Cibo: bisogno di tutti, monopolio di pochi

Un pugno di
multinazionali controlla il 70% dei semi. E quattro gestiscono il 90% della
distribuzione di alimenti. Sono loro che decidono cosa mangiamo. Le risorse per
produrre cibo – terra, acqua, capitali – sono sempre più appannaggio di pochi.

 

All’Expo di
Milano, ci sono tutti: Capi di stato, governi, istituzioni inteazionali,
imprese e organizzazioni della società civile. Davanti a milioni di visitatori
ammaliati, discutono di questioni alimentari e si sforzano di dimostrare, con
le parole e con la pratica, come si può nutrire il pianeta, rigenerando la
vita.

Di
fronte a tanta energia positiva, a tanto impegno e competenze, viene spontaneo
chiedersi perché non ci si è pensato prima, perché bisognava organizzare
un’esposizione universale per trattare di un tema che è al centro della
sopravvivenza umana?

Era
proprio necessario organizzare un evento così grande, con investimenti così
ingenti e con gli strascichi di malversazioni che lo hanno accompagnato, specie
all’inizio, quando i controlli non erano stati ancora attivati? Non ci si
poteva sedere attorno a un tavolo e trovare le soluzioni? Non sarebbe stato
meglio mettere in pratica le raccomandazioni e i piani di azione che negli anni
le agenzie dell’Onu specializzate, la Fao, il Programma alimentare mondiale e
Ifad, hanno messo a punto in decine di conferenze, ricerche e documenti?

Da
tempo si poteva agire per sottrarre alla fame 840 milioni di persone che ancora
ne soffrono, e salvare dalla malnutrizione i 161 milioni di bambini che ne sono
colpiti.

Semplicemente perché viviamo in un mondo complesso
e sbagliato dove chi è povero e debole non riesce a far sentire la sua voce, né
a influenzare le scelte politiche ed economiche.

Per
questo ci voleva l’Expo, perché le persone comuni, i consumatori, i giovani
capissero e dicessero: basta, facciamo qualcosa!

Perché
fosse chiaro quello che il Mahatma Gandhi intuiva quasi cento anni fa: «La
terra produce abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, non l’avidità di
pochi».

Tutti
gli abitanti del pianeta potrebbero ricevere una nutrizione sufficiente e di
qualità se ci fosse un po’ di giustizia in più, se si mettesse un freno al
monopolio delle risorse necessarie per produrre e distribuire il cibo: terra,
acqua, capitali.

Oggi
queste risorse sono concentrate nelle mani di poche grandi imprese: sette
multinazionali controllano il 70 per cento del mercato dei semi, dieci si
spartiscono le foiture di pesticidi, nel mercato dei cereali 9 transazioni su
10 sono controllate da quattro corporations. I grandi marchi che dominano la distribuzione sono una
decina: Nestlè, Kraft, Unilever, Pepsi, Mars, Danone, Kellodg’s, General Mill,
Coca Cola.

Sono
loro che decidono cosa dobbiamo mangiare: cibo sano che ci mantiene in salute o
cibo spazzatura che aumenta il rischio di malattie.

Sempre
loro indirizzano la ricerca scientifica nel settore alimentare, per la quale è
più profittevole studiare ortaggi a lenta maturazione per rifornire le tavole
del mondo ricco piuttosto che piante resistenti alla siccità per nutrire le
popolazioni dell’Africa saheliana.

Sono
le grandi imprese dell’agroindustria che, per garantirsi i profitti futuri, si
accaparrano le terre e le fonti d’acqua comprandole da governi irresponsabili e
corrotti in paesi dove i poveri sono sempre di più e contano sempre meno.

Queste
imprese sono venute all’Expo di Milano a mostrare le loro strabilianti
innovazioni e le loro merci evolute con l’obiettivo di tenere alta la propria
reputazione. Sanno, infatti, che la riprovazione pubblica e la condanna morale
danneggiano i buoni affari.

Fortunatamente
la denuncia delle loro responsabilità non rimane più circoscritta a pochi
ostinati, a livello politico e tra i cittadini si sta diffondendo l’idea che il
loro comportamento va tenuto sotto controllo.

L’Ocse
e l’Onu hanno promosso le «Linee guida» per le imprese in materia di ambiente e
impatto sociale. L’anno scorso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite ha approvato un’importante risoluzione per la quale si arriverà ad
adottare uno strumento legalmente vincolante, che potrà sanzionare le imprese
colpevoli di violazioni dei diritti umani.

Alcune
Ong hanno attivato sistemi di monitoraggio in numerosi paesi del mondo ed
esiste una piattaforma creata dal Center for Business and Human Rights, un ente
non profit che ha sede a New York, consultabile dai consumatori per valutare le
politiche e la condotta delle imprese dal punto di vista sociale e ambientale.

Come
visitatori e come organizzazioni sociali siamo presenti a Expo anche per
questo, per dire alle grandi imprese che il loro gioco non ci piace e che
vogliamo cambiare le regole.

Sabina Siniscalchi




Roma e i migranti / 2

Nella prima puntata
di questo reportage abbiamo raccontato delle origini dell’accoglienza nella
capitale, della situazione dei migranti dal punto di vista sanitario e di
baraccopoli e occupazioni, introducendo il tema dei rifugiati. Riprendiamo da
qui, allargando la prospettiva anche alla condizione dei Rom.

 


«È impossibile essere precisi sul numero totale di rifugiati che
attualmente vivono a Roma: le stime dicono fra le otto e le diecimila unità». A
parlare è Berardino Guarino, responsabile dei progetti della Fondazione Centro
Astalli. «I percorsi che richiedenti asilo e rifugiati seguono per trovare un
posto dove stare sono tipicamente quattro: in primo luogo, ci sono i 2.500
posti gestiti congiuntamente da Comune e Servizio di Protezione dei richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar), che hanno liste d’attesa di due o tre mesi e un tempo
di permanenza limitato. A questo primo canale si affiancano poi il circuito
degli eventuali amici e parenti, i posti messi in campo direttamente dalle
Prefetture e, infine, gli insediamenti informali, come gli stabili occupati e
le baraccopoli». In totale, gli abitanti di questi ultimi sono stimati in circa
sei-settemila, dislocati nei quattro grossi edifici come il Selam Palace (vedi
articolo precedente, ndr) e in diverse altre realtà di dimensioni più
piccole. La stragrande maggioranza degli occupanti sono migranti, quasi tutti
in possesso di permesso di soggiorno.

L’associazione Centro Astalli – sede italiana del
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, di cui la Fondazione è la «sorella»
impegnata nel campo della formazione e sensibilizzazione – gestisce una
pluralità di attività fra le quali la mensa, che distribuisce circa ottomila
pasti al mese, i centri di accoglienza, che ospitano annualmente circa duecento
persone, il centro notturno, il cui dormitorio ha ricevuto nel 2013 oltre
duecento persone, e l’ambulatorio, con più di duemila accessi l’anno. «Anche
l’accettazione, presso la sede di Via degli Astalli, ha un’importanza
fondamentale: per presentare domanda d’asilo, i migranti devono infatti
dimostrare di essere reperibili e nel 2013 sono stati oltre seimila i
richiedenti asilo e rifugiati che si sono domiciliati da noi».

Oltre al Centro Astalli, in città sono attivi
nell’accoglienza ai migranti forzati altre organizzazioni fra cui la Caritas,
la Comunità di Sant’Egidio, l’Arci. Il cornordinamento cittadino, prosegue
Guarino, è buono, ma se la situazione rimane problematica sia nella fase
dell’accoglienza che in quelle successive è perché «a monte, l’Italia non ha
mai avuto un piano per l’integrazione. Abbiamo integrato cinque milioni di
stranieri a prescindere dallo stato». E gli errori non si limitano a questo: è
stato un errore firmare la convenzione di Dublino, è un errore pensare che
Triton, l’operazione dell’agenzia europea di controllo delle frontiere Frontex
subentrata lo scorso novembre alla missione italiana Mare Nostrum, sia la
soluzione. «Nei primi due mesi del 2015 sono sbarcati tremila migranti in più
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Dovrebbe riflettere su questo
chi diceva che Mare Nostrum era un incentivo alle partenze in quanto missione
di salvataggio e non, come Triton, di protezione dei confini».

L’Europa ci lascia da soli a gestire l’emergenza? «Sì»,
conclude Guarino, «ci lascia soli nel senso che su diritti umani e immigrazione
non v’è certamente lo stesso cornordinamento che vediamo per le politiche
economiche. Inoltre, gli stati europei con gli standard di accoglienza più
elevati, come la Germania, temono che i paesi con meno coscienza civile non
rispettino gli impegni eventualmente presi in sede europea», facendo a scaricabarile
per non accollarsi i costi della gestione dei flussi migratori. La Germania
alla fine del 2013 ospitava circa trecentomila fra rifugiati e richiedenti
asilo a fronte dei nostri novantamila e aveva 126 mila nuove richieste d’asilo
contro le 26 mila in Italia.

La
popolazione romanì: Rom e Sinti a Roma

In Via Anicia, a due passi dalla Basilica di Santa
Cecilia in Trastevere, una ventina di persone aspetta fuori dalla porta del
Centro «Genti di Pace» della Comunità di Sant’Egidio. Un centinaio sono invece
già all’interno del centro: sono Rom e Sinti di tutte le età. Ogni venerdì
arrivano dai campi per parlare con i consulenti per l’orientamento
amministrativo e legale o per fare una visita medica presso l’ambulatorio.
Altri sono in attesa di usare le docce, di ricevere provviste alimentari, di
ritirare la loro biancheria lavata e asciugata nella lavanderia del Centro o di
prendere un indumento dagli scaffali della sala dove, impilati e divisi per
tipo, sono sistemati i capi frutto delle raccolte di vestiti usati. «Si
registrano all’accettazione», spiega Paolo Ciani, il responsabile delle attività
di Sant’Egidio con i Rom e i Sinti, «ricevono gratuitamente la tessera del
centro e da quel momento possono accedere ai servizi». Grazie anche alla
registrazione, il Centro è diventato un osservatorio sui nuovi arrivi: i più
recenti sono quelli delle comunità bulgare, da circa cinque anni a questa
parte, mentre le prime presenze delle comunità rumene risalgono al decennio fra
il 1990 e il duemila, precedute di vent’anni dai Rom della ex Jugoslavia.

«Fra campi autorizzati e campi spontanei», precisa
Ciani, «vivono a Roma fra le sei e le settemila persone». Circa il doppio del
totale dei rom e sinti in città – gli altri vivono nelle case  – e più o meno un sesto del dato nazionale,
che stima in quarantamila gli abitanti dei campi. L’assegnazione delle case
popolari a questi rom è stata, fino a tre anni fa, impraticabile: il punteggio
nelle graduatorie per chi richiede l’alloggio aumenta infatti per chi ha subito
sfratti e vive in emergenza abitativa, ma lo sgombero non era parificato allo
sfratto né i campi erano considerati luoghi a emergenza abitativa. Ora i
criteri per le graduatorie sono cambiati e il tempo dirà se lo saranno anche i
risultati.

I Rom della ex Jugoslavia sono il gruppo che più di tutti
ha vissuto in ghetti ai margini della città: molti sono nati qui, figli o
nipoti di persone che lasciarono la Jugoslavia durante la guerra e che non
hanno poi acquisito la cittadinanza di uno dei paesi nati dalla dissoluzione
del paese balcanico. «Vivono perciò in un limbo giuridico nel quale sono
apolidi de facto ma non de jure e non possono chiedere per i
propri figli il riconoscimento della nazionalità italiana».

Ma anche per chi ha una situazione giuridica meno
complicata l’uscita dalla condizione di marginalità è difficile. Uno dei banchi
di prova è quello della scuola. È «sintomatico di come lo stato ha trattato
queste comunità. Ci sono stati diversi passaggi: nel primo, le istituzioni non
erano sicure nemmeno del fatto che fosse opportuno scolarizzare i bambini rom e
i dubbi nascevano a volte da pregiudizi culturali “al contrario”, cioè di
malintesa difesa della cultura rom da quella gagé (non rom). Poi è
cominciato un percorso in cui si chiedeva alle famiglie almeno di iscrivere i
figli a scuola e dopo di iscriverli e mandarli almeno qualche volta. E a questa
sequela di “almeno” si è affiancato l’uso della scuola come “merce di scambio”
fra Rom e istituzioni: mando i miei figli a scuola se mi dai un campo
attrezzato, non ti caccio dal campo se mandi i bambini a scuola».

A questo poi poteva aggiungersi un problema legato a una
presa in carico che non coinvolgeva abbastanza le famiglie: i bambini
diventavano quasi figli delle associazioni per l’assistenza ai Rom, che si
occupavano di andare ai ricevimenti con gli insegnanti e di ritirare le pagelle
mentre i genitori stavano al campo, completamente deresponsabilizzati.

Ma senza scuola non si fanno progressi. «In questi
decenni di lavoro con i Rom abbiamo visto che dove si è riusciti a scolarizzare
una generazione, questa poi a sua volta ha mandato a scuola i propri figli e si
è innescato un circolo virtuoso». Secondo il rapporto conclusivo dell’indagine
sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti della Commissione diritti umani del
Senato, pubblicata a febbraio 2011, a Roma sono circa 2.200 i bambini rom
iscritti a scuola: la maggioranza, ma i dati cambiano di parecchio a seconda
che i bambini vivano o meno in campi attrezzati e raggiunti da interventi
sociali.

Quanto al modo di procurarsi denaro, gli operatori non
si stancano di ripetere che il ricorso al furto o ad altre attività criminali
interessa gruppi minoritari e diminuisce all’aumentare dell’inclusione sociale.
In una città come Roma, dove il clan dei Casamonica – Rom italiani di antico
insediamento – è nota per attività quali usura, rapine, estorsioni,
sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e stupefacenti specialmente
nel settore Est della Capitale, è difficile evitare che chi ne legge le «gesta»
nelle cronache locali faccia poi l’equazione: zingaro uguale criminale. «Eppure»,
riprende Ciani «se ora chiedessimo ai rom qui al Centro che cosa ne pensano dei
Casamonica, molti non capirebbero nemmeno di chi stiamo parlando».

La popolazione romanì cerca di garantirsi la
sussistenza con diversi mezzi: secondo il quadro delineato da Sant’Egidio,
all’elemosina ricorrono più che altro quelli arrivati di recente. Ci sono poi i
cosiddetti rovistatori, quelli che cercano nei cassonetti dell’immondizia,
attività che crea una serie di problemi: innanzitutto, contribuisce a
diffondere la percezione che i Rom sporcano la città. Poi c’è la questione di
come e dove rivendere quanto raccolto e il timore del proliferare di mercatini
informali. Infine c’è chi la mette in termini di danno al decoro urbano, «come
se il fatto che sia brutto vedere qualcuno che rovista nell’immondizia»,
puntualizza ancora Ciani, «fosse più importante che capire perché lo sta
facendo o evitare che sia costretto a farlo». A Roma l’idea del decoro urbano
appare peraltro un po’ contraddittoria, considerando che legare una bicicletta
alla staccionata di un parco pubblico rischia di attirare l’attenzione della
polizia municipale mentre macchine in doppia fila e motorini sui marciapiedi
hanno maggiori probabilità di passare in cavalleria, quasi fossero un male
necessario.

La frase dell’assessore alle Politiche sociali del
Comune di Roma, Francesca Danese, circa la possibilità di impiegare i Rom nella
raccolta dei rifiuti ha scatenato lo scorso febbraio una tempesta di polemiche.
Secondo Paolo Ciani, la frase dell’assessore è stata recepita dai media e dal
mondo politico nel peggiore dei modi: «È ovvio che un Comune non può demandare
la differenziata ai rom. Ma ragionare su un possibile inserimento lavorativo
che valorizzi le competenze specifiche delle persone non è certo sbagliato».

