Le lettere

«Vendi tutto…»

Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.

Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.

Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.

Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…

R. S. – 12/04/2016

Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).

• Immobili religiosi.

È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.

Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.

• Smaltire i tesori.

Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.

Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.

• Distribuire è facile.

Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.

• Dar l’esempio.

È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.

• Giustizia.

La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.

 

Europa

Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini – 18/04/2016

Di Afrikaneer e di Cristeros

Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.

1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.

2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.

Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».

Claudio Bellavista – 02/04/2016

Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.

La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.

C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.

Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.

Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.

Copie non recapitate

Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.

M. C. – 23/04/2016

Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.

Gianni Minà

Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.

Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016

I primi in Mozambico

Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.

Fratel Torta Francesco –  Cavi di Lavagna (GE)

Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.

Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.