Vaticano museo etnologico: l’anima mundi dei musei vaticani


È “riconnessione” la parola d’ordine che orienta il lavoro del Museo Etnologico dei Musei Vaticani: gli oggetti non sono solo opere d’arte da ammirare per la loro bellezza ma sono soprattutto ambasciatori culturali delle comunità da cui provengono. A sottolineare questo aspetto relazionale dell’etnologia è padre Nicola Mapelli, missionario del PIME e responsabile del Museo, durante la presentazione in sala Raffaello della Pinacoteca dei musei vaticani il 24 maggio del catalogo Le Americhe, che raccoglie e racconta circa duecento opere fra i diecimila manufatti americani in possesso del museo. «A noi piace chiamare il museo “anima mundi” e fae un luogo che dà valore alla memoria di queste culture, e non solo alla memoria del passato ma anche a quella del presente».

La lunga ricerca che ha portato alla stesura del catalogo e anche al nuovo allestimento museale non è si è svolta soltanto negli archivi e nei depositi, ma ha visto il missionario impegnato, in collaborazione con la studiosa australiana Katherine Aigner, in una serie di viaggi dall’Alaska alla Terra del Fuoco: «si è trattato soprattutto di incontrare delle persone, di sentire la loro anima e portarla nel museo». Lo studio ha consistito spesso nel mostrare le foto dei manufatti alle comunità e cercare insieme a queste di ricostruie la provenienza, l’origine, il significato.

(padre mapelli e Katherine Aigner Chiara Giovetti x MC)
Padre Mapelli e Katherine Aigner (by Chiara Giovetti x MC)

Un esempio concreto citato da padre Mapelli di questo dare anima al museo è il suo incontro con l’ottuagenaria cilena figlia di Juan CalderAnche a causa dell’incontro con l’Occidente, ha ricordato padre Nicola, i popoli nativi americani hanno perso molte delle loro tradizioni; per molte di quelle comunità è importante sapere che ora i Musei vaticani custodiscono con cura gli oggetti che di quelle tradizioni sono le testimonianze tangibili. A volte le popolazioni indigene chiedono di poter usufruire dei manufatti per impegnarsi loro stessi direttamente in un’opera di ricostruzione e recupero della loro identità.

Il Museo Etnologico nacque per iniziativa di papa Pio XI nel 1925 in seguito all’Esposizione Vaticana, occasione il cui arrivarono migliaia di opere da tutto il mondo andando ad arricchire la già esistente collezione, che conta oggi centomila pezzi da tutto il pianeta; la raccolta sistematica delle opere è fatta risalire dalla maggior parte degli studiosi al 1692, anno dell’invio a papa Innocenzo XII di cinque sculture precolombiane in legno realizzate dai Tairona della Colombia.

La componente missionaria della Museo è sempre stata e rimane forte: molti oggetti sono il dono delle comunità americane ai pontefici per mezzo dei missionari in segno di pace e di amicizia fra i popoli indigeni e il cristianesimo. Questo far da tramite dei missionari, poi, è il frutto del loro impegno nel comprendere, valorizzare e difendere le culture native.

L’incontro fra popoli americani e religione cristiana si esprime anche nella composizione di alcuni manufatti, che mettono insieme simboli cristiani con elementi nativi: ad esempio la croce donata dagli Inuit dell’Alaska ha un orso al posto del Cristo, poiché l’animale rappresenta per questo popolo l’onnipotenza.

Quetzalcoatl e il Codice Borgia alle sue spalle (Chiara Giovetti x MC)
Quetzalcoatl e il Codice Borgia alle sue spalle (Chiara Giovetti x MC)

Maschera yahgan donata da Juan Calderon e cestino della signora Calderon (Chiara Giovetti x MC)
Maschera yahgan donata da Juan Calderon e cestino della signora Calderon (Chiara Giovetti x MC)

Non è un caso, hanno sottolineato i relatori e, in particolare l’arcivescovo di Merida Mons. Baltazar Enrique Porras Cardoso, che questo catalogo e il nuovo allestimento museale arrivino durante il pontificato di Francesco, che ha fra i suoi temi centrali l’ecologia e la valorizzazione della religiosità popolare. Insieme al patrimonio naturale, ha ribadito Monsignor Cardoso, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale ugualmente minacciato. L’ecologia quindi richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità; il grande merito del lavoro di Mapelli e Aigner è quello di «dare voce alla cultura e all’arte di popoli solitamente ai margini dell’attenzione».

Quanto alla religiosità popolare l’arcivescovo ricorda le numerose riflessioni di cui essa è stata l’oggetto, prima fra tutte quella contenuta nel documento di Aparecida, prodotto dalla Conferenza Generale dei Vescovi Latinoamericani e dei Caraibi del 2007. Questa religiosità popolare ha concluso Monsignor Cardoso è «un modo legittimo di vivere la fede e di sentirsi parte della chiesa, non una manifestazione secondaria».

Chiara Giovetti

Intervento di mons. Cardoso (Chiara Giovetti x MC)
Intervento di mons. Cardoso (Chiara Giovetti x MC)


 Leggi anche di padre Giorgio Licini:
http://www.mondoemissione.it/chiesa/riapre-il-museo-etnologico-vaticano-passando-per-le-americhe/#.V0WqNDB2Pk0.facebook




Rd Congo massacri nel Beni


I territori di Beni, Butembo e Lubero nella provincia del Nord-Kivu all’est della Repubblica democratica del Congo sono da decenni vittimi di massacri di civili. Una lettera aperta del 14 maggio 2016 mandata dai cornordinatori locali dei gruppi della società civile di Beni, Lubero e Butembo al presidente della Repubblica, Kabila, riporta che solo negli ultimi due anni sono stati registrati più di 1116 persone ammazzate e altre 1470 rapite; più di 1750 case incendiate (molto spesso con dentro i loro abitanti), 13 centri di salute incendiati (anche in questo caso con malati e personale sanitario all’interno); 27 scuole distrutte, altre abbandonate, altre ancora occupate o da rifugiati, o da “dipendenti” militari, o dagli stessi gruppi armati; ci sono villaggi interi completamente assediati e occupati da gruppi ribelli, e si tratta di Kyoto, Katundula, Ivombo, Mwekwe, Mukeberwa, Fungulamacho, ecc. (http://www.rfi.fr/afrique/20160517-rdc-kabila-adf-massacres-beni-lettre-ouverte-gilbert-kambale , http://www.radiookapi.net/2016/05/09/actualite/securite/massacre-de-beni-le-commandement-de-loperation-sokola-i-delocalise )

In queste zone la popolazione spesso si ritrova abbandonata a sé stessa, la polizia o le forze armate nazionali essendo quasi inesistenti. L’insicurezza è totale, e la situazione profondamente drammatica.

I gruppi armati all’est della RDC sono numerosi. I principali registrati negli ultimi 20 anni sono: M23, Fdlr, Fdlr-Soki, Fdlr-Rud, Fdlr-Soka, Fdlr Mandevu, Raia Mutomboki, Mai Mai Sheka, Mai Mai Kifuafua, Fdl, Fdc, Upcp/Fpc, Mac, Mpa, Mai Mai Morgan, Mai Mai Simba, Adf-Nalu, Lra, Fnl, Mai Mai Yakutumba, Mai Mai Nyatura, Fdipc, Apcls, Cogai/ Mrpc, Frpi, Kata Katanga, Fdn, M18, M26. (http://www.irinnews.org/fr/report/99057/briefing-les-groupes-armés-dans-l’est-de-la-rdc)

Ben una trentina di gruppi armati che l’esercito regolare e le truppe dell’Onu non riescono a controllare e contrastare, e continuano a seminare terrore in mezzo alla popolazione di questa parte del paese.

Gli ultimi orrori riportati sono stati le uccisioni del martedì 3 maggio nelle località di Minibo e di Mutsonge attribuiti ai ribelli islamici ugandesi appartenenti al gruppo ADF-NALU. Decine di persone sono state freddamente uccise con macete, coltelli e asce. Minimbo e Mutsonge sono due quartieri situati a Nord-Est della citta di Beni nel Nord-Kivu, poco lontano da dove l’esercito nazionale (Fardc) e le truppe dell’Onu (Monusco) hanno le loro basi. L’Adf-Nalu è un gruppo ribelle di origine ugandese che opera a ovest della catena del Ruvenzori nel Beni. È stato fondato nel 1995 e ha come scopo l’instaurazione di uno stato islamico in Uganda. È legato al gruppo somalo di Al-Shabab.

(per un tristissimi catalogo di immagini basta digitare “massacres de Beni RDC”)




Cari missionari

Farinella

Spettabile redazione,
vedo che Paolo Farinella, prete, come si firma, continua a scrivere su Missioni Consolata come esperto commentatore della Bibbia. Non metto in dubbio che Farinella sia un esperto biblista, mi domando però se sia anche un cristiano. Ho ritrovato un articolo che era apparso su La Repubblica il 30 aprile dello scorso anno. Già allora avrei voluto scrivervi, ma avevo perso l’articolo in questione (nel quale Farinella attaccava apertamente Renzi come uccisore della democrazia e quindi da eliminare come  se fosse un tiranno, ndr). […] Ora io non ne faccio una questione politica ma etica; fra l’altro non sono un ammiratore del presidente del consiglio. Farinella identifica Renzi come un tiranno da uccidere, parla di andare in montagna a fare la resistenza come se Renzi fosse Mussolini, il Mussolini di Salò. Ciò mi ricorda quello che qualche intellettuale scriveva negli anni Settanta a proposito del governo e della Dc e che spinse qualche giovane a darsi al terrorismo. Ebbene, io gli anni settanta li ricordo e non voglio più leggere una rivista che ospita un collaboratore che scrive in modo simile a quegli intellettuali degli anni Settanta, che furono poi definiti «cattivi maestri». Vi prego perciò di togliere il mio nome dalla vostra mailing list.