E le competenze non si fermano al riciclo: la raccolta e
la lavorazione dei metalli è da sempre un altro campo nel quale i rom sono
piuttosto esperti. In diversi casi hanno aperto partite Iva e svolgono
l’attività in modo non meno regolare di altri. Hanno anche gli stessi
grattacapi dei colleghi gagé per via delle direttive Ue sulla
tracciabilità dei metalli: se i documenti non sono in ordine, i commercianti si
vedono il camion sequestrato e l’attività sospesa. Quanto ai famigerati roghi
alla diossina che si alzano dai campi e che esasperano gli abitanti dei
quartieri circostanti, in alcuni casi sono fuochi per bruciare l’immondizia, in
altri un modo per separare il rame dagli altri materiali. «E allora perché non
pensare a creare foi appositi e in regola con le normative, costruendoli
grazie a una colletta a cui partecipino i Rom stessi, piuttosto che impedire e
reprimere un lavoro, come quello della raccolta del metallo, ben avviato,
remunerativo e utile?». Ma, come Mafia Capitale ha dimostrato, l’anarchia e gli
sgomberi senza ricollocazione, che poi creavano altri insediamenti informali
pochi chilometri più in là o che foivano nuovi «clienti» ai campi gestiti
dalla cupola romana, facevano comodo a chi lucrava sulle situazioni
emergenziali, vere o presunte.

I contraccolpi dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo per ora
non si sono avvertiti nel concreto dell’accoglienza e della gestione del
disagio, fatta eccezione per il ritardo nel piano per l’emergenza freddo
dell’inverno scorso. Ma i contraccolpi culturali sono stati pesanti:
soprattutto per il diffondersi dell’idea che non vale la pena di spendere
denari per migranti e rom, perché tanto finiscono «mangiati» dalle associazioni
che campano sul business dei poveri. Queste spesso finiscono tutte nello stesso
calderone, anche chi lavora seriamente. Per quanto riguarda i rom in
particolare, conclude il rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, Mafia
Capitale ha anche fatto aumentare il disprezzo verso i gagé: fanno
affari sulla nostra pelle, dicono i Rom, con una generalizzazione eguale e
contraria a quella applicata a loro. E così crescono anche «il vittimismo a cui
tanti rom finiscono per abbandonarsi e la rassegnazione, che investe sia la
popolazione romanì che le istituzioni che con essa si rapportano».

È già buio, un altro autobus raccoglie il suo carico di
umanità per portarlo dalle arcate di travertino del Teatro di Marcello ai
casermoni della Magliana. Sull’autobus, tutti fanno smorfie e si tengono il
naso fra due dita per non respirare l’odore acre che ammorba l’aria. Un ragazzo
con lunghe ciocche bionde di capelli infeltriti è nell’ultimo sedile, con la
fronte pallida posata sullo schienale davanti, forse svenuto. L’orlo slabbrato
dei pantaloni lascia vedere i piedi scalzi, sudici. «Non si può vivere così»,
dice un uomo non più giovane con accento dell’Est Europa seduto accanto alla
moglie, «bisogna lavarsi! Vedi?, oggi sono stato a Via Anicia, ho vestiti
puliti, io, ho fatto la doccia».

Roma trova tanti modi per dirti che sotto alla crosta
fragile della grande bellezza i ruoli si invertono in un attimo, e quasi niente
è quello che sembra.

Chiara Giovetti

Tags: Migranti, Roma, Rom e Sinti, Rifugiati, Centro Astalli

Chiara Giovetti




in realtà, l’Africa non esiste

Diario di un giovane
da Isiro /2

Il servizio al centro
nutrizionale, i viaggi in piena foresta, gl’incredibili itinerari a piedi, in
bici o moto, il Natale con 30°, i giochi con i bimbi, le serate attorno al
fuoco contemplando volti, balli, stelle. La riscoperta dell’essenziale. La sorpresa di
un’Africa inattesa. Seguiamo Tommaso nella sua esperienza missionaria.

 


2 Novembre 2014

Sono partito per Neisu. In lingua locale «neisu»
significa «cuore». In effetti, siamo nel cuore della foresta equatoriale. Il
viaggio Isiro-Neisu (30 km) è stato in pieno stile africano: Defender piena di
persone, io e altri due nel bagagliaio. Siamo in foresta, e il posto è
bellissimo. Vicini alla missione ci sono l’ospedale e la grande chiesa.
Inoltre, ad accogliermi ci sono dei meravigliosi muffin alla banana e dei
biscottini deliziosi alla soia: dolci veri dopo due mesi. E la cosa bellissima è
che li producono qui in casa anche per il centro nutrizionale dell’ospedale. È
già in programma che imparerò a farli.

Qui sono nel «regno» di padre Rinaldo Do, un vero
vulcano. Con lui le cose da fare non mancano mai. Bisogna stare attenti a farsi
vedere in giro perché ti trova sempre un lavoro. Ha un grande carisma, e la
gente gli vuole veramente bene.

In parrocchia, il sabato pomeriggio, ci sono le prove
della corale e gli incontri dei gruppi. Mi son buttato in mezzo a quel traffico
di gente, e sono stato con i bambini e i giovani. Dato che anche qua la frase
di presentazione è «donne moi de l’argent» («dammi dei soldi»), mi sono
inventato che «argent» in italiano significa botte, così dopo i primi
scappellotti sulla testa e le annesse risate, hanno smesso di chiedere.

Dovete sapere che la missione, oltre ad avere in carico
l’ospedale e la parrocchia, si occupa di altri 83 villaggi-cappelle sparsi
nella foresta. La più lontana è a 70 km. Quindi i padri, a tuo, partono in
moto o in bici e stanno via dei giorni.

Qui s’impara una cosa, cioè che la felicità è la nostra
condizione naturale. Se ti domandano: perché sei felice? La risposta è: perché
no? Il mio stare bene non dipende dal fatto che il mondo va bene, ma piuttosto è
il mondo che va bene perché io mi sento bene. La felicità è dentro di noi, non
viene da fuori, quindi nessuna situazione o persona può rubarcela. Che storia quest’Africa.

6 Novembre 2014

Neisu, Neisu, quanto mi regali! Qui si vive tra la gente,
dove si vede la vera vita dell’Africa. Sono andato vicino alla missione, dove
si produce olio di palma. Dovete immaginarvi un grosso palo in cui è inserito
un pezzo di ferro, e le persone lo spingono facendolo girare. Per lo sforzo
fisico enorme la quantità di olio estratto è davvero poca. Con il lavoro di un
intero pomeriggio di tre persone (senza contare il tempo speso a raccogliere i
semi della palma) si produce una tanica di olio che viene venduta a 6mila
franchi (circa sei euro): una miseria. Eppure qui è così, si lotta per sfamare
la famiglia e cercare di mandare a scuola qualche figlio.

Ah, la scuola: Isiro in confronto è un paradiso. Insieme
a padre Rinaldo sono andato in bici a visitae diverse. Ci sono ragazzi che
per andare e tornare dalla scuola fanno 14 km a piedi. E, tornati a casa di
sera, devono ancora lavorare e studiare. Per aiutarli, padre Rinaldo sta
lanciando un progetto per acquistare biciclette da rivendere a un prezzo
accessibile. Inoltre in foresta ho visto «classi» di ragazzi dentro una mezza
capanna con una lavagna e senza i banchi. C’è veramente da pensare alla fortuna
del nostro sistema scolastico. Inoltre, a causa della retta qualcuno deve
sospendere la scuola. Potete immaginare i problemi che ciò comporta.

Molto toccante la visita giornaliera ai malati
dell’ospedale.

Infine mi diverto a passare i pomeriggi con i bambini
fuori dalla parrocchia. Pensate, oggi ho insegnato «bandiera genovese».

Sabato partirò in bicicletta per andare in un villaggio a
otto km di distanza, e passerò la notte fuori, ma questo è niente in confronto
al resto: lunedì partirò con padre Rinaldo in moto per raggiungere dei villaggi
a 60 km da qui. Passeremo circa dieci giorni in foresta, senza contatti e
vivendo come e con la gente, mangiando quello che ci offriranno. Questa sarà
sicuramente la più grande prova di adattamento all’essenzialità che farò nella
mia vita.

9 Novembre 2014

Partiamo con due bellissime bici. Qui in Africa ho
imparato una certa prudenza, e mi porto dietro un kit di sopravvivenza
consistente (meglio chiamarlo armadio, per la quantità di cose). Il percorso su
sentirneri sterrati nel mezzo della foresta è meraviglioso, anche se
faticosissimo per il fango, le buche e le continue salite e discese, oltre che
per il sole cocente.

«Sfrecciando» come un bradipo vedo le capanne della gente
che vive in foresta, sento le grida dei bambini che, a ogni curva ci incitano,
manco fosse il traguardo della «nove colli», osservo la potenza della natura in
tutto il suo splendore e il sudore della gente per guadagnarsi da vivere. Sì,
ho smesso subito di pensare alla mia fatica, non appena mi sono ricordato che
ci sono lavoratori (molti ragazzi) che trasportano sulla bici 25, 50 kg di
roba, e per molti chilometri di più.

Dopo 40 minuti, arriviamo in un villaggio su un
bellissimo e grande spazio. Siamo subito accolti alla grande e ci viene
affidata la camera: una stanzetta di fango con un tetto di frasche.

La vita del piccolo villaggio è molto semplice e
accogliente, sotto la paillote (una specie di capanna dove si accolgono
i visitatori) si radunano i bimbi e alcuni adulti, e stiamo lì a parlare. Per
passare il tempo, improvviso un gioco simile a Pictionary, disegnando con un
bastoncino sulla terra. Verso le 18 ceniamo. Del buonissimo mais arrostito,
l’immancabile riso, e il mitico pondù (foglie di manioca pestate e cotte
con pasta di arachidi). La quantità di cibo è esagerata, così, dopo aver
mangiato un po’, lasciamo lì, sapendo che sarà la cena della famiglia della
capanna accanto. Nel frattempo arriva il capo catechista di quella zona, ci
sistemiamo di nuovo sotto la paillote mentre cala un buio pesto. Stanno
arrivando bambini e giovani dalle cappelle dei villaggi vicini per passare la
notte e la messa del giorno dopo insieme. Viene acceso un grande fuoco in uno
spiazzo libero e incominciano canti e balli con tutta la gente: una meraviglia.
A una certa ora andiamo a «dormire». Inizia a piovere forte, la pioggia dentro
la cameretta di fango e foglie si sente fortissimo, e mi chiedo come faccia a
non entrare l’acqua. Ma non è finita: i bambini dormono quasi all’aperto, e per
loro è come un campeggio. Quindi voci, canti, grida e schiamazzi continuano per
tutta la notte. A parte la stanchezza, apprezzo molto l’esperienza della
nottata all’africana. Dopo la colazione inizia la messa. Una corale potente
viene accompagnata da tamburi e uno xilofono gigante di bambù. Durante
l’offertorio vengono portati dei doni (per lo più cibo), tra cui una simpatica
gallinella viva, tutta legata. Il pranzo è nuovamente molto abbondante.
Assaggio un po’ di tutto, ma l’appetito mi passa sapendo che quel cibo poi
sfamerà altre persone, e che io potrò mangiare più tardi. I cinque kg di
bagaglio si rivelano utili perché medico una ragazza che si è scottata con
dell’acqua bollente. Si fa l’ora di tornare a casa. Questa volta con me viaggia
un’amica che, quando prendo delle buche si lamenta ammonendomi: è la gallina.

20 Novembre 2014
Makpulu, foresta equatoriale.

Dopo il viaggio in moto, insaccato come un salame tra i
bagagli e padre Rinaldo, in mezzo a foreste e villaggi su sentirneri scassati,
siamo arrivati in una bella capanna con tanto di tetto in lamiera. Da Makpulu
ci siamo spostati a visitare, in bici, altri sei villaggi. E quindi un giorno sì
e uno no eravamo a dormire, mangiare, dire messa, in un posto diverso. In un
caso, dopo avere raggiunto un villaggio in bici, il giorno dopo ne abbiamo
raggiunto un altro con due ore di cammino a piedi in mezzo alla foresta e a
corsi d’acqua, con la scorta di abitanti del luogo armati di machete.

La fatica per raggiungere i villaggi è sempre stata
ampiamente ripagata dalla folla di gente che ci ha accolto con canti e danze.
Inoltre l’adattamento alle condizioni di vita della gente, per noi impensabili,
è stato molto semplice, una volta compreso che quello che per me è scomodo, è
vita normalissima per altri.

Quante mani strette. Mani piccole e grandi, malate e
sane, giovani e vecchie, morbide e dure, felici e tristi, pulite e sporche. Qui
il saluto più importante è la stretta di mano. C’è il modo normale di darla e
ce n’è un altro che esprime grande gioia. All’inizio non avevo compreso questa
differenza. Quando l’ho colta non potete capire com’è cambiato tutto. Mi sono
sentito accolto e a casa. La loro semplicità nel prepararci i letti, l’acqua
per lavarci e i pasti con grandissima cura, mi hanno fatto capire che per far
sentire bene una persona non c’entra cosa si offre, ma il modo in cui lo si fa.

Credo che non scorderò facilmente questi giorni: i bans
insegnati, le canzoni imparate, quei cieli nottui con un’infinità di stelle.
E il fuoco, grande e forte, attorno al quale, al calare del buio, si radunano
bambini, giovani e vecchi, le mani battono sui tamburi e si scatenano le danze
in cerchio, cantando a squarciagola, con un ritmo travolgente, che ti spinge a
smettere di cercare di capire i passi che non conosci, e a seguire il ritmo
della musica e basta. La gioia intorno a quel fuoco non si può descrivere.
Sarebbe come guardare un tramonto in foto: puoi dire che è bello, ma non vivi
le emozioni, non sai se l’aria era calda o se c’era il vento.

Sono cambiato in questi giorni? Ovviamente sì, non puoi
rimanere uguale. Non sono quelle immagini prive di compassione che passano in
tv mentre si è a tavola o sul divano. Tutto questo c’è davvero, e il minimo da
fare è non essere indifferenti e rileggere la propria vita alla luce di ciò.

30 Novembre 2014
Tornato a Isiro da una settimana. Tornato a casa.

Lunedì sarà l’anniversario dei 50 anni dal martirio della
beata
Anuarite, congolese e martirizzata proprio a Isiro, e martedì sono arrivati da
noi sei vescovi. Al loro arrivo, con quattro giorni di anticipo, in casa è
iniziato il putiferio, e io, oltre a preparare le stanze, mi sono messo a fare
un chilo di ravioli. Gli africani non apprezzano molto i cibi stranieri,
infatti ne hanno mangiati pochi, ma non vi preoccupate: li ho finiti io.

In questi giorni abbiamo anche salutato due diaconi che
partivano per essere ordinati sacerdoti nei loro paesi, ed è partito Jeremy.
Questo significa che io sono, di punto in bianco, diventato il responsabile
dell’orto. E così mi sono accorto che la stagione delle piogge mi manca da
morire. Adesso bisogna annaffiare l’orto mattina e sera, il che richiede un’ora
e mezza ogni volta. Ora capisco l’importanza delle piogge, soprattutto per la
gente che, durante la secca, non ha l’acqua.

Insieme ai vescovi è arrivato un esercito di suore che ci
hanno letteralmente invaso la casa. Ma non è finita: ieri sono arrivati anche
il cardinale e il nunzio apostolico del Congo, accompagnati da quattro guardie
del corpo. Dovete sapere che qui in Congo la chiesa si è esposta molto
opponendosi alla modificazione della Costituzione, per impedire che il
presidente rinnovasse ancora il mandato. Quindi il cardinale potrebbe
addirittura essere bersaglio di un attentato.

