Amico

Si
avvicina l’ora – ed è già compiuta – in cui la luce spezza le tenebre, quelle
tanto amate perché stendono l’oblio sul nostro male, procurato, subito,
partecipato. «Gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce» (Gv 3,19)
perché le loro opere non venissero riprovate, perché identificavano se stessi
con i loro peccati e iniquità. Viene l’ora – ed è già compiuta – in cui la luce
sulla nostra realtà non fa più paura, non perché la realtà sia migliore di come
credessimo, ma perché è amata, salvata, e quindi sì, perché è migliore: non è
sola, giudicata, abbandonata.

Arriva l’ora in cui Lui, il Dio
innalzato (Gv 12,20-33), conclude con noi un’alleanza nuova, e incide
direttamente sul nostro cuore il suo amore: non su tavole di pietra, estee,
ma sui tessuti molli e allo stesso tempo tenaci del nostro nucleo vitale (Ger
31,31-34).

Ecco l’ora in cui Lui attira
tutti a sé. In cui conosciamo già e non ancora il nostro Signore. In cui
scopriamo impressa in noi la sua immagine, e in Lui la nostra dimora.

È forte, in quest’epoca ambigua
di terrorismo, di crisi finanziarie, di pandemie, di impoverimento e disparità
crescenti, la tentazione di credere più alle tenebre che alla luce. Eppure Lui è
qui, ci attira a sé, ci innalza con Lui.

E a quelle persone che ci
chiedessero «vogliamo vedere Gesù» possiamo indicarlo nel loro battito
cardiaco, nell’ombra che le protegge, nell’altitudine a cui è attratto il loro
spirito, nella vita morta che risorge, in ciò che di vero e bello già
conoscono.

Con l’augurio di sentire
fortemente il desiderio di «vedere Gesù»,

buon
cammino da amico.

Luca Lorusso

Luca lorusso




2. Massimiliano Kolbe

Massimiliano
Maria Kolbe nasce in Polonia a Zdunska-Wola, una cittadina nei pressi di Lodtz,
l’otto gennaio del 1894. Giovanissimo entra nell’Ordine dei Frati Minori
Conventuali e, pur ammalato di tubercolosi, svolge un intenso apostolato
missionario prima in Europa e successivamente in Asia. Durante
l’occupazione della sua patria da parte dei nazisti, nel 1941 è fatto
prigioniero e deportato ad Auschwitz. In questo campo di sterminio offre la sua
vita al posto di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Condannato a
morire di fame, è finito con un’iniezione letale il 14 agosto 1941.


Padre Kolbe, il tuo
conterraneo papa san Giovanni Paolo II ti ha chiamato: «Patrono del nostro
difficile secolo». Si riferiva ovviamente a tutto il Novecento, secolo di
progresso ma caratterizzato da tragedie immani come le due Guerre Mondiali.
Puoi parlarci un po’ di te e della tua infanzia?

Sono nato a Zdunska-Wola, nel cuore della Polonia, l’8
gennaio 1894, i miei genitori erano ferventi cristiani. Mio papà Giulio,
operaio tessile, era un patriota che non sopportava la divisione della Polonia
di allora in tre parti dominate rispettivamente da Russia, Germania e Austria.
La nostra era una famiglia che aveva scarse risorse finanziarie e, a causa di
questo, solo mio fratello maggiore poté frequentare la scuola.

In quanti fratelli
eravate?

Eravamo cinque fratelli, ma solo tre riuscirono ad
arrivare all’età dell’adolescenza. Non potendo frequentare regolarmente le
scuole, imparai a leggere e scrivere con l’aiuto di un sacerdote e del
farmacista del paese. I Frati Minori Conventuali che conoscevano la difficile
situazione della mia famiglia proposero ai miei genitori di accogliere me e i
miei fratelli nel loro collegio.

Si può dire allora
che fin da piccolo il rapporto con i Conventuali Francescani ebbe un’importanza
fondamentale per te e per la tua famiglia.

Proprio vero. Il destino volle che un po’ tutta la
famiglia si legasse sempre di più all’Ordine dei Conventuali Francescani, sia
il papà che la mamma divennero terziari francescani e noi tre fratelli passammo
direttamente dal collegio al loro noviziato.

Una famiglia
esemplarmente francescana dunque.

Sì, ma mio fratello Francesco dopo alcuni anni lasciò la
vita religiosa per dedicarsi alla carriera militare. Prese parte alla Prima
Guerra Mondiale e, dopo essere stato catturato, morì in un campo di prigionia.
L’altro, finiti gli studi, si inserì nel mondo lavorativo.

Tu invece?

Dopo il noviziato fui inviato a Roma, dove restai sei anni
laureandomi in filosofia all’Università Gregoriana e in Teologia al Collegio
Serafico. Nella «Città Etea» venni ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.

Che ricordi hai di quel
periodo della tua giovinezza vissuta a Roma?

Ricordo due fatti in particolare: un giorno, mentre
giocavo a pallone, cominciai a perdere sangue dalla bocca. Fu l’inizio di una
malattia, la tubercolosi, che tra alti e bassi mi accompagnò per tutta la vita.
In secondo luogo, prima di diventare sacerdote, fondai la «Milizia
dell’Immacolata», un’associazione religiosa avente per finalità la conversione
di tutti gli uomini per mezzo di Maria.

Dopo aver completato
gli studi hai fatto ritorno nella tua patria, che compiti ti furono affidati?

Pur essendomi laureato a pieni voti, a causa della mia
salute malferma che mi impediva di parlare a lungo, ero inadatto
all’insegnamento e alla predicazione. Così, una volta ritornato nella mia
Polonia, pensai di fondare un giornale di poche pagine, «Il cavaliere
dell’Immacolata», per alimentare lo spirito e la diffusione della «Milizia».

E le cose come
proseguirono?

A Grodno, una cittadina situata a 600 chilometri da
Cracovia, dove ero stato destinato dai miei Superiori, impiantai la tipografia
per la stampa del giornale con vecchi macchinari. Nel contempo con mio grande
stupore, molti giovani desiderosi di condividere una vita francescana e allo
stesso tempo di dedicarsi a una nuova forma di apostolato legata alla nascente
editoria cattolica, cominciarono a confluire nella mia comunità.

Pur nella limitatezza
dei mezzi a disposizione, la tua intraprendenza e il tuo ardore fecero il
miracolo di attirare sempre più gente accanto a te.

Effettivamente la Provvidenza ci venne in aiuto in maniera
formidabile: un conte ci donò un terreno vicino a Varsavia, e lì fondai «Niepokalanow»,
la «Città di Maria». Quello che avvenne negli anni successivi ebbe del
miracoloso. Dalle prime capanne si passò a edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice,
si passò alle modee tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai agli
oltre settecento religiosi di dieci anni dopo. Il «Cavaliere dell’Immacolata»,
inoltre, raggiunse la tiratura di milioni di copie. A esso si aggiunsero altri
sette periodici.


La tua terra però ti
stava «stretta» e tu volevi spaziare su orizzonti più vasti.

Sì, nel 1930 partii per il Giappone
dove, a Nagasaki, con l’aiuto della piccola ma tenace comunità cattolica
locale, impiantai una tipografia e feci sorgere una cittadella sul modello
della «Città di Maria» che avevo lasciato in patria.

E come reagì la
comunità cattolica nipponica?

Anche in Giappone la Provvidenza fece meraviglie: la
tiratura delle nostre riviste raggiunse ben presto 18.000 copie e, pur essendo
i cattolici una piccolissima minoranza, riuscimmo a produrre dei giornali che
attiravano l’interesse anche dei giapponesi che non professavano la nostra
stessa fede.

Ma anche l’Estremo
Oriente non ti fu sufficiente, volevi allargare sempre più il tuo campo d’azione.

È vero, per conoscere maggiormente la realtà asiatica feci
un viaggio con la Transiberiana e mi misi a studiare il russo. Tra i miei sogni
c’era anche il progetto di una missione in India. Inoltre, vista la buona
tiratura dei nostri giornali, pensavo con i miei collaboratori di stamparli in
diverse lingue e diffonderli in tutto il mondo.

Ma
un’attività così intensa certamente avrà prostrato il tuo fisico considerando
anche la tua malattia.

Il poco riguardo per la mia salute portò la mia
tubercolosi a un vistoso peggioramento, perdevo sangue in maniera più
consistente e più frequentemente. I miei superiori mi imposero perciò una
visita medica approfondita. Il responso fu abbastanza crudo: i medici dissero
che mi restavano pochi mesi di vita. Decisi allora di tornare in Polonia. In
patria ebbi modo di curarmi e la salute migliorò.