Paolo Cozzi
Milano, 11/03/2016

I rapporti tra questa rivista e don Paolo Farinella sono ben chiari da tempo: collabora con noi soprattutto per quell’ottimo biblista che è lasciando in secondo piano il cittadino appassionatamente impegnato in politica, quella con la «p» maiuscola, la più grande virtù civica e sociale.

Separati chiaramente i due ambiti, stiamo lavorando insieme in amicizia e rispetto reciproco. Qualcuno, anche tra i miei passati superiori, ha pensato che questa fosse una scelta di comodo, come se di don Paolo noi «usassimo» solo quella parte che ci conviene chiudendo non solo un occhio, ma tutti e due, sulle sue posizioni critiche rispetto alla politica, alla Chiesa e al papa stesso. I direttori miei predecessori, e io stesso, abbiamo ricevuto forti pressioni perché don Farinella sparisse dalle pagine di questa rivista.

Lui continua a essere pubblicato su MC perché i suoi scritti sono un aiuto di grande qualità a conoscere e amare la Parola di Dio. Per questo, pur non condividendo alcune delle sue valutazioni ed esteazioni politiche ed ecclesiali, ritengo che gli scritti di don Paolo, a cui rinnovo la stima di tutta la redazione, arricchiscano queste pagine.

Certo, mi spiace che il nostro lettore si sia sentito disturbato da quello che don Farinella scrive o che scrivono di lui su altre pubblicazioni al punto da rifiutare la nostra rivista. Perdere un lettore non può essere motivo di gioia. Ricordo però che alla fine del ciclo sulle nozze di Cana, abbiamo ricevuto molte email e telefonate che esprimevano disappunto al non trovare più le pagine di «Così sta scritto».

La nostra non è una rivista che vuol piacere a tutti i costi. Conosciamo i nostri limiti e cerchiamo di servire la Verità con passione e rispetto, senza pretendere di avee il monopolio.

Quanto alla fede di don Paolo, se neppure il suo vescovo ha sentito il bisogno di sospenderlo dal ministero sacerdotale, benché sia stato apertamente criticato dallo stesso, chi sono io per giudicarlo?

Ragioni di speranza

Caro padre,
oggi è l’11 marzo, giornata mondiale delle persone con sindrome di down e il mio pensiero ha associato le tue riflessioni contenute nell’editoriale «Non si eliminano così anche gli ulivi?» a una recente esperienza che ho vissuto per ragioni di lavoro e che mi ha riempito di ammirazione e di speranza. Ho incontrato una coppia di genitori che hanno adottato un bambino down che quest’anno compie due anni; da quando è presso la famiglia adottiva, e cioè da un anno circa, ha fatto tanti progressi e la cosa più sorprendente è l’impegno che mette in atto per corrispondere alle attenzioni e agli stimoli che riceve, tanto da arrabbiarsi se non riesce a padroneggiare, ad esempio, il meccanismo del gattonamento che gli consentirebbe di spostarsi da solo. Effettua esperienze, quando non è a casa o al baby parking di logopedia, psicomotricità e musica, e i genitori sono in contatto con centri down di diverse città per essere informati riguardo tutte le possibilità educative, scolastiche, terapeutiche e giuridiche atte ad accompagnarlo nell’apprendimento e nella conquista dell’autonomia presente e futura.

Le tue parole riguardo la specificità dell’uomo che è «la capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare “noi” e non solo “io”» l’ho vista incarnata in  questa coppia che con gioia ha confermato l’adozione di un bambino che secondo certe logiche comporterebbe molte spese sociali e molti problemi. Il loro amore è veramente generativo e contagioso e non può che sostenere la speranza che un tale tipo di amore non sia scomparso! Se la cura e il rispetto per la vita fossero anche trasferiti agli ulivi affetti da Xylella, a mio parere, in quanto figlia di un contadino con la passione per le piante, forse si troverebbe un rimedio meno drastico del loro abbattimento.

Auguro una Santa Pasqua, evento che fonda la fede che cerchiamo di vivere e anche un po’ di capire!

Milva Capoia
Collegno, 21/03/2016

A mio zio, padre Ottavio Santoro

Carissimi,

sono Vita, la nipote di Padre Ottavio Santoro. Mi piacerebbe pubblicaste il testo seguente che ho letto nella chiesa del Resurrection Garden, a Nairobi, il 24 novembre scorso durante il funerale di mio zio.

«Purtroppo ho perso un altro “pezzo” della mia famiglia. Dopo la morte di mio padre, padre Ottavio è stato un secondo padre per me. Questa per me è una grandissima perdita. Penso che lo sia anche per tutta la Comunità dei Missionari della Consolata e la Chiesa. Padre Ottavio ci ha lasciati con il corpo, ma il suo spirito rimarrà per sempre con noi. Qui, al “Resurrection Garden”, “lui” è in ogni angolo, in ogni fiore, in ogni pietra, tutto parla di “lui”.

Ha vissuto da povero, ma ha fatto delle cose meravigliose.  Ha lavorato in silenzio per dare voce a Dio con la consapevolezza del potere dell’amore e non dell’amore per il potere. La sua priorità sono sempre stati i poveri e i bambini per dare dignità a tutti davanti alla vita.

Da vent’anni la Pasqua l’ho sempre trascorsa con lui. La scorsa Pasqua mentre chiacchieravamo, mi diceva compiaciuto, che nei giorni precedenti, in un solo giorno, erano state celebrate venti Messe (da vari gruppi nelle varie chiese e cappelle del Resurrection Garden, ndr). Gli ho risposto che stava facendo concorrenza a San Pietro a Roma. Non mi ha risposto, ma il suo lungo sguardo, mi ha detto che il suo obiettivo era stato raggiunto e cominciava a fare i conti con la vita.

Alla fine di maggio (2015), quando si è definito il viaggio del Santo Padre, in una mail mi ha chiesto di raggiungerlo. Ho prenotato subito il volo, ma la sensazione che ho avuto è che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Vorrei ringraziare tutti coloro che l’hanno sostenuto e aiutato. Un grazie particolare a Ceghe, Anastasia, Peter, Michael, Solomon e Michael per l’amore con cui l’hanno servito. Amiamolo come “lui” ci ha amati e preghiamolo che possa riposare in pace. Che Dio ci benedica».

Chi era padre Ottavio Santoro?

95 Pope JPII - 085cutNato a Martina Franca (Ta) nel 1933, dieci anni dopo entra nel seminario dei Missionari della Consolata a Parabita (Le). Dopo il noviziato in Certosa Pesio, la filosofia a Torino e la teologia a Washington negli Usa, nel 1958 è ordinato sacerdote ed è subito destinato al Kenya dove arriva alla fine dello stesso anno. In Kenya rimane fino alla morte, a parte un breve periodo di servizio nell’animazione missionaria negli Usa tra il 1964 e il 1968. Dopo i primi anni come vice parroco, vice rettore nel seminario diocesano, professore in una scuola secondaria, nel 1972 è nominato amministratore di tutte le opere della Consolata in Kenya. In questo servizio rivela un particolare talento e buon gusto per le costruzioni, tra cui il Seminario filosofico e l’espansione della Consolata School in Nairobi, considerata ancor oggi una delle migliori scuole del Kenya. Dal 1986 al 1994 è amministratore della nascente Università Cattolica dell’Africa orientale (Cuea) a Lang’ata, Nairobi, che sotto la sua guida si arricchisce delle strutture fondamentali. Per non restare con le mani in mano, nello stesso tempo segue la costruzione del seminario teologico della Consolata, l’Allamano House, e del Tangaza College, l’università teologica della maggior parte delle congregazioni religiose che sono in Kenya. Nel 1990 il cardinal Otunga lo spinge a iniziare la costruzione del Resurrection Garden (Giardino della Resurrezione), inaugurato nel 1994. Il giardino si espande su un’area di circa otto ettari con un percorso di cappellette e piloni, decorati con mosaici e bronzi raffiguranti scene bibliche, che si conclude nel vasto santuario centrale: la chiesa della Pentecoste. Nel giardino ci sono anche 112 lapidi su cui è inciso il «Padre nostro» in altrettante lingue dei cinque continenti, una casa per esercizi spirituali, una per ritiri e incontri di formazione e varie casette per ritiri individuali. Il giardino, diventato ecumenico, è meta di pellegrinaggi, da tutte le diocesi del Kenya. Nel settembre 1995 Giovanni Paolo II vi concluse il primo Sinodo africano. Dal 2005 in una cappella del giardino riposa il corpo del cardinale Maurice Michael Otunga di cui P. Ottavio ha promosso la causa di beatificazione diventandone il primo postulatore. Padre Santoro ha ricoperto il ruolo di direttore del «Centro Ecumenico di Spiritualità Resurrection Garden» fino alla morte, avvenuta il 18/11/2015, rivelandosi non solo un raffinato costruttore, ma un uomo di grande spiritualità con una particolare attenzione ai poveri, come ben sanno gli oltre 400 bambini di cui seguiva attentamente il progresso grazie al sostegno a distanza degli amici del Grg (Gruppo Ressurrection Garden di Modena).