In tutto questo tran tran, il grande Ivo è stato dietro a
tutto. Il prossimo martire del Congo, se va avanti così, sarà lui. In questi
giorni non sono andato quasi mai a Gajen per dare una mano qua in casa. Eh già.
È bello chiamare casa questo posto. Qui c’è anche la mia famiglia africana:
sono un po’ tutti matti, ma siamo una famiglia.

Intanto oggi mi sono accorto che è iniziato l’avvento. Sì,
dico che me ne sono accorto perché, con un sole da spiaggia e 30 gradi, non
sembra di essere a dicembre. Sarà un Natale interessante.

4 Dicembre 2014

Il 50° anniversario del martirio della beata Anuarite,
con 300mila pellegrini che hanno riempito Isiro, non si può dire che sia
passato inosservato. La funzione è incominciata alle 9,00 ed è finita alle
15,00. Era tutto ben organizzato, con tanto di fuochi d’artificio e macchina
delle bolle di sapone durante alcuni canti. Sono anche intervenuti il
governatore e la moglie.In tutto ciò ho ricevuto un bellissimo regalo: mi è
arrivato da Makpulu un arco con delle frecce (forse qualcuna avvelenata) che mi
era stato promesso. Ovviamente mi sono messo subito ad esercitarmi in giardino
per tirare fuori il Robin Hood che è in me, ma devo ancora allenarmi un po’.

Sono ritornato a lavorare al centro Gajen da cui mancavo
da più di un mese. Quante cose sono cambiate. Prima fra tutte i bambini. Non ce
n’è uno di quelli che ho conosciuto, e devo ammettere che mi dispiace non
averli salutati. Ma d’altro canto non posso che essere felice perché, se non ci
sono più, significa che sono guariti. Quindi mi sono ributtato: questa volta c’è
un bel gruppetto di 5-8 anni. Ci sono Jil (Samì) ed Eest (Bibi) che sono due
macchiette: mi parlano tranquillamente in Lingala pensando che io capisca. E
poi c’è John: il nuovo Radis. È un bambino che, a vederlo, non si direbbe
malnutrito, inoltre è iperattivo e corre dappertutto. Inizialmente mi è venuto
incontro per tirarmi una manata, e mi ha lanciato le sue ciabatte. Ma poi mi si
è buttato addosso a braccia aperte perché lo abbracciassi. Oggi mentre
distribuivamo il pranzo ho controllato che i bambini mangiassero, quando sono
arrivato da John mi sono messo a ridere per la voracità con cui si metteva il
cibo in bocca: due manate alla volta. Quando si è accorto che lo guardavo, ha
cambiato atteggiamento e, ogni volta, prima di infilarsi due pugni di cibo in
bocca, ne allungava uno verso di me come a dire: «Questo prendilo te». Ogni
volta gli ho dovuto dire «Yo» (tu), perché mangiasse.

Ho visto un film un po’ cruento che tratta del traffico e
della guerra per i diamanti in Africa, «Blood Diamonds». Mi ha fatto
impressione: vedere tutta quella crudeltà e sofferenza, e vedere nei volti
degli attori i volti di bambini, giovani, persone che ora conosco, e
immaginarli in quelle situazioni, mi ha veramente scosso. Pensare a come i
paesi più ricchi abbiamo sfruttato l’ignoranza e le risorse di questi popoli, e
lo fanno tuttora, provocando guerre e morte, mi fa venire la nausea.

20 Dicembre 2014

Al centro nutrizionale la responsabile è andata in
congedo per un mese e quindi sono diventato io il responsabile di tutto.

La «banda bassotti» (un gruppo di bimbi) del centro mi ha
preso in simpatia e non mi molla un secondo. Per quanto riguarda l’orto, è
ancora tutto vivo.

Qui è difficile crederlo, ma siamo sotto Natale. Sentire
padre Tarcisio, mio vicino di stanza, che ascolta ad alto volume i canti
natalizi e allo stesso tempo sentire un sole che spacca le pietre con i suoi 30°
gradi è abbastanza scioccante.

24 Dicembre 2014

Ci rinuncio, qui è proprio impossibile calarsi nello
spirito natalizio italiano. Eppure non potevo ricevere regalo più bello:
l’essenza del Natale. Al centro Gajen c’è un papà vedovo (l’unico papà tra sole
mamme), che accompagna la sua figlioletta di meno di un anno. Dovreste vedere
come si prende cura di lei e con quale amore: ecco questo esprime il Natale più
di mille pacchetti regalo, alberelli, panettoni ecc.

Al centro c’è anche Eritiè (membro della banda bassotti),
che viene sempre da solo, senza genitori. Durante il pranzo non mangiava,
allora mi sono avvicinato e gli ho chiesto come mai: lui semplicemente non
aveva le posate, e aspettava che qualcun altro finisse perché gliele prestasse.

Allora vi faccio questo augurio per Natale: che possiate
accorgervi di chi vi è accanto e «non ha le posate».

Eyenga ya mbotama elamu! Buon Natale di cuore!

7 Gennaio 2015

Dopo aver passato il capodanno in mezzo alla foresta di
Neisu, siamo tornati a Isiro alla vita di «tutti i giorni». Dopo quattro mesi,
grazie all’incontro con alcune persone, mi sono accorto che stavo per cadere
nell’abitudine di fare le cose invece che viverle, allora ho aggiustato il
tiro.

A Gajen non vado più in bici: a piedi posso passare in
mezzo alle case della gente incontrandola, parlandoci e conoscendola. In questa
nuova «pastorale della vicinanza», ho iniziato a frequentare il pozzo della
nostra casa: alla sera, tramite il motore, viene pompata l’acqua per la gente,
allora ho conosciuto i nostri vicini. La banda bassotti si è ingrandita. Oltre
a Samì, Bibì ed Eritiè si sono aggiunti Felì, Nada, Jojo, Petro, Emmanuel, Pico
e Paco. Questi ultimi due sono gemelli. Un giorno ho chiesto alla mamma i loro
nomi francesi, dato che quelli in Lingala non li avevo capiti, e lei mi ha
detto che non li avevano. Allora io, per scherzare, le ho suggerito di
chiamarli Pinco e Panco: come nel gioco del telefono senza fili hanno capito
Pico e Paco, e da quel momento li chiamano tutti così.

La vera stagione secca è arrivata. Un caldo intenso di
giorno, e di notte un bel freddo da stare ben coperti con la felpa. Stamattina,
parlando con Jojo (bambino di 9 anni) proprio del freddo, mi ha chiesto se di
notte dormivo in casa. Io gli ho risposto di sì (ovvio no?). Allora lui mi ha
detto che di notte dorme «libanda» (fuori).

Un bel regalo di buon anno è stato Antornine, un giovane di
27 anni che studia all’ultimo anno della facoltà di giurisprudenza: Antornine ha
chiesto un aiuto economico dato che l’università è molto cara, Ivo glielo ha
dato in cambio di lavoro, e così ho un aiutante per l’orto.

Sempre nell’ottica della pastorale della vicinanza, tra
una zappata e una vangata, gli ho fatto un po’ di domande per conoscerlo. Viene
da un villaggio a 450 km da Isiro, ed è qui con sua sorella maggiore che ha una
figlia. La bambina di 8 anni va a scuola, ma in più prepara da mangiare e
sistema la casa per la mamma e lo zio.

16 Gennaio 2015

Durante la stagione secca le strade sono fatte di polvere
rossiccia che aspetta solo un bel venticello (frequente) o qualche moto a tutta
velocità (molto frequente) per riempire l’aria e infilarsi ovunque. La gente
gira con i fazzoletti alla bocca per respirae il meno possibile, e le piante
da verdi sono diventate marroncine.

A Gajen sono partiti Felì e la sorellina Nada. Però sono
rimasti tutti gli altri, con Pico e Paco c’è sempre più intesa e Petro è una
macchinetta che non sta mai zitta. La povertà di Isiro e le sue storie mi
sorprendono sempre: Jimitta è una ragazzina che ci da una mano per vendere
qualche prodotto dell’orto in città, l’altro giorno ci ha detto che era stata
cacciata da scuola perché non aveva i soldi per pagare. Antornine mi racconta che
ha finito di scrivere a mano l’introduzione della sua tesi per farla correggere
dal relatore. Quando sarà tutta corretta la scriverà al computer per stamparla.
Ciascun foglio stampato costa un dollaro.

Mi è capitato di leggere un libro di un giornalista che
ha girato l’Africa: «L’Africa è un continente troppo grande per poterlo
descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È
solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la
sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste».

Tommaso degli Angeli

(2 – continua)


Tags: Gajien, laici missionari, volontariato, vita missionaria, testimonianze, Rd Congo, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




San Romero de las Americas

23 maggio: La beatificazione
di Oscar Romero.

Il 24 marzo 1980, a
San Salvador, viene ucciso l’arcivescovo Oscar Aulfo Romero. La sua voce
contro le ingiustizie e la violenza delle oligarchie era diventata
insopportabile per la dittatura che reggeva il paese centroamericano. Da anni
l’arcivescovo è conosciuto come «San Romero de las Americas». Dal 23 maggio
2015 è beato anche per la Chiesa universale.


El Salvador è il più piccolo paese dell’America Latina, chiamato
per questo El Pulgarcito de América (Il Pollicino d’America); è grande quanto la Sicilia. In questo
piccolo paese, lunedì 24 marzo 1980, verso le ore 18,25, mentre sta celebrando
la Santa Messa, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar
Aulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su
una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che
nella nazione centroamericana, oppressa da una feroce dittatura militare,
denunciava senza paura violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e
complicità. Si trattava di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche
che si definivano cattoliche e sostenevano di lottare per la difesa della
civiltà cristiana contro il comunismo. Per i poveri e gli oppressi era invece
una voce amica e fedele, una difesa contro i soprusi e le prepotenze.

«In odium fidei»

A 35 anni di distanza dalla
sua morte, il 23 maggio 2015, Oscar Aulfo Romero verrà beatificato. Giovedì 8
gennaio 2015 i teologi della Congregazione per le cause dei santi hanno infatti
riconosciuto che l’arcivescovo di San Salvador è stato assassinato in odium fidei, e dunque viene considerato
un martire dalla Chiesa cattolica. Papa Francesco il 3 febbraio ha poi firmato
il decreto della beatificazione e in seguito è stata scelta la data per la
cerimonia a San Salvador, appunto il 23 maggio. Fino a questo momento, secondo
il Codice di diritto canonico, per proclamare un martire era necessario che gli
assassini fossero atei o di un’altra religione. Ora invece con il
riconoscimento del martirio di Oscar Romero, assassinato da cristiani, il
concetto si allarga perché l’azione in favore della giustizia è ritenuta
connaturata all’annuncio evangelico. L’arcivescovo di San Salvador
dall’indomani dell’assassinio, per il suo popolo e per quanti in America latina
erano impegnati nella promozione della giustizia sociale, era già stato
indicato come «San Romero de las Americas». Oggi finalmente lo è anche per la
Chiesa universale.

Un vescovo educato dal suo
popolo

La lapide posta sulla tomba
di Romero riporta semplicemente il suo motto episcopale: «Sentir con la Iglesia» («Pensare con
la Chiesa»). Il suo desiderio è stato, infatti, fin dall’inizio del suo
ministero sacerdotale, quello di vivere il messaggio cristiano restando
fedelmente ancorato alla Chiesa.

Il
Concilio Vaticano II, i documenti di Medellin e il magistero di Paolo VI
l’hanno costretto progressivamente a interrogarsi sulle condizioni di vita
della sua gente, sulle violenze a cui era soggetta. Soprattutto nei tre anni in
cui è stato arcivescovo di San Salvador, Romero ha sempre più chiaramente
sentito il grido del proprio popolo, oppresso nei diritti fondamentali, e a
questo popolo ha prestato la propria voce, indicandogli la strada della
conversione e della nonviolenza per uscire dal dramma che stava vivendo. Si
schierò così, sempre più decisamente, in difesa dei poveri e degli oppressi,
convinto del fatto che i valori evangelici andassero incarnati e non solo
affermati, che non bastasse raccogliere i moribondi e i sofferenti, ma che
fosse anche necessario denunciare le situazioni di violenza strutturale e istituzionalizzata,
indicare in modo preciso le responsabilità dei sequestri, dei soprusi e dei
massacri.

Come ha
scritto il cardinal Carlo Maria Martini, Romero è stato dunque «un vescovo
educato dal suo popolo». L’incontro con i «crocifissi» della storia lo ha
condotto all’essenzialità dell’annuncio e ad abbracciare la croce. La sua
scomodità risiedeva nell’adesione piena e fedele al messaggio sociale cristiano
che, con il Concilio, aveva esortato la Chiesa a rivolgersi a tutti, ma con un
occhio di riguardo ai poveri e agli oppressi. Oscar Romero è stato assassinato
non in quanto vescovo, ma per la sua azione a fianco dei poveri e per le sue
ferme denunce della repressione operata dalla giunta militare. Con il
riconoscimento del martirio e la beatificazione si è confermato il fatto che
l’azione di Romero non era di carattere politico, bensì era la necessaria
conseguenza del Vangelo di pace e di giustizia che l’arcivescovo di San
Salvador predicava. La Chiesa ha così chiarito definitivamente che Romero si è
comportato da pastore e non da leader politico. E che, per essere fedele al
proprio ministero, non avrebbe potuto agire diversamente.

A fianco dei poveri e degli
oppressi

In una realtà fortemente
polarizzata, divisa tra pochi ricchi e molti poveri, Oscar Romero è stato
maestro e testimone: con la parola ha guidato e orientato il proprio popolo;
con la testimonianza si è esposto in prima persona e si è schierato. Ha parlato
e agito senza odio, cercando di esortare tutti alla conversione. Da una terra
dove scorreva il sangue, dove gli oppositori erano fatti scomparire, dove i
diritti umani erano calpestati, la voce di Romero, libera e autorevole, ha
oltrepassato le frontiere ed è stata sentita in tutto il mondo. Le sue omelie
erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che,
nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in quella minuscola
nazione, e per la presenza di una Chiesa, come quella dell’arcidiocesi di San
Salvador, evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per
questo, violentemente colpita dalle forze militari e dagli squadroni della
morte.

Monsignor Romero è stato
semplicemente fedele alla missione che gli era stata affidata. Quando si è reso
conto delle sofferenze del suo popolo, ne ha avuto compassione e da buon
pastore se ne è fatto carico. È andato consapevolmente incontro alla morte e
non vi si è sottratto: la logica evangelica gli chiedeva questo e lui vi ha
aderito.

Senza mai rassegnarsi alle
ingiustizie

L’arcivescovo di San Salvador
avrebbe potuto fuggire e rifugiarsi all’estero in attesa di tempi migliori,
come da più parti, e dalla stessa Santa Sede, a fronte di minacce sempre più
insistenti, gli era stato proposto. Ha voluto invece restare accanto al proprio
popolo, in attesa della morte che a un certo punto sentiva imminente. È stato
fedele alla missione che gli era stata affidata di guida di una comunità ed è
rimasto accanto ai propri sacerdoti e ai propri fedeli. È stato ucciso perché
non si era rassegnato alle violenze, alle ingiustizie, allo strazio di un paese
devastato. A tutti ha sempre indicato la strada della conversione, dell’amore e
della nonviolenza, sulla scia degli insegnamenti di Paolo VI che invitava a
costruire una «civiltà dell’amore».

Agli inizi di marzo 1983, in
piena guerra civile, Giovanni Paolo II si è recato in El Salvador in visita
pastorale. Per la ferma opposizione delle autorità governative, il programma
non prevedeva la visita alla tomba di Romero, ma il Papa è stato irremovibile
e, dopo aver atteso che si aprisse la cattedrale poiché era stata chiusa dai
militari, ha potuto pregare sulla tomba dell’arcivescovo assassinato. È stato
questo un modo per porre fine alle incomprensioni iniziali fra il papa polacco
e l’arcivescovo di San Salvador, che molti in Vaticano hanno a lungo
considerato troppo politicizzato.

