Etiopia: Addis Abeba capitale d’Africa


Un paese in forte crescita dove grandi restano le disuguaglianze. La capitale si espande e si dota di modee tecnologie. Ma le tradizioni permangono radicate, come l’orgoglio di un popolo mai colonizzato. E adesso si avverte una massiccia penetrazione cinese. Impressioni di un visitatore speciale.

A volte è difficile tornare in un posto che si è amato. Si ha paura di rovinae la memoria bella e intensa che per molto tempo si è serbata con piacere, e che spesso si è utilizzata per ravvivare certi periodi un po’ spenti. Si teme che questo ricordo svanisca, che quel posto perda il suo fascino particolare e diventi come tutti gli altri.

È un po’ come quando si deve rincontrare una persona speciale dopo tanti anni, e si ha il timore che adesso la si sentirà come una qualunque.

Se c’è una cosa che colpisce sempre, giungendo ad Addis Abeba, è la vicinanza dell’aeroporto al centro. Appena il tempo di svolgere le formalità di sbarco, e ci si trova immersi nella capitale d’Africa, con il suo traffico caotico e le sue sfilate di palazzoni che stanno crescendo come funghi. Questo però me l’aspettavo, perché non c’è rivista o sito specializzato che abbia ignorato la vorticosa trasformazione urbanistica della metropoli etiope, del resto comune a molte città africane. Tuttavia, sfogliando i giornali non si può immaginare la sensazione che si prova nel trovarsi di fronte a una serie di condomini in costruzione a perdita d’occhio.

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Orgoglio di popolo

Tredici anni fa ero rimasto a bocca aperta nel visitare le straordinarie chiese di Lalibela, i castelli di Gonder, le stele di Aksum. Tuttavia, ciò che in Etiopia mi aveva colpito non si limitava alle ricche vestigia del passato, ma era stato il senso di nazione, l’orgoglio di popolo, l’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura. A differenza degli altri stati africani nei quali avevo fin lì operato, in Etiopia non avevo riscontrato malcelati sensi d’inferiorità, rancori o impulsi di rivalsa. In altri termini, non ci avevo trovato quell’eredità strisciante del colonialismo che spesso si manifesta con un timore inconscio di non essere messi sullo stesso piano degli occidentali, di essere considerati «inferiori», e che provoca una spinta compulsiva a farsi continuamente sentire, in un modo o nell’altro.

Gli etiopi non sono mai stati colonizzati, e i cinque anni di occupazione italiana non ne hanno minimamente intaccato l’«etiopicità». Anzi, come è avvenuto per tutti gli attacchi che il paese ha dovuto affrontare nel corso della storia, la volontà di resistere al colonialismo fascista l’ha sicuramente rinforzata.

Nuovi rischi

L’Etiopia, nel suo affascinante percorso storico, è riuscita a passare indenne attraverso mille vicissitudini, trasformandosi senza mai snaturarsi. Ma ora, che il paese si è spalancato agli investimenti cinesi, le sue terre sono avvilite dal land grabbing (accaparramento delle terre da parte di multinazionali straniere, ndr), le sue tradizioni sottoposte alla lente banalizzante del turismo di massa, l’etiopicità riuscirà a conservarsi? Si troveranno ancora tracce della «restaurazione ciclica» di un sistema feudale che sembra costituire, nelle sue forme sempre cangianti, una costante della storia etiope? La scomparsa del carismatico primo ministro Meles Zenawi, ex guerrigliero e padre dell’originale federalismo su base etnica, sostituito nel 2012 dal più «anonimo» Haile Mariam Desalegn, interromperà la serie di «imperatori de facto» che si sono succeduti alla guida del paese?