Vita Santoro,
Martina Franca, 16/03/2016

Padre Pierino Schiavinato

Padre Pierino Schiavinato
Padre Pierino Schiavinato

La mattina di questo Venerdì santo 2016 padre Pierino Schiavinato è andato a far compagnia ai santi. Nato nel 1939 a Montebelluna (Tv), sacerdote nel 1964, laureato in storia ecclesiastica, disciplina che insegna agli studenti di teologia, lavora per un breve periodo in questa rivista agli inizi degli anni ‘70 e poi viene inviato in Kenya, nel Meru, dove rimane fino al 1988 quando è incaricato di iniziare la rivista The Seed, che a fine 1992 consegna, ben avviata, al futuro direttore di MC. Dopo una parentesi prima a Londra, come professore di storia, e poi in Canada per animazione missionaria, rientra in Kenya con il nuovo secolo ed è inviato nella missione di Matheri, sempre nel Meru, dove rimane fino al 2014, quando è trasferito a Mukululu insieme a fratel Argese. Un’improvvisa malattia lo costringe a rientrare in Italia, dove, nonostante le lunghe cure, conclude la sua bella battaglia proprio nel giorno in cui il ricordo dell’Annunciazione del Signore e quello della sua morte coincidono.
Con noi lo piangono gli amici della Avi (Associazione Volontariato Insieme), di Montebelluna che tanto hanno collaborato con lui nell’amata terra del Meru.

Perdonino i lettori questo commento, ma alcuni parenti di missionari e anche miei confratelli hanno chiesto perché pubblichiamo la notizia della morte di alcuni confratelli e non di altri. Come regola pubblichiamo quello che i lettori ci mandano; raramente ne diamo la notizia noi stessi, come nel caso di padre Schiavinato, che ha avuto direttamente a che fare con questa rivista. Non vogliamo discriminare nessuno, ma in questi anni l’Istituto sta crescendo in Paradiso al ritmo di una ventina all’anno: 26 (2013), 18 (2014) e 20 (2015). I loro profili e i ricordi sono pubblicati in una nostra pubblicazione intea e, in forma ridotta, su «Famiglia IMC», la piccola rivista trimestrale per parenti e amici. Se qualcuno ha piacere di ricordare qualche nostro missionario su queste pagine, sappia di essere sempre benvenuto.

Clericus Cup

Il Seminario teologico internazionale IMC di Bravetta ha partecipato al mondiale di calcio pontificio. La Clericus cup è un campionato di calcio per sacerdoti, religiosi e seminaristi che studiano nelle università pontificie di Roma, promosso dal Centro Sportivo Italiano, dalla Conferenza episcopale italiana e dai Pontifici Consigli per i Laici e della Cultura. La Clericus cup è stata iniziata nel 2007 con l’obbiettivo di fare entrare lo sport nell’esperienza della vita sacerdotale, religiosa.

Nel 2016, anno della misericordia promulgato da Papa Francesco, si sta realizzando la decima edizione della coppa, che dura da febbraio fino a maggio, con il motto «la misericordia scende in campo» stampato sulle maglie.

Il Seminario teologico internazionale di Bravetta ha partecipato per la prima volta. Il campionato è un bel momento di fratellanza religiosa e di interscambio tra i vari istituti e congregazioni. Oltre alla nostra, hanno partecipato le squadre dei monaci Benedettini, del Collegio Nord-americano, degli Agostiniani e del Collegio Urbano che da due anni consecutivi è il vincitore della coppa. È stata una bella esperienza, anche se dopo una prima vittoria abbiamo subito due sconfitte consecutive e siamo stati eliminati. Ma ci stiamo già preparando all’edizione del 2017.

Eugenio Bento Cristovao
Bravetta, 14/03/2016

 




Muhammad Alì la vita su un ring


La prima volta che lo incontrai, dopo la sua trionfale Olimpiade del ’60 (medaglia d’oro nei mediomassimi a Roma), fu a Miami Beach (nel febbraio del ’64) alla vigilia del match con Sonny Liston che poi, nella prima sfida, fra il disappunto generale, si sarebbe ritirato alla settima ripresa per uno strappo muscolare a un braccio e si sarebbe accasciato a terra anche nella seconda (a Lewingston, Maryland) per un «diretto» che pochi avevano visto.

Così non è una cattiveria ricordare che il «brutto orso» Sonny era un pugile vincolato alla mafia, mentre Cassius Clay, classe 1942, era già un fenomeno sportivo per la velocità e la bellezza della sua boxe. Ma anche un fenomeno per il suo impegno civile e per la sua adesione alla fede islamica abbracciata dopo l’incontro con Malcolm X, l’ideologo di molti fratelli neri musulmani, protagonista delle lotte per i diritti delle minoranze che sarebbe poi morto tragicamente, assassinato – il 21 febbraio del 1965 – con sette colpi di arma da fuoco durante un comizio pubblico a Manhattan.

Con un inizio di gioventù così pieno di suggestioni, Cassius Clay che aveva cambiato il suo nome, «impostogli dal padrone bianco», in Muhammad Ali, era inevitabile diventasse… una mia «preda giornalistica» e che quindi io tentassi di intervistarlo, di capire chi fosse o sarebbe stato.

Mi aiutò nell’impresa l’avvocato Chauncey Eskridge, che amava l’Italia perché nella nostra terra aveva vissuto la parte finale della seconda guerra mondiale come aviatore a Tombolo, Pisa. Il mio primo incontro con Muhammad Ali risultò per me un’indimenticabile lezione di vita. Il giovane campione nero per quasi tutto il tempo delle domande, non mi dette granché retta. Detta più chiaramente: mi snobbò. Il nostro rapporto migliorò soltanto un poco nel finale, ma certo non avrei potuto presentarmi dal mio capo Maurizio Barendson, al Tg2, con quel modesto dialogo.

Lo scornop che avevo cercato era diventato, in poco più di mezz’ora, un autogol. Ma quando decisi di chiudere quella sconfitta giornalistica, fu proprio Muhammad Ali a cambiar tono: «Non sei contento vero? – mi disse mettendomi una mano sulla spalla -. Sai io credevo tu fossi uno di quei soliti giornalisti europei che attualmente non perdono mai l’occasione di tentare di insegnarmi a vivere. Shit people (gente di cacca, ndr) che non accetta il mio essere diverso. Ma con me dovrà farlo a forza. Non te la prendere, la prossima volta andrà meglio».

E fu così che imparai ad avere con lui un approccio rispettoso che, col tempo, divenne amicizia vera, anche per merito del suo allenatore, l’italoamericano Angelo Dundee.

Quando arrivavo dall’Italia, non perdevo tempo. Andavo subito al quartiere di allenamento del grande campione che, dopo la squalifica di 3 anni (dall’aprile del 1967 al 1971) per aver rifiutato, come fedele musulmano, di andare a combattere in Vietnam, era tornato sul ring e stava iniziando a percorrere un viaggio di dieci anni nel quale avrebbe scritto le pagine più entusiasmanti della boxe modea, specie nei match con Joe Frazier, Ken «Mandingo» Norton e George Foreman, una sfida leggendaria quest’ultima a Kinshasa, in Zaire (futuro Congo RD). Era il 30 ottobre 1974. Nella capitale congolese, «nel ventre di mamma Africa», Ali sostenne forse l’incontro più significativo della sua carriera, riconquistando un titolo che nessuno gli aveva mai tolto sul ring, se non il potere politico preoccupato dal fascino che un campione così grande poteva accendere nelle nuove generazioni contrarie alle guerre. Ali per 5 round, in quella notte indimenticabile, fu solo attento a come poteva sviare e mandare a vuoto i colpi di Foreman (campione olimpico a Città del Messico), e quando si accorse che i 40 gradi di calore e il quasi 90% di umidità avevano prosciugato l’avversario, gli inflisse, tre round dopo, un drammatico Ko che smentì tutti i pronostici degli esperti. Qualche minuto dopo, nello spogliatornio, dove lo avevamo raggiunto, volle sottolineare: «Questa notte sul ring c’era Allah. Non so se te ne sei accorto, ma c’era Allah». Per noi, più prosaicamente, era stato un capolavoro di tattica. Memorabile anche il terzo match con Joe Frazier, a Manila nelle Filippine, nel quale Smoking Joe, esausto, non trovò la forza di rialzarsi dallo sgabello per l’ultimo round. Se le gambe lo avessero retto, forse il verdetto sarebbe stato a suo favore, senza tirare più alcun pugno.

Anni dopo, per pagare le tasse dell’intransigente fisco nordamericano, toò sul ring e perse contro Larry Holmes, che era stato suo sparring partner. Alla conferenza stampa seguita al match fu capace di stregare ancora tutti. A Holmes, che lo elogiava come uomo, ancor prima che come pugile, con frasi come «Quest’uomo mi ha insegnato non solo la boxe, ma anche a vivere», regalò una battuta fulminante: «Allora perché mi hai menato?». E si aggiustò sul viso, per la prima volta tumefatto, gli occhiali da sole. Ali fu sommerso da una vera ovazione.

La parola per lui è stata una ricchezza quasi più dei pugni. Una metamorfosi che si può spiegare solo con le sue scelte religiose e il suo amore per la sincerità: «Nei primi quaranta anni della mia esistenza, il mio Dio mi ha dato così tanto che se adesso mi toglie qualcosa io sono sempre pari con la vita». Un’affermazione come questa si tenderebbe ad attribuirla a un intellettuale o a un politico e invece è di un uomo che, da 30 anni, resiste al morbo di Parkinson. Così penso non sia un caso che, già preso a pugni dalla malattia, nel novembre 1990, andò dal dittatore Saddam Hussein che teneva sotto sequestro alcuni cittadini degli Stati Uniti e, parlandogli da musulmano a musulmano, lo convinse a liberarli.

Non stupisce, dunque, quanto avvenne allo stadio di Atlanta per le Olimpiadi del ’96. Muhammad fu l’ultimo tedoforo che, con la sua mano tremante, accese il tripode. Tutto il pubblico aveva le lacrime agli occhi. Anche quello bianco.

