Pigmei piccolo uomo fratello mio

Nel Nord Kivu, un missionario a fianco del popolo della foresta

Congo RD
Silvia C. Turrin

Negli ultimi mesi c’è stata una recrudescenza dei massacri nell’Est del Congo. Qui gli interessi di potenze straniere e del governo centrale creano una situazione esplosiva. In questo contesto un missionario italiano lotta per la difesa dell’etnia più oppressa: i pigmei.

«Il mio pensiero va agli abitanti del Nord Kivu recentemente colpiti da nuovi massacri che da tempo vengono perpetuati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione. Fanno parte purtroppo dei tanti innocenti che non hanno peso sulla opinione mondiale».

Questo l’emblematico, coraggioso e condivisibile messaggio lanciato lo scorso mese di agosto da papa Francesco durante l’Angelus per la festa dell’Assunta, a seguito del massacro di civili avvenuto nella Repubblica democratica del Congo, per opera di un commando armato. Le vittime degli eccidi, nella zona Butembo-Beni (Nord Kivu), non sono quantificabili in modo esatto, ma fonti locali parlano addirittura di 500 morti, tra questi anche donne e bambini.

Un’annosa questione

Nell’Est Congo Rd la situazione è complessa. È in atto una guerra che ha le sue radici nella conquista del potere da parte di Paul Kagame in Rwanda, nel 1994. Da allora decine di milizie si combattono nel Sud e nel Nord Kivu, spesso appoggiate dai governi di Uganda, Rwanda e Burundi, talvolta in contrapposizione. I tre stati confinanti, da oltre 20 anni approfittano della guerra per sfruttare le ricchezze minerarie e forestali del Congo (vedi MC giugno 2016). Le milizie, molto sanguinarie, alcune composte da poche centinaia di uomini armati, si scontrano tra loro, talvolta contro le Forze armate congolesi (Fardc), ma sempre commettendo atrocità nei confronti dei civili.

«Nel Nord Kivu – afferma padre Antonio Mazzucato, classe 1938, sacerdote fidei donum della diocesi di Bolzano, e missionario nella diocesi di Butembo-Beni – sono in atto cruenti attacchi a danno della popolazione da parte di diversi gruppi armati. In particolare Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (costituita da hutu contro il regime tutsi di Kigali, ndr) e le Forze democratice alleate (ugandesi di fede islamica contro il governo di Uganda e Rdc, ndr).  In questo scenario la Monusco, la missione Onu per la stabilizzazione della Rdc, non riesce a proteggere la popolazione. I soldati Onu non fanno nulla per bloccare i massacri, intervengono troppo in ritardo. Si limitano a operazioni umanitarie. Inoltre, non contrastano, né denunciano, il traffico di minerali, come diamanti e coltan. Ed è proprio il quest’ultimo uno dei fattori che alimenta l’instabilità politica e i massacri» .

A causa del saccheggio delle risorse naturali, nel Nord Kivu continuano i massacri, nella più totale impunità. Secondo padre Gaston Mumbere, della congregazione degli Agostiniani dell’assunzione, soltanto in questa regione della Rdc si conterebbero 8 milioni di vittime negli ultimi vent’anni (si veda il rapporto Rapport du Projet Mapping, dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani). Un genocidio denunciato da padre Mumbere tramite una lettera appello, indirizzata lo scorso maggio a Joseph Kabila, in cui si legge: «A questo ritmo, voi potreste essere ricordato come il presidente dei morti, dei cimiteri, delle fosse comuni».

La missione Etabe

Padre Antonio opera in Nord Kivu dal 1989. Una regione difficile e al contempo straordinaria dal punto di vista naturalistico e culturale. Padre Antonio ha deciso di aiutare gli ultimi tra gli ultimi, i pigmei, con la creazione di un progetto concreto a loro favore. Chiamato inizialmente «Progetto pigmei Teturi», questo programma fu sottoscritto e sostenuto dall’allora vescovo di Butembo-Beni, monsignor Emmanuel Kataliko. Il progetto, nell’arco di pochi anni, pur con limitati mezzi a disposizione, si è radicato, tanto da coinvolgere diversi clan (o famiglie allargate) di pigmei nella partecipazione al suo sviluppo. Intanto, il nome è stato modificato in «Progetto pigmei Etabe». Etabe deriva dall’appellativo dell’originaria missione istituita nella prima metà del ´900 dai Piccoli fratelli di Charles De Foucauld, i quali stavano cercando di emancipare i pigmei. Anche per questo motivo, nel 1964, alcuni preti di questa comunità missionaria vennero uccisi dai ribelli Simba istigati, secondo padre Antonio, dal gruppo dei Babila. Questi ultimi erano e rimangono i principali oppositori di chiunque tenti di aiutare il popolo della foresta.