Al mio ritorno, fin dai primi passi ritrovo subito quella tipica capacità etiope di «accogliere questo ma non quello», che avevo spesso riscontrato. Nemmeno due anni fa, il mondo degli affari si era stupito della decisione del governo di Addis Abeba che aveva messo sul mercato titoli pubblici a scadenza decennale (subito andati a ruba) per l’ammontare di un miliardo di dollari. Tuttavia, nonostante tale apparente apertura alla «modeità», in Etiopia si vedono solo insegne di banche locali. Molte hanno aperto una filiale nella zona del Merkato, l’esteso quartiere nel quale si vende di tutto. A dispetto delle migliaia di piccoli commercianti che trascorrono le giornate seduti per terra a contrattare la loro povera merce con avventori di varia estrazione sociale, in questo rione si concludono affari milionari.

Tra i fasci di povere galline legate fra loro e i mucchi di vestiti usati, trovo anche le mele dell’Alto Adige, a un prezzo decisamente elevato. Ma chi le comprerà mai? Non faccio in tempo a chiedermelo, ed ecco un anziano signore acquistarle senza batter ciglio.

Rivedo dunque un’altra caratteristica etiope: l’assenza di una netta separazione fra livelli di reddito molto diversi, ben visibile anche nell’organizzazione (o disorganizzazione…) urbanistica della capitale. Priva di un vero e proprio centro, alterna modei edifici di 20 piani a piccoli agglomerati di tuguri, senza che si possa parlare di quartieri ricchi e quartieri poveri. Quest’assenza di ghetti le consente di avere un tasso di delinquenza decisamente basso, specie se comparato a quello delle sue «sorelle» africane. Ad Addis Abeba, infatti, si può tranquillamente passeggiare a tutte le ore. E i suoi abitanti, che durante il giorno si dedicano a ogni tipo di attività per sbarcare il lunario, conferendo alla metropoli un aspetto brulicante, alla sera non disdegnano ritrovarsi con gli amici negli onnipresenti locali in cui si ascolta musica, per lo più etiope.

La domenica, invece, oltre a partecipare alle cerimonie ortodosse e incontrare i parenti, migliaia di giovani corrono o improvvisano partite di calcio negli spiazzi erbosi ancora rimasti fra un quartiere periferico e l’altro, dove sorgono orti e pascolano bovini. Appassionato di atletica, vado a farci una corsa anch’io, anche se la mia età è un po’ meno verde e i 2.400 metri di altitudine si fanno sentire. Tuttavia, è una buona occasione per relazionarmi in maniera più agevole di quanto solitamente avvenga nelle altre nazioni del continente. Qui, infatti, mi trattano tutti alla pari, e nessuno sembra guardarmi come un «bianco», ma tutt’al più come uno dei tanti stranieri che giungono da ogni dove.

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Le grandi opere

Nei programmi del governo, lo sviluppo del paese dovrebbe basarsi in larga parte su una serie di grandi opere, la più mastodontica delle quali risulta essere la Grand Ethiopian Renaissance Dam, cioè la Grande Diga del Rinascimento Etiope: un ciclopico muraglione alto 175 metri e largo 1.800, che sbarrerà il Nilo Azzurro prima di entrare in Sudan, formando un bacino di oltre 1.500 km2 (cioè come mezza Valle d’Aosta). Con le sue 16 turbine che potranno sviluppare una potenza di 6mila megawatt, vi sorgerà la centrale idroelettrica più grande d’Africa, l’undicesima al mondo. Fra mormorii e sospetti per l’assenza di gara d’appalto, l’incarico per la costruzione di quest’opera faraonica, ormai completata per più di metà, è stato assegnato all’italiana Salini Impregilo. Nulla di nuovo, quindi, rispetto a quanto già accaduto nella Valle dell’Omo. Assommando le altre aziende estere che foiranno le varie componenti, il costo totale dovrebbe ammontare a 4,8 miliardi di dollari, dei quali 1,8 finanziati dalla Cina e i rimanenti tre a carico dell’Etiopia stessa. C’è dunque da attendersi ulteriori emissioni di bond da parte del governo di Addis Abeba. Resta da vedere cosa accadrà quando questi, con il loro tasso d’interesse superiore al 6,5%, giungeranno a scadenza fra 10 anni.