Gianni Minà

 




Povertà disuguaglianze in aumento


Pochissimi ricchi possiedono sempre di più, mentre aumenta il numero dei poveri nel mondo. Le cause sono scelte fiscali inadatte e politiche salariali che acuiscono il divario. E la situazione continua a peggiorare.

Ormai ci sono più miliardari a Pechino che a New York, a riprova del fatto che la ricchezza sta crescendo anche in paesi che una volta erano considerati del «terzo mondo».

La ricchezza cresce, ma la povertà non diminuisce, anzi in certe aree del mondo, ad esempio in Europa, sta aumentando. Nel suo recente rapporto «L’economia per l’1%», l’Ong Oxfam calcola che 62 miliardari hanno una ricchezza pari a metà della popolazione mondiale, possiedono da soli quello che 3 miliardi e mezzo di esseri umani si devono spartire.

In Europa il club dei più ricchi è formato da 342 miliardari che hanno un patrimonio di 1.340 miliardi di dollari. E, sempre in Europa, dal 2009 al 2013, i poveri assoluti, vale a dire di coloro che non riescono a pagarsi le cure se si ammalano o a riscaldarsi d’inverno, sono cresciuti di 7,5 milioni, portando il numero a superare i 50 milioni. In Italia, la percentuale delle persone colpite dalla povertà è cresciuta dal 2005 al 2014 passando dal 6,4% all’11,5%. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi sotto i 18 anni.

Dell’incremento della ricchezza prodottosi dall’inizio del secolo, il 50% è rimasto nelle mani dell’1% della popolazione mondiale.

Dunque i ricchi si arricchiscono e tengono la loro ricchezza ben stretta senza diffondee i benefici, smentendo clamorosamente la teoria del trickle down (sgocciolio), che ha ispirato le politiche economiche liberiste che puntavano a favorire i soggetti più forti e dinamici che avrebbero fatto sgocciolare la loro ricchezza fino ai settori sociali più deboli e poveri.

Trent’anni di valutazioni e decisioni sbagliate in economia hanno prodotto un mondo fortemente ineguale, dove la crescita avvantaggia chi è già ricco.

La principale di queste scelte sbagliate riguarda le tasse, ovunque sono state promosse politiche fiscali regressive: più sei ricco, meno paghi. L’Italia non fa eccezione: i governi di centrodestra (più liberisti degli altri) hanno abolito la tassa di successione, mantenuto sotto la media europea il prelievo sulle rendite finanziarie, allentato i controlli contro l’evasione. Viviamo nel paese d’Europa con maggior carico fiscale, ma sono i lavoratori, i consumatori e le piccole imprese che ne sopportano il peso, infatti le aliquote sui redditi più alti si sono dimezzate dal 1980 ad oggi. Il compianto Luciano Gallino in «Finanzacapitalismo», uscito nel 2011, affermava: «Se un lavoratore ha un imponibile di 28mila euro (circa 1.500 ore di lavoro) paga 6.960 euro di tasse, invece chi ha un capitale depositato dello stesso importo e non muove un dito ne paga 5.600».

Il magnate Warren Buffet ha avuto l’ardire di riconoscere che lui paga meno tasse di tutti gli altri dipendenti della sua società, persino meno della sua segretaria o degli addetti alle pulizie.

Queste politiche distorte hanno bloccato quello che gli economisti chiamano «l’ascensore sociale»: chi nasce povero oggi ha più probabilità di rimanere povero rispetto a cinquanta anni fa.

Dice l’economista Joseph Stiglitz, tra i primi a denunciare il fenomeno della disuguaglianza e i suoi rischi: «La maggioranza dei cittadini ha la sensazione di giocare a un gioco dove le carte sono truccate, per questo abbandona il tavolo», in altre parole non confida nelle istituzioni, non va a votare, perde il rispetto per la classe politica incapace di porre rimedio al problema o peggio asservita ai gruppi più ricchi.

Chi non prova vergogna di fronte allo scandalo dell’ingiustizia sono le imprese multinazionali pronte a strapagare i loro manager, comprimere i salari e ridurre i posti di lavoro.

Oxfam India denuncia che il Ceo (in italiano, l’amministratore delegato), della più importante azienda informatica indiana guadagna 416 volte di più di un proprio impiegato. Anche in Italia non si scherza: le differenze salariali tra dipendenti e manager vanno da 1 a 163, secondo il rapporto Fisac Cgil del 2015 un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni e 326 mila euro all’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi annui.

Questo spiega perché anche in Italia le risorse si concentrano sempre di più nelle mani di pochi e l’1% della popolazione detiene il 23,4% di tutta la ricchezza prodotta nel nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




Si trovavano insieme


Immersi nell’Anno giubilare della misericordia, con lo sguardo rivolto a Cracovia, Polonia, dove a luglio si celebrerà la Giornata mondiale della gioventù, leggiamo il brano di Luca che racconta la Pentecoste (At 2,1-11).

Una folla di persone di ogni nazione si mette a osservare, chi con partecipazione, chi con scetticismo, chi con ostilità, lo scompiglio creato da quel vento impetuoso, da quelle lingue «come di fuoco» che hanno abbattuto i muri del cenacolo. Immaginiamo quel medesimo vento sconvolgere i passi dei giovani in cammino verso Cracovia. E lo scompiglio che contagia anche chi osserva: «Come mai ciascuno di noi sente parlare delle grandi opere di Dio nella propria lingua? Com’è possibile che qualcuno conosca la grammatica del mio cuore? Che parli con il lessico della mia vita? Con la sintassi della mia storia?».

«Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo», nella stessa città di Giovanni Paolo II, di santa Faustina (apostola della Divina Misericordia, il cui nome significa «felice»), per vivere la beatitudine di essere misericordiosi, e trovare misericordia. Si trovavano tutti insieme, benché venuti da ogni dove, ciascuno dalle proprie esperienze e ferite, dalle proprie giornie e fallimenti. Chiamati, dopo lo scompiglio, ad abituarsi ad altro scompiglio, quello ripetuto, ostinato, che colpisce senza risparmio per tutta la vita il discepolo divenuto apostolo, portatore di Parola, destinatario e strumento di misericordia.

Il nostro auspicio è che lo Spirito in forma di lingue, che dona la capacità di comprendere e parlare le lingue degli uomini del mondo, scompigli il cammino dei giovani che, anche dalle case dei missionari della Consolata, andranno a Cracovia nel prossimo luglio.

Da amico,
buona Pentecoste,
e buona missione.

Luca Lorusso




Perdenti 14: Antonio Meucci


Alla fine la verità ha trionfato: l’inventore del telefono non è Alexander Graham Bell, come continuano a recitare i libri di testo nelle scuole degli Stati Uniti d’America, bensì l’immigrato fiorentino Antonio Meucci che morì in povertà a New York nel 1889 dopo essere stato defraudato del brevetto. Meucci nato a San Frediano, popolare quartiere di Firenze il 13 aprile 1808, emigrò giovanissimo nel Nuovo Mondo. Dopo alcuni anni passati a Cuba lavorando come tecnico di scena in una compagnia teatrale che si esibiva all’Avana, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, anche per sfuggire il micidiale clima caldo-umido dell’isola caraibica che influiva negativamente sulla salute della moglie Ester.

Lasciata Cuba il 1º maggio 1850, i coniugi Meucci sbarcarono a New York, stabilendosi quasi subito a Clifton, un piccolo quartiere nell’isola di Staten Island, dove rimasero fino alla morte. Qui Antonio acquistò un cottage e aprì una fabbrica di candele, fatte secondo un progetto di sua concezione. La sua casa divenne ben presto un riferimento importante per gli immigrati italiani che arrivavano a New York. Anche Giuseppe Garibaldi venne ospitato da Meucci tra il 1850 e il 1853 e, per tutto il tempo della permanenza negli Stati Uniti, lavorò nella sua fabbrica.

La passione per le comunicazioni elettriche, che covava da sempre nella sua mente, gli fece trasformare ben presto la casa in un laboratorio: allestì un collegamento permanente con la stanza al secondo piano dove stava la moglie che soffriva di un’artrite deformante e per lunghe ore non poteva muoversi. Da quell’apparecchio costruito in maniera molto approssimativa, Meucci sognava di far giungere la sua voce il più lontano possibile. Era la sua idea fissa, quasi un’ossessione, che lo accompagnò per tutta la vita.

Il riconoscimento postumo e tardivo del suo genio, arriverà l’11 giugno 2002 quando il Congresso degli Stati Uniti, su iniziativa del deputato italoamericano Vito Fossella, ha riconosciuto Antonio Meucci come il primo inventore del telefono. Dopo la riabilitazione di Sacco e Vanzetti, i due anarchici ingiustamente condannati a morte per terrorismo negli anni ’20, questo è stato un altro trionfo per la generazione degli immigrati italiani che spesso furono vittime di pregiudizi e discriminazioni negli Stati Uniti d’America.

 

Caro Antonio, si può dire che nonostante le tue capacità e soprattutto la sorprendente genialità che avevi per la comunicazione, tu abbia avuto una vita tutt’altro che fortunata. Parlaci un po’ di te.

Cresciuto nel Gran Ducato di Toscana, dove le condizioni di vita della mia famiglia erano piuttosto grame e difficili, e coinvolto nei moti rivoluzionari del 1831 a causa delle mie convinzioni politiche e per le mie idee liberali, fui costretto ad andarmene dalla terra natia, per cui appena sposato presi la decisione di emigrare in America.

La tua prima tappa però non furono gli Stati Uniti d’America.