Anche il 7 maggio 2000, al
Colosseo, durante la celebrazione per ricordare i «martiri» del XX secolo,
Giovanni Paolo II ha ricordato mons. Romero: «Ricordati, Padre dei poveri e
degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la verità e la carità del
Vangelo in America fino al dono della loro vita: pastori zelanti, come
l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero, ucciso sull’altare durante la
celebrazione del sacrificio eucaristico, sacerdoti generosi, catechisti e
catechiste coraggiose, religiosi e religiose fedeli alla loro consacrazione,
laici impegnati nel servizio della pace e della giustizia, testimoni della
frateità senza frontiere: essi hanno fatto risplendere la beatitudine degli
affamati e degli assetati della giustizia di Dio. Siano saziati con la visione
del tuo volto e siano per noi testimoni della speranza».

Testimone e martire

Dove
possiamo situare la figura di Romero nella storia della Chiesa del Novecento?
Certamente fra quelle dei testimoni e dei martiri, come è stato fatto nella
chiesa di San Bartolomeo a Roma, all’isola Tiberina, una chiesa voluta da
Giovanni Paolo II come memoriale dei martiri e testimoni della fede del XX
secolo: qui, nell’icona posta sull’altare maggiore, tra i martiri rappresentati
vi è anche Oscar Aulfo Romero e tra le memorie custodite in un altare
laterale vi è il messale che utilizzava l’arcivescovo di San Salvador.

E come è stato fatto dalla
Chiesa anglicana che, sul frontone della porta ovest dell’abbazia di
Westminster, a Londra, fra le dieci statue di «martiri» del Novecento, ha posto
anche quella di Oscar Romero, situandola tra la statua di Dietrich Bonhoeffer e
quella di Martin Luther King.

E come ora, finalmente, ha
fatto anche la Chiesa cattolica riconoscendo il suo martirio. Riconoscendo che
ci troviamo di fronte a «San Romero de las Americas».

Anselmo Palini

Tags. Oscar Romero, El salvador, martirio, santi, giustizia, poveri e oppressi

Anselmo Palini




I Perdenti 4: Metz Yeghérn, il Grande Male

 

Il 24 aprile
si è commemorato il centenario del genocidio del popolo armeno, un crimine
efferato che la Turchia non ha ancora riconosciuto come una delle pagine più
nere della sua storia, in cui furono steminate e deportate milioni di persone.
Per capire l’origine del Grande Male o Metz Yeghé, come è definito il
genocidio in lingua armena, bisogna risalire al 1877. Dopo una guerra tra la
Russia zarista (sostenuta dall’Impero Austroungarico) e l’Impero Ottomano
(sostenuto dall’Inghilterra), Romania, Montenegro e Serbia divennero
indipendenti, nacque la grande Bulgaria tributaria dell’impero e il territorio
dell’Armenia venne diviso tra le due potenze contendenti. Nel trattato di pace
che ne seguì (pace di Santo Stefano, 3 marzo 1878) venne inserita una clausola
che affidava alla Russia la tutela della minoranza armena, in gran parte
cristiana ortodossa, presente nell’Impero Ottomano. Questa clausola non fu mai
del tutto accettata dalla Sublime Porta (così veniva chiamata la Corte del
Sultano a Kostantiniyye, l’antica Costantinopoli, dal 1923 rinominata
Istanbul) né dagli Ufficiali del Movimento dei Giovani Turchi che di lì a pochi
anni avrebbero preso il potere. Volendo realizzare una nazione etnicamente
omogenea, ogni enclave era vista come possibile testa di ponte delle potenze
straniere ostili che già avevano umiliato l’impero. L’Armenia era vista per
questo come una minaccia permanente. Nacque tra la popolazione turca, e venne
alimentato ad arte dai suoi governanti, un sentimento di ostilità nei confronti
degli armeni che si concretizzò in massacri di innocenti, costringendo i
sopravvissuti a penose migrazioni. Nel nostro colloquio con donna Zorair, icona
immaginaria, vittima di quella persecuzione, cerchiamo di essere fedeli alla
verità storica per ridare dignità a un popolo profondamente umiliato nel corso
della storia.


Zorair,
perché tanto odio da parte dei Turchi nei confronti della tua gente?

Non riusciamo a capire neanche noi. Per
secoli avevamo vissuto all’interno dell’Impero Ottomano in pace, seppur gravati
da tasse extra (la jizya, tassa di protezione) in quanto cristiani.
Tutto sommato eravamo rispettati e ben voluti, anzi ti dirò di più, il nostro millet
(con questo termine la Sublime Porta definiva le varie comunità etnico
religiose che componevano il variegato mondo che faceva riferimento a
Costantinopoli, ndr) era uno di quelli più tenuti in considerazione.

Ma
all’origine di tutto, se non sbaglio, ci fu una guerra tra la Russia zarista e
l’Impero Ottomano.

Sì. Nel 1877 ci fu una vera guerra tra queste
due potenze e l’Impero Ottomano, già considerato il grande malato da tutte le
cancellerie europee, fu sconfitto, umiliato e privato di molti dei suoi
territori. Nel trattato di pace che seguì venne inserita una clausola in cui si
diceva che la Russia zarista diventava «garante e protettrice» delle comunità
cristiane che vivevano all’interno di quel che rimaneva del pur sempre vasto
impero.

In
questo modo, però, ogni comunità cristiana era vista alla stregua di una
possibile testa di ponte delle cosiddette potenze cristiane.

Credo proprio di sì. I Giovani Turchi, il
gruppo di ufficiali che faceva capo a Kemal Ataturk, vedendo profilarsi
all’orizzonte la disgregazione dell’Impero Ottomano e preconizzando una Turchia
basata su un unico popolo, una lingua e una fede, pur dichiarandosi laici,
cominciarono a vedere i cristiani come corpi estranei, potenzialmente
pericolosi, da sorvegliare ed eventualmente da eliminare.

Allora
è per questo che quella che per anni è stata considerata la laicissima Turchia
non ha nessuna comunità cristiana consistente se non piccolissime minoranze?

Certo. Per quanto riguarda la base etnica
della sua popolazione, dopo aver eliminato gli Armeni nel 1915, ha lasciato che
i pochi superstiti si rifugiassero nell’Armenia, stato allora indipendente ma
poi fagocitato nel 1922 nell’Unione Sovietica. Allo stesso tempo ha confinato i
Curdi in zone periferiche definendoli «turchi delle montagne». La tragedia del
nostro popolo è che può definirsi «perdente» per antonomasia, proprio perché,
dopo essere stati incarcerati, deportati, uccisi, siamo stati ignorati dal
resto del mondo per troppo tempo, forse perché le potenze europee non erano
esenti da responsabilità nel causare l’odio turco nei nostri confronti.

Quello
che l’Impero Ottomano non aveva fatto per secoli, l’ideologia Kemalista l’ha
realizzato in pochi anni.

È proprio così. Questa soluzione finale noi
la chiamiamo Metz Yeghe o Grande Male ed è all’origine della diaspora
armena. Ricordo che il mio popolo, oltre che essere stato il primo nella storia
a definirsi «Regno cristiano», è sempre stato illuminato da una cultura
vivacissima che ha trovato nella poesia e nella letteratura uno straordinario veicolo
di coesione nazionale.

Quando
cominciarono i primi soprusi nei vostri confronti?

Nel 1909, dopo che si era affermato il
movimento dei Giovani Turchi. Questi, per paura che la popolazione armena si
alleasse con la Russia zarista, spinsero il governo a emanare delle leggi che
ne restringessero sempre più il campo d’azione, e nella regione della Cilicia
vennero eliminate almeno trentamila persone.

Perché
celebrate la data del genocidio armeno il 24 aprile?

Perché nella notte di quel giorno, nel 1915, vennero
eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli e si ufficializzò
l’eliminazione fisica degli armeni dell’Impero Ottomano. In pochi giorni furono
uccisi più di mille intellettuali armeni, scrittori, poeti, giornalisti,
perfino delegati al Parlamento; quindi furono compiuti arresti di massa e si
iniziarono le deportazioni verso l’interno dell’Anatolia con massacri lungo la
strada.

Le
deportazioni inflissero sofferenze e patimenti inenarrabili alla popolazione
armena…

Queste deportazioni furono definite «marce
della morte» e coinvolsero circa un milione e mezzo di persone. Centinaia di
migliaia, in maggioranza donne e bambini, morirono lungo il percorso di fame,
sfinimento e malattie.

La
responsabilità di questi eventi è da imputare solo all’Impero Ottomano?

L’organizzazione e la cura delle deportazioni
furono compiute in massima parte dai militari che facevano riferimento ai
Giovani Turchi, questi a loro volta erano addestrati da ufficiali dell’esercito
tedesco, in virtù di un accordo tra l’Impero Germanico e l’Impero Ottomano.
Miglia di persone inoltre furono massacrate nei loro villaggi o negli
spostamenti che ne seguirono dalle milizie curde e dall’esercito turco.

Negli
anni in cui si compì la tragedia della deportazione e dell’eccidio degli armeni
le Cancellerie Europee non reagirono?

Tutte le legazioni diplomatiche europee non
mancarono di riferire ai rispettivi governi ciò che succedeva nella nostra
terra, ma essi restarono indifferenti all’immane tragedia che si stava
consumando. Queste notizie non influirono minimamente su nessuna delle
Cancellerie europee.

Si
può dire quindi che la brutalità nei vostri confronti messa in atto dai Giovani
Turchi, che arrivò a compiere il primo genocidio del secolo ventesimo, non
provocò nessuna reazione, né politica né militare né diplomatica?

Purtroppo il genocidio perpetrato contro gli
armeni fece scuola. Narrano i biografi di Hitler che, pianificando lo sterminio
degli ebrei, egli si sia lasciato scappare una frase illuminante: «Del genocidio
degli Armeni chi ne parla più ormai?». Erano passati poco più di vent’anni e si
programmava un altro sterminio, l’Olocausto del popolo ebraico.

Il governo turco continua ancora oggi a
rifiutare di riconoscere il genocidio a danno degli Armeni, preferendo la
versione che sia stata una guerra civile aggravata dalla carestia, un fatto
interno all’Impero Ottomano. L’Unione Europea però ha posto il riconoscimento
del genocidio armeno come una delle clausole per l’ammissione della Turchia
all’Ue. La Francia punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno. Al
contrario la magistratura turca infligge la stessa punizione a coloro che
nominano in pubblico l’esistenza del genocidio armeno, ritenendolo un atto anti
patriottico. Va segnalato che ultimamente la Turchia sembra aver dato prova di
buona volontà riaprendo alcune chiese armene nel Sud del paese, ma non va
sottaciuto però che la gran parte dell’opinione pubblica si oppone tenacemente
a queste misure.


Fare memoria oggi di quei tragici
avvenimenti, ricordare i drammi del passato, non dimenticare i morti innocenti,
è un monito illuminante per tutti noi che non vogliamo più che simili crimini
si compiano nella storia.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Tags: Armeni, genocidio, Grande Male, perdenti

Mario Bandera




Le meraviglie del passato, le sfide del presente

Dal deserto del Nord del Kenya.

Impressioni da un
viaggio indimenticabile nelle missioni del Nord del Kenya, nel Samburu e nel
Marsabit, in cui i missionari della Consolata sono arrivati nel 1952.
Tornato a Maralal
dopo aver visitato Baragoi, South Horr, Sererit e Loyangalani, padre Stefano Camerlengo
ha scritto ai missionari le sue impressioni a caldo. MC le «ha rubate» per
condividerle con tutti i suoi lettori.

 


 

Sono in
visita canonica1 ai missionari del Kenya, un grande paese pieno di storia
per il nostro Istituto. Mentre scrivo, mi trovo in «pellegrinaggio» alle
comunità della diocesi di Mararal e di Marsabit. In queste diocesi tutto parla
ancora di Consolata, visto che noi siamo stati i primi evangelizzatori di
questa terra. Viaggio tra le tribù indigene del Coo d’Africa sempre
minacciate dalla siccità: Turkana, Samburu, Rendille, El Molo. Dalla capitale
della contea Samburu, Maralal, oltre 10 ore di fuoristrada su 250 km di piste
dissestate ci conducono nell’estremo Nord del Kenya, lontano dagli itinerari
battuti dai safari. È quasi il tramonto quando davanti a noi si spalanca
il paesaggio di un altro pianeta. Siamo sulle rive del lago Turkana, il più
grande lago in un deserto al mondo: una distesa di zaffiro circondata da
altopiani dalle roventi tinte marziane, punteggiati da picchi vulcanici, alberi
di acacia e grappoli di fiabeschi nkaji (in samburu) o akai (in
turkana), capanne a iglù fatte di un intreccio di rami secchi. È qui che vivono
le tribù indigene più incredibili dell’Africa: ultimi discendenti della
leggendaria e ormai morente «Culla dell’Uomo».

È emozionante sentire le gomme del fuoristrada
scricchiolare sulla terra dove, secondo i paleontologi, il primo uomo si mise
in posizione eretta per incamminarsi sul suo sentirnero di futura gloria. La zona
è riconosciuta «Patrimonio dell’Umanità» dell’Unesco per la sua eccezionale
ricchezza ecologica e culturale. L’ecosistema del lago, unico nel suo genere,
permette di praticare la pesca e la pastorizia in alternanza grazie a un eterno
ciclo di alta e bassa marea. Questo ecosistema ha consentito a gruppi etnici
come i Turkana, i Samburu, i Rendille e gli El Molo, di vivere per secoli una
dura esistenza nelle aride periferie delle sponde del lago, considerate uno
degli ambienti più ostili della terra. Difficile immaginare che in epoche
passate al posto di questo deserto di rocce vulcaniche ci fosse una vegetazione
rigogliosa con zebre ed elefanti, allontanatesi da qui a causa del cambiamento
climatico.

Il
capoluogo della zona è Loyangalani che significa «il luogo degli alberi». Nome
azzeccatissimo. Infatti è come un’oasi nel deserto roccioso con alberi
rigogliosi che crescono attorno a sorgenti di acqua dolce e calda che sgorgano
dal suolo. Mentre ci avviciniamo, scorgiamo in lontananza la rudimentale sede
di un consiglio direttivo locale: un grande albero d’acacia alla cui ombra
siedono gli anziani, adunati per discutere le questioni d’interesse comune.
Alcuni di loro portano gli apelpel, istoriati bastoni di legno, segno
che sono sposati. Per le donne invece la fede nuziale consiste in orecchini,
pendenti dal lobo o fissati alla parte superiore dell’orecchio a seconda che
siano Samburu o Turkana. Queste ultime usano anche rasarsi il capo lasciando
solo un ciuffo centrale. Tutte le donne, quale che sia la tribù di
appartenenza, si adoano di appariscenti collari multicolori che anticamente
erano fatti di semi, oggi sostituiti da perline e palline di plastica
acquistate a Nairobi. Lo stesso oamento è in voga presso i giovani guerrieri,
i moran, durante il duro e quasi decennale periodo di «servizio militare»
a guardia delle greggi prima di potersi sposare e diventare giovani adulti.
Sono però le mogli della tribù Rendille a portare il collare dalla foggia più
appariscente: lo mporro, un alto cerchio di legno intarsiato (un tempo)
di schegge di rubino. Il legno dell’albero di acacia serve praticamente a
tutto: oltre a fae capanne, collari e mini sgabelli portatili, se ne usano i
ramoscelli più fini come spazzolini da denti, mentre i grossi frutti oblunghi,
una volta svuotati e fatti seccare, diventano otri (calabash) per
conservare acqua e latte.

Questa zona per noi, missionari della Consolata, è
storica e molto importante.