Alla fine degli anni
’30 la Polonia viveva tempi difficili…

Purtroppo, dopo che Hitler ebbe annesso alla Germania
l’Austria e la Cecoslovacchia, il primo settembre 1939 le truppe naziste al
comando del generale Guderian, invasero la mia terra. Duemila aerei della
Lutwaffe bombardarono Varsavia, dando così inizio alla Seconda Guerra mondiale.

L’occupazione nazista
fu particolarmente brutale nei vostri confronti.

Secondo la loro ideologia esisteva la
razza ariana superiore a tutte le altre, e noi popoli slavi eravamo visti come
mano d’opera che doveva servire i nuovi padroni. I nazisti arrivarono ai
cancelli della nostra comunità il 19 settembre del 1939 e ci arrestarono tutti
perché il nostro giornale non era gradito al governo di occupazione.

Dove vi portarono?

Ci divisero e ci sbatterono in diverse carceri dei paesi
occupati, a volte ci spostavano senza darci nessun preavviso. Questi viaggi
avvenivano in vagoni bestiame riempiti all’inverosimile, senza servizi, con le
porte sprangate dall’esterno. Regnava fra i prigionieri un clima di
rassegnazione: tutti temevano il peggio. Ebbene io mi feci forza e intonai un
canto religioso cui subito si unirono molti altri. Questo nostro modo di fare:
cantare su carri bestiame diretti ai campi di sterminio, la ritengo una delle
forme più alte di preghiera che in quel momento potevamo fare.

Quale fu la tua
destinazione finale?

Il 28 maggio del ’41 mi trasferirono ad Auschwitz insieme
ad altri 320 compagni di sventura. Una volta arrivati in quel tristemente
famoso campo di sterminio, fui messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e mi
diedero una casacca con il numero 16670.

Com’era la vita al
campo?

Ricordo con sofferenza gli appelli che le guardie si
divertivano a fare a tutte le ore, anche nel cuore della notte, per vedere se
qualche prigioniero era fuggito. Io venni inserito nella squadra adibita ai
lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri raccolti nelle camere a gas
e destinati al crematorio. La vita di ognuno non contava proprio nulla agli
occhi degli aguzzini di Auschwitz. Alla fine di luglio fui destinato alla
squadra addetta alla mietitura nei campi, un lavoro certamente più dignitoso di
quello che ero stato costretto a fare fino ad allora.

Quindi, pur nella
terribile condizione di prigioniero in un campo nazista, perlomeno potevi
uscire per mietere il grano.

Questo, che innegabilmente era, rispetto allo standard
della vita dei prigionieri, un vantaggio, si trasformò in un incubo quando uno
dei miei compagni riuscì a sottrarsi al controllo delle guardie e a fuggire.
Secondo l’inesorabile legge che vigeva ad Auschwitz, per ogni prigioniero che
fuggiva, altri dieci venivano destinati al bunker della morte. Ci radunarono
quindi nello spiazzo centrale e a caso i nazisti prelevarono dieci disgraziati
da sopprimere.

Chissà che tortura anche per chi non era
punito, assistere a quelle scene.

Effettivamente… una volta scelti i dieci disgraziati, vidi
uno di loro disperarsi lanciando alte grida al cielo, urlando che lui era un
papà di famiglia e che i suoi figli aspettavano la fine della guerra per
rivederlo. Presi allora la decisione di offrirmi al suo posto.

Un uomo con una forte
personalità come la tua, che aveva ottenuto risultati brillanti in ogni parte
del mondo, si ritrovava così nella condizione terribile e sublime allo stesso
tempo di offrire la propria vita per salvae un’altra.

In quel preciso istante mi sentii per un attimo un «perdente»
sotto ogni aspetto, ma subito risuonò in me la parola del Signore che diceva: «Non
c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Capii
allora che se volevo contribuire a vincere l’iniquità del peccato calato su
tutta l’Europa, era necessario donare tutto me stesso, perdermi totalmente nei
gorghi del male per ritrovare nuovamente la mia vita trasformata in Cristo.

Questo
per i nazisti non comportò nessun problema?

No, per loro dovevano essere giustiziati dieci
prigionieri, non importava chi fossero. Ci rinchiusero pertanto in minuscole
celle dove potevamo a malapena sederci. Le celle vennero poi murate. La
condanna prevedeva la morte per mancanza di cibo e acqua. Un’agonia lunghissima
che si consumava tra disperazione e atroci sofferenze. Decisi allora di
alleviare la disperazione dei miei compagni pregando ad alta voce e innalzando
canti religiosi al Signore.

E i tuoi compagni di
sventura come reagirono a questa tua iniziativa?

Alcuni unirono le loro voci alle mie preghiere e ai miei
canti, dopo alcuni giorni però i più deboli cominciarono a spegnersi. Dopo ben
quattordici giorni in quattro eravamo ancora in vita. I nazisti decisero allora
di sopprimerci con una iniezione di acido fenico. Così ebbero termine le nostre
sofferenze.

Padre Massimiliano Kolbe si spense il 14 agosto
1941, le sue ultime parole, mentre gli facevano la letale iniezione nel braccio,
furono: «Ave Maria». Insieme ai suoi compagni venne quindi gettato nel foo
crematorio e le sue ceneri si mescolarono a quelle di tanti altri sventurati.
Così finì la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo
della Chiesa polacca e universale. Papa Paolo VI lo beatificò il 17 ottobre
1971, mentre papa Giovanni Paolo II lo proclamò Santo il 10 ottobre 1982. Il
suo fulgido martirio resta una testimonianza esemplare della coerenza cristiana
vissuta in tempi e ambienti terribili.

Don Mario Bandera,
Missio Novara


Mario Bandera




La paralisi agitante

La condizione
dell’anziano (seconda parte) / il Parkinson
Tremore, rigidità,
disturbi dell’equilibrio, postura curva, disfunzioni sessuali, disturbi della
pressione arteriosa, dell’olfatto, del sonno, depressione, ansia, apatia,
disturbi cognitivi e talvolta psicotici. La «paralisi agitante» colpisce il 2%
della popolazione sopra i 65 anni, e per i prossimi 15 anni è previsto un
raddoppio del numero di malati. Ricerca scientifica e assistenza ai malati e
alle loro famiglie sono le priorità.

La malattia di Parkinson è senz’altro
la patologia neurodegenerativa più diffusa al mondo dopo l’Alzheimer (crf.
Mc dicembre 2014). Nei paesi industrializzati, la prevalenza di questa malattia
è di circa lo 0,3%. Secondo uno studio di R. Dorsey, neurologo dell’Università
di Rochester (Usa), apparso su «Neurology», il numero dei malati di Parkinson
raddoppierà con la prossima generazione nei 15 paesi oggetto della ricerca
(Francia, Germania, Spagna, Italia, Regno unito, Cina, India, Indonesia, Usa,
Brasile, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Giappone, Russia), passando dai 4,1
milioni attuali a 8,7 milioni nel 2030, di cui 5 nella sola Cina. Secondo lo
studio di «Neurology», la patologia aumenterà, più che negli Usa e in Europa,
negli altri paesi, soprattutto in quelli in via di sviluppo, dove il Parkinson
non è ancora considerato un problema rilevante e le infrastrutture per la
diagnosi e la cura sono spesso molto limitate. Questi paesi focalizzano le proprie
risorse maggiormente sulle malattie infettive, ma in un futuro non troppo
lontano dovranno fare fronte a quelle croniche non infettive, come il
Parkinson, che rappresentano un peso maggiore in termini di costi economici e
sociali.

In Italia

In Italia attualmente i pazienti in cura
sono circa 230.000. Si stima che la spesa annuale italiana per questa patologia
sia di circa 2,4 miliardi di Euro. Buona parte di questa cifra viene spesa in
ricoveri ospedalieri e case di cura, mentre la spesa relativa ai farmaci è
decisamente inferiore. A queste voci vanno poi aggiunti i costi indiretti della
malattia, come la riduzione della produttività dei pazienti e, spesso, dei
familiari che li assistono, e i costi dei vari ausili e della riabilitazione
per superare le difficoltà motorie e di linguaggio, che la malattia comporta.

Malati illustri

Nell’immaginario collettivo, la malattia di
Parkinson è legata soprattutto a due personaggi pubblici come papa Giovanni
Paolo II e Muhammad Ali, alias Cassius Clay. Per il pugile si è ipotizzato un
parkinsonismo secondario, dovuto cioè ai colpi ricevuti nell’attività sportiva.
Un altro malato illustre fu il cardinale Carlo Maria Martini, scomparso nel
2012. Anche nel mondo dello spettacolo si contano malati di Parkinson come
l’attore canadese Michael J. Fox, che ha aperto una fondazione negli Usa con lo
scopo di sviluppare una cura. Negli ultimi anni della sua vita, fu malato di
Parkinson anche Adolf Hitler.