Infatti, dopo lunghe peregrinazioni nello Stato Pontificio e nel Regno delle due Sicilie, mi imbarcai per Cuba dove trovai lavoro come meccanico teatrale, fino ad essere responsabile di tutto l’impianto scenografico. Là ebbi la possibilità di approfondire le mie conoscenze in elettrotecnica e di fare esperimenti vari. Divenni anche uno dei primi a praticare la galvanostegia di oggetti (ricoprire cioè oggetti di metallo normale con oro o argento tramite un processo elettrico), è questo mi rese ricco e popolare. Fu proprio a Cuba che ebbi le prime intuizioni sulla possibilità di comunicare a distanza grazie all’elettricità.

Però non rimanesti a lungo nell’isola caraibica.

Nel 1850, scaduto il mio terzo contratto con il teatro all’Avana, su suggerimento di amici, mi trasferii negli Stati Uniti stabilendomi a New York dove aprii una fabbrica di candele steariche di mia concezione.

A New York in quegli anni incontrasti anche Giuseppe Garibaldi.

Proprio così. Fra me e Garibaldi sorse e si sviluppò una solida amicizia e lui per tutto il tempo che si fermò (1850-1853) negli Stati Uniti, fu ospite a casa mia e lavorò anche nella mia fabbrica. Purtroppo la fabbrica, pur unica nel suo genere, non ebbe molto successo. La trasformai prima in una fabbrica di birra e poi fui costretto a venderla, anche se il nuovo proprietario mi permise di viverci fino alla mia morte.

Fu in quel periodo che ti venne l’idea di un apparecchio che mettesse in comunicazione due persone che stavano in lontananza.

Avevo già fatto dei primi esperimenti in Cuba, ma il fatto che mia moglie fosse costretta a stare per lunghe ore della giornata a letto per colpa di una forma grave di artrite reumatornide, stimolò il mio ingegno. Allestii quindi un collegamento permanente tra il laboratorio, che era nello scantinato della casa, e la stanza di mia moglie situata al secondo piano.

Se eri un genio per quanto riguarda le comunicazioni, non avevi certamente talento per il lucro, né la sola simpatia della comunità italiana poteva fare molto per te.

Vero. Io continuai i miei esperimenti con il «telettrofono», come chiamavo la mia invenzione, e migliorai considerevolmente la comunicazione fra la mia adorata Ester, ormai paralizzata nella sua stanza, e il mio laboratorio. Negli anni tra il 1851 e il 1871 provai e riprovai fino a trenta modelli diversi e ottenni ottimi risultati. Il laboratorio era pieno di disegni e prototipi.

Poi ti dissanguasti economicamente, un po’ per pagare le cure sanitarie di tua moglie, un po’ per tanta sfortuna, e ti riducesti sul lastrico.

In fondo non desistevo, anche se mi riempivo di debiti, sognavo il giorno in cui non avrei più avuto problemi economici. Mi accorgevo sempre di più di essere un vecchio in miseria con la moglie ammalata e un’invenzione che, lo posso dire veramente, sarebbe stata al servizio dell’umanità, ma di cui, per colpa dei raggiri di cui ero vittima, non potevo godee i frutti.

Per colmo di sfortuna, il 30 luglio 1871, lo scoppio della caldaia del traghetto Westfield che mi stava riportando a casa a Staten Island da New York, causò l’incendio e l’affondamento dello stesso. Gravemente ustionato, finii in ospedale per mesi. Fu il tracollo finanziario. Per sopravvivere, mia moglie fu costretta a svendere i miei bozzetti e i prototipi di telettrofono per 6 dollari a un rigattiere. Una volta dimesso, ancora convalescente, provai a ricominciare da capo.

È vero che scrivesti anche in Italia alla ricerca di capitali per lanciare la tua invenzione sul mercato europeo?

Sì, ma non ottenni grandi risultati. Fondai anche una compagnia con altri italiani, ma non si venne a capo di nulla e si sciolse dopo un anno.

Tra tutte queste disgrazie non ci fu un momento in cui il vento della sfortuna modificò la sua direzione?

A fine dicembre 1871 riuscii a pagare i dieci dollari necessari per avere un caveat dall’ufficio brevetti a Washington. Il documento descriveva la mia invenzione, che avevo chiamato «Sound Telegraph». Purtroppo valeva solo un anno e non avevo i soldi necessari per il rinnovo né tanto meno per pagare il brevetto.

Ma accanto a queste vicissitudini, ce ne furono altre poco chiare e abbastanza disoneste che t’impedirono di accedere al brevetto.

Forte del caveat, nell’estate del 1872 andai a far vedere il mio prototipo e i miei progetti all’American District Telegraph Co. di New York, sperando mi lasciassero sperimentare il mio apparecchio sulle loro linee. La notizia venne anche pubblicata con un certo rilievo sul giornale italiano che in quegli anni si stampava a New York. Ma non abbi alcuna risposta dalla Company. Anzi continuarono a tergiversare, senza restituirmi i disegni. Alle mie insistenze, dopo ben due anni, mi dissero che li avevano smarriti. Consulente della compagnia era Alexander Graham Bell. Il che dice tutto.

Qualche anno dopo persi ogni speranza di un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità degli Stati Uniti quando, dopo che il mio caveat era spirato nel 1874, nel 1876 lessi sui giornali di New York che Bell aveva «inventato» il telefono. Nel 1877 fondò la «Bell Telephone Co.».

Di fronte a questa defraudazione pura e semplice non ti difese nessuno?

La comunità italiana fece quadrato attorno a me e dopo un decennio di ricorsi ai tribunali, ci fu l’intervento del governo il quale decise di annullare temporaneamente il brevetto di Bell in quanto ottenuto per frode e dichiarazione del falso. Cosa che venne poi confermata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Allora aveva ragione Garibaldi, il quale diceva che tu eri un genio, ma nel fondo restavi un gran brav’uomo che in una società come quella capitalista americana eri come una colomba in una stanza piena di volpi!

Spiace dirlo, ma è proprio così. Quel volpone di Bell riprese i miei modelli, li mise in produzione, mentendo e truffando li fece passare per suoi e, avendo mezzi e appoggi di ogni genere, fece fortuna con il frutto della mie ricerche.

 

Per oltre un secolo, ad eccezione dell’Italia, è stato universalmente considerato inventore del telefono Alexander Graham Bell. Il fatto che il sistema legislativo degli Stati Uniti d’America abbia finalmente riconosciuto – sia pur con molto ritardo – che questa invenzione fosse da attribuire ad Antonio Meucci, è un postumo quanto doveroso risarcimento morale all’inventore fiorentino, che, gioverà ricordare, morì povero e dimenticato da tutti in una terra rimasta sempre straniera.

Don Mario Bandera – Missio Novara




Cinque per mille: un po’ meglio ma non basta


Riprendiamo il dibattito sul cinque per mille per vedere a che punto è arrivato il processo di semplificazione e aumento della trasparenza, auspicato dalla Corte dei Conti, dal 2013 a oggi. La più recente deliberazione della Corte, la 9/2015/G dello scorso ottobre, segnala ancora molti punti irrisolti.

Mancano circa due mesi alla prima delle scadenze per la presentazione della dichiarazione dei redditi (quella cioè relativa al modello 730) e per la contestuale scelta da parte dei contribuenti della destinazione del proprio cinque per mille. L’istituto del cinque per mille gode di parecchia popolarità, che emerge in maniera netta a confronto, ad esempio, con la destinazione del due per mille ai partiti politici, opzione introdotta dal 2014. Quest’ultima ha riscosso un ben più misero successo – poco più di un milione di contribuenti, contro gli oltre diciassette milioni che sottoscrivono il cinque per mille – e un ben più magro bottino: 9,6 milioni di euro contro i quasi 390 milioni del cinque per mille. Il primo beneficiario del cinque per mille, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, incassa da sola quasi sei volte tanto tutti i partiti messi insieme.

La Corte dei Conti, ente di controllo della gestione delle risorse pubbliche, è intervenuta con tre deliberazioni (nel 2013, 2014 e 2015) per analizzare il funzionamento del meccanismo del cinque per mille e per evidenziae diverse storture: ne avevamo parlato nel giugno 2015 (Cinque per mille, la lunga strada verso la chiarezza). Vediamo a oggi che cosa è stato corretto e che cosa invece, a detta dei magistrati contabili, resta ancora da fare.

Stabilizzazione e elenchi dei beneficiari, un passo avanti

Stabilizzazione. Il cinque per mille è stato introdotto con la legge finanziaria del 2006 «a titolo iniziale e sperimentale»; è rimasto un istituto provvisorio fino due anni fa, quando la legge 190 del 23 dicembre 2014 ne ha sancito la stabilizzazione, cioè lo ha reso un contributo certo e non più soggetto a rinnovo di anno in anno mediante introduzione nella legge di stabilità. Inoltre, il tetto di spesa – cioè la somma massima che il governo si impegna a erogare per il totale dei contributi – è aumentato da 400 a 500 milioni di euro.

Elenco enti. Altra spunta all’elenco delle cose da fare è quella relativa alla lista totale degli enti ammessi in una o più categorie di beneficiari fino al 2013, che l’Agenzia delle entrate ha pubblicato sul proprio sito, insieme a un motore di ricerca che rende possibile individuare i soggetti beneficiari cercando per denominazione, codice fiscale o provincia.

Trasparenza. Infine, un parziale miglioramento della trasparenza si è registrato, a partire dal 2015, anche nella casella dei beni culturali e paesaggistici: ora è infatti precisato che il cinque per mille di chi sceglie questa opzione va a organismi privati, mentre la dicitura precedente poteva portare il cittadino a pensare che il suo contributo andasse al ministero per i Beni, le Attività culturali e il Turismo (Mibact) o ad altri enti pubblici.

Quel che ancora non va

Ma la lista dei provvedimenti presi, purtroppo, si ferma qui. Molto più lunga è quella delle storture rilevate già nelle precedenti sentenze e non ancora corrette.