Molti missionari sono passati e hanno vissuto in questa
terra annunciando il Vangelo. Alcuni sono già nella casa del padre, altri sono
stati anche uccisi qui (padre Michele Stallone nel 1965, padre Luigi Graiff nel
1981). Altri ancora sono presenti continuando uno stile, una presenza. Mentre
ringraziamo di vero cuore tutti questi missionari che hanno donato la loro vita
e continuano a farlo in situazioni materialmente e spiritualmente difficili, mi
vengono spontanei alcuni pensieri che desidero comunicare semplicemente in
questo piccolo tributo alla storia della missione, dove la vita si fa dono,
dove uno offre tutto fino a restare senza niente.

La gente di questa zona del Kenya vive in terre
desertiche e piene di insidie. Nel deserto niente è banale e «normale». L’annuncio
del Vangelo non è un tema facile qui. L’evangelizzazione nasce con la
testimonianza della presenza, dello stare con la gente, più che con le parole.
Prima di tutto c’è la vita vissuta con fede forte. Dai rapporti belli e veri,
può scattare qualcosa che diventa inizio di un cammino di testimonianza e
accoglienza. È normale, non solo per un cristiano, ma anche per un musulmano,
che vive la fede in profondità, trasmettere, irradiare, far sapere, spiegare
quello che prorompe dal suo cuore: vita, servizio, dono di sé, gioia, parola,
che sono testimonianza e annuncio. Gli ambienti e i tempi possono essere facili
o difficili. Possono condizionare i modi di espressione, ma mai annullarli. I
più efficaci, per far sì che lo Spirito di Dio faccia il suo lavoro, sono il
rispetto, la discrezione, l’umiltà, la pazienza, e il sentimento di lasciarsi
condurre da Dio. Si tratta di un lavoro profondo, vitale che richiede tempo e
pazienza. Ecco la pazienza è la prima virtù che si deve imparare per lavorare
in questa terra, per restare presenti e propositivi in mezzo a queste
popolazioni che fanno dei bisogni vitali principali le primarie occupazioni
delle loro giornate e della loro vita.

Caldo
opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare,
vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani cui siamo abituati
sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente
tragga acqua e alimenti è un mistero per noi, che non penseremmo mai di bere
l’acqua salmastra del lago come invece fanno loro. In questo paesaggio riarso
dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita «normale» fatta di gesti
semplici e quotidiani. Non è difficile comprendere come mai la gente del
deserto abbia sviluppato un carattere e un fisico così coriacei. I Samburu e i
Turkana sono gente dura e orgogliosa, inasprita da una vita che non dà molto ma
richiede tutto. Essi popolano fin dai tempi antichi l’intero Nord Est del
Kenya, regione semidesertica morfologicamente più simile al Nord Africa che non
all’Africa subsahariana.

Essere cristiani in questi luoghi è assai complicato.
L’importanza del lavoro missionario che viene svolto tra mille difficoltà ogni
giorno è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo,
testimoniando con le opere concrete i valori in cui crediamo, evitando le
parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare
incomprensioni e risentimento.

Forti del favore che i missionari hanno saputo
costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti quelli che
abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, invitati a entrare nelle
capanne e a sedere al loro fianco.

In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni
sono state realizzate con successo diverse strutture: ospedali e centri
sanitari, scuole anche nei villaggi più remoti, centri di formazione
professionale e religiosa. L’impronta che i nostri missionari, e chi ha
lavorato e lavora insieme a loro, ha lasciato qui è molto forte, e molte
persone incontrate li ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.

Ma non sarebbe giusto parlare di queste terre solo
coniugando ogni verbo al passato. Anche oggi questi missionari, con sempre meno
fondi, lavorano volontariamente in una maniera estremamente «professionale»,
riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Siamo stati testimoni di
drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come
osservatori.
Ciò che è stato realizzato finora è miracoloso. Ma la sabbia del deserto e il
tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora
tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e
costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto. Ai
missionari dico: grazie, coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo

superiore generale
dei Missionari della Consolata

Tags: Missione, evangelizzazione, Nord Kenya, Marsabit, Loyangallani, Samburu, Turkana

__________________

1 La «visita
canonica» è un obbligo che un superiore generale deve adempiere durante il suo
mandato. Ha aspetti formali e ufficiali di verifica di tutte le comunità
locali, dell’economia e attività del gruppo visitato, ma è soprattutto un
avvenimento di giornioso incontro di ogni missionario con il suo superiore e del
superiore con il vissuto dei suoi fratelli missionari. Padre Stefano è stato in
Kenya dall’11 gennaio al 2 marzo 2015, visitando il Samburu dal 2 al 10
febbraio.

Stefano Camerlengo




Incontro con padre Franco Gioda

In mezzo a loro ho
sentito Dio.

Una vita spesa tra Italia
e Mozambico. Una quotidianità di riflessione profonda e lavoro sul campo. Senza
mai sottrarsi alle responsabilità. Un dialogo costante con Dio e con lo Spirito.
Questo è padre Franco Gioda, «giovane» missionario.

 


 

Lo incontro nel corridoio della redazione. È un po’ dimagrito, quasi «rimpicciolito».
Ma il suo viso è radioso. Per poco non lo riconosco. «Sono padre Franco».

Franco Gioda ha 76 anni e quattro anni fa è «ri-partito»
per il Mozambico, paese nel quale ha passato tutta la sua storia missionaria. «Ho
fatto un po’ di tutto» spiega. Nel 2010 era a Martina Franca, dopo aver servito
sei anni come superiore Regionale in Italia: «Ma sentivo che dovevo ancora
andare in Africa. Ho scritto ai superiori la mia disponibilità, chiedendo loro:
posso ancora lavorare in missione? Mi hanno detto di sì.

Sono andato a Maputo, come responsabile della comunità.
Poi è diventato vescovo Ignazio Saure, un giovane (mozambicano, ndr) che io avevo
seguito nel suo cammino per entrare nell’Istituto. E il superiore mi ha detto:
vai a fare comunità con lui».

Così Franco si ritrova a Tete, capitale dell’omonima
provincia, lembo di terra che si incunea tra Zimbabwe e Malawi, fino allo
Zambia. «Perché i portoghesi (colonizzatori, ndr) volevano
collegarsi all’Angola, e fare un passaggio tra i due oceani, ma gli inglesi
glielo hanno impedito» spiega il missionario.


Prima missione

Ma facciamo un passo indietro. Ordinato nel
1963 padre Gioda serve alcuni anni in Italia. Nel 1968, all’età di 30 anni
parte per la prima volta in missione: destinazione Mozambico. «Era ancora il
tempo coloniale, ma si preparava l’indipendenza. C’erano molte tensioni sociali
e anche ecclesiali. Eravamo all’indomani del Concilio Vaticano II, e anche se
noi giovani missionari avevamo una formazione preconciliare, ne sentivamo gli
echi. In particolare non accettavamo l’impostazione ecclesiale che c’era. I
padri Bianchi vennero via per protesta. Anche noi eravamo nel movimento». Ma
dopo appena due anni, padre Franco è richiamato in Italia e lui chiede di stare
di più. Gli concedono ancora un anno. «In Mozambico ero con padre Prandelli, 28
anni, una specie di genio, molto impegnato dalla parte degli africani». Anche
Prandelli deve rientrare, ma incontra una mina sul suo cammino: «Questa morte
mi ha segnato per la vita».

Dopo nove anni in Italia come formatore,
Franco torna in Mozambico. Il contesto politico e sociale è totalmente
cambiato. Siamo in piena guerra civile. È l’esperienza più dura che foggia il
missionario nel fisico e nello spirito. «Fui destinato nel Niassa (Nord del
Mozambico, ndr). Andavo in bicicletta da una comunità
all’altra. Ogni due – tre giorni c’era un attacco armato con molti morti. E io
seppellivo cadaveri. Quindi è arrivato padre Giuseppe Frizzi, e abbiamo fatto
una bella comunità tra Maúa, Marrupa, Maiaca, Nipepe. Poi mi hanno eletto
superiore regionale a Maputo e lo sono stato per sei anni. Eravamo in tempo di
guerra, tempi difficili».

All’inizio degli anni 2000 padre Franco
viene richiamato in Italia, dove è eletto superiore regionale (2002-2008), fino
all’ultima ripartenza.

Missione di frontiera

«A Tete ci siamo resi conto che nelle zone
di Maravia e Zumbo (località all’estremo Ovest, alla frontiera con Zambia e
Zimbabwe, ndr) era senza sacerdoti da decenni».

Proprio a Zumbo i missionari della Consolata
avevano iniziato in Mozambico, nel lontano 1926. «È una zona molto isolata, a
550 Km da Tete e le strade sono pessime. Nel frattempo l’Istituto stava
passando ai diocesani le missioni di Mecanhelas e Massinga, potevamo quindi
investire nuove energie. Coinvolsi anche il superiore generale, padre Stefano
Camerlengo, che fece una visita fino a Zumbo. “Qui sareste troppo lontani da
tutto” ci disse. Per questo motivo si scelse Fingoè, a metà strada». Così
inizia la realizzazione del sogno di «aprire» o «riaprire» una missione in
un’area vasta e bisognosa, e storicamente legata alla Consolata.

Primo: presenza

«Andando in visita ho detto alla gente:
siamo disposti a venire qui, a condizione che voi ci facciate una capanna.
C’era già una chiesa. Ha aperto la strada il gruppo dei novizi della Consolata
di Maputo, che ci hanno introdotti. Poi sono arrivati i padri Edoardo Reyes
Prada, colombiano e Hyacinth Mwalongo della Tanzania a integrare la comunità.

Padre Sandro Faedi, un altro veterano del
Mozambico, è invece venuto dall’Italia a mettere a posto i conti della diocesi».

Che missione ha in testa padre Gioda? «Ho
cercato di spiegare alla popolazione che non saremmo andati a costruire una
missione, ma vivere una missione, saremmo stati fratelli di fede, che aiutano
altri fratelli ad andare avanti e cercano, a loro volta, di farsi aiutare. Allo
scopo di camminare insieme, il più possibile». Padre Franco non la interpreta
come missione classica.

«Per attuare questo progetto, prima cosa è
rendersi conto dove vive la gente», mi dice mentre estrae da una cartellina una
rudimentale ma efficace mappatura di tutte le comunità fatta da lui stesso, con
le distanze, i nomi, le strade. Pare non se ne separi mai. E continua: «Poi
occorre andare a vedere. Non possiamo chiamare la gente alla missione, dobbiamo
andare là da loro, nelle comunità». Prima cosa dunque la presenza dei
missionari in mezzo alla gente.

«Ho toccato con mano la presenza di Dio –
racconta con l’entusiasmo di un giovane missionario. L’ultimo sacerdote era
andato via da quella zona nel 1971. Era un missionario spagnolo, viveva a
Ukanha, una missione a 70 km da Fingoé. Era stato un ottimo animatore. Ma fu
costretto a lasciare tutto a causa della guerra. Dopo la sua partenza, la gente
ha continuato ad andare in chiesa la domenica, aggrappandosi a quello che
aveva. C’era qualche catechista, ma molti erano morti o si erano rifugiati in
Zambia. Qualche volta da Tete andava un prete. Ho trovato fede. Ovvero comunità
non molto organizzate, ma vive, che la domenica si uniscono a pregare. Un
impegno di servizio. Per questo dico che sento lo Spirito in queste comunità.
Il nostro dovere è quello di essere presenti, ma dappertutto, anche in quei
villaggi che magari non hanno mai visto un prete. Con la mia mappatura ho
trovato 108 comunità.

Il primo verbo missionario è “andare” il
secondo è “incarnarsi” vivere con la gente. Io non posso perché non so neppure
la lingua, e a 76 anni non la imparo. Il portoghese lo parla solo qualcuno.
Chiedo al Signore la grazia di essere uno che apre la strada». In tutta la zona
sono presenti cinque lingue, la dominante è il chichewa parlato anche in
Zambia, Malawi.

Secondo: formazione

Il progetto dei missionari prevede la
realizzazione di alcuni centri di formazione per laici. «Non c’era nessuna
struttura. Abbiamo iniziato con leggere insieme il catechismo. Si è pensato a
centri di formazione rurale, provvisori. E la gente viene. L’anno scorso sono
passati 90 animatori a formarsi per due settimane. E queste attività
continuano.

Sono mandati dalla comunità, con un po’ di
cibo, che noi integriamo. Qualcuno ha una piccola esperienza da catechista, ma
tutti hanno molta buona volontà».

Padre Franco è riuscito a portare un gruppo
di giovani di Vittorio Veneto e anche una coppia in viaggio di nozze. «Io vi
offro la possibilità di camminare con i missionari. Venite, facciamo la vita
insieme. Si dorme in chiesa o nelle capanne. Con il sacco a pelo su una stuoia.
Si mangia quello che ti offrono. Sono rimasti a bocca aperta».

Dio in mezzo a loro

I missionari vogliono attivare sei centri di
formazione di questo tipo, arrivando fino a Zumbo.

«Sono i fedeli che fanno questi centri, non
siamo noi con la forza dei nostri soldi, dell’organizzazione, o la nostra
personalità. Siamo fratelli di fede che offrono quello che hanno ricevuto. Ci
dicono come vogliono fare le costruzioni. Realizzateli come volete. Io
partecipo, vi pago le lamiere per il tetto e il cemento. Ma voi fate i mattoni
e poi costruite».

Per ora i membri delle comunità stanno
costruendo la casa per gli animatori e quella per i padri. In seguito faranno
le grosse tettornie circolari sotto le quali si tengono le formazioni.

«Anche a questi incontri di formazione ho
visto la presenza dello Spirito. Questa gente che crede, a che cosa? Crede alla
mia parola, ma io non so neppure parlare nella loro lingua. Vediamo che lo
Spirito agisce, li fa crescere, li fa impegnare.

Molte comunità adesso hanno i catecumeni che
fanno due o tre anni di percorso. Io sto vedendo Dio, in mezzo a quella gente.
Dio che ha conservato questi cristiani, e poi ci sono nuovi ingressi nella
comunità».

Ore e ore in moto

Padre Gioda racconta cosa vuol dire «andare
verso gli altri» nel suo contesto: «Una volta sono andato a visitare una
comunità in cui non eravamo mai stati e non si era mai visto un missionario. Si
tratta di Finzi, a 140 km da Fingoè verso il lago (l’enorme invaso artificiale
creato dalla diga di Cabora o Cahora Bassa sullo Zambesi, ndr). Mi ha portato un ragazzo in moto, che è l’unico mezzo per arrivarci.
Verso sera, salendo sul monte di Finzi, sentivamo i tamburi in lontananza. Era
la comunità che ci attendeva. Ho detto al mio autista di andare avanti, che io
sarei arrivato a piedi. Così, nella semi oscurità, senza una torcia, mi sono
perso. L’unico orientamento erano i tamburi: pensavo e pregavo. Poi lui mi è
venuto a cercare e siamo rimasti una settimana nella comunità. Intoo ce ne
sono altre sette, alcune distanti anche 90 km, che non ho ancora visitato. Per
arrivare sono sette ore di moto su una strada orribile. Ma la schiena, per
fortuna non ne ha risentito».

Nell’idea dei missionari di Fingoè, i centri
di formazione dovrebbero diventare quattro o cinque nuove missioni, ognuna
riferimento di circa 20 comunità, distanti una dall’altra anche 70 km. Distanze
che valgono il quadruplo, a causa delle condizioni difficili.

«Ringrazio Dio perché ho ancora la forza,
alla mia età. Io mi sento giovane, come avessi 40 anni» chiosa quasi pudico
padre Franco. Si può ripartire a qualsiasi età? «Sempre, basta avere fede. Non
si tratta tanto di amare Dio, ma piuttosto lasciarsi amare e condurre dal
Signore. Questa è la nostra forza.