Chi colpisce

La malattia di Parkinson prende il nome da
James Parkinson, il chirurgo londinese che ne descrisse i sintomi nel Trattato
sulla paralisi agitante
del 1817. Sono state trovate descrizioni di sintomi
simili già in antichi scritti di medicina indiana e cinese, in un papiro
egizio, nella Bibbia (si veda ad esempio Qoelet 12,3-7 e Lc 5,17-26) e negli
scritti di Galeno (medico greco del II secolo d.C.).

Questa malattia è tipica dell’età anziana,
poiché esordisce mediamente intorno ai 60 anni. Tuttavia nel 5-10% dei casi,
definiti a esordio giovanile, i sintomi compaiono già tra i 20 e i 50 anni. La
sua incidenza è di 8-18 nuovi casi all’anno su 100.000 persone, e colpisce
circa il 2% della popolazione sopra i 60 anni. La percentuale sale al 3-5%
oltre gli 85 anni. Un malato di Parkinson rischia di soffrire di demenza da 2 a
6 volte in più della popolazione generale, e la prevalenza della demenza
aumenta con il decorso della malattia. Ciò riduce notevolmente la qualità e
l’aspettativa di vita. Il tasso di mortalità dei parkinsoniani è circa il
doppio di quello delle persone non affette. Inoltre, se la cura non viene
intrapresa ai primi sintomi, il paziente rischia di venire immobilizzato dal
morbo nell’arco di una decina di anni.

I sintomi motori

I sintomi della malattia di Parkinson
possono essere distinti tra motori e non motori. Non sono presenti in tutti i
pazienti allo stesso modo, e nel singolo paziente possono presentarsi
progressivamente nel corso degli anni, ma in modo molto diverso a seconda che
la cura sia iniziata più o meno precocemente, per cui è importante cogliere i
primi segnali della malattia per effettuare quanto prima una corretta diagnosi.
Talvolta purtroppo i sintomi del Parkinson non vengono immediatamente
riconosciuti, perché si manifestano in maniera incostante, e la progressione
della malattia è tipicamente lenta. Spesso sono i familiari del malato ad
accorgersi per primi dei cambiamenti.

Tra i principali sintomi motori del
Parkinson ci sono il tremore a riposo, la rigidità, la bradicinesia
(lentezza dei movimenti), i disturbi dell’equilibrio e del cammino, la postura
curva
, l’alterazione della voce, le difficoltà di deglutizione
con conseguente scialorrea (eccessiva presenza di saliva in bocca).
Generalmente il tremore a riposo, che peraltro non è comune a tutti i pazienti,
interessa unilateralmente una mano o un piede, oppure la mandibola. Qualche
paziente talvolta riferisce di percepire un «tremore interno» non
visibile esteamente.

La rigidità è la conseguenza di un aumento
involontario del tono muscolare, che può essere un sintomo di esordio della
malattia. Colpisce inizialmente un lato del corpo e può interessare gli arti,
il collo e il tronco. È tipica la riduzione dell’oscillazione pendolare delle
braccia durante il cammino. Può essere presente anche acinesia
(difficoltà a iniziare movimenti spontanei). Acinesia e bradicinesia
interferiscono pesantemente con la vita quotidiana, rendendo difficili (se non
impossibili) attività come lavarsi, vestirsi, camminare, spostarsi, girarsi nel
letto. I movimenti fini diventano sempre più difficili, per cui ne risultano
alterate la grafia, che diventa più piccola, e l’espressione del volto
(ipomimia).

I disturbi dell’equilibrio compaiono più
tardivamente: per una riduzione dei riflessi di raddrizzamento, il paziente non
è capace di correggere eventuali squilibri, ad esempio mentre cammina o cerca
di cambiare direzione, rischiando cadute e fratture. Si stima che il 40% dei
ricoveri di pazienti con Parkinson sia conseguente alle cadute. Poiché questo
sintomo non risponde alla terapia dopaminergica, può essere di grande aiuto la
fisiochinesiterapia.

I disturbi del cammino si manifestano con un
ridotto movimento pendolare delle braccia, con un tronco flesso in avanti e con
un passo più breve. Talvolta è presente la «festinazione», cioè la tendenza a
trascinare i piedi a terra e ad accelerare il passo, con difficoltà ad
arrestarsi. Inoltre, durante il cammino, possono verificarsi episodi di blocco
motorio, anch’esso possibile causa di cadute. Oltre alla postura flessa del
tronco, talvolta sono flesse anche le ginocchia.

Le difficoltà di movimento che interessano i
muscoli della gola causano problemi di deglutizione (disfagia) e di fonazione,
rendendo la voce via via più flebile o mancante di tonalità e di modulazione.
Talvolta il paziente tende a ripetere le sillabe, ad accelerare l’emissione dei
suoni e a «mangiarsi» le parole.

I sintomi non motori

Oltre ai sintomi motori, nella malattia di
Parkinson, a causa di alterazioni del sistema nervoso autonomo, insorgono anche
sintomi non motori che possono esordire anni prima rispetto a quelli motori e
peggiorare nella fase avanzata. Tra essi ci sono la stipsi
(stitichezza), i disturbi urinari, le disfunzioni sessuali, i disturbi
della pressione arteriosa
, alcuni problemi cutanei, i disturbi
dell’olfatto
, quelli del sonno, quelli dell’umore, tra cui depressione,
ansia, apatia
, i disturbi comportamentali ossessivi-compulsivi, i disturbi
cognitivi
e talvolta i sintomi psicotici.

La stipsi è dovuta a un rallentamento della
funzionalità gastro-intestinale.

I disturbi urinari generalmente comportano
un aumento della frequenza minzionale, cioè la necessità di urinare spesso.
Possono esserci anche ritardo nella minzione o lentezza nello svuotamento della
vescica.

Il desiderio sessuale può essere ridotto o
aumentato sia per motivi psicologici, che per effetti farmacologici.

Possono esserci alterazioni della pressione
arteriosa con episodi di ipotensione durante la stazione eretta e di
ipertensione durante la posizione sdraiata. Il cambio di posizione
sdraiato/seduto può causare caduta pressoria.

Possono esserci molteplici problemi cutanei
come cute secca o seborroica (grassa), ridotta sudorazione o iperidrosi
(sudorazione profusa).

Tra i primi sintomi del Parkinson possono
esserci riduzione del senso dell’olfatto e del gusto, per cui improvvisamente
viene meno il piacere di mangiare determinati cibi o di sentire gli odori.

I disturbi del sonno possono interessare
fino al 70% dei pazienti, si manifestano sia all’inizio della malattia, che più
avanti nel tempo, e possono essere determinati tanto dalla patologia, che dai
farmaci utilizzati. Tra questi disturbi vi sono l’insonnia, l’eccessiva
sonnolenza diua indipendente dall’insonnia nottua, il disturbo
comportamentale nella fase Rem del sonno (mentre in essa normalmente si è
rilassati, i malati di Parkinson si muovono e sembrano interagire con i sogni),
la sindrome delle gambe senza riposo (che compare e s’intensifica nelle ore
serali e nottue con una continua necessità di muovere le gambe).

La depressione è molto frequente nei malati
di Parkinson, sia in fase iniziale, che avanzata, e può manifestarsi con
alterazioni dell’umore, affaticamento, disturbi del sonno, modificazioni
dell’appetito e disturbi della memoria. Altrettanto frequente è la presenza di
ansia, paura o preoccupazione. Spesso l’ansia è associata a sintomi vegetativi,
somatici e cognitivi, e in particolare alle fasi di blocco motorio.

Spesso il paziente si presenta apatico, cioè
presenta indifferenza emotiva e mancanza di volontà a intraprendere qualsiasi
attività.

Sotto l’effetto dei farmaci dopaminergici,
in alcuni pazienti possono essere presenti alterazioni comportamentali come la
ricerca ossessiva di piacere e gratificazione personale, l’assunzione smodata
di cibo, il gioco d’azzardo, l’ipersessualità, lo shopping compulsivo o la
dipendenza da internet.

In tutte le fasi della malattia, ma
soprattutto nello stadio avanzato e negli anziani, possono manifestarsi
disturbi cognitivi che coinvolgono l’attenzione, le capacità di visualizzazione
spaziale e le funzioni esecutive, cioè la capacità di pianificare e cambiare
strategia.