Intermediari. La prima sulla quale insiste la deliberazione è quella delle irregolarità nei comportamenti degli intermediari, di coloro, cioè, che assistono i contribuenti nella compilazione dei modelli. L’Agenzia delle entrate ha avviato, su richiesta della Corte dei Conti, una serie di controlli sui Caf, i centri di assistenza fiscale. I Centri presi in esame sono stati: il Caf Mcl, il Caf Acai, il Caf Servizi di base, il Caf Anmil e il Caf Acli e il risultato degli interventi di vigilanza ha mostrato che nel 3,7 per cento dei casi esaminati «le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf».

Più trasparenza. Secondo la Corte, alla stabilizzazione dell’istituto non si è ancora accompagnata una sua riorganizzazione: c’è ancora molto da fare, ad esempio, riguardo alla trasparenza. Strumenti utili a questo fine, ripetono i magistrati contabili, sarebbero la pubblicazione dei bilanci, una più uniforme e chiara rendicontazione delle somme ottenute, e anche meccanismi «per espellere gli organismi non meritevoli della fiducia accordata dai contribuenti» nel caso di omessa o non adeguata rendicontazione.

Selezione. Serve anche una maggior selezione degli enti. Secondo la Corte, infatti, «benché il proliferare dei beneficiari esprima la frammentazione dei bisogni della società contemporanea», occorre una più rigorosa selezione dei beneficiari per «non disperdere risorse per fini impropri: i fruitori, infatti, superano ormai il numero di 50mila».

La Corte si riferisce in particolare alle tante onlus ed enti di volontariato che ottengono meno di 500 euro e a quelli che non hanno avuto nemmeno una scelta, e ribadisce l’effetto distorsivo per cui le organizzazioni che possono contare sul sostegno di contribuenti facoltosi ottengono importi rilevanti anche con un numero molto basso di firme. La Corte, insomma, non prende di mira la frammentazione in sé, ma quanti tradiscono le intenzioni del legislatore e lo spirito dell’istituto, non producendo un effettivo «valore sociale». Una critica che si estende anche agli enti beneficiati da chi sceglie di supportare la cultura: i «rilevantissimi tagli di bilancio» che il Mibact ha subito negli ultimi anni, recita la deliberazione, dovrebbero indurre a un utilizzo delle risorse del cinque per mille a favore dello Stato e degli altri enti pubblici; invece queste risorse vengono dirottate su enti privati «che sviluppano, peraltro, spesso, progetti non di particolare interesse per i contribuenti».

Lentezza cronica. Pure sulla rapidità nell’accredito delle quote c’è ancora molto da migliorare: nel 2015 la pubblicazione delle quote assegnate (relative all’anno fiscale 2013) è avvenuta a metà maggio, risultando quindi più lenta rispetto agli anni precedenti. Concentrare i pagamenti in capo a un’unica struttura, insiste la magistratura contabile, potrebbe velocizzare i tempi. Oggi, a essere coinvolti sono diversi ministeri e l’Agenzia delle entrate che comunicano fra di loro in modo non abbastanza efficiente.

Anagrafe unica. Resta ancora da realizzare «l’unione in una sola anagrafe degli albi, degli elenchi e dei registri attualmente presenti». In più sarebbe auspicabile un «database pubblico con dati provenienti dall’Agenzia delle entrate, dalle Camere di commercio, dal Coni e dalle altre amministrazioni coinvolte, che consenta di valutare più compiutamente l’operato degli enti con finalità sociali».

Come sempre, spetta al legislatore recepire e applicare le raccomandazioni della Corte. E il legislatore, ricorda la deliberazione, è al lavoro sulla riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile universale (e sulla sua successiva attuazione), che «annuncia importanti novità in materia di cinque per mille attraverso una riforma strutturale di questo istituto».

Le polemiche sulle campagne promozionali

Al di là degli aspetti legislativi e contabili, il cinque per mille torna ogni anno al centro del dibattito sull’uso delle immagini e sull’aggressività delle campagne per convincere i contribuenti ad aderire. Nel febbraio 2016, la rivista «Africa» è tornata (duramente) sull’argomento riferendosi in particolare alle organizzazioni che operano nel Sud del mondo: «Si è aperta la caccia al 5 per mille degli italiani. Come ogni primavera, migliaia di onlus e Ong sono impegnate a convincere i contribuenti con campagne che toccano le corde emotive (…). Ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano ha sempre una presa forte sul pubblico che, impietosito, allarga i cordoni del borsellino e dona all’associazione». La rivista dei padri bianchi invita «tutti coloro che condividono questa battaglia a scegliere di destinare il proprio 5 per mille solo a chi non fa un uso delle immagini dei bambini lesivo dei loro diritti».

Contro la «pornografia del dolore» anche Mco si è schierata chiaramente da queste pagine sul primo numero di questo 2016. Sembra che il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» sia davvero duro a morire. Non solo in certe Ong e onlus, ma anche nella testa di certi missionari, di più o meno vecchio stampo, che, eccessivamente preoccupati di far quadrare i conti dei «loro» pur santi progetti, in questa situazione di crisi non vanno troppo per il sottile per fidelizzare i loro benefattori.

Il 5×1000 a Mco

Questo resoconto di storture, ritardi e polemiche, per di più con tanto linguaggio «burocratese», non è esattamente un assist da campioni per chiedervi di destinare a Mco il vostro cinque per mille, lo sappiamo.

Ma la verità è che noi non siamo dei maghi della comunicazione. Perché siamo figli di un Fondatore che ci ha detto di «fare bene il bene» (e fin qui tutto bene), ma anche di «farlo senza rumore».

E allora, sì, metteremo qualche foto, qualche richiamo, qualche pagina sulla rivista, e quel fastidiosissimo pop up che troverete sul sito. Ma nulla di più… rumoroso.

La verità è che non ci piace l’idea che a convincervi sarà, o sarebbe, una bella campagna e qualche bella foto all’ultimo minuto.

Preferiamo pensare di avervi persuasi durante tutto l’anno, con i nostri progetti, i nostri articoli, le nostre adozioni a distanza, l’informazione che condividiamo sui social. O, ancora di più, di avervi convinto in oltre cent’anni di lavoro sul campo, come si dice in gergo, o in missione, come viene più facile dire a noi.

Anche perché, se non vi abbiamo convinti così, non c’è testimonial Vip che tenga.

Quel che più di tutto ci piace pensare è che non solo vi abbiamo persuaso, ma soprattutto vi convinceremo ancora attraverso quello che realizzeremo grazie a voi. E lo diciamo in anticipo: «Grazie. A voi».

Chiara Giovetti




Migranti nuovi untori


Tubercolosi, epatiti, scabbia, Hiv, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia. L’elenco delle patologie è lungo. Il quesito è: sono in aumento (anche) a causa dell’arrivo dei migranti? Cosa accadeva quando i migranti eravamo noi?

L’ultimo immigrato è sempre il peggiore. L’ondata di migranti che arriva sulle coste italiane e sui confini europei genera nelle popolazioni residenti mille preoccupazioni e spesso senso di rifiuto. Esattamente come accadde, tra la metà del XIX secolo e la metà del XX secolo, alle masse di emigranti che lasciarono l’Europa e l’Italia. Circa 25 milioni si sparsero in tutti i continenti e gli Stati Uniti, insieme a Argentina e Brasile, furono tra le mete principali, come si evince dai registri di Ellis Island, la piccola isola posta nella baia dell’Hudson davanti a New York, che, tra il 1892 ed il 1954, divenne il principale punto d’ingresso negli Usa. Qui i migranti venivano sottoposti a umilianti ispezioni mediche e poliziesche, prima di ottenere il visto d’ingresso nella nazione. Mentre fino al 1875 l’ingresso negli Usa era libero, successivamente furono poste restrizioni. Nel 1891 venne promulgato il Federal Act, che prevedeva l’esclusione degli «idioti», dei malati (soprattutto quelli contagiosi), dei poveri e di tutti quelli che potevano rappresentare un carico per la società. Non potevano inoltre entrare donne gravide non sposate (per timore che fossero prostitute), criminali, poligamici e lavoratori a contratto. A Ellis Island, dopo una prima rapida visita medica fatta in circa 6 secondi, in cui si controllava tra l’altro la presenza di tracoma con l’uso di uncini per rivoltare le palpebre, le persone giudicate non idonee venivano marchiate e fermate per ulteriori approfondimenti. Poteva seguire un periodo di ricovero più o meno lungo (la quarantena), oppure direttamente l’espulsione. In questo caso le navi, che avevano trasportato i migranti avevano l’obbligo di riportarli ai paesi d’origine. Chi superava la visita medica veniva poi sottoposto ad accertamenti per escludere pregressi guai giudiziari. In pratica gli accertamenti medici dovevano stabilire che chi entrava potesse aumentare validamente la forza lavoro necessaria al progresso della nazione e non fosse portatore di malattie contagiose pericolose per i residenti.

La stessa preoccupazione che, in questi anni, assale molti alla vista dei migranti che raggiungono l’Italia o altri paesi europei. Le domande a cui cercheremo di dare risposta sono dunque le seguenti: i migranti sono un pericolo per la nostra salute? Essi sono davvero portatori di malattie infettive, che potrebbero generare un’emergenza sanitaria per l’Italia e l’Europa? Le paure sono giustificate?

