«Ci sono solo viaggi di andata»

Diario di un giovane da Isiro / 4

Anche prendersi la malaria
fa parte dell’esperienza di missione, così come veder morire chi non si può
curare, oppure contemplare la luna che sorride nella notte. Ecco le ultime
pagine del racconto di Tommaso della sua avventura «dell’essere, piuttosto che
del fare», in Congo RD. Dopo nove mesi di Africa che lo «hanno cambiato», è
tornato in Italia a inizio giugno.

17 Aprile 2015

«Neisu»
in lingua locale significa «cuore». In effetti, starci significa proprio vivere
nel cuore della foresta, e della vita della gente.

Durante
la settimana trascorsa a Neisu mi sono dato all’esplorazione, visitando i
diversi quartieri e soprattutto fermandomi a conoscere la gente.

Una
bambina di 7 anni si è presentata alla missione per chiedere aiuto per sé e per
i suoi fratellini: i loro genitori sono partiti da più di un anno, dicendo che
sarebbero andati a una matanga (funerale), e li hanno lasciati a una
nonna malata che non può sostenerli. La cosa che fa più tenerezza, e pena, è
l’attesa di quei bimbi che ancora sperano nel ritorno dei genitori. Comunque
abbiamo contattato il capo del villaggio in modo che risolvesse la situazione e
trovasse qualcuno a cui affidarli.

È la
stagione dei manghi: alberoni enormi gonfi di frutti. In missione ce ne sono
troppi, ne mangiamo due per pasto, e ancora sovrabbondano. Credo che presto mi
metterò a fae la marmellata. Per restare in tema di frutta, ho riscoperto
l’avocado: se si prende la sua polpa e si mischia con miele o zucchero sembra
mascarpone. E se aggiungi un po’ di caffè ti ritrovi il tiramisù. Forse
incomincio a essere in astinenza da cibo italiano.

Ho
assistito al giorno del grande mercato: una distesa dei più vari prodotti,
alimentari e non. Ho visto pure qualcuno che girava con un intero macaco morto
per venderlo. Sono stato molto criticato perché facevo foto o video. Il
problema è che la gente pensa che noi «bianchi» facciamo foto per andare in
Europa a dire che loro sono poveri per farci dare soldi. Questa cosa mi ha
fatto riflettere. Effettivamente è vero: queste foto, per noi, mostrano la
povertà, ma per la gente di questo villaggio è sbagliato e forse addirittura
offensivo chiamare «povertà» la loro quotidianità.

25 Aprile 2015

Come
dicono alcuni, «non hai vissuto veramente l’Africa se non hai preso la malaria».
Beh, ecco: ho ricevuto il battesimo dell’Africa. Tornato da Neisu, dopo un paio
di giorni, mi è salita una febbre da cavallo. La malaria è una malattia un po’
antipatica perché in certi momenti ti senti come in una sauna, in altri tremi
dal freddo. Comunque sono andato all’ospedale per fare gli esami del sangue: la
mattina ero in fase «tremo come una foglia», quindi immaginate la scena comica
per tenermi fermo e prelevare il sangue, poi sono entrato in fase «vulcano»
mentre mi visitava la dottoressa. Per far scendere la febbre mi hanno fatto
un’iniezione, e io sono svenuto come una pera. A quel punto ho iniziato simpaticissime
perfusioni di chinino: quattro ore per volta, per due volte al giorno, per due
giorni. Consiglio vivamente la perfusione nella fascia oraria tra mezza notte e
le quattro. Ad ogni modo, tra la dose di chinino e la valanga di farmaci presa,
ora sto bene.

Ho
capito cosa provano i locali martoriati dalla malaria più volte l’anno.  Immaginate chi ha a malapena i soldi per i
farmaci, o chi è solo. Moltissime persone, soprattutto bambini, di malaria
muoiono. Penso che le migliaia di persone che ancora oggi, nel 2015, muoiono
per malattie curabili (diarrea, malaria, febbre tifoide, ecc.) rappresentino
uno scandalo enorme e un’ingiustizia. Eppure tutto tace, nessuno fa nulla, e la
gente muore. È incredibile l’assenza dell’Africa nei nostri telegiornali. C’è un
disperato bisogno di pace. Come dice madre Teresa: «Se oggi non abbiamo la pace
è perché ci siamo dimenticati che quell’uomo, quella donna, quel bambino è mio
fratello o mia sorella».