Sono convinto, e più vado avanti lo vedo,
che se uno crede sul serio in Cristo, allora gli dà la vita, e dà anche la vita
per il prossimo. Lui ti dà la vita e tu la offri al prossimo. Il che vuole dire
che ti assicura la forza per fare le cose».

La spiritualità del pendolo

«C’è come un Big Bang iniziale: Dio mi dà lo
slancio iniziale e mi manda nel mondo carico del suo amore. Attenzione: questo
slancio mi porta verso il prossimo. E più mi avvicino al prossimo, con le
difficoltà, le miserie, più ho bisogno di andare a rifocillarmi da Dio. Allora
ritorno a Lui. Più vado a Dio e più sento necessità di fare comunione con il
prossimo. È il binomio: contemplazione – azione. Inoltre il pendolo, con
l’attrito tende a fermarsi, ma l’amore di Dio, non è solo iniziale, continua ad
alimentare l’oscillazione».

Ricorda padre Franco: «Paolo VI diceva che
dobbiamo avere una “disciplina spirituale”. Ovvero: non andare avanti a caso.
Io conosco le mie fragilità, le difficoltà della vita, allora ho bisogno di
darmi un orientamento. Più conosco la miseria umana e più ho bisogno di Dio
perché io non posso dare soluzioni, solo lui può.

Allora è necessario leggere e riflettere,
per ricaricarsi. Significa rivedere la storia, quello che ci capita alla luce
di Dio».

Approccio laicale

Come abbiamo visto, in Mozambico, a causa
dell’estensione del territorio, molte località non possono essere visitate da
sacerdoti, se non occasionalmente. Il ruolo dei laici è dunque fondamentale.

«Il futuro lì sono i laici. Ma anche qui in
Italia. Tra 10 anni i preti saranno sempre meno. Un parroco che fa 5
parrocchie, come fa? Corre. Occorre abituare la gente a coinvolgersi di più.
L’incontro con Dio si ha anche attraverso la Parola. È come avere due polmoni:
eucarestia e Bibbia. Se non c’è la prima, si respira con un polmone. Si vive lo
stesso! Formiamo animatori responsabili con la catechesi per avere comunità
aggrappate alla Parola di Dio. Se poi viene l’eucaristia tanto meglio, ma chissà
come sarà un domani».

«Chiediamoci: chi è che accompagna questa
gente? Io prete, che vado là ogni due, tre mesi, per pochi giorni, e non so la
loro lingua? O sono loro che sono lì? La quotidianità della luce di Dio è
trasmessa attraverso gli animatori. Sarà così anche in Italia domani».

Ma non sempre è facile avere un ruolo come
laici nella chiesa: «Ci sono molte resistenze, da parte del clero e da parte
della gente. Il clero dice: la gente non è preparata. È vero, ma neanche noi
sacerdoti siamo preparati, abbiamo clericalizzato tutto».

La missione ci aiuta a leggere la realtà.
Perché anche qui c’è questa situazione, un po’ più camuffata.

In Italia iniziamo ad avere diversi
missionari africani come parroci delle. «È vero. Ma sarebbe più logico che ci
fosse un padre di famiglia preparato che va lì e spiega, poi incarichiamo
qualcuno che ci dia l’eucarestia. Questo aspetto dei laici ha un’importanza
estrema».

I giovani e la missione

In Italia i giovani disertano le chiese.
Come interessarli alla missione? «Credo che il mondo di oggi manchi di una
cosa: interiorità. Si è frastornati da tutto. C’è bisogno di un po’ di
silenzio. Ma non di solitudine, altrimenti ci si ammazza. Un silenzio che
diventi riflessione, ci porti a dare delle risposte personali a certi segni che
dovremmo vedere».

«Noi stessi dobbiamo dare dei segni. In
tempo di guerra mi è capitato di passare la notte a seppellire morti tagliati a
pezzi. Il mattino dopo, la gente diceva, perché lo fai? Adesso non siamo più
capaci a creare delle inquietudini con la nostra dimensione di fede. Vuol dire,
creare interrogativi. Perché a 76 anni parti ancora?
Ma stai qui, c’è lavoro. Se riesco
a dare una risposta a questi “perché” mi metto in cammino.

Invece cerchiamo di sistemarci. Ma se ci si
ferma o ci si addormenta o si imputridisce. Accetti passivamente tutto, non
crei più punti interrogativi, inquietudini appunto, non crei più ricerca».

Ma come trovare le risposte?

«Il problema non è tanto quello di dare
soluzioni – continua il missionario – quelle le darà la storia, ovvero Dio. Non
sarai tu. Se tu vivi il Vangelo sul serio, attorno a te qualcosa si muoverà,
qualcuno “inquieto”, forse per imitarti, forse per liberarsi dal torpore del “tutti
fanno così”. Al contrario, questo cercare di sistemarsi, può creare in alcuni
una ribellione radicale, come i giovani che seguono l’Isis, perché devono dare
un senso. Ma ricordati, facciamo più con la presenza che con la parola.
Dobbiamo gridare il Vangelo con la vita».

Marco Bello



Tags: Gioda, Missione, spiritualità, avventura, evangelizzazione, Mozambico, Tete

Marco Bello




Il contadino di Dio, i valori della terra

Quasi un profeta

Gino Girolomoni nasce
in una famiglia contadina. Fin da piccolo si scontra con le difficoltà della
vita. Vede nella civiltà rurale e nella cura della Madre Terra l’unico futuro
possibile. Trova l’energia spirituale nelle piante e nella Bibbia. Con la
moglie Tullia «inventa» l’agricoltura biologica in Italia. Storia di un grande
personaggio, troppo poco conosciuto.

 


 

Chi
guarda le foto di Gino Girolomoni, con la barba bianca e lo sguardo severo ma
luminoso, ritto nel suo amato campo di grano, con le spighe in mano, non ha
difficoltà a immaginarselo nelle pagine delle sacre scritture. Come colui che
guida il suo popolo attraverso il deserto, ispirato da una fede tenace e
sapiente.

Così è stata la vita di Gino, padre dell’agricoltura
biologica italiana, fondatore del mitico marchio «Alce Nero», paladino di Madre
Terra e del mondo contadino in via d’estinzione, studioso della Bibbia e
tessitore d’incontri tra culture, religioni, fedi diverse.

Un percorso straordinario, purtroppo interrotto da una
morte repentina, il 16 marzo 2012.

Un cammino che viene esplorato da una bella biografia di
Gino, «La terra è la mia preghiera» (Ed. Emi 2014), scritta dal giornalista e
ricercatore spirituale Massimo Orlandi.

Origini «antiche»

Tutto comincia nel 1946 in un piccolo paese delle
Marche, Isola del Piano, a una ventina di chilometri dall’aristocratica Urbino.
Qui nasce Gino, da babbo Olindo e mamma Rina, qui cresce insieme alla sorellina
Vera e al fratellino Alessio. Qui, sono parole sue, vive l’esperienza più
importante della sua esistenza: «L’aver vissuto l’epopea antichissima della
vita contadina… nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche
i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la
cura di un paesaggio che era bello anche da vedere» (Gino Girolomoni, Alce Nero grida. L’agricoltura biologica, una sfida
culturale, Jaca Book, Milano, 2002, pg. 87).

Tra un piatto di polenta, l’acqua tirata su dal pozzo, i
giri nel bosco con la mamma a tagliare le vitalbe per il bestiame, il piccolo
Gino passa un’infanzia povera ma felice. Fino a sei anni, quando la mamma muore
per una puntura di spino, avvelenata dal tetano. La famiglia, che ha difficoltà
a accudire i tre bimbi, manda Gino in collegio, dove una vecchia suora gli
trasmette l’amore per la Bibbia. Una passione che segnerà tutta la sua vita.

Ma non viene mai meno l’attaccamento alla terra, ai
campi che ritrova durante le vacanze estive. Alla vigilia del ’68, quando si
chiude il ciclo del collegio, il ragazzo Gino si trova alle prese con la
domanda che tutti i giovani devono affrontare: «Dove mi porta la mia vita?».
Negli anni caldi della militanza politica e della ribellione giovanile
collettiva, mentre l’esodo dalle campagne segna pesantemente anche le sue
colline, Gino va controcorrente: si sente attratto dai ruderi di un antico
monastero abbandonato, sul colle di Montebello, che sovrasta la sua casa e da
cui la vista spazia da San Marino al Monte Conero. Quei ruderi contengono
seicento anni di storia della Chiesa: all’origine c’è il cammino di fede del
fondatore, il beato Pietro Gambacorta da Pisa e quello di altri 17 beati che
sono passati da lì.

«Questo è un luogo privilegiato dello spirito – si dice
Gino -. Non deve morire d’oblio».

La necessità lo spinge a cercare lavoro fuori: fa il
collaudatore di moto a Pesaro, il caporeparto di uno zuccherificio a Fano. Ma
quando gli si presenta l’occasione di andarsene davvero, in Svizzera, per un
posto fisso alle ferrovie (per quell’epoca, un teo al lotto) Gino fa
repentinamente marcia indietro, e torna là, nel luogo da cui tutti scappano:
alla sua terra. E vuole starci con la sua donna, Tullia, che dividerà con lui
il suo eretico cammino.

Civiltà contadina

«Anche a costo di doverlo fare da solo, il mio mestiere
nella vita sarà quello di contadino» scrive nel suo diario il 28 dicembre 1969.

In quasi totale solitudine, Gino giura fedeltà a quel
mondo rurale sull’orlo della scomparsa, privato di mezzi e dignità dal rampante
sviluppo industriale dell’epoca, segnato da quella che lo scrittore Moravia
definisce «putrefazione». Nel 1970, a soli 23 anni, diventa sindaco di Isola
del Piano: un’opportunità che coglie nella consapevolezza che sarà una carta in
più da giocare per combattere il degrado fisico e culturale della civiltà
contadina e per tentae il rilancio.

Qui, nel 1973, «mette in scena» gli antichi mestieri, la
prima esposizione delle «Attrezzature agricole tradizionali e degli strumenti
che ancora si fanno», cui faranno seguito una serie di eventi per rivalutare la
civiltà rurale, per restituire a contadini e artigiani la fierezza del loro
mestiere e indicare loro che si può continuare a vivere con la terra, grazie
alla terra.

Se la campagna scompare, è il futuro stesso dell’umanità
a essere in pericolo: «Senza la riappropriazione di questo genere di capacità,
senza essere capaci di piantare l’aglio né l’insalata, senza saper costruire un
giocattolo di legno per il proprio figlio, senza saper costruire un vaso
d’argilla, non si può capire bene il passato né aspettarsi molto dal futuro».
Insomma, Gino crede fermamente che sarebbe una sciagura se andassero perduti i
valori del mondo agricolo: la solidarietà, corrosa dall’egoismo della dominante
civiltà industriale, la manualità messa a rischio dal ruolo sempre più diffuso
delle macchine, il rispetto verso la natura, inquinata e corrotta dal nuovo
modello di sviluppo. Gino predica, e pratica, un’agricoltura in grado di
sintonizzarsi di nuovo con i ritmi di «Madre Natura», rispettosa di chi produce
e di chi consuma, capace, grazie alla sua qualità, di conquistare spazi di
mercato che la rendano anche remunerativa.

Energia spirituale

La spinta e l’energia per questa titanica impresa Gino
la trova dunque nella terra: «Nelle piante vedo veramente il soffio di Dio»
scrive. Ma anche nelle scritture: ogni giorno si ritaglia qualche ora per la
lettura della Bibbia. «La fede e la vita non sono separate – dirà -, tu dimostri
di aver fede secondo la vita che fai».

L’inizio della sua nuova vita, di quella della sua
comunità, Gino lo trova non a caso tra i ruderi di Montebello, che comincia a
restaurare e che nel 1976 diventerà la sua casa, dove andrà a vivere, in
un’unica stanza abitabile, senza acqua né luce, con la moglie Tullia e il loro
primo bambino.

Montebello diventerà, dal 1977, la sede della
Cooperativa Alce Nero – che oggi si chiama «Girolomoni» e non ha più nulla a
che vedere con l’attuale Alce Nero sul mercato -, antesignana dell’agricoltura
biologica: il nome non è scelto a caso, ma ricorda l’epopea del capo Sioux che,
cacciato con il suo popolo dalle sue terre ancestrali, rivendica con forza e
dignità i propri diritti. Il logo è appunto un indiano piumato, ritto sul suo
cavallo in corsa, lancia in resta. «Anche nel resto del mondo ci sono gli
indiani – osserva Gino -. In Italia sono i contadini».

La Cooperativa cresce, resistendo tenacemente alle
difficoltà finanziarie, agli ostacoli frapposti senza sosta da una burocrazia
ottusa e nefasta (un solo esempio: la pasta integrale sarà addirittura
sequestrata per diciassette anni dallo stato perché non ancora prevista nella
nostra normativa). Grazie alla qualità delle sue produzioni e alla sua abilità
nel mettere in piedi l’intera filiera, si farà conoscere in Italia e
all’estero, diventerà l’avamposto di un settore, quello biologico, all’epoca di
fatto inesistente e che oggi conta in tutta Italia 50mila aziende, è praticata
su un milione di ettari, cresce del 17% l’anno, per un fatturato di 3 miliardi
di euro (55 nel mondo intero).

Nel maggio 1978, il sindaco Gino organizza nel suo
paesino il primo corso nazionale di agricoltura biologica. Oggi, sulle colline
intorno a Isola del Piano si contano 25 aziende biologiche, simbolo della
volontà di un territorio di tornare a essere padrone del suo destino.

Una porta aperta

Ma non basta. Rivalutare il mondo contadino e i suoi
valori è un’avventura che richiede compagni di viaggio anche nei territori
della cultura e della scienza, alleanze con gli intellettuali, a livello
nazionale e internazionale. Montebello diventa così un luogo di incontri e di
scambi di altissimo livello, sede di eventi che faranno epoca e che toccano i
grandi temi della vita e della spiritualità, frequentata da filosofi e
scrittori del calibro di Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Massimo Cacciari,
Alex Langer, Ivan Illich, Vittorio Messori.

Non solo: sarà una «porta aperta», un punto di
accoglienza calorosa per chiunque pratichi la ricerca spirituale, sulle rotte
della natura e dello spirito.

Guardando il mondo dalla cima del suo monte, raccolto
nel silenzio del suo studiolo monacale, circondato dai suoi libri, migliaia, di
storia, archeologia, spiritualità, Gino scrive: «Mi sento un cane che abbaia
per difendere le campagne, un portatore di una seppure minima speranza di
curare le ferite dei monti non ancora moribondi. Mi sento uno che vede in
questi luoghi una possibilità per resistere alla corruzione del pensiero e dei
costumi, un luogo dove ricostruire frammenti di minuscole società» (Gino
Girolomoni, Terre, monti e
colline! Il caso Alce Nero, Jaca Book, Milano
1992, pg. 14).

In quest’ottica, Gino accetta anche di entrare in
politica e milita nella dirigenza dei Verdi dal 1999 al 2001, all’epoca in cui
io ero presidente del partito (lascerà poi qualche anno dopo, deluso dalla
politica politicante e dai meccanismi del potere). Abituato al parlare netto e
schietto, anche duro all’occorrenza, restio a chinare la testa davanti ai
potenti, Gino diventa in quel periodo una bandiera delle battaglie
ambientaliste, in particolare quella contro gli Ogm (organismi geneticamente
modificati) e contro l’uso dei pesticidi e dei veleni in agricoltura.

«Credo che sia evidente che per me il biologico è uno
stile di vita, un modo di abitare la campagna, di vivere, di mangiare, di fare
scelte come l’uso di medicine, dolci, della bioedilizia, di forme di energia
rinnovabile. Tutte queste cose stanno insieme e formano un modo diverso di
vivere» (Intervista tratta da un documentario «Montebello, una collina che non
si arrende»).