Secondo l’esploratore scozzese James Bruce, che aveva visitato il paese nel ‘700, il mitico re etiope Lalibela aveva progettato già 8 secoli fa la costruzione di alcune dighe sul Nilo Azzurro, con lo scopo di ostacolare l’irrigazione delle terre d’Egitto, così da affamarlo e poterlo facilmente conquistare. Non si sa se tale piano sia mai stato realmente concepito, ma adesso che il fiume viene davvero sbarrato, è proprio il governo del Cairo a sollevare le principali obiezioni. Il Sudan, da parte sua, vede la diga di buon occhio poiché si trova a metà fra Khartoum e Addis Abeba, e l’energia elettrica prodotta raggiungerà entrambi i paesi. Ma l’Egitto, seppur dovrebbe anch’esso beneficiae, non è così sicuro che l’operazione sarà conveniente, anche perché vedrà diminuire la sua percentuale di sfruttamento del grande corso d’acqua. In passato, i governi Hosni Mubarak e Mohamed Morsi avevano proferito aperte minacce, ma ora la situazione, seppur fra mille discussioni e contrasti, pare un po’ più tranquilla. In ogni caso, l’Etiopia non ha mai vacillato nella sua idea di portare a termine l’impresa, costi quello che costi.

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L’ossessione per le guerre

Dopo il conflitto fratricida con l’Eritrea, negli ultimi tre lustri l’«ossessione» etiope per le guerra sembra essersi affievolita. Ma un giovane militare con il quale mi trovo a chiacchierare, mi offre un esempio della storica fierezza dei combattenti locali. Quando, davanti al suo kalashnikov che esibisce in bella mostra, gli dico scherzosamente di non spararmi, per tutta risposta si fa serio e mi ribatte piccato: «Non sono mica un pericolo pubblico, sono un soldato della Repubblica Federale d’Etiopia e sono stato addestrato a comportarmi in modo professionale!». Molti si chiedono come mai, nonostante le numerose azioni incisive portate avanti da reparti etiopi in Somalia, il paese non abbia subito attacchi terroristici della portata di quelli registrati nel vicino Kenya, anch’esso militarmente impegnato oltreconfine.

Trovandomi ad Addis Abeba, non posso rinunciare a un giro sull’ultima novità: la prima metropolitana dell’Africa subsahariana, entrata in servizio nel settembre 2015 e costata 475mila dollari. Oltre alla costruzione e alla foitura del materiale rotabile, Pechino si sta occupando anche del funzionamento: per un paio d’anni, i macchinisti alla guida dei treni saranno cinesi, gradualmente sostituiti da personale etiope sotto loro sorveglianza.

Percorro poi la nuova autostrada verso Sud e, di fronte ai carrettini e agli asinelli che procedono contromano, mi chiedo quante persone beneficino davvero di tali investimenti. Infatti, dopo più di un decennio con tassi di crescita del Pil mediamente superiori al 10%, ci si trova ancora di fronte a una maggioranza della popolazione, che ormai raggiunge i 100 milioni di abitanti, costretta a vivere con meno di due dollari pro capite al giorno. Una grande povertà, ma anche una forte capacità di accoglienza dei profughi (calcolati in circa 750mila persone), che ha stupito il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella durante la visita di stato del marzo scorso. In capitale, dove giungono molti mendicanti, sempre più persone si scostano dalle indicazioni sia ortodosse sia musulmane, per le quali ogni soldo donato sarà lautamente ricompensato in paradiso, ma pretendono che il governo sia più incisivo nei programmi di lotta alla povertà, in modo da evitare che molti bambini non vedano altro futuro che l’accattonaggio.