 


08 Maggio 2015

La
povertà è una realtà che turba la coscienza, viene istintivo cambiare strada o
girare la testa dall’altra parte. Qui però la povertà è talmente grande e
diffusa che qualunque strada tu prenda, o dovunque giri la testa, la incontri.
Un giorno ho accompagnato Ivo a fare la spesa in un negozio. Mentre eravamo lì,
è comparsa una signora (un po’ fuori di testa) che ha iniziato a domandarci
soldi. La scena è durata una trentina di minuti: lei domandava soldi, noi
rifiutavamo, lei continuava a domandare soldi. In una realtà come questa non è
giusto dare a destra e a manca: oltre al fatto che non ce n’è per tutti, si
rischierebbe di creare una mentalità di dipendenza. Fatto sta che, nonostante
fossimo nel «giusto», rifiutare di donare 10 centesimi a quella donna, mentre
il bancone si riempiva di merce, mi ha, in un certo modo, infastidito. Forse
perché mi risuonavano nelle orecchie parole come: «Ero affamato e non mi avete
dato da mangiare», ma qui gli affamati li incontri ogni dieci metri.

Se
solo le ricchezze fossero incanalate nel modo giusto!

La
malaria, grazie a Dio, è passata e mi sono rimesso al 100%. Ora non potete
immaginare cosa provo quando a Gajen incontro i bambini che soffrono di
malaria, quando sento il loro corpo che scotta e vedo la stanchezza nei loro
occhi.

Non
so se vi ricordate di Jefthen, un membro della banda bassotti di qualche tempo
fa, guarito e rientrato a casa. Ho ricevuto la notizia che è morto: una volta
tornato nel villaggio ha preso la malaria, lo hanno curato con le medicine
tradizionali pensando che fosse un’infiammazione della milza (sintomo possibile
della malaria nei bambini). Di conseguenza la malaria è peggiorata velocemente
e l’ha ucciso. Mentre riguardavo foto e video del periodo in cui era a Gajen,
non ci potevo credere che fosse morto, e ho provato un certo senso di rabbia nel
pensare che era «morto per niente», che se avessero subito identificato e
curato la malaria Jefthen sarebbe ancora vivo. Morire per colpa dell’ignoranza è
una cosa che proprio non riesco ad accettare, eppure qua è «normale»: in quasi
tutte le famiglie che ho conosciuto, almeno un figlio è morto in situazioni
analoghe. Come direbbe padre Tarcisio: «Cosa non abbiamo visto in 40 anni di
Congo!». Anche io, in meno di un anno, ne ho viste veramente tante.

L’altra
mattina è arrivato un ragazzo (23 anni) che cercava un donatore di sangue per
suo figlio malarico. Era una specie di corsa contro il tempo, tra la vita e la
morte del figlio. Qui, i donatori vengono pagati. Questo significa che, se non
hai i soldi, stai senza trasfusione e muori. Negli ospedali non c’è una banca
del sangue, anche per le difficoltà di conservazione, per cui, se hai
un’urgenza, prima di tutto devi trovare il donatore, e poi trovare i soldi per
pagarlo. «Cosa non abbiamo visto…».

 
18 Maggio 2015

Al
centro è arrivato un piccoletto di due anni. È accompagnato dalla zia perché ha
perso la mamma quando aveva meno di un anno. Questo dolore lo ha segnato:
rifiuta di parlare, annuisce soltanto, e inoltre non gioca con nessun bambino. È
veramente una pena vederlo così.

Con i
bambini del quartiere ho organizzato una serata con balli intorno al fuoco. C’è
da dire che qui in «città», rispetto ai villaggi di Makpulu, non sono abituati
a farlo, quindi siamo finiti per ripetere sempre gli stessi 5-6 canti a
ripetizione. Comunque ci siamo divertiti un sacco, e mi hanno chiesto se
possiamo farlo ancora.

Sta
per iniziare l’ultimo periodo di questa esperienza. Dopo tutto questo tempo è
difficile immaginare di partire. Incomincio a sentire che non sarò qui per
sempre, e che quando me ne andrò continuerà tutto senza di me, che non sono
essenziale. Mi consola il fatto che la mia non è mai stata un’esperienza del
fare, quanto piuttosto dell’essere.