L’obiettivo del progetto è quello di offrire ai pigmei gli strumenti per sottrarsi al dominio-sfruttamento da parte  degli altri congolesi, e degli stranieri. L’emancipazione avviene a più livelli. Sul piano economico, con l’acquisizione di conoscenze legate all’agricoltura, come forma di integrazione delle fonti di sussistenza tradizionali quali caccia, pesca e raccolta. A ciò si aggiungono l’apprendimento di competenze legate all’artigianato del legno, alla meccanica, alla sartoria.

Sul piano politico, sostenendo una forma di autonomia giuridica e amministrativa delle popolazioni pigmee, all’interno dell’ordinamento dello stato. Sul piano culturale, appoggiando l’istruzione dei pigmei attraverso scuole gestite da loro stessi, per proteggere e valorizzare le varie forme espressive e artistiche originali. Sul piano religioso, l’annuncio evangelico viene inserito rispettando la religiosità dei pigmei.

Padre Antonio, appoggiato dal fratello Benito, insegnante in pensione, da Alexandre Muhongya, già collaboratore dei Piccoli fratelli di De Foucauld, e da padre Piero Lombardo (poi spostatosi verso Sud, oltre Byakato), ha continuato a consolidare il progetto Etabe. A ciò hanno contribuito alcuni gruppi pigmei, i quali hanno aiutato a costruire le capanne in legno e fango, ricevendo in cambio assistenza sanitaria e beni di prima necessità, come cibo e vestiario.

I diritti dei pigmei

Il progetto Etabe si è sviluppato a partire dal 1994, quando venne edificata la missione a Mikelo-Kadodo, poi chiamata semplicemente Kadodo. Sempre con l’aiuto dei pigmei, sono state realizzate diverse opere, tra cui una cappella in legno, bambù e lamiere ondulate; un laboratorio di falegnameria; un magazzino; un ufficio; un piccolo refettorio; una cucina con l’alloggio per il personale della cucina; un piccolo dispensario con camera da letto per le infermiere; un laboratorio di sartoria.

Nell’arco di quasi 30 anni molto è stato fatto, sia per proteggere la cultura e le attività tradizionali dei Pigmei, sia per fornire loro conoscenze teorico-pratiche al fine di alfabetizzarli e insegnare utili saperi artigianali.

«Con il progetto aiutiamo i pigmei a convivere con la modeità, e allo stesso tempo manteniamo viva la loro cultura e la loro civiltà. Per esempio, quando inizia il periodo dedicato alla caccia tradizionale, i bambini al mattino non frequentano la scuola, ma sono liberi di andare in foresta coi genitori per imparare a cacciare. Gli scolari sono accompagnati anche dai maestri che insegnano loro le caratteristiche e i nomi delle piante e degli animali. È una conoscenza diretta della natura che li circonda e da cui traggono sostentamento. I maestri, dopo l’esperienza sul campo, danno loro dei compiti da svolgere».

Continua il missionario: «Questo metodo è importante per valorizzare la loro cultura, per permettere ai pigmei di capirla a fondo, documentarla. In questo modo non rischia di andare perduta. Vivendola e praticandola viene conservata. Ma l’economia di caccia non è più sufficiente per permettere loro di sopravvivere. Decenni fa, nella foresta, vivevano poche centinaia di persone, e i clan di pigmei si suddividevano le zone. Con l’arrivo degli stranieri, delle multinazionali del legno, dei cacciatori e dei bracconieri, la selvaggina e le altre risorse naturali sono sempre più scarse. In passato i pigmei cacciavano secondo i bisogni quotidiani, rispettando il ciclo ecologico. Ma ormai anche questa attività non sempre da risultati.

Inoltre è sempre più pericoloso andare a caccia o raccogliere erbe e frutti, a causa della presenza di mine antiuomo.

Ecco che insegnando non solo a leggere e a scrivere, ma anche conoscenze di meccanica e di falegnameria, i pigmei imparano un mestiere. Da qui la decisione di creare gli atelier artigianali. Quando hanno appreso bene le tecniche, foiamo ai pigmei l’attrezzatura per lavorare. Così vanno al villaggio più vicino e riparano le bici o le motociclette».