Seppur fra mille cambiamenti, posso affermare di aver ritrovato l’Etiopia di sempre, con le sue meraviglie e i suoi orrori, che offre fascino o sgomento a seconda di come la si guardi. Quell’Etiopia difficile da inquadrare, soprattutto se ci si ostina a utilizzare i consueti parametri statistici. Si tratta infatti di un paese nel quale, in statistica, possono anche coesistere diverse quote superiori al 50% nello stesso conteggio, o i cui confini interni risultano alquanto elastici, così come certe regole grammaticali. Basta ad esempio chiacchierare con le persone, per capire che la maggioranza della popolazione può essere cristiana, oppure musulmana, a seconda dell’interlocutore. E basta mettere in atto delle iniziative in certi villaggi, per accorgersi di come questi cambino di regione a seconda che si tratti di ricevere fondi per lo sviluppo o essere sottoposti a tassazioni. Chi poi non riesce a lavorare senza avvalersi di supporti informatici, può sempre impazzire a trovare delle traduzioni univoche per trasferire i nomi propri delle località dall’amharico (con i suoi 260 segni sillabici) al nostro scao alfabeto.

Insomma, oggi come ieri, risulta pienamente valida l’affermazione, espressa nel 1968 dal linguista eritreo Abraham Demoz: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».

Repressioni estive

Nel momento in cui scrivo, giungono notizie delle ennesime manifestazioni soffocate nel sangue. Sarebbero oltre 100 i morti nel solo fine settimana del 6-7 agosto. Le proteste erano iniziate l’inverno scorso a causa di un programma, poi abrogato, volto ad allargare la giurisdizione della capitale: una città in piena espansione che ha bisogno di nuove terre edificabili, pestando così i piedi all’Oromiya, la regione che la ingloba e che, storicamente, si sente schiacciata dal potere centrale. Nel contempo, attivisti amhara sono scesi in piazza per rivendicare la territorialità di alcune aree a Nord di Gonder, ora incluse nella regione del Tigray, e anche qui l’intervento delle forze governative (apertamente filo tigrine, da ormai 25 anni) ha provocato numerose vittime. In entrambi i casi, si tratta del difficile rapporto tra centro e periferie, reso più aspro dall’ineguale distribuzione dei profitti derivanti dalla vorticosa crescita economica.

Alcuni analisti fanno notare che gli Amhara e gli Oromo sembrano finalmente in grado di superare gli annosi contrasti, così da coalizzarsi nella richiesta di una maggiore democrazia. Se così fosse l’Etiopia potrebbe rivestire un ruolo faro nell’indicare alle altre nazioni del continente una via africana allo sviluppo. Lo dimostrano i molti oppositori che, nelle loro feroci critiche al governo, si mostrano costruttivi e motivati da un grande amore per il proprio paese, manifestando un’apprezzabile larghezza di vedute. Niente di meglio per sfatare il luogo comune dell’africano che non riesce a guardare al di là del proprio gruppo etnico e delle proprie necessità immediate. Emblematico, a questo proposito, quanto accaduto alle recenti Olimpiadi di Rio. Feyisa Lilesa, fortissimo maratoneta etiope (di etnia oromo), ha tagliato il traguardo conquistando la medaglia d’argento. Al termine della gara il suo pensiero è andato alle proteste della sua gente soffocate nel sangue. E allora ha deciso di ripetere il gesto che tanti altri giovani stavano facendo in quei giorni per le strade d’Etiopia: le braccia alzate, con i polsi incrociati, a mimare le manette alle quali va incontro chi richiede un maggior rispetto dei diritti civili.

La protesta nonviolenta dell’atleta etiope ci fornisce qualche briciolo di speranza in più.

Alberto Zorloni

Alberto Zorloni veterinario tropicalista, ha operato in diversi paesi africani e centroamericani. Originario di Varzo, Piemonte, si è laureato a Milano; è specializzato ad Anversa (Belgio) e ha conseguito un master di ricerca in etnoveterinaria a Pretoria (Sudafrica). Ha pubblicato Ripartire da ieri (Emi), di cui MC ha scritto sul numero di agosto-settembre 2015. Alberto è tornato in Etiopia nel 2016, dopo averci lavorato un anno nel 2003.

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