In rari casi possono essere presenti sintomi
psicotici come deliri, allucinazioni e affaticamento, riferito come mancanza di
forza e senso di stanchezza, anche nel caso in cui il paziente in cura non
abbia problemi dal punto di vista motorio.

Cause

I sintomi del Parkinson sono la conseguenza
del danneggiamento di aree profonde del cervello – i gangli della base (nuclei
caudato, putamen e pallido) – che partecipano alla corretta esecuzione dei
movimenti. In particolare si verifica la morte di una consistente quota (fino
al 70%) di neuroni dopaminergici, i quali producono dopamina, un
neurotrasmettitore che favorisce l’attività motoria. Caratteristica della
malattia di Parkinson è la presenza, nei neuroni rimanenti, di formazioni,
dette corpi di Levy, costituite dalla proteina alfa-sinucleina. Per molti
malati di Parkinson la causa della malattia non è nota, ma in una piccola
percentuale di casi, circa il 5%, la malattia si verifica a seguito di una
mutazione genetica: di uno tra i geni specifici che, ad esempio, codificano per
l’alfa-sinucleina (Snca), per la parkina (Prkn) e per la dardarina (Lrrk2).
Tali mutazioni sono la causa di circa il 5% dei casi di familiarità del
Parkinson, i quali sono a loro volta il 15% del totale.

Fattori di rischio

Tra i fattori di rischio della malattia pare
esserci l’esposizione a inquinanti ambientali come i fitofarmaci, gli
insetticidi come il rotenone, gli erbicidi come il disseccante paraquat e il
defoliante Agente Orange (usato durante la guerra del Vietnam per stanare i
vietcong nascosti nella foresta), i metalli pesanti (a cui sono esposti alcuni
lavoratori come, ad esempio, i saldatori) e gli idrocarburi solventi
(trielina). Altro fattore di rischio importante sono i traumi cranici ripetuti.

Fattori protettivi dalla malattia sembrano
essere il consumo di caffeina, gli estrogeni, i farmaci anti-infiammatori non
steroidei e il fumo di tabacco. Quest’ultimo però è da evitare, visto il suo
ruolo nel cancro del polmone e nell’insorgenza dell’aterosclerosi.

Le cure


Attualmente non esiste una cura per la
malattia di Parkinson, ma il trattamento farmacologico, la chirurgia e la
gestione multidisciplinare del malato possono contribuire ad alleviare i
sintomi. Poiché la malattia è scatenata dalla riduzione della dopamina in
circolo, la terapia farmacologica mira a ripristinae il livello. Il farmaco
più usato, la levodopa, viene convertito in dopamina nei neuroni dopaminergici,
tuttavia solo il 5-10% raggiunge il cervello. Il resto viene trasformato
altrove, causando una serie di effetti collaterali, come nausea, discinesia
(movimenti involontari) e rigidità articolare. Dopo circa 10 anni di terapia
con levodopa, i pazienti sono in gran parte affetti da queste complicanze da
farmaco. Inoltre dopo un numero di anni variabile, il trattamento non è più in
grado di fornire un controllo motorio stabile. In questi casi è possibile
ottenere un miglioramento ricorrendo alla chirurgia stereotassica che consente
di raggiungere formazioni situate nella profondità del cervello, grazie
all’ausilio di dispositivi radiologici. Attualmente sono in corso ricerche per
mettere a punto una terapia genica, che prevede l’uso di virus non infettivi
per portare nel nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio, un gene
utile alla produzione del neurotrasmettitore Gaba, anch’esso deficitario nel
Parkinson.

Un altro fronte di ricerca è quello che
prevede la sostituzione dei neuroni dopaminergici andati perduti con cellule
staminali. Le cellule staminali possono essere embrionali, neurali adulte o
fetali, autologhe (derivanti dal midollo osseo o da altri tessuti dei pazienti
stessi), e derivanti dal cordone ombelicale. Le staminali embrionali sono
cellule capaci di differenziarsi in qualsiasi tessuto, tuttavia il loro uso
rappresenta un problema etico. Inoltre esse possono causare la formazione e lo
sviluppo di tumori, e rigetto. Solo proseguendo con la ricerca sarà possibile
risolvere questi problemi. È indispensabile, quindi, che vi sia una maggiore
sensibilità su questi temi, soprattutto a livello parlamentare, affinché siano
recepite tanto l’importanza della ricerca, quanto la necessità di supportare la
gestione dei malati.

Rosanna Topino
Novara

 

La prima puntata, dedicata all’Alzheimer, è
apparsa su MC 12/2014, pp. 66-69.

Tags: malattie, salute, anziani, malattia di Parkinson

Rosanna Topino Novara




Non siamo fermi al ’29

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 26

Si può scrivere in
una legge che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della
propria confessione? Oppure vietare l’uso di una lingua diversa dall’italiano
nei luoghi di culto? Una nuova legge generale sulla libertà religiosa non è,
per la politica odiea, una priorità, anche per l’oggettiva difficoltà di
sciogliere molti nodi che paiono irrisolvibili. Ne parliamo col senatore di
Forza Italia Lucio Malan.

Deputato nella XII legislatura
(1994-1996), eletto nelle liste della Lega Nord, è senatore dal 2001, prima del
Pdl e ora di Forza Italia. È stato membro della commissione affari
costituzionali fino al 2013. Nell’attuale legislatura è questore del Senato e
fa parte della commissione giustizia. È membro della giunta delle elezioni e
delle immunità parlamentari e del comitato parlamentare per i procedimenti
d’accusa. Per conto del parlamento ha svolto numerosi incarichi a livello
internazionale. È attivo anche nella Chiesa Valdese, cui appartiene.

Intervistiamo Lucio Malan, da anni
impegnato sul tema della libertà religiosa.

L’Italia oggi è una
società multiculturale e multireligiosa, molto diversa da quella del ’29 quando,
durante il regime fascista, era stata approvata la «Legge Rocco» sui «culti
ammessi» per «consentire» il libero esercizio dei culti non cattolici, dopo
aver riservato con i Patti Lateranensi una «particolare condizione giuridica»
alla religione dello stato. Nonostante sia stata modificata dalla Corte
costituzionale, per togliere le parti incompatibili con la Costituzione
repubblicana, quella legge è tuttora in vigore. Un’altra, dunque, si impone.
Lei si è molto impegnato in questa direzione. Cosa ha fatto fino a oggi il
Parlamento per rispondere a questa necessità?

«Ci sono stati diversi tentativi di arrivare all’approvazione di una
legge sulla libertà religiosa, in particolare nelle legislature 1996-2001 e
2001-2006. I governi Prodi I e Berlusconi II presentarono disegni di legge
sostanzialmente uguali fra di loro. Nel 2003 la proposta fu approvata in
commissione e approdò nell’aula della Camera, ma non andò oltre la relazione.
Nel frattempo, però, Camera e Senato dal 1984 hanno approvato undici intese1 oltre a cinque modifiche di esse. Il record è
stato nella legislatura 2008-2013, con cinque nuove intese e tre modifiche,
andando oltre l’ambito giudaico-cristiano grazie agli accordi con buddisti e
induisti».

Perché,
nonostante questo notevole lavoro, non è stata ancora approvata la nuova legge
sulla libertà religiosa?

«Perché non è sentita come una priorità e perché si tratta di cosa
molto complicata. Nella legislatura 2001-2006 il testo approvato conteneva
alcune limitazioni ispirate a questioni di sicurezza, che furono ritenute
inaccettabili da molta parte del centro sinistra. Senza quelle limitazioni
sarebbe stato il centro destra a opporsi. Inoltre la legge dell’epoca fascista,
odiosa nel titolo (“culti ammessi”), in realtà concede molto più di quanto si
crede e molti oggi avrebbero difficoltà a riapprovare le stesse norme. Ad
esempio, include la possibilità dell’ora di religione in contemporanea
all’insegnamento della religione cattolica».

Le
intese tra lo stato e le varie confessioni religiose, nonché la futura nuova
legge sulla libertà religiosa, costituiscono una crescita dei diritti e delle
libertà, nel quadro dell’attuazione piena della società democratica definita
nella Costituzione repubblicana. Alla sua base sta il principio di laicità, in
cui tutti si riconoscono. Perché allora tale principio è diventato uno dei
motivi per cui non si è riusciti ad approvare la nuova legge sulla libertà
religiosa?