Paure e opportunismo politico

Nell’estate del 2015, alcuni comuni del savonese con giunte di centrodestra, tra cui Alassio, emisero ordinanze per impedire l’ingresso degli stranieri senza fissa dimora e privi di certificato medico attestante l’assenza di malattie infettive trasmissibili quali Hiv, tubercolosi, ebola, scabbia. Il Viminale chiese prontamente la revoca di tali provvedimenti. Per non parlare di quanto avvenne ad Asotthalom, un comune ungherese al confine con la Serbia, guidato da un sindaco appartenente a un partito di ultradestra, antisemita e anti Ue. Qui, l’estate scorsa, alle stazioni dei bus vennero affissi manifesti recanti avvisi e foto shoccanti, in cui si dichiarava che i migranti sono portatori di malattie infettive, per cui esisterebbe un reale pericolo di contagio, e si invitava a non toccare oggetti lasciati dai migranti senza guanti di protezione. In caso di contatto accidentale con tali oggetti e in presenza di sintomi come diarrea, vomito, esantemi cutanei, si raccomandava di contattare prontamente un medico. Oltre alle autorità municipali, tale avviso venne firmato anche da un rappresentante locale del governo di Budapest.

Le patologie

Leggendo il rapporto del 2014 dell’Ecdc (European Center for Disease Control) dal titolo «Valutazione del carico delle malattie infettive nella popolazione di immigrati nell’Unione Europea», ci si rende conto che, pur essendo presenti tra i migranti casi di malattie infettive, il maggiore pericolo che ne deriva per la nostra comunità è rappresentato dalla difficoltà di accesso alle cure per queste persone, con conseguente possibilità di contagio per patologie non curate. Questo rapporto ha preso in considerazione le più diffuse malattie infettive sia tra i migranti che nelle popolazioni ospitanti ed è basato sull’analisi di dati del sistema europeo di sorveglianza delle malattie infettive (European Surveillance System, Tessy), su una revisione della letteratura e su una indagine condotta da una rete di esperti selezionati in tutti i paesi Ue. In particolare il rapporto si è occupato di Hiv, tubercolosi, epatite B e C, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia, malaria e malattia di Chagas. Proviamo a dae un breve quadro.

Hiv – Tra il 2007 e il 2011, i migranti rappresentavano il 39% di tutti i casi di sieropositivi presenti sul territorio. In questo intervallo di tempo, l’incidenza di nuovi casi di Hiv è aumentata debolmente. Le popolazioni di migranti con maggiore incidenza sono state quelle latinoamericane e quelle dell’Europa centrale e dell’Est, mentre quelle dell’Africa subsahariana hanno dimostrato una diminuzione. Il 92% dei casi di Hiv tra i migranti è stato riscontrato negli stati dell’Europa occidentale e la maggior parte di essi riguardava persone provenienti dall’Africa subsahariana. Un elevato numero di casi di Hiv era dovuto a rapporti eterosessuali. Il modo predominante di trasmissione dell’Hiv tra i migranti tuttavia dipendeva dal paese d’origine. Per esempio, esiste un’alto numero di casi dovuti a rapporti omosessuali tra gli uomini latinoamericani. Il rapporto evidenzia inoltre che certe popolazioni di migranti sono a rischio di contrarre l’Hiv dopo il loro arrivo in Europa. Non si tratterebbe quindi di casi di «importazione», ma di migranti suscettibili a contrarre l’infezione una volta arrivati nell’Ue, probabilmente a causa di comportamenti a rischio e mancanza di modelli di prevenzione. La diagnosi tardiva di Hiv per i migranti è una questione chiave in alcuni paesi dell’Ue. Inoltre queste persone spesso presentano meno indicatori clinici e immunologici al momento della diagnosi, rispetto ai casi di Hiv europei. L’età media degli immigrati con sieropositività è di 32 anni. Circa il 35% degli immigrati Hiv positivi è di origine nigeriana, ma se si considera il tasso standardizzato (che tiene conto della distribuzione della popolazione per età, ndr) il paese di provenienza più rappresentato è il Camerun. Il 78% di nuove diagnosi in Italia riguarda stranieri irregolari. Le principali co-diagnosi registrate con la diagnosi di Hiv sono anemia, epatopatie, infezioni dell’apparato genitale e mutilazioni genitali femminili.

Tubercolosi – La maggioranza dei casi di tubercolosi (Tb) in Europa si riscontra tra le popolazioni native. Tuttavia questa patologia viene frequentemente riscontrata anche tra i migranti. La percentuale di casi di tubercolosi tra i migranti ha avuto un aumento dal 10% nel 2000 al 25% nel 2010. Vi sono però significative differenze nel numero di migranti colpiti, a seconda del paese ospitante. Nel 2011, nazioni come Cipro, Islanda, Olanda, Norvegia, Svezia e Regno Unito hanno registrato fino a più del 70% di casi di tubercolosi fra i migranti, mentre altri paesi hanno registrato pochi o nessun caso. Il picco di questa patologia si verifica per la classe di età 25-34 anni, la più rappresentata nei paesi ospitanti. Sicuramente, e questo riguarda tutte le patologie prese in esame, esiste un certo grado di sottonotifica della malattia e inoltre la frammentarietà dei dati varia tra i diversi gruppi etnici, per via della percentuale di immigrati irregolari nelle diverse comunità. Il rischio di sviluppare la tubercolosi è maggiore nei primi due anni dalla data di arrivo. I dati del Sistema di notifica italiano mostrano come fino al 2007 i casi di tubercolosi tra i migranti insorgevano prevalentemente entro i primi due anni di permanenza in Italia, mentre dal 2008 c’è stata un’inversione di tendenza, con un aumento dei casi insorti a cinque anni e oltre dall’arrivo. In generale, sebbene l’incidenza della tubercolosi sia diminuita negli ultimi anni, la popolazione immigrata presenta un rischio relativo di contrarre la malattia 10-15 volte superiore rispetto alla popolazione italiana e a quella della maggior parte dei paesi europei.

Trattamento Tb – La proporzione di casi di Tb trattati con successo a 12 mesi dall’inizio della malattia risulta inferiore per i migranti rispetto ai nativi. In Italia i casi di tubercolosi tra gli immigrati sono aumentati considerevolmente, passando dal 10% delle notifiche nel 1995 al 58% nel 2012. Secondo i dati dell’Oms, nel 2014 in Italia sono stati notificati 3.600 casi di tubercolosi totali, con 290 decessi, di cui 31 pazienti Hiv positivi. Il tasso d’incidenza stimato è stato pari a 6 casi su 100.000 abitanti, valore che pone l’Italia tra i paesi a più bassa incidenza per la tubercolosi. Uno studio condotto sulla frequenza di nuovi casi di Tb nella popolazione straniera non ha registrato un aumento dei tassi di incidenza (il conteggio annuale dei nuovi casi di una determinata patologia, ndr) della patologia, indicando che l’aumento dei nuovi casi sarebbe da ascriversi alla crescita degli stranieri in Italia. Questo dato dovrebbe contribuire a ridimensionare la preoccupazione riguardante la diffusione della tubercolosi in forma epidemica. Tuttavia sono talora segnalate delle criticità nella gestione dei pazienti e nella loro accessibilità ai servizi socio sanitari. In particolare alcuni studi hanno evidenziato una perdita al follow up (i controlli medici successivi alle terapie, ndr) superiore tra gli stranieri che tra gli italiani. Inoltre, gli immigrati hanno spesso dimostrato una bassa adesione ai protocolli terapeutici sia per la loro elevata mobilità, sia per difficoltà di comunicazione con gli operatori sanitari. Le barriere culturali e linguistiche spesso giocano un ruolo particolarmente importante nei confronti di una patologia come la tubercolosi, che richiede trattamenti di lunga durata in soggetti spesso asintomatici. Ci sono poi gli immigrati irregolari, che possono sfuggire ai sistemi di sorveglianza per timore di essere espulsi. Tutto questo potrebbe provocare un incremento di forme resistenti ai farmaci, sul nostro territorio, del mycobacterium tuberculosis, il micobatterio della tubercolosi. In Europa i migranti colpiti da tubercolosi provengono soprattutto dall’Asia e dall’Africa, oltre che da altre regioni europee. In Italia, le nazioni di origine più rappresentate tra gli affetti da Tb sono: Etiopia, Pakistan, Senegal, Perù, India, Costa d’Avorio, Eritrea, Nigeria, Bangladesh e Romania. I dati a nostra disposizione dimostrano che la malattia colpisce i migranti a un’età inferiore rispetto a quella dei nativi, che la possibilità di contrarre forme di «Tb extrapolmonare» (che colpisce organi diversi, ndr) è doppia tra i migranti, mentre tra loro è meno comune la «Tb multi-resistente» (agli antibiotici, ndr).

Coinfezione Hiv/Tb – Ciò che è emerso dagli studi è che l’immigrato proveniente da paesi ad alta endemia di Tb e Hiv ha un elevato rischio di sviluppare una o entrambe le malattie, una volta giunto nel paese ospitante. La migrazione costituisce infatti di per sé un fattore di rischio per il cambiamento dello stile di vita a cui vanno incontro queste persone, caratterizzato da precarie condizioni socio economiche e sistemazione in luoghi spesso particolarmente sovraffollati e privi di ogni genere di comfort. L’attiva ricerca di nuovi farmaci per contrastare l’Hiv si contrappone all’innovazione di una terapia antitubercolare stabile da più di mezzo secolo. Inoltre l’infezione da Hiv rappresenta il maggiore fattore di rischio di sviluppo della tubercolosi in soggetti con Tb latente. Infatti il rischio di sviluppo della Tb è da 20 a 37 volte maggiore tra i sieropositivi, rispetto ai sieronegativi da Hiv. Si stima che più di un milione di persone nel mondo abbiano una coinfezione Hiv/Tb, soprattutto nell’Africa subsahariana e in Asia. I dati italiani dimostrano un’elevata cutipositività alla tubercolina (test atto a scoprire i soggetti infettati dal bacillo, ndr) tra gli immigrati al momento dell’arrivo nel nostro paese, indice di pregressa infezione. Sulla base di questi dati si può ipotizzare che lo sviluppo della malattia sia conseguenza, nella maggior parte dei casi, di riattivazione di pregresse infezioni allo stato latente. Dal momento che la maggior parte degli episodi di malattia si manifesta precocemente, si può ipotizzare il ruolo primario delle condizioni socio economiche dei migranti, particolarmente sfavorevoli nel primo periodo di migrazione.