Insomma, come ben sintetizza Massimo Orlandi nella
biografia di Gino (pag. 108): «L’agricoltura biologica rappresenta il primo
nucleo di resistenza attiva… tocca un bisogno primario, il cibo, e racconta il
paradosso più lampante di una società tanto disumanizzata da avvelenare anche
ciò di cui si alimenta».

Al di là del comune impegno politico e civile, abbiamo
per decenni condiviso una profonda ricerca spirituale e la sfida di calarla
nella nostra esistenza quotidiana. Una sfida che Gino ha continuato a praticare
fino alla morte, nel vortice delle sue poliedriche attività (libri, articoli,
conferenze, incontri culturali oltre che la quotidiana produzione biologica),
tenendo testa a difficoltà, sconfitte, amarezze. Ma gratificato anche,
soprattutto negli ultimi anni, dal successo della sua impresa, sia sul versante
economico sia su quello culturale. E soprattutto dalla promessa rappresentata
dai suoi tre straordinari figli, Samuele, Giovanni Battista e Maria, che oggi
custodiscono e fanno crescere la preziosa eredità del padre (e della madre,
perché senza l’inestimabile e instancabile presenza di Tullia, coadiuvata dalla
cara Nonna Tullia, Montebello sarebbe appassito in pochi anni).

Lo spirito di Montebello continua dunque a vivere. Ed è
sintetizzato in una frase che un giorno Gino mi disse, al ritorno da una
passeggiata nella neve, accanto al grande camino del monastero: «Nella realtà
del mondo, ha ragione solo chi vince. Nella realtà di Dio, non conta solo
vincere o perdere. Conta servire la causa».

Grazia
Francescato* 

* Ambientalista, giornalista, scrittrice, ex presidente
del Wwf, dei Verdi italiani e dei Verdi europei. È stata deputata nella XV
legislatura (2006-2008).

Tags: ecologia, agricoltura biologica, bioagricoltura, spiritualità, Girolomoni

Grazia Francescato




Cuba e l’attesa per il dopo «bloqueo»

il Futuro inizia domani

Il 17 dicembre 2014 è
stato un giorno storico per Cuba: è stata infatti annunciata la fine di 55 anni
di guerra fredda tra l’Avana e Washington. Un nostro fotografo era nell’isola
caraibica proprio in quei giorni.

 


 

Varadero. Sono venuto a Cuba per un reportage fotografico
su alcune aree intee dell’isola. Approfittando della stagione favorevole, ho
deciso di portare con me la mia famiglia che farà base a Varadero, zona adatta
ad accogliere – con i suoi circa 60 resort
– turisti da ogni parte del mondo, ma in realtà l’unico posto di Cuba che nulla
ha in comune con l’obiettivo del mio reportage: un racconto fotografico
attraverso percorsi non convenzionali e lontani dalle rotte turistiche, come
l’entroterra di Cardenas e Matanzas, territori immobili e intrappolati in ritmi
e stili di vita lontani decenni dai nostri.

Giunto all’hotel, prendo coscienza del fatto che saranno
due settimane di quasi completo «isolamento digitale». A causa dell’embargo (el bloqueo) Cuba
ha enormi difficoltà di trasmissione per via delle limitazioni dell’uso dei server e per l’utilizzo
dei cavi sottomarini, molto meno efficienti (ma più economici) dei satelliti.
Scegliendo Cuba mi ero preparato al fatto che avrei dovuto fare a meno della
connessione a internet sul mio inseparabile smartphone, ma non al fatto che
proprio in questi giorni anche in hotel la connessione sarebbe stata fuori uso.

Ormai rassegnato all’idea dell’«isolamento digitale», mi
ritrovo inaspettatamente sollevato: posso finalmente disintossicarmi (pur in
maniera forzata) dalla maniacale abitudine all’uso della rete a cui molti di
noi sono quotidianamente sottoposti. Mi sento già più libero. Leggero. Mi
preoccupo di noleggiare un’automobile in modo da potermi muovere in maniera
autonoma nelle zone dell’isola che mi interessano e che si trovano a Sud delle
paradisiache spiagge di Varadero. Mi viene proposta una fiammante auto cinese
dal nome impronunciabile che, nei giorni successivi, darà prova del suo stato
di usura, scarsa «qualità» e manutenzione. Nell’arco di poche ore, inizio a
comprendere meglio le limitazioni e i vincoli imposti dal bloqueo.

Senza supporto satellitare, Google Map è privo di vita. L’unico modo per muovermi sull’isola
sarà quello di tornare al vecchio, scomodo e silenzioso stradario che il
noleggiatore mi ha messo a disposizione.

In hotel indago sul percorso e sui territori che mi
interesserebbe fotografare. Incontro Jorge, un operatore turistico che, dopo
avermi proposto tutti i suoi tour organizzati, desiste e cede il passo alla mia
voglia di autonomia. L’uomo si lascia andare al racconto della precaria
situazione a cui il popolo cubano è costretto a causa dell’embargo, pur
sottolineando il fatto che persone come lui, operatori del settore più vitale
del paese, vivono in realtà una situazione «privilegiata».

Jorge è molto scettico sulla mia intenzione di visitare
le zone intee alla ricerca di testimonianze fotografiche e di volti lontani
dal sole delle spiagge. È abituato alle migliaia di canadesi, italiani e
tedeschi che vengono a Cuba solamente con l’obiettivo di bere rum, fumare
sigari, godere del sole dell’isola, magari in dolce compagnia. Ad ogni modo mi
fornisce indicazioni e suggerimenti strappandomi la promessa di mostrargli al
mio ritorno le immagini scattate nel mio peregrinare.

La Habana, tra
decadenza e splendori

È il 17 dicembre quando Obama e Raul Castro annunciano la
fine della guerra fredda tra i due paesi (leggere il riquadro a pag. 13, ndr).

Dopo oltre 50 anni dalla rivoluzione castrista, Cuba si
appresta probabilmente ad affrontare il più grande cambiamento di sempre.
Assaporo la fortuna di essere qui proprio nei giorni di questo storico
passaggio.

Anche se lontano dalle mie iniziali intenzioni, decido di
far partire il mio itinerario da la Habana (l’Avana, in italiano), una della
città più affascinanti del Sud America, obbligatoria per iniziare ad assaporare
il clima cubano («a due marce») ed entrare in sintonia con uno dei popoli più
cordiali e accoglienti che io abbia mai conosciuto. Girovagando per le strade
di Habana Vieja alla ricerca di angoli particolari della città vecchia e
dell’autentica cucina cubana, lontano dai locali turistici, percorro
un’infinita serie di viuzze, attraversate da rivoli d’acqua di varia natura,
che si infilano tra le macerie di edifici fatiscenti o pericolanti.

Alla fine, dopo l’incontro con una giovane coppia di
cubani, senza volerlo mi ritrovo in un famoso locale della capitale dove pare che,
in serata, ci sarà un ricevimento con la presenza del presidente Raul Castro.
Non so se questo sia vero, anche perché i due ragazzi, dopo l’iniziale
approccio disinteressato, una volta nel locale mostrano i loro reali obiettivi:
essere invitati a mangiare, a bere qualche mojito1 e magari ricevere anche dei Cuc2.

Il
ragazzo mi racconta di essere un musicista che ha anche preso parte al tour
documentario di Zucchero qualche tempo addietro. Suona la tastiera e il suo
salario mensile è di soli 30 Cuc (circa 25 dollari). Vive con la moglie, hanno
un bimbo di 3 anni e uno in arrivo. Lo intuisco anche dal pancione della
ragazza che lo accompagna.

La difficoltà di
informarsi

Voglio approfittare del fatto di essere qui per capire
meglio Cuba e per avere informazioni in presa diretta, ma non è facile. Avendo
la sensazione che sull’isola l’informazione sia ancora in mano ad un ristretto
numero di persone e non avendo la possibilità di accedere a internet, l’unico
modo per cogliere l’essenza di ciò che sta accadendo sia di parlare con la
gente comune. Spingo quindi la conversazione su quello che i miei due giovani
accompagnatori pensano del governo, della sua politica, dell’economia.

È difficile però avere dettagli. Il tono dei miei
interlocutori si anima e si placa con mezze risposte dettate al ritmo della
musica diffusa nel locale dal gruppo di musicisti che si sta preparando per la
serata.

Mentre diversi bicchieri di mojito passano sul nostro
tavolo, parliamo dello storico annuncio fatto il giorno prima dal presidente
Castro e dal leader americano. L’atmosfera si scalda al racconto di questo
evento memorabile e traspare dai loro volti la grande speranza che Cuba
finalmente possa entrare in una nuova era. Forse anche per l’effetto dei mojitos, sorridono e anche
i loro occhi brillano pensando ai cambiamenti che presto potrebbero migliorare
la loro esistenza. Come, ad esempio, la liberazione dalle restrizioni della libreta, la tessera statale
che offre un aiuto alle famiglie dando loro la possibilità di acquistare una
serie di beni primari a prezzi politici. Me la mostrano tirandola fuori con un
po’ di esitazione. Mi dicono di molti cubani che, pur disprezzandola, la
utilizzano per comperare quello che offre. Mi spiegano che la libreta non fa vivere, ma
che comunque è un utile supporto. Con essa anche il loro bimbo ha diritto alla
sua quota di riso, pane, olio, ma – aggiungono scherzando – non ai sigari che
invece a loro farebbero molto comodo: li potrebbero infatti rivendere per
comprare del latte.

Mi raccontano che, da qualche anno, Cuba sta attuando
riforme radicali soprattutto a livello agrario e stringendo accordi anche con
paesi che un tempo erano considerati nemici. In ogni caso, sia in città sia in
tutta l’area costiera, è soprattutto il turismo il comparto economico su cui la
maggioranza dei cubani punta.

Qualcosa sono riuscito a sapere. Tuttavia, l’obiettivo
della mia coppia non è tanto quello di parlare dei problemi e degli scenari
futuri di Cuba quanto di riuscire a portare a casa qualcosa in più del pranzo.
Mi parlano così di cornoperative e dell’opportunità di comprare rum e sigari a
prezzi inferiori a quelli ufficiali. Poi, all’improvviso, forse a causa del mio
scarso interesse, decidono che è ora di andare e, dopo avermi lasciato i loro
indirizzi e in regalo alcuni pesos cubani ufficiali, mi salutano
frettolosamente.

L’incontro mi porta alla mente una serie di letture che
avevo fatto prima di partire e che puntualmente mi avevano svelato quanto la
tecnica e la pratica di approcciare turisti, soprattutto a la Habana, sia
sofisticata ed elegante: gentili e affabili cubani pronti a dare il proprio
aiuto per districarsi nei meandri della capitale. Le avevo considerate leggende
metropolitane, tipiche della rete. Invece era tutto vero: la prova tangibile di
come il popolo cubano, stanco e impoverito dalla situazione economica, riesca a
escogitare strategie, anche elaborate, per sbarcare il lunario facendo leva su
quella che, probabilmente, è l’unica vera opportunità esistente nella capitale,
il turismo.

La Habana Vieja con i suoi edifici decadenti e fatiscenti
è Patrimonio dell’umanità. Probabilmente è una delle città coloniali più belle
che abbia visto nel Sud America, ma percorrendone le strade, accompagnato dagli
effluvi delle fogne, mi rendo conto del fatto che la maggior parte degli
edifici non è mai stata restaurata e che alcuni crollano inesorabilmente giorno
dopo giorno, accumulando montagne di macerie ai bordi delle strade.

Per visitare la Habana ci vuole non soltanto uno stomaco
forte, ma anche buoni polmoni. Le affascinanti e colorate automobili degli anni
Cinquanta sono infatti  quanto di più
inquinante ci possa essere perché, come gli edifici, sono rimaste quelle di un
tempo: luccicanti e appariscenti se viste da lontano, malandate, arrugginite e
decadenti se viste da vicino e all’interno.

Durante il percorso di ritorno verso la mia auto,
passando per i luoghi simbolo della città – Plaza de Armas, Palacio de los
Capitanes Generales, la cattedrale di San Cristobal -, mentre metabolizzo le
frasi e il comportamento dei due ragazzi che ho conosciuto, si rafforza nella
mia mente l’idea che, con la scomparsa del bloqueo, Cuba potrebbe non essere
più la stessa.

Tutti a bordo

Toare verso Varadero non è facile. A Cuba sono
praticamente inesistenti i cartelli stradali. Sono stati tutti, o quasi,
rimossi dalla gente del posto. In modo intenzionale: chiunque ti darà le
indicazioni di cui hai bisogno, ma spesso in cambio di un passaggio. Quando mi
fermo a chiedere informazioni, diventa così quasi inevitabile ritrovarmi, per
qualche chilometro, con una persona a bordo. E alla fine non è detto che io
prenda sempre la direzione corretta o più breve verso la mia destinazione
avendo a fianco un accompagnatore interessato.

Daniele Romeo

(fine prima
parte)

Tags: Cuba, embargo, bloqueo, vita quotidiana, rinnovamento

Daniele Romeo




Cari Missionari

 

Franchezza sulla Chiesa

Sono un lettore della vostra rivista di cui apprezzo la
franchezza generosa, e desueta, con cui parla dei popoli e delle nazioni del
mondo, e sono stato sorpreso anche del coraggio con cui, parlando del Ce nel
numero di dicembre, P. Pescali riconosce che la scienza è riuscita ad unificare
gli uomini più delle religioni; un riconoscimento certo non facile per una
rivista  religiosa, e neppure del tutto
vero per quanto riguarda la stessa scienza, di cui conosciamo le manipolazioni
passate e della cui onestà di ricerca non siamo sicuri neppure per l’avvenire.
Con la stessa franchezza vi dico che mi sembra inutile l’allegato
sull’Allamano, troppo acriticamente agiografico, così come non trovo lo stesso
coraggio quando affrontate i problemi della Chiesa, soprattutto della sua
gerarchia. Capisco che non si può parlare di corda in casa dell’impiccato, ma
credo che una maggiore schiettezza non danneggerebbe ne voi né la Chiesa
stessa; ricordate Rosmini.

La pratica
liturgica

In un inserto di qualche mese fa, curato da p. A.
Rovelli (di cui sono compaesano, così come lo sono di p. G. Rigamonti), il
problema della crisi della Chiesa è stato affrontato con onestà, ma, a mio
giudizio, tacendo su un fenomeno che la caratterizza da sempre e che reputo uno
degli elementi insieme più limitanti e più da rivedere: intendo il peso che ha
in essa la pratica liturgica e cultuale. Che è centrale nella Chiesa
contemporanea, come nella Chiesa da sempre, almeno dalla sciagurata età
costantiniana in poi, ma che non trova fondamento nel Nuovo Testamento (e qui
mi potrebbe essere d’aiuto p. Farinella, di cui auspico ed attendo il ritorno
sulle vostre colonne). Non ci sono nei vangeli e nell’intero corpus
neo-testamentario esortazioni a funzioni religiose, anzi per lo più se ne parla
in senso molto critico: vedi la parabola del fariseo e del pubblicano,
l’esortazione ad abbandonare il sacrificio per conciliarsi con il fratello, la
stessa preghiera del Padre nostro, che sembra letteralmente strappata a Gesù
dai suoi discepoli. L’unico caso che sembrerebbe smentirlo è l’istituzione
dell’eucaristia, ma il fatto che già ne parli Paolo (I Cor. 11, 23-26) e con
gli stessi accenti che troviamo nei sinottici – e Paolo non ha avuto nessuna
conoscenza diretta del Cristo – fa capire che il memoriale appartiene già alla
prima comunità cristiana come momento di consapevolezza di sé più che alla
verità storica dell’evento. E questo si inserisce perfettamente nella
predicazione del Cristo, che non intende sostituire i vecchi sacrifici e le
vecchie liturgie, ma si propone di creare una mentalità ed un’etica nuova, un
uomo «altro» sia rispetto al modello dell’ebreo che del pagano.