Padre
Tarcisio, per motivi di salute, da Kinshasa deve rientrare in Italia. Vi chiedo
di ricordarlo nelle preghiere, è una grande persona e qua tutti ne sentiamo la
mancanza.

 
26 Maggio 2015


Ora
capisco quando mi dicevano che «l’inizio della stagione delle piogge è il
periodo della malaria». Le pediatrie sono piene di bambini ricoverati che
purtroppo spesso vengono portati troppo tardi.

È
incredibile come, anche dopo diversi mesi, ogni giorno continuo a stupirmi di
questa realtà. Ciò che amo dell’essere all’equatore è che qualche volta, la sera,
quando guardo il cielo, vedo la luna che mi sorride.

Sono
esemplari i sacrifici che alcuni studenti fanno per pagarsi gli studi
universitari. Thérese, una donna che sta studiando medicina, ci da una mano
nell’orto in cambio di un aiuto. Mi ha detto che i soldi ricevuti li consegna
direttamente all’università. Quando finirà gli studi curerà di più la sua
bellezza e i suoi vestiti. È un grande sacrifico per una donna di qua, perché
l’esteriorità è molto importante. Sono storie difficili quelle di questi studenti,
soprattutto se si pensa che, nel paese in cui vivono, non sanno se gli studi
universitari che conducono con grandi sforzi daranno loro una vita migliore.

 
30 Maggio 2015

Lasciare
Isiro non è stato semplice, eppure nemmeno difficile come pensavo. È stato
bello salutare tutte le persone e scambiarci gli auguri di una buona vita.

Nella
sala d’attesa dell’aeroporto di Isiro contemplo la meravigliosa foresta che
riempie il panorama oltre le vetrate. Padre Andrés che mi ha accompagnato, mi
dice che per i missionari non ci sono viaggi di ritorno, ma solo viaggi di
andata.

Quindi
salgo sul piccolo aereo e compio serenamente a ritroso quello stesso viaggio
che qualche mese fa mi aveva traumatizzato. Noto un cambiamento: non ho voglia
di ascoltare musica isolandomi, contemplo la realtà dell’aereo: i passeggeri,
il personale, ecc., e faccio conoscenza con il mio vicino. È un libanese che
lavora a Isiro e sta rientrando a casa per le vacanze. Il tempo vola immerso in
questa «musica alternativa» che è l’umanità che mi circonda. Atterriamo a
Kinshasa. Nell’attesa dei bagagli mi si presenta uno dei tanti omini che ti
vogliono aiutare in cambio di soldi. Che soddisfazione poter sfoderare il mio
lingala: «Dio mi ha dato due mani per portare le cose, faccio da solo, grazie
papà». Dopo un primo momento di sconcerto, si mette a ridere e non insiste più.
Io e Alì (il mio compagno libanese) recuperiamo i bagagli e usciamo
salutandoci. Vado in strada da padre Santino e padre Mathias che mi attendono.
Arrivo alla missione di Saint Hilaire, nella periferia della grande e caotica
capitale del Congo. Stradine tutte uguali con case e persone ovunque, musica a
ogni angolo della strada a volume altissimo. Dopo la tranquillità di Isiro,
ammetto che Kinshasa mi traumatizza parecchio. Comunque la voglia di conoscere
anche questo ambiente è grande.

Accompagnato
dal giovane padre Mathias esploro il quartiere e l’organizzatissima parrocchia.
Anche qui è presente tra i giovani un gran numero di analfabeti e l’Aids è
tremendamente diffusa.

Un
giorno vedo un gruppo di ragazzi vicino a un semaforo, quando i taxi pulmini
rallentano, questi vi si aggrappano, e dopo un po’ scendono per tornare
indietro. Domandano di trasportare i sacchi di cibo (25-50 kg) dei passeggeri
in cambio di qualcosa. Se un passeggero accetta, loro rimangono attaccati al
pulmino e accompagnano a casa il cliente, altrimenti saltano giù.

Dopo
qualche giornata movimentata, ricevo un regalo inaspettato. La prima volta mi
avevano detto che era il «buongiorno dell’Africa», questa volta penso sia «l’arrivederci».
Dopo una notte passata in bagno per la nausea, vado all’ospedale a fare gli
esami, e l’esito è quello che ci aspettavamo: malaria. Unico problema: fra due
giorni devo prendere un altro aereo per tornare in Italia.