«Non so se la laicità finisce per essere un ostacolo. Di certo, molti
temono una legge che includa anche gli islamici, perché nelle loro varie realtà,
potrebbe dare l’opportunità agli estremisti di usare le prerogative di
confessione religiosa per fare altro, e si sa che in gran parte dei paesi
islamici, il concetto di laicità dello stato è del tutto sconosciuto. Inoltre,
come ho detto, nessuno vuole concedere spazi e si dice: piuttosto di una
cattiva legge, meglio andare avanti così, visto che comunque la libertà
religiosa c’è e le intese funzionano».

Quali
sono le questioni principali, in ordine alla libertà religiosa, che la nuova
legge deve regolamentare?

«Si tratterebbe di attribuire a tutte le confessioni alcune
prerogative attualmente riservate a quelle che hanno stipulato l’intesa. In
realtà, molte prerogative sono già oggi garantite, come la possibilità, per i
ministri di culto, di visitare i detenuti, entrare negli ospedali non solo per
uno specifico paziente, come ad esempio un parente, e altre questioni. Già oggi
tutte le confessioni possono farlo, purché abbiano il riconoscimento della
personalità giuridica e la nomina dei ministri di culto sia approvata dal
ministero dell’interno, cosa che ultimamente è diventata problematica. C’è poi
la questione della partecipazione all’8 per mille, oggi riservata ai titolari
di intese, che sembra improbabile poter allargare a tutti. Ci sarebbe anche la
questione delle festività religiose, del riconoscimento degli istituti di
formazione dei ministri di culto, e altro ancora. In realtà, non è facile
scrivere una normativa che preveda le esigenze delle varie confessioni e tenga
conto dei problemi che ciascuna può porre alla collettività. In questo le
intese sono molto efficaci perché partono dai casi concreti e li affrontano in
termini di norma. Per fare un esempio banale: non si può scrivere astrattamente
che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della propria
confessione: teoricamente ogni giorno la Chiesa Cattolica festeggia una
ricorrenza, o uno o più santi. Parlando di prevenzione dei problemi che si
possono creare con talune confessioni, c’è chi propone di imporre nelle moschee
l’uso del solo italiano, perché l’eventuale incitamento all’odio possa essere
riscontrato più facilmente, e conosco dei musulmani che non sarebbero contrari.
Resta il problema che il Corano deve poter essere letto in arabo, che per loro è
lingua sacra. In ogni caso, non si può fae una norma generale: vuoi vietare
la messa in latino, che fino a 50 anni fa era l’esperienza comune di tutti i
cattolici, schiacciante maggioranza nel paese? Vuoi vietare agli ebrei di
leggere la Torah in ebraico, la lingua in cui per loro, e anche per noi
cristiani, è stata scritta da Mosè sotto la dettatura di Dio? Ci vuole molto
pragmatismo. Prendiamo l’aspetto delicato della circoncisione: è vero che è un
atto irreversibile praticato su bambini di otto giorni, dunque senza alcun
assenso, ma è anche vero che è tradizione antichissima, che non ha alcun
effetto negativo. Ben altra cosa sono le mutilazioni femminili, anche esse
tradizionali in certe etnie, ma del tutto inaccettabili nella nostra civiltà».

Si
può realisticamente pensare che essa sia approvata nel corso della presente
legislatura?

«No. Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza».

C’è
chi sostiene che, a seguito della stipula delle intese con diversi culti
religiosi, sia aumentato il divario tra i diritti di questi e i diritti di
quelli che le intese non le hanno stipulate. In altri termini, mentre si opera
per realizzare una piena eguaglianza tra tutti i culti religiosi,
paradossalmente si fa crescere la disuguaglianza tra di loro. La «strada delle
intese» è davvero quella migliore da seguire? Tra l’altro, procedendo per
questa via, oggi si è finito col ritrovarci in una condizione piuttosto
complessa, tra le intese – che nascono da accordi bilaterali tra una
confessione religiosa e lo stato -, la legge del ’29 ancora in vigore e la
nuova legge che non viene avanti.

«Indubbiamente il problema c’è. Ma non dimentichiamo che la Repubblica
Italiana nasce con una diseguaglianza pregressa costituita dal Concordato, che
neppure il Partito Comunista, teoricamente ateo, tentò seriamente di abrogare.
Purtroppo c’è stato di recente un vero e proprio passo indietro con l’assurda e
incostituzionale decisione del ministero dell’Inteo di applicare un
inopportuno parere del Consiglio di Stato, il quale – per la prima volta dalla
legge del 1929 – ha indicato un limite numerico minimo di fedeli per il
riconoscimento dei ministri di culto, per di più nell’esorbitante cifra di 500,
nel presupposto, peraltro falso, che tale sarebbe il numero minimo dei fedeli
nelle parrocchie cattoliche con sacerdote residente. Orbene, in primo luogo ci
sono, proprio nella mia valle (la Val Pellice in Piemonte, ndr), comuni
sotto i 500 abitanti, la maggioranza dei quali è valdese, con tanto di
sacerdote cattolico residente. In secondo luogo, non si può imporre alle altre
le logiche della confessione maggioritaria, anche perché, per forza di cose,
mentre è facile in un territorio molto piccolo trovare 500 cattolici, non lo è
altrettanto trovare, ad esempio, 500 luterani. I luterani, che pure hanno
l’intesa, sono circa seimila volte meno numerosi dei cattolici, e dunque,
mediamente, 500 luterani saranno sparsi per un territorio seimila volte più
vasto: cosa che rende loro impossibile avere un unico ministro di culto. In
terzo luogo, spesso le confessioni minoritarie hanno dei ministri di culto che,
per mantenersi, hanno un altro lavoro, come del resto la maggioranza dei
rabbini: non si può pensare siano in grado di svolgere lo stesso lavoro di un
sacerdote cattolico a tempo pieno. In quarto luogo, la percentuale di
praticanti è spesso più alta nelle minoranze più recenti di quanto lo sia tra i
cattolici o altre confessioni storiche, nelle quali la secolarizzazione ha
prodotto effetti tra i fedeli. Ecco, eliminando questo obbrobrio, si
rimedierebbe a gran parte del problema. Basterebbe un’indicazione del ministro
dell’Inteo, o del dirigente preposto, visto che la decisione è stata di un
dirigente, e non certo una legge. Il parere del Consiglio di Stato non può
valere più della Costituzione o di una legge. Né è accettabile che una cosa
applicata senza significative limitazioni dal regime fascista (salvo il baratro
delle leggi razziste, naturalmente), venga ristretta oggi, dopo settant’anni di
democrazia».

Nella
società multiculturale italiana, di cui si parlava all’inizio, appare urgente
affrontare anche altri problemi, in particolare quello dell’immigrazione e
quello della «cittadinanza». È possibile arrivare a una piena attuazione della
libertà religiosa senza che la nuova legge venga accompagnata da altre leggi
che riguardino quelle due questioni? Libertà religiosa, immigrazione e
cittadinanza non costituiscono una trilogia che deve andare insieme?

«A mio parere le cose sono ben distinte. Le leggi sull’immigrazione si
applicano indifferentemente a cattolici, musulmani, atei e chiunque altro, com’è
giusto. E la libertà religiosa riguarda italiani, immigrati regolari e
irregolari, turisti e passanti, com’è giusto. Tutte questioni delicate, ma
distinte. Solo un paese, oltre alla Città del Vaticano, ch’io sappia, regola
l’immigrazione sulla base della religione: Israele, che definisce se stesso
come stato ebraico, ma è più facile diventare cittadino italiano per un extra
comunitario che diventare ebreo per un gentile».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- L’articolo 8 della Costituzione stabilisce che
i rapporti delle confessioni religiose con lo stato «sono regolati per legge
sulla base di intese [accordi] stipulate con le relative rappresentanze».

Tag: libertà religiosa, Costituzione, Laicità dello stato, Intese

Paolo Bertezzolo




Cooperazione: coi soldi di chi?

Chi finanzia lo
sviluppo? E chi la cooperazione allo sviluppo? Un’istantanea sul flusso dei
finanziamenti ai paesi del Sud del mondo e una panoramica sull’Italia. Con uno
zoom sul ruolo – in crescita – dei fondi privati e un cameo sulle Ong italiane
e l’otto per mille.

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Aiuto pubblico allo sviluppo: quanto aiuta?

Centotrentaquattro miliardi di dollari, ecco la cifra che i paesi donatori hanno speso nel 2013 - ultimo dato disponibile - per aiuto pubblico allo sviluppo (Aps): la più alta mai raggiunta. L’incremento, precisa l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), è stato di sei punti percentuali rispetto all’anno precedente e la tendenza all’aumento potrebbe essere confermata anche dai dati 2014.