Un progetto scomodo

Proprio perché difende i diritti di questo popolo, padre Antonio ha subito minacce. Più volte la missione e la sede del progetto Etabe sono state prese di mira da ribelli e da chi è contrario a una possibile emancipazione dei pigmei. «Nel 2003 – ci racconta padre Antonio – i soldati governativi hanno distrutto e saccheggiato la missione che avevamo a Etabe. Hanno portato via attrezzi di meccanica, falegnameria e strumenti elettrici. Nel fango e in mezzo all’erba hanno lasciato brandelli di abiti, quadei e libri della scuola». Secondo padre Antonio quel saccheggio nascondeva la volontà di attuare un genocidio programmato contro la popolazione dei pigmei. Questi si sono salvati miracolosamente grazie alla pronta fuga e poi all’intervento degli osservatori Onu, all’epoca guidati dal generale italiano Roberto Martinelli.

Ci spiega padre Antonio: «Per farmi paura i soldati governativi hanno persino divelto materassi e sollevato i mattoni del pavimento di casa, perché pensavano avessi nascosto qualcosa di prezioso. Mi hanno distrutto tutto alla missione. Per ben due volte ho ricominciato da zero.

Nel 2015 sono dovuto fuggire con mio fratello, perché i gruppi ribelli erano arrivati vicino a casa nostra. Nella missione a Etabe, in piena foresta, non possiamo più andare perché è circondata da milizie. A Mangina (località a 65 km dalla missione, ndr) sono state saccheggiate numerose case. Il parroco locale ci aveva esortato ad andarcene. Anche lui è stato costretto a scappare. A Beni vengono ammazzate in media due persone al giorno. L’Onu è un semplice osservatore. I caschi blu distribuisce la carità. Non intervengono. Si spostano protetti nei loro fuoristrada».

Voglia di continuare

Tante amici in Italia hanno implorato padre Antonio di abbandonare il progetto, di non rischiare più andando in una zona così pericolosa. Ma lui non si perde d’animo, nonostante sia stato minacciato più volte dal capo locale dei Babila: «Questo gruppo è contrario al progetto per varie ragioni», ci dice padre Antonio. «La più importante è razziale. I pigmei non sono considerati uomini e la loro etnia non viene riconosciuta a livello ufficiale. Questo accade da sempre, sin da prima del colonialismo. Poi con Mobuto la situazione è peggiorata. I pigmei durante il mobutismo venivano costretti a sposarsi e a mescolarsi con le altre etnie, per far sì che, progressivamente, la loro scomparisse. Ma la discriminazione verso i pigmei la si può vedere anche in coloro che apparentemente fanno del bene. Per esempio, chi va in Africa con l’idea che si debba “civilizzare” gli africani è spinto da un principio razzista, a scopo di bene, certo, ma è comunque mosso da atteggiamenti patealistici e di superiorità. Tante volte, quando faccio notare questa subdola forma di razzismo, mi si obietta: “Ma come? Tu non civilizzi quella gente”? E io immancabilmente rispondo che “No, io mi sono fatto civilizzare dai pigmei, perché ho imparato il rispetto delle culture proprio stando con loro”».

A padre Antonio e a suo fratello le autorità non hanno concesso una scorta per la protezione nei loro spostamenti. «Noi abbiamo richiesto la scorta a Beni – ricorda padre Antonio – e ci hanno risposto che dovevamo rivolgerci agli uffici della sicurezza di Kinshasa. I funzionari a Kinshasa ci hanno detto che dovevamo munirci di determinati documenti. E così è iniziato il girone infinito della burocrazia congolese. Rimane il fatto che non abbiamo ancora la scorta. Negli ultimi anni, anche da parte dell’Onu non ho trovato appoggi. Solo alcuni amici locali ci aiutano».

Nonostante la mancanza di sicurezza, padre Antonio, in Italia per vacanza “forzata”, sta già pianificando il ritorno nel Nord Kivu. «È da tempo che non riesco a raggiungere la mia missione a causa dei massacri. Sono stato costretto più volte a fermarmi a Mangina, perché la strada era taglieggiata dai soldati e dai banditi. Anche se cammino col bastone devo tornare. I pigmei mi aspettano, hanno bisogno che continui la mia opera».

Silvia C. Turrin


Archivio MC

Abbiamo parlato di pigmei in: Marco Bello, Echi dalla foresta, ottobre 2012.

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Silvia C. Turrin
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