 
01 Giugno 2015

Fortunatamente
la malaria questa volta è molto meno forte della prima, allora decidiamo che
posso imbottirmi di farmaci e viaggiare comunque. La sera padre Symphorien mi
accompagna in aeroporto. La partenza è alle 4,40 della notte, ma noi ci avviamo
verso le 23,00 per evitare il rischio del banditismo, frequente in quegli
orari. Quando salgo sull’aereo finalmente posso dormire un poco. Arrivo a
Casablanca per aspettare il volo su Bologna: l’aeroporto mi disorienta, troppi
negozi, troppi cibi, troppa superficialità, troppi bianchi. Quando si fa l’ora
di imbarcarsi mi metto in fila e sento parlare i classici turisti italiani di
una certa età che si lamentano di ogni cosa: mi viene la nausea.

Sull’aereo
il mio posto è di fianco a Iole, signora italiana che torna da una vacanza in
Marocco. Ci presentiamo e mi dice che sembro suo figlio: ho in testa un
cappello uguale al suo. Scopro poi che suo figlio è morto, e che amava
viaggiare. Quando le dico che rientro dopo tanto tempo dal Congo si commuove.
Ci facciamo compagnia per tutta la durata del volo. Arrivati a Bologna ci
auguriamo buona fortuna e ognuno prosegue per la sua strada.

Con
la malaria di mezzo non ho ancora realizzato di essere rientrato in Italia.

Sono
qui ora. Il mio «viaggio di andata» mi ha portato alla mia nuova destinazione,
in questi giorni un’altra persona che non scorderò mai ha fatto il suo ultimo
viaggio di andata, padre Tarcisio: destinazione paradiso.

Tommaso Degli Angeli

Essere, piuttosto che
fare

Una secchiata d’acqua fredda, ecco com’è vivere il
ritorno alla vita occidentale. La semplicità, l’accoglienza, la povertà,
l’essenzialità, nel «nostro mondo», sembrano così difficili da vivere! Eppure
sono proprio le cose che ci renderebbero più felici.

L’esperienza in Congo mi ha
cambiato. È cambiato il mio modo di guardare le persone e le cose, è cambiato
il mio modo di vivere e percepire la realtà. Questa è soltanto un’intuizione a
caldo, sono sicuro che l’Africa illuminerà la mia vita con il tempo. Certamente
ora ho chiaro quali sono lo stile di vita e i valori che mi rendono felice. La
sfida sarà quella di viverli qui, anche con il rischio di non essere capito.

Mio dovere
sarà anche impegnarmi perché queste convinzioni non scoloriscano con il tempo.
Posso farlo perché in questo tempo non ho solamente partecipato alla vita, ma
l’ho vissuta.

Vorrei
evitare di passare buona parte della mia vita a cercare modi per impiegare il
tempo che mi sono affannato a risparmiare, vorrei stare dentro ogni momento, ed
essere piuttosto che fare. Ogni giorno essere consapevole delle cose bellissime
che ci sono in questo mondo e imparare qualcosa di nuovo su me stesso e sugli
altri. Mettere al centro delle relazioni le persone, togliendosi gli occhiali
del pregiudizio o del profitto, ed evitare che la finestra del nostro cuore
diventi uno specchio. Essere vero ed essere me stesso, avere la serenità di
sostenere uno sguardo e di entrare in contatto con un altro meraviglioso
universo misterioso. Vorrei evitare, preso dal vortice degli impegni
quotidiani, di dimenticare quella luce che è dentro di noi e di lasciarla
spegnere.

L’Africa mi ha regalato anche una
bellissima preghiera: «Signore, fa di me una lampada. Brucerò me stesso, ma darò
luce agli altri». Non siamo fatti per vivere soli. Nel «bruciare noi stessi»,
oltre a portare luce nel buio, illuminiamo, e quindi possiamo vedere i volti
dei fratelli intorno a noi.

I pensieri sono tanti, i ricordi e
le emozioni ancora di più. La riconoscenza per le comunità che mi hanno accolto
è enorme. Si conclude così questo viaggio che in realtà è stato la preparazione
per il viaggio più grande: la vita.

T.D.A.

Tommaso Degli Angeli