Ma quanto sono 134 miliardi di dollari? Non poco, constata l’Ocse, se si considera che la maggior parte delle economie dei paesi è alle prese con sempre più severi tagli alla spesa imposti dalla difficile congiuntura economica internazionale. Pochino, invece, se li si confronta con i 1.700 miliardi che il mondo destina annualmente alle spese di difesa, o con le altre voci che compongono i flussi di risorse economiche verso i paesi in via di sviluppo. Bisogna moltiplicare per almeno quattro i 134 miliardi di aiuto, ad esempio, per ottenere il totale degli investimenti stranieri diretti nei paesi del Sud del mondo, quelli cioè che sono puri investimenti senza agevolazioni e che vanno rimborsati fino in fondo con gli interessi. Quanto alle rimesse dei migranti, cioè il denaro che i lavoratori immigrati inviano nei loro paesi d’origine, ammontano a più di tre volte l’aiuto pubblico: nel 2014 hanno raggiunto i 435 miliardi di dollari.

Questi paesi, insomma, crescono più grazie ai soldi dei loro migranti e degli investitori stranieri che alla cooperazione bi/multilaterale. Ma è anche vero, notano vari osservatori, che i flussi in sé non inducono automaticamente miglioramenti a infrastrutture, sanità, sistema educativo. Sempre l’Ocse, nel rapporto 2014 sulla cooperazione allo sviluppo, sottolinea ad esempio come le rimesse siano «tradizionalmente percepite come risorse da utilizzare per i consumi diretti (medicine, cibo, automobili, ecc.) più che per investimenti produttivi, e questo può generare dipendenza da ulteriori rimesse». Accanto a casi positivi in cui una correlazione fra rimesse e salute o rimesse e investimenti si è effettivamente registrata, ce ne sono altri nei quali questi flussi di denaro hanno anche creato sperequazioni nella distribuzione del reddito. Evidentemente molto dipende dalle decisioni politiche locali nei paesi beneficiari e dal grado di consapevolezza e responsabilità con cui questa fonte di ricchezza viene gestita. L’aiuto pubblico allo sviluppo ha invece in questi miglioramenti sistemici il proprio principale obiettivo; il dibattito semmai è su quanto efficacemente lo raggiunga.

I primi dieci paesi beneficiari dell’aiuto pubblico allo sviluppo sono l’Afghanistan, con cinque miliardi di dollari, seguito da Myanmar, Viet Nam, India, Indonesia, Kenya, Tanzania, Costa d’Avorio, Etiopia e Pakistan. I dieci principali donatori sono gli Stati Uniti, con 31 miliardi di dollari, seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi, Canada e Australia; ma a superare la soglia dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo destinato all’aiuto (fissata dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione del millennio come impegno da realizzare entro il 2015) sono solo Norvegia, Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Regno Unito.

Un discorso a parte meritano poi i paesi cosiddetti non Dac, cioè non membri del comitato per l’assistenza allo sviluppo dell’Ocse (il cui acronimo in inglese è, appunto, Dac) a cui invece si riferiscono i dati sin qui riportati. Si tratta dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e di una ventina di altri stati fra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Israele, Kuwait. La loro quota d’interventi assimilabili all’aiuto pubblico allo sviluppo perché i criteri per definirlo in questi paesi sono diversi da quelli dell’Ocse - ammonterebbe a quasi 17 miliardi di dollari. L’aiuto fornito da questi stati sembra essere in aumento e il principale donatore è la Cina, con cinque miliardi e mezzo di dollari.

Aiuto privato: a quanto ammonta?

Una fonte di finanziamento per lo sviluppo in forte crescita è data dai fondi privati: organizzazioni non governative, fondazioni, aziende, associazioni non profit. Secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 questi fondi erano pari a 45 miliardi di dollari, due terzi dei quali provenienti dagli Stati Uniti, il cui aiuto privato allo sviluppo eguaglia quello pubblico. Oltre la metà dei fondi provengono dalle organizzazioni non governative, mentre il resto è diviso abbastanza equamente fra fondazioni e donazioni da parte di aziende. Questo tipo di finanziamento sta ricevendo crescente attenzione da parte dell’Ocse e degli altri enti che si occupano di misurare il polso della cooperazione allo sviluppo. Questo perché, se è vero che la quantità di fondi è relativamente limitata a confronto con i flussi di cui abbiamo parlato prima, è anche vero che - come l’aiuto pubblico e a differenza di rimesse e investimenti - ha come scopo dichiarato proprio lo sviluppo e ha quindi un potenziale molto più elevato di incidere su quello rispetto ad altri tipi di risorse in entrata nei paesi beneficiari.

Si tratta però di una categoria della quale è difficile tracciare contorni chiari sia per quanto riguarda i soggetti, che vanno da colossi come la Bill & Melinda Gates Foundation alle piccole realtà associative, sia relativamente all’impatto e alla tracciabilità dei fondi erogati, cioè a quanto e come questi fondi arrivano ai beneficiari finali. In mancanza di dati certi, è molto difficile inserire questa risorsa nella programmazione degli interventi di cooperazione: se si tratta di un ente come la Gates Foundation, infatti, il suo contributo ai programmi di cooperazione è noto e spesso cornordinato con quello dei partner pubblici. Ma nel caso del volontariato, delle piccole associazioni, delle realtà meno strutturate, la presenza di forme di cornordinamento è molto più episodica. Anche per questo tipo di fondi occorre tener conto dei flussi privati dai paesi non Dac, che ammonterebbero a trentacinque miliardi di dollari.

Il caso dell’Italia

L’Italia ha destinato in aiuto pubblico allo sviluppo 3,4 miliardi di dollari nel 2013, pari allo 0,17 per cento del proprio Pil e al 2,5 per cento del totale dei paesi donatori. Al contrario della media degli altri paesi donatori, la maggior parte dell’aiuto italiano raggiunge i paesi beneficiari tramite il canale multilaterale: oltre il settanta per cento, infatti, consiste in fondi girati dal governo italiano alle istituzioni inteazionali, specialmente all’Unione europea. L’Italia è il quarto maggior contribuente al budget della cooperazione allo sviluppo comunitaria dopo Germania, Francia e Regno Unito.

Per la parte bilaterale, cioè di rapporti diretti fra il governo italiano e i paesi riceventi, una parte consistente degli 850 milioni di dollari totali è data dall’assistenza ai rifugiati in Italia, pari a 403 milioni. La cancellazione del debito ai paesi beneficiari, anche questa considerata parte dell’aiuto pubblico allo sviluppo, si è ridotta a poco più di tre milioni di dollari ma nel 2011 era un’altra delle voci più «pesanti»: 648 milioni, il 37% del totale. Tentiamo un’analisi di questo quadro. L’Italia ha certamente fatto passi avanti nel dare credibilità al proprio impegno per lo sviluppo. Come conferma l’esame effettuato dall’Ocse nel 2014, il nostro paese ha invertito la tendenza aumentando il volume dell’aiuto. Ma la limitatezza del canale bilaterale dà l’impressione di un paese al traino, che non ha una propria strategia chiara e si affida più alle agenzie multilaterali che a una propria pianificazione diretta con i paesi beneficiari. Non solo. Assistenza ai rifugiati e cancellazione del debito sono certamente voci fondamentali, tanto più che la seconda vincola in teoria i paesi altamente indebitati a impegnarsi in politiche di riduzione della povertà in cambio della cancellazione. Ma, come sottolineava lo scorso giugno nel sul blog ZeroVirgolaSette il consigliere del Ministero degli esteri Iacopo Viciani, «in passato varie Ong, da ActionAid alla piattaforma Concord, avevano contestato che le operazioni di cancellazione del debito o le spese per sensibilizzare il pubblico ai problemi dello sviluppo globale o quelle per accogliere i rifugiati nel paese donatore o le spese amministrative e di gestione dei progetti fossero registrate come Aps. Non costituirebbero infatti un trasferimento effettivo di risorse al paese». Sarebbe, cioè, una forma di aiuto «passiva» non in grado di incidere sulle cause della povertà e non basata su una effettiva concertazione fra paesi donatori e beneficiari per individuare e realizzare interventi che portino ad esempio a un miglioramento dei sistemi sanitari ed educativi, a un potenziamento delle infrastrutture, a un rafforzamento del tessuto economico dei paesi che ricevono i flussi di aiuti.

L’aiuto italiano e le Ong

In Italia, riporta l’esame (peer review) Ocse 2014, il settanta per cento dell’aiuto pubblico allo sviluppo è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e riguarda la cooperazione multilaterale, mentre al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (Maeci), che si occupa di cooperazione bilaterale compresi i finanziamenti a dono, resta un dieci-quindici per cento, il resto essendo gestito dalla Presidenza del Consiglio e da altri enti, fra cui le amministrazioni locali.