Gonorrea e sifilide – I dati relativi ai migranti colpiti da queste due malattie veneree sono disponibili solo in poche nazioni europee e sono spesso incompleti. Facendo un confronto con i dati delle popolazioni autoctone, si osserva che, nel 2010, l’11% dei casi di gonorrea ha riguardato i migranti, contro il 50% dei casi nei nativi, mentre si sono riscontrati casi di sifilide nel 7,3% dei migranti e nel 55,4% dei nativi. Tra il 2000 ed il 2010, la percentuale di casi di gonorrea e sifilide tra i migranti è rimasta stabile. Tuttavia, per quanto riguarda la gonorrea, il rapporto maschi/femmine per i nativi colpiti dalla malattia è rimasta stabile, mentre per i migranti sono aumentati i casi di donne malate. I dati a disposizione suggeriscono che i migranti acquisiscono la gonorrea con i rapporti eterosessuali quattro volte più facilmente che con quelli omosessuali. La percentuale dei casi di gonorrea tra i «lavoratori del sesso» è decisamente superiore tra i migranti, che tra i nativi ed appare significativamente in aumento dal 2006. Per quanto riguarda la sifilide, essa viene contratta maggiormente con i rapporti eterosessuali dai migranti e con quelli omosessuali dai nativi.

Epatite B – Nel 2011, 18 nazioni europee hanno fornito dati relativi ai casi di epatite B tra i migranti per il 39,1% di tutti i casi riportati all’Ecdc. Di questi ultimi, più della metà, cioè il 52,6%, erano casi «importati». Il 6,3% di questi casi era di tipo acuto e l’81,5% di tipo cronico. I dati a disposizione dimostrano una prevalenza di casi di epatite B cronica tra i migranti, rispetto ai nativi. Inoltre si evince che la prevalenza dei casi di epatite è maggiore tra i migranti provenienti da paesi ad alta endemia come quelli dell’Europa dell’est, dell’Asia e dell’Africa subsahariana. Mentre i casi di epatite B tra gli europei si riscontrano più frequentemente in gruppi a rischio come gli omosessuali ed i consumatori di droghe per via endovenosa, i casi tra i migranti sono stati più frequentemente acquisiti nei paesi d’origine, spesso con trasmissione verticale madre-figlio.

Epatite C – Sebbene i dati a disposizione al riguardo siano molto frammentari, essi suggeriscono una prevalenza di infezioni croniche tra i migranti. I dati provenienti da Francia, Regno Unito, Spagna e Olanda suggeriscono una prevalenza dei casi di epatite C soprattutto tra i migranti provenienti da paesi in cui la malattia è endemica, rispetto alla popolazione totale. Al momento tuttavia i dati a disposizione sono insufficienti per valutare il trend.

Morbillo e rosolia – Dei 10.271 casi di morbillo riportati nel 2013 dal sistema Tessy, solo il 2,7% erano «importati» e lo 0,3% correlati a migranti. I dati a disposizione suggeriscono che i figli dei migranti si ammalano di morbillo più facilmente di quelli degli europei perché la loro copertura vaccinale è inadeguata.

Per quanto riguarda la rosolia, dei 201 casi riportati dal Tessy nel 2011, l‘8,5% è risultato di «importazione». Anche in questo caso il maggiore fattore di rischio è rappresentato dalla vaccinazione inadeguata tra i migranti, in particolare tra le migranti gravide.

Malaria – Il 99% dei casi di malaria riportati dai paesi europei sono di «importazione». I casi indigeni in Europa potrebbero essere dovuti alla presenza dei vettori della malattia e a favorevoli condizioni di trasmissione della medesima, combinate con l’arrivo e il rapido tu over dei lavoratori stagionali migranti da zone dove tale malattia è endemica. In una serie di studi, gli immigrati da poco tempo e quelli che periodicamente tornano nel loro paese d’origine rappresentano dal 5% all’81% del totale dei casi di malaria registrati in Europa. In particolare coloro che spesso tornano nel loro paese d’origine hanno dimostrato una maggiore suscettibilità all’acquisizione della malaria. Tra costoro, le persone più a rischio sono le donne gravide ed i bambini. Anche il paese d’origine influenza il profilo della malattia. La malaria dovuta al Plasmodium falciparum, ad esempio, si sviluppa principalmente in migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Malattia di Chagas – Nota anche come tripanosomiasi americana, è una parassitosi, causata dal protozoo Trypanosoma cruzi. I vettori sono insetti appartenenti alla sottoclasse delle cimici ematofaghe di generi diversi. È presente in Europa a seguito della migrazione da paesi latinoamericani, in cui è endemica. Sebbene la malattia non sia sistematicamente monitorata nelle nazioni europee, tuttavia il numero di casi è aumentato nell’ultimo decennio, al punto da destare preoccupazione. Spagna, Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Olanda sono le nazioni più colpite.

 

Ebola – Dato l’elevato grado di letalità di questo virus, che ha un periodo d’incubazione di 21 giorni e che, dopo avere provocato una malattia estremamente debilitante, uccide in pochi giorni e in considerazione della lunghezza temporale delle migrazioni, che normalmente durano mesi, è estremamente improbabile che qualche persona colpita riesca a raggiungere l’Europa. Infatti finora non sono stati segnalati casi di Ebola tra i migranti.

Dall’analisi dei dati dell’Ecdc risulta che i migranti normalmente non sono portatori di malattie esotiche, ma solitamente sono persone partite sane dai paesi d’origine, che però si trovano ad avere necessità di assistenza sanitaria per malattie dovute alle nuove condizioni esistenziali.

Da Manzoni ai giorni nostri

Fatte queste premesse, nella prossima puntata cercheremo, tra l’altro, di rispondere a un quesito che la quotidianità e certa politica ci propongono: gli immigrati sono i nuovi «untori» di manzoniana memoria?

Rosanna Novara Topino

(fine prima parte)




Missione Europa: dalla memoria all’azione


Due anni fa, come missionari e missionarie della Consolata abbiamo promosso in tutte le nostre comunità sparse per il mondo un anno speciale dedicato al beato Giuseppe Allamano. Lo scopo di quell’iniziativa era di riscoprire e rinnovare il legame affettivo con la persona del nostro fondatore, per scongiurare il rischio di lasciare arrugginire il rapporto vitale con la nostra storia.

Quando uno entra a far parte dei missionari della Consolata,  è chiamato a vivere una relazione speciale con l’Istituto, che l’Allamano ha sempre considerato come una famiglia. In questa maniera non banalizza né narcotizza nella routine quotidiana uno stile di vita per la missione che invece va continuamente rivitalizzato e rinnovato. La missione non si vive per abitudine, ma richiede di essere riscoperta, rivissuta e ripresentata con forza in modo appassionato e coinvolgente.

Se questa riflessione è valida per tutti i missionari sparsi nei vari continenti, in Europa è ancora più urgente, a causa della profonda trasformazione che il continente sta vivendo. Una situazione che offre spunti di enorme interesse alla riflessione sulla missione. Per anni l’Europa è stato lo scrigno della nostra tradizione. Ma ora rischia di essere la nostra tomba. Senza voler essere irriverenti, dobbiamo oggi estrarre il «tesoro» del beato Allamano che abbiamo chiuso nel sepolcro in cui egli è venerato, allo scopo di proiettarlo, senza bisogno di troppe parole ma attraverso la nostra vita e le nostre scelte, nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’Italia, del Portogallo, della Spagna e della Polonia, i paesi europei in cui lavoriamo.

Siamo quindi chiamati oggi a coltivare una duplice spiritualità: della memoria e dell’azione. Innanzitutto della memoria: qui siamo nati, qui l’Istituto ha mosso i primi passi, qui si è sviluppato e da qui ha vissuto la propria missione, dedicandosi all’animazione missionaria della Chiesa locale, alla ricerca di aiuti e vocazioni per le missioni. Qui alcuni grandi confratelli e consorelle hanno dedicato con zelo e passione la loro vita per mantenere e far crescere la dimensione missionaria della Chiesa in Europa. Riscoprire la figura dell’Allamano sacerdote in Europa, e quella dei confratelli che ne hanno continuato lo spirito, è il primo compito che ci proponiamo. Saremo forse nani sulle spalle di giganti, come diceva Wittgenstein dei grandi filosofi dell’antichità, ma dall’alto di quelle robuste spalle che ci sostengono, vogliamo guardare lontano.

La memoria da sola non basta, va perciò coniugata con una spiritualità dell’azione per capire come tradurre in atteggiamenti concreti lo spirito del missionario della Consolata in un contesto come quello europeo. Senza abbandonare quella che era «l’animazione missionaria», oggi abbiamo in atto tante nuove esperienze di consolazione e annuncio all’interno delle chiese europee. L’apertura di nuove presenze in quartieri marginali, l’accoglienza di profughi e migranti in alcune delle nostre case, il servizio alle comunità etniche o alle donne sfruttate, le molteplici attività di consolazione dirette a curare l’uomo di oggi ferito dalla solitudine e dal sentirsi uno scarto della società, la vicinanza ai giovani ormai lontani dalla vita ecclesiale, eppure così desiderosi di qualcuno che parli loro di Dio …

Possiamo riscoprire la nostra vocazione di annunciatori della Buona Notizia nei «nostri» paesi diventati un terreno fertile per vivere la nostra vocazione delle origini: il primo annuncio del Vangelo.

Ugo Pozzoli