Certo mi direte che la liturgia non fa male a nessuno,
ed in fondo raccoglie la comunità dei credenti in un atto di riaffermazione di
identità e di comunanza di fede. Ma è proprio l’avere puntato soprattutto sulla
liturgia che ha reso marginale l’elemento dirompente dell’annuncio cristiano,
ovvero l’uomo nuovo e l’etica nuova. D’altra parte, a memoria, le esortazioni
che sento e che sentivo sono sempre quelle, riduttive: «sei andato a messa?», «hai
fatto la comunione?», «hai fatto Pasqua?», proprio le domande che Cristo non
rivolge mai ai discepoli. Forse il rispetto della liturgia si accompagna a una
vita scellerata, o anche semplicemente immemore dei suoi doveri o finalizzata
al guadagno senza moralità; l’una e l’altra possono convivere senza lacerazioni
proprio perché il primato della liturgia è neutro; esso assolve la coscienza ed
insieme non impegna, non mette in crisi il proprio modo di vivere.

Due esempi

Mi limito a citare due casi che ne mettono in evidenza
la contraddittorietà. Il momento della cresima, che dovrebbe essere quello
dell’acquisizione della consapevolezza matura di essere cristiano, rappresenta
per lo più un «rompete le righe», il momento in cui finalmente ci si è liberati
del catechismo (per tacer del fatto che la stessa funzione religiosa viene
regolata sugli orari dei ristoranti). Se questa è la reazione più diffusa è
evidente che c’è qualcosa che non funziona nel processo di formazione; nella
maggior parte dei casi quel tempo è stato sprecato e quel seme è andato
perduto. Non si può arrivare alla celebrazione come se questa fosse il tutto;
essa non ne è neppure una parte.

Un altro fatto riguarda la messa: la predica deve essere
ascoltata nel più assoluto silenzio (ho sentito rimproveri alle madri con
bambini molto piccoli o turbolenti; e dove li lasciano?), ma la raccolta delle
offerte è fatta durante la recita del Credo (che dovrebbe essere il momento di
identificazione comunitaria per eccellenza), e se i partecipanti sono numerosi
e il sagrestano è solo si rischia di portare tale raccolta fino al Padre
nostro; è possibile un simile sovvertimento di valori? L’omelia, la parte più
umana, discutibile, spesso la più stantia deve essere privilegiata rispetto ai
momenti più definenti e caratterizzanti? Senza contare (e anche qui don
Farinella mi potrebbe essere d’aiuto) che ecclesia significa comunità, e
soprattutto comunità non organizzata gerarchicamente, e omelia
significava dialogo, confronto, non ascolto supino, spesso volte distratto o
annoiato; e questo dipende anche dal predicatore.

Riempire le
anime

È certo difficile fare proposte: le chiese luterane e
calviniste, che sono da sempre più attente alla Parola, conoscono una crisi
forse ancora superiore a quella della chiesa cattolica. Ma è comunque evidente
che su questa via non si creano né buoni cristiani, né semplicemente persone
messe in crisi dalla loro professione di cristianesimo. Sono consapevole, e
qualcuno me l’ha ricordato, che le celebrazioni liturgiche finiscono con
l’essere l’ultima difesa alla prospettiva di una totale assenza del
cristianesimo nella società contemporanea. Ma non mi pare che si ponga la
stessa cura nella formazione. La conoscenza della storia della cristianità
tutta, la lettura critica dei testi, anche di quelli basilari, la
frequentazione dei numerosi autori cristiani soprattutto delle origini la si
trova più in alcuni laici che non negli stessi uomini di chiesa, che spesso ne
propongono una lettura rapida ed annoiata. Senza dimenticare il monito di
Pascal nella sua polemica contro i gesuiti: vi interessa solo riempire le
vostre chiese, non le anime dei vostri fedeli. Penso che il problema principale
sia innanzitutto uscire da questa condizione che crea fedeli inerti, per
formare cristiani che possono sì sbagliare anche più di quelli che vivono
secondo il modello corrente, ma per vitalità, per passioni, per principi etici.
Se è vero che la conoscenza (purtroppo!) non è tutto e non garantisce, è
altrettanto vero che l’approssimazione non creerà un cristiano autentico. E la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere.

Per ragioni di correttezza voglio puntualizzare che chi
vi scrive è un agnostico, che tuttavia interessi storici hanno portato allo
studio del cristianesimo delle origini; e ritiene che il cristianesimo abbia
ancora, in questa stagione priva di ideologie e freddamente fondata su principi
economici (non si possono far fallire le banche, ma si può portare alla
disperazione un popolo, vedi la Grecia!), un grande ruolo da svolgere nella
coscienza contemporanea, ma deve cercare modi nuovi e non usuali per parlare
all’uomo. In fondo quegli antichi cristiani lo trovarono: senza chiese, intese
come edifici, e con un culto scao; forse è necessario riesaminare nel profondo
i caratteri delle origini; certo la consapevolezza e l’etica, ma anche la
conoscenza, erano superiori. E, lo ripeto ancora una volta, la comunità non era
fondata sul culto.

Mi scuso del disturbo, e con i più sinceri auguri che la
vostra rivista sopravviva.

Giuseppe
Corti
Barzago (LC), 16/02/2015

Grazie
sig. Giuseppe di questa lunga e interessante email. La sua disamina circa la
liturgia, tocca punti sostanziali della vita delle nostre comunità cristiane e
denuncia una situazione che certamente è una delle sfide più impegnative che la
Chiesa sta vivendo oggi.


Per
chi, come un missionario, rientra da paesi dove la liturgia è viva e celebrata,
il ritrovarsi in chiese dove la prima regola è «sii breve» perché la gente ha
fretta e ha tanto altro più importante da fare, lascia davvero sconsolati e
confusi.


«Si
ha spesso l’impressione che oggi nella chiesa la liturgia sia percepita più
come un problema da risolvere che una risorsa alla quale attingere. Eppure il
futuro del cristianesimo in occidente dipende in larga misura dalla capacità
che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della vita spirituale
dei credenti. Per questo la liturgia è una responsabilità per la chiesa di oggi».
Così scrive Goffredo Boselli, monaco di Bose.


Che
i cristiani italiani abbiano spesso ridotto la liturgia a un culto fatto di
pratiche esteriori, riti folkloristici, obblighi assolti, precetti e devozioni,
è un fatto. Senza entrare poi in merito a funerali a partecipazione zero e
matrimoni ridotti a spettacolo. Se poi si aggiungono le processioni in odore di
mafia e la difficoltà di trovare padrini e madrine «in regola» per battesimi e
cresime, il quadro è davvero preoccupante. La liturgia che la Chiesa sogna e
tutt’altra cosa. Per questo non posso concordare con lei quando dice che «la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere».


Il
Concilio Vaticano II ha scritto che «la liturgia è il culmine verso cui tende
l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosantum Concilium n. 10). Culmine e
fonte: due parole molto significative. Tutta la vita della comunità cristiana
dovrebbe trovare la sintesi nella liturgia e dalla liturgia attingere poi
l’energia per dare senso alla vita.


I
Cristiani dovrebbero poter dire «Senza la Domenica non possiamo vivere»,
insieme ai 49 martiri di Abitene (Tunisia) che nel 304 preferirono morire
durante la persecuzione di Domiziano piuttosto che rinunciare a celebrare
settimanalmente il memoriale della Pasqua del Signore.


Certo,
se quel che si celebra comincia in chiesa e in chiesa finisce, allora lei ha
pienamente ragione.

Non demordete

Da anni sono un’assidua lettrice della vostra rivista, e
dopo averla letta e apprezzata e meditata cerco di diffonderla, di «farla
girare» anche presso persone non completamente «cristiane ortodosse». È oggetto
ogni volta di discussioni costruttive. Trovo che riuscite sempre a essere
obiettivi, anche se trattate argomenti sociali, ambientali o politici.

È logico che quello che anima il vostro «andare a chi ha
avuto di meno» è animato dalla carità di Cristo, anche quando non viene
espressamente detto negli articoli: «non quando dite Signore, Signore siete
fedeli osservanti, ma quando fate la volontà del Padre mio» (cito a memoria
[cfr. Mt 7,21 ndr])… e qual è questa volontà di Dio se non dare la
vita per il progresso sia spirituale che umano dei nostri fratelli, spartendo
la nostra esperienza di Dio e, a volte, anche imparando da chi, a prima vista
giudichiamo «lontani».

Lo Spirito soffia dove vuole e non viene meno l’amore
alla nostra identità di Cristiani, se non ci mettiamo sempre sul pulpito,
credendoci gli unici detentori della Verità. D’altronde (dico un’eresia), il
Figlio di Dio avrebbe potuto starsene tranquillo col Padre e il Santo Spirito,
invece, per puro amore ha voluto scendere a «sporcarsi le mani» con le povere
faccende di noi umani, condividendo con noi giornie e dolori, e «ci ha pure
rimesso le piume» per aver denunciato le ingiustizie dei poteri del suo tempo.

Scusate le imprecisioni e le inesattezze nell’esporre
quel che penso (non ho studiato e sono vicina agli ottanta), ma quando ho letto
lo scritto del signor Alfredo di Genova (MC 03/2015, p. 7) non ho potuto far a
meno di mandarvi il mio incoraggiamento nel proseguire lo stile della vostra
rivista. Grazie del bene che fate a me, che fate a tutti quelli che vi leggono
e… non demordete: il Cristo è con voi!

Mira
Mondo,
Condove (TO), 08/03/2015

Caro Padre Gigi,

ho iniziato a ricevere e a leggere la vostra rivista
casualmente, e ora l’attendo con impazienza tutti i mesi; le scrivo per
condividere con lei alcune riflessioni (un po’ tardive, mi perdoni!) sulla
lettera molto bella e molto profonda del signor Garianol sullo stravolgimento
della figura del missionario.

Insegno storia e geografia ai licei e sono cattolica,
credente ma non strettamente osservante, anzi spesso lacerata da dubbi
interiori in merito ad alcune posizioni della Chiesa: ritengo doverosa questa
premessa perché la mia formazione culturale mi porta a guardare le cose da osservatrice
estea, cercando di comprendere le ragioni degli uni e degli altri, di essere
imparziale e oggettiva (esercizio faticoso e difficile).

Per questo motivo ho trovato gli articoli della vostra
rivista interessanti al punto da leggerli regolarmente in classe, e vi
considero un prezioso punto di riferimento: nelle vostre pagine si parla di
umanità – vicina e lontana – che spesso non riceve dai media l’attenzione che
meriterebbe, oppure la riceve distorta, condizionata da interessi di parte ed
appartenenze politiche. Un esempio per tutti: siete stati gli unici a suo
tempo, ad esporre in modo chiaro, equilibrato ed esauriente in che cosa
consista la protesta dei No Tav. Non ho mai trovato niente di equiparabile in
nessun articolo o rivista di geopolitica, tanto meno sui quotidiani.

Quindi la vostra testimonianza è importantissima, e così
come avete scelto di presentarla rispecchia – a parer mio – l’intenzione di
essere al passo con tempi e con il mondo che si evolve: la creazione di pozzi,
di strutture, l’attenzione alla figura femminile, alla gioventù e all’ambiente
ritengo siano gli strumenti ineludibili per una evangelizzazione consapevole e «matura».

Ma il messaggio cristiano c’è eccome: io lo vedo ovunque,
fra le righe e non. Ed è proprio questa la vostra forza: coniugare il messaggio
di Gesù con le urgenze del nostro mondo e del nostro tempo, con serenità ed
apertura verso l’altro. Inoltre la vostra preoccupazione di voler essere letti
da tutti – come lei afferma nella risposta – mi sembra non una debolezza, ma un
saggio modo per avvicinare alla lettura e alla riflessione il maggior numero di
persone.

Con gratitudine

Anna
Patrone
email, 14/03/2015

Il papa
stile Consolata

Cari fratelli e sorelle missionari della Consolata, con
gioia mi sto rendendo conto che c’è un grande parallelismo tra quello che il
nostro papa sta insegnando e gli insegnamenti del nostro padre fondatore, il
beato Giuseppe Allamano. Dall’anno della vita consacrata all’anno della
misericodia, è tutta gioia di consolazione che ci porta Gesù, la vera
consolazione. Noi come missionari della Consolata, credo che siamo chiamati a
questa testimonianza. Con papa Francesco giochiamo in casa.

Nel libretto Rallegratevi, prima lettera
circolare ai consacrati e alle consacrate (basata su citazioni dal magistero di
papa Francesco), il papa lancia il tema della gioia dicendo: «La gioia del
Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù».
Il papa cita poi il profeta Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il
vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme» (Isaia 40,1-2). Il parlare al
cuore è proprio la nostra chiamata. Il papa ci dà poi uno spunto importante: «Si
tratta perciò di un linguaggio da interpretare nell’orizzonte dell’amore, non
in quello dell’incoraggiamento: quindi azione e parole insieme, delicate e
incoraggianti, ma che richiamano i legami affettivi intensi di Dio “sposo” di
Israele». Continua poi: «La consolazione deve essere epifania di una reciproca
appartenenza, gioco di empatia intensa, di commozione e legame vitale». In
quest’ultima frase trovo in nostro fondatore quando manda i missionari dicendo
che dobbiamo amare la gente, imparae la lingua e stare con loro. Imparare la
lingua credo non sia solo questione di grammatica, ma richieda entrare in
gioco, sapere la lingua comune, la lingua dei giovani e la lingua degli
anziani. Da tanzaniano dico che non basta saper lo swahili occorre imparare a
parlare al cuore della gente. Il padre fondatore diceva che dobbiamo «elevare»
la gente (cfr. MC 06/2014, p. 32), questo è parlare al cuore.

Il papa scrive ancora: «La gente oggi ha bisogno
certamente delle parole, ma soprattutto ha bisogno che noi testimoniamo la
misericordia, la tenerezza del Signore che scalda il cuore, che risveglia la
speranza, che attira verso il bene. La gioia di portare la consolazione di Dio!».
«Gli uomini e le donne del nostro tempo aspettano parole di consolazione, di
prossimità, di perdono e di gioia vera. Siamo chiamati a portare a tutti
l’abbraccio di Dio, che si china con la tenerezza di una madre verso di noi». È
un richiamo al chinarci, al cercare di farci «tutto a tutti, per salvare ad
ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

La domanda è: come? La risposta del papa è che tocca a
noi curare l’amicizia tra di noi umanizzando le nostre comunità. Dobbiamo
curare la vita della comunità, perché diventi come una famiglia. Lì lo Spirito
Santo è nella comunità. Sempre con un cuore grande. Lasciar passare, non
vantarsi, sopportare tutto, sorridere dal cuore. È il segno della gioia. Non è
per caso che il nostro padre fondatore ci volesse famiglia. Noi lo siamo. Il
papa ci invita a non privatizzare l’amore. Padre Allamano ci voleva fratelli e
sorelle.

Quando il papa annuncia la gioia di un anno giubilare
della misericordia, mi lascia senza parole. Il papa spera che «tutta la chiesa
possa ritrovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e mantenere feconda
la misericordia di Dio, con la quale, siamo chiamati a dare consolazione ad
ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo».

Noi riusciremo a dare questa testimonianza della misericordia
o della consolazione sapendo che Dio ci ha consolati per primo. Il papa trova
il coraggio di annunciare l’anno della misericordia perché «Ecco, questo sono
io, un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». Soltanto colui
che è stato perdonato sa perdonare, uno sa amare se è stato amato, e uno è misericordioso
perché trova la misericordia di Dio.

Danstan
Mushobolozi,
Martina Franca, 17/03/2015

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