È da questi fondi che vengono i finanziamenti per i cosiddetti progetti promossi dalle Ong. Secondo i dati Ocse, l’Italia gestisce attraverso le Ong circa un decimo dell’aiuto pubblico allo sviluppo e la più ampia fetta di questi fondi va a progetti decisi dal donatore istituzionale (ministero) e affidati alle Ong per la realizzazione; meno del dieci per cento resta per i progetti che nascono dall’iniziativa delle Ong.

Per avere un’idea della situazione, basta pensare che la previsione per il 2015 è che il Maeci destini ai progetti delle Ong circa dieci milioni di euro, la stessa cifra che la Chiesa valdese mette a disposizione per la cooperazione allo sviluppo grazie alle entrate che le derivano dall’otto per mille. La Chiesa cattolica, attraverso la Conferenza episcopale italiana, nel 2014 ha allocato 85 milioni di euro alla voce «interventi caritativi nei paesi del Terzo Mondo» (contabilizzati comunque come aiuto pubblico allo sviluppo nei dati che l’Italia fornisce all’Ocse), mentre la Caritas Italiana ha distribuito fondi per dieci milioni di euro di cui otto milioni in programmi di sviluppo e il resto in aiuti d’emergenza e micro-progetti. Quanto alla quota di otto per mille Irpef assegnata allo stato italiano e teoricamente destinata a «fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali», il governo l’ha utilizzata nel 2013 per coprire altre voci di bilancio, mentre nel 2014 ha finanziato quattro progetti per un totale di quattrocento mila euro su 170 milioni di entrata totale dall’Irpef.

La Corte dei Conti ha di recente pubblicato uno studio nel quale si sottolinea che allo stato attuale il meccanismo dell’otto per mille non permette una vera scelta da parte del contribuente: la maggior parte dei fondi derivano di fatto dalla quota inespressa di preferenze, cioè dal denaro dei contribuenti che non hanno messo la croce né sullo stato né su una delle dieci confessioni religiose nella loro dichiarazione dei redditi, ma che vedono comunque la loro quota di otto per mille trattenuta e ripartita secondo le proporzioni determinate dai contribuenti che invece hanno espresso la preferenza. Il profilo che emerge dallo studio è di uno sbilanciamento dei fondi in favore delle confessioni (un miliardo e cento milioni di euro, di cui un miliardo e cinquanta alla Chiesa cattolica) e di uno stato che si disinteressa completamente della propria quota di otto per mille e tradisce così il «patto» con i contribuenti. Ma, al netto del dibattito sulla necessità di ripensare l’otto per mille e di quello sull’utilizzo effettivo dei circa 350 milioni di euro che le Ong gestiscono fra (pochi) fondi pubblici italiani, fondi pubblici europei e donazioni dei sostenitori - questa rivista ha affrontato l’argomento in Carità? Per carità!, MC giugno 2013 -, l’impressione di massima che emerge è quella di una cooperazione italiana che si è sin qui limitata, peraltro con altei successi, a «fare i compiti» abdicando completamente alla possibilità di avere autorevolezza e prestigio sulla scena internazionale attraverso una relazione diretta e costante con i paesi beneficiari e una valorizzazione più decisa della propria società civile.

Chiara Giovetti
Tags: Cooperazione, aiuto pubblico, aiuto privato, finanziamento sviluppo
Chiara Giovetti




Liberati dal crack

Lungo il Rio Branco.
Viaggio a Roraima / 4
La droga – il crack,
in particolare – ha raggiunto ogni angolo del Brasile. È un’epidemia che pare inarrestabile. A Iracema (Roraima)
abbiamo visitato una comunità terapeutica che fa parte della rete «Fazenda da
Esperança». Gli ospiti, in maggioranza giovani, stanno recuperando la loro
dignità con il lavoro e la vita comunitaria.

Br-174.
Lasciamo la desolata cittadina di Caracaraí per riprendere la strada federale,
sempre poco transitata.

Passiamo tenute agricole, aree verdi e praterie con
animali in libertà. Poi, in prossimità di Iracema, un cartello avverte che
siamo nei pressi della Fazenda da Esperança‚ una fattoria con caratteristiche particolari. «È una
comunità terapeutica per tossicodipendenti diffusa in tutto il Brasile», ci
spiega dom Roque Paloschi, nostra infaticabile guida.

La droga ha raggiunto ogni angolo del Brasile, compresa
l’Amazzonia. Anzi, dato che la regione confina con tutti e tre i grandi
produttori di coca (Colombia, Perù e Bolivia), essa è divenuta un importante
luogo di transito1, in particolare per la cocaina e i suoi sottoprodotti
(crack, óxi, merla)2.

Rafael e gli altri

La Fazenda è cresciuta proprio a lato della
strada, all’ombra di grandi alberi. Non facciamo in tempo a scendere dall’auto
che già si è formato un capannello di persone. Sono in maggioranza giovani, ma
tra loro c’è anche un signore con una maglietta di una squadra di calcio che
pare più avanti negli anni. Tutti hanno volti distesi e sorridenti, l’esatto
contrario di quelli segnati dalla droga o dall’alcol.

Nata nel 1983 su iniziativa di padre Hans
Stapel, missionario tedesco, e di Nelson Giovanelli Rosendo dos Santos, la
Fazenda da Esperança è oggi una realtà consolidata e soprattutto riconosciuta
nell’ambito del recupero dalla tossicodipendenza. Conta quasi 100 sedi
distribuite in tutto il Brasile e in altri 16 paesi.

La sede di Iracema porta il nome di Fazenda
Nossa Senhora de Guadalupe. Aperta nel dicembre del 2009, ospita una ventina di
«interni» (chiamati anche recuperandos, ma non
pazienti o ricoverati), tutti maschi. «Il più giovane ha 14 anni, il più
vecchio 41», ci dice Ednila, la segretaria.

Rafael, il responsabile, si offre di
mostrarci la struttura. Ci sono numerose casette dipinte con colori diversi
(azzurro, giallo, verde, rosso) e circondate da curatissime aiuole. Ognuna è
adibita a una specifica attività: l’ambulatorio, la palestra, le camere degli
interni, gli alloggi di coloro che già hanno fatto una parte del percorso, una
casa con la cucina comune (in cui lavorano alcuni interni), un’altra che ospita
una saletta per riunioni e video, la cappella Nostra Signora di Guadalupe. «E
quella là in fondo – indica Rafael – è la casa dei “padrini”. Cioè di coloro
che sono venuti per disintossicarsi e, una volta recuperati, si sono fermati
per aiutare gli altri».

Sono tanti coloro che, entrati come ospiti,
si sono in seguito fermati come volontari. È lo stesso percorso compiuto da
Rafael, ex tossicodipendente. «Sono entrato nella Fazenda nel 2005. Dopo il mio
recupero ho deciso di rimanere come volontario. Sono quindi uscito per qualche
anno, ma poi sono rientrato con mia moglie Erica. E oggi viviamo qui assieme ai
nostri due bambini»3.

Convivenza, lavoro, spiritualità

Nella Fazenda da Esperança non si entra per
caso. Al contrario, occorre seguire una precisa procedura.

Chi vuole provare questa esperienza deve in
primis
presentare una lettera scritta di proprio pugno in cui racconta se
stesso e spiega i motivi per cui chiede di entrare nella comunità. Quindi c’è
una sorta di precolloquio alla fine del quale alla persona vengono prescritti
una serie di esami fisici e psichici per capire il suo stato, «dato che –
precisa Rafael – la Fazenda non è una clinica, ma una comunità terapeutica». Se
gli esami medici mostrano la compatibilità del richiedente con la vita
comunitaria, viene fatto un colloquio finale durante il quale si valutano la
sua predisposizione personale e la sua volontà di recupero. Superato anche
questo colloquio, la persona può finalmente essere accolta per un percorso
della durata di almeno un anno.

I primi mesi sono i più duri. «Durante questo
periodo – spiega Rafael – i contatti con familiari e amici possono avvenire
soltanto per lettera».

La metodologia adottata dalla Fazenda da
Esperança si regge su tre pilastri: la convivenza, il lavoro e la spiritualità.
Quest’ultima nasce dalla lettura e dalla pratica quotidiana della parola
evangelica e rappresenta un elemento centrale ma non escludente. «La differenza
religiosa – precisa Ednila – non costituisce un ostacolo per entrare in comunità».
Nella Fazenda la convivenza è a un tempo indispensabile e inevitabile: assieme
si vive, si mangia, si lavora. Il lavoro, infine, è visto come processo
pedagogico e fonte di autostima.

