionario della Consolata, biblista. Ha servito in Kenya, Stati Uniti, Congo Rd, Sud Africa e ora in Italia.




Brasile: dal folclore cultura e vita


In un mondo dominato dalle tecnologie digitali, dove molti ragazzi trascorrono troppo tempo di fronte a smartphone o computer, un’esperienza che aiuti a riscoprire fiabe, storie, filastrocche e danze tradizionali è davvero contro corrente.

È quello che hanno vissuto per una settimana tra il 22 e il 26 agosto scorso i ragazzi del Kilombo do Kioiô, a Salvador de Bahia, Brasile, per celebrare la giornata nazionale del folclore popolare.

I ragazzi del Kilombo non sono diversi dai loro coetanei di tutto il mondo e tutto quello che è digitale li affascina rischiando di far dimenticare loro le tradizioni popolari del loro stesso paese e di sradicarli dalla propria cultura. Per questo il gruppo di educatori di sostegno scolastico del Kilombo hanno proposto ai ragazzi di riscoprire i giochi, le fiabe e le danze dei loro coetani dell’era predigitale.

Saltare la corda, ascoltare storie come quella della «Mula senza testa» o danzare il «Bumba meu boi» erano attività comuni dell’infanzia nata prima del 1990 in Brasile, ma i ragazzi del Kilombo le ignoravano o le avevano viste solo in televisione.

La parola folclore dice rispetto delle manifestazioni culturali di un popolo. Queste manifestazioni possono essere raccolte e catalogate in libri, ma diventano parte della vita soprattutto quando sono trasmesse da nonno a nipote, da padre a figlio, attraverso la tradizione orale e l’immersione totale. Tutto può essere folclore: dalle fiabe che la mamma racconta per far addormentare i figli al canto dei bambini che fanno il girotondo durante la ricreazione a scuola, dalle danze tradizionali degli schiavi africani alle leggende della foresta amazzonica che alimentano l’immaginazione popolare. Tutto questo è folclore. E ogni regione del Brasile ha le sue esperienze.

Per questo gli insegnanti e i volontari del Kilombo hanno cercato di valorizzare elementi tipici dei cinque angoli del Brasile. Dal Nord i bambini hanno preso dagli Indios le danze tipiche come il carimbò e la ciranda, e le leggende di Curupira, il bambino con i piedi girati indietro che protegge la foresta, del Boto, il delfino rosa del fiume che si trasforma in un bambino, e quella Mãe-D’água, la bella sirena.

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Dal Sud del Brasile sono state riprese la danza della chula e la festa dell’uva e di Nostra Signora dei naviganti, e la fiaba di Saci-pereré, un bambino nero con una gamba sola, che usa un cappuccio rosso (come quello dei nani di Biancaneve) e vive nella foresta.

Dal Sudest hanno appreso leggende come quella del Lobisomen, l’uomo che si trasforma in lupo durante la luna piena, e la storia della Mula-sem-cabeça, una donna trasformata in una mula che ha il fuoco al posto della testa e vaga per sette città.

Dalla regione centro Ovest hanno scoperto la folia de reis, una festa in onore dei Re magi che portarono doni a Gesù bambino.

Il Nordest, la regione in cui si trova il Kilombo, ha dato il frevo (danza acrobatica con ombrellino), il bumba-meu-boi (danza con maschere rappresentanti un bue), il maracatu (parate in costume) e le cirandas (danze cantate che si fanno danzando in cerchio), tutte manifestazioni che arricchiscono la cultura locale.

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Oltre ad ascoltare le leggende, hanno potuto anche fare disegni, cuocere cibi tipici, partecipare a scioglilingua come la trava lingua (ripetizione di parole complicate e di difficile pronuncia) e «obbedire» alla boça de foo, nella quale uno che comanda dà ordini divertenti che devono essere eseguiti.

Tutti questi momenti si sono certamente fissati nella mente dei ragazzi che hanno partecipato al programma di recupero scolastico. Queste memorie saranno conservate e trasmesse non soltanto per il bene degli amici o dei familiari, ma anche per le future generazioni e anche per la cultura stessa del Brasile. Così il folclore popolare continuerà a far parte della loro vita, anche in un mondo sempre più informatizzato.

Diniz Viera

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