La forma della
speranza

Alla Fazenda di Iracema il lavoro non manca. C’è molta
terra per coltivare e per allevare bestiame: i prodotti ottenuti contribuiscono
al sostentamento della comunità. All’agricoltura e all’allevamento si
affiancano poi due attività artigianali.

Ecco la casetta che ospita la fabbrica di sapone. Lungo
il muro ci sono alcune taniche e decine di bottiglie di plastica piene di un
liquido scuro. «È l’olio riciclato che usiamo per fare il sapone», ci spiega
Rafael. Poi, forse vedendo la nostra faccia interdetta, subito aggiunge: «È un
sapone molto buono, soprattutto per lavare i vestiti. Lo vendiamo a un real per barra».
Entriamo nei locali dove avviene la produzione. Orgoglioso, Rafael ci mostra
gli strumenti necessari alla fabbricazione e ci spiega le fasi del processo
produttivo. «Eccolo», grida Rafael mettendoci in mano una sorta di mattoncino
di color giallo pallido avvolto da una plastica trasparente su cui è posta
un’etichetta con la scritta Sabão
da Esperança. Un prodotto che è quasi
una metafora: il sapone elimina le scorie della vita precedente e offre la
speranza di un’esistenza diversa.

Storia di Bruno

Tuttavia, l’attività più redditizia per la Fazenda viene
dalla panetteria, ospitata in un’altra casa. Quando entriamo, due ragazzi
stanno lavorando su un tavolone in acciaio: tirano la pasta con un mattarello,
ne fanno dei rotolini che depongono in padelle oliate. I ragazzi ci mostrano il
foo e la macchina per impastare (amassadeira), comprata con i soldi
guadagnati dalla vendita del sapone.

Su una lavagna sono segnate le ricette dei vari tipi di
biscotti, tutti (giustamente) fatti con frutta locale: ci sono al coco, al cupuaçu, alla castanha, alla maracuja. Anche il pane
viene sfornato in alcune varietà: pane della casa, pane francese… Tutti i
prodotti sono infine accuratamente confezionati. «Vengono venduti nelle
parrocchie e poi dai volontari», ci spiegano.

Bruno, 22 anni, è di Boa Vista e non nasconde né la
propria storia di droga né l’attuale felicità. Confessa: «Quando sono arrivato
ero distrutto, fisicamente e spiritualmente». «Qui tutto è allegria e amore»,
aggiunge. Ma più delle parole a convincere è il suo sorriso.

Paolo Moiola

(fine
quarta puntata – continua)

Ragazzi di strada a
Manaus
Sotto il ponte di
Kako Caminha

 Una trentina di
giovani, tra cui molti minorenni, vivono sotto un ponte di Manaus. Intossicati
da colla e crack, temuti dalla popolazione, picchiati dalla polizia, ad aiutare
questi ragazzi sono rimasti soltanto alcuni volontari di «O Pequeno Nazareno».
Li abbiamo seguiti.

Manaus (Amazonas). Il ponte di Kako Caminha conduce
al bairro di São Jorge. Pare un normale ponte, attraversato ogni giorno
da centinaia di auto. Invece tanto normale non è. Per scoprirlo è sufficiente
spostarsi su un lato e andare sotto il viadotto. Lo facciamo con Tommaso
Lombardi, nostra vecchia conoscenza, che da tempo frequenta questo luogo
assieme alla moglie Elaine e altri volontari1.

L’igarapé,
un fiumiciattolo di acqua sporca e puzzolente, occupa soltanto una piccola
parte della larghezza del canale, il resto è una riva di terra e vegetazione.
Troviamo due vecchi divani, posti uno accanto all’altro. E poi stracci e cumuli
di rifiuti. «Qui sotto dormono e trovano riparo una trentina di giovani, alcuni
sono bambini di neppure 10 anni – ci spiega Tommaso -. Noi veniamo a cercarli
un paio di volte alla settimana. O per strada o al ponte».

Camminiamo
lungo la riva fino a uno spazio aperto. Eccoli: sotto alcuni alberi, raccolti
attorno a una pentola, ci sono i ragazzi. Tommaso saluta, e un paio di loro ci
vengono incontro. Sono Jean e Leandro, poco più che diciottenni. Il torso nudo
evidenzia la loro magrezza. Sorridono. Scambiamo qualche parola. Fa impressione
sapere che quella bottiglietta di plastica appesa al loro collo serve per
sniffare la colla o il crack.

Nel gruppo
notiamo una sola ragazza. «Sono molte meno, e di solito arrivano per la notte»,
spiega Tommaso, che aggiunge: «Nel gruppo c’è un alto tasso di omosessualità».

I ragazzi
sopravvivono e si procurano i soldi per la droga chiedendo l’elemosina ai
semafori, pulendo le scarpe, prostituendosi o facendo piccoli furti. «Alcuni –
aggiunge la nostra guida – commettono crimini maggiori, come furti nelle case o
assalti di autobus, abbastanza frequenti a Manaus».

Ogni volta che
la polizia interviene sotto il ponte di Kako Caminha per sgombrare l’accampamento
dei ragazzi, lo fa in maniera violenta. «Li picchia, li butta nell’igarapé,
li minaccia – racconta Tommaso -. Brucia le loro povere cose (materassi,
lenzuola, oggetti). Soltanto dopo le azioni più violente i ragazzi si sono
spostati. Ma mai per più di una settimana. Questa è la loro unica “casa”».

Tommaso è il
responsabile per Manaus di O Pequeno Nazareno, un’organizzazione
non governativa che si occupa di ragazzi di strada. «Quando li
incontriamo, facciamo loro la proposta di venire nella nostra casa
d’accoglienza, aperta per bambini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni d’età».

«Con i
maggiori di 18 anni – spiega rammaricato – l’unica cosa che possiamo fare è
indirizzarli verso una casa di recupero dalla tossicodipendenza, tipo Fazenda
da esperança
».

«Criança não é de
rua»

In Brasile, le
dimensioni del fenomeno sono allarmanti. Un’indagine compiuta dalla campagna
nazionale Criança não é de rua («I bambini non sono di strada»),
lanciata e guidata da O Pequeno Nazareno, evidenzia dati drammatici2.

Tra le persone
che vivono in strada il 58,13% ha tra i 13 e i 17 anni, il 13,28% tra i 7 e i
12 anni e addirittura c’è un 4,69% che ha meno di 6 anni. Due terzi (64%) dei
bambini e adolescenti di strada usano il denaro raccolto per procurarsi droghe.
Meno di un terzo (23%) dicono di usare i soldi per comprarsi da mangiare e
appena un piccolo numero (5%) per aiutare la propria famiglia. Ben l’88% dei
ragazzi di strada dice di far uso di un qualche tipo di droga. Tra queste, la
più consumata risulta essere il crack (49%), seguito dalla colla (16%), dalla
marijuana (12%) e dalla cocaina (5%).

Lo slogan di O
Pequeno Nazareno
, tanto semplice quanto efficace, è racchiuso in una
domanda: «Che futuro potrà mai avere una società che nega ai propri bambini il
diritto al presente?»3. I ragazzi che vivono sotto il
ponte di Kako Caminha o nelle strade di centinaia di altre città meritano
un’esistenza diversa.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Di
Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid abbiamo parlato nel reportage João cresce con i libri, in MC dicembre 2012.

2 – I dati
sono riportati dall’indagine svolta dagli organizzatori della Campanha nacional «Criança Não é de Rua» (Campagna nazionale «I bambini non sono di strada»). L’indagine è
scaricabile dal sito: www.criancanaoederua.org.

3 –
Testuale: «Que futuro terá uma sociedade que nega à suas crianças o direito a
um presente?».

Tags: tossicodipendenze, droghe, recupero, ragazzi di strada

Paolo Moiola




Le donne in prima fila

Diritto al cibo:Le donne, in
qualsiasi parte del mondo, sono le nutrici dell’umanità. Hanno il senso del
bene comune e del futuro. Nelle aree povere sono il primo argine contro la
fame. Nei paesi ricchi sono abili contro gli sprechi. Anche all’Expò se ne
parlerà.

Una delle tante contraddizioni che segnano il
nostro mondo riguarda la relazione tra popolazione femminile e alimentazione.
Ovunque le donne coltivano, cucinano, somministrano il cibo, ma sono proprio
loro, assieme ai bambini, che più soffrono di fame e malnutrizione.

La condizione di povertà, subalteità economica,
emarginazione sociale e, talvolta, di sfruttamento in cui vivono milioni di
donne si riflette sul loro stato nutrizionale. Le bambine che vivono nelle aree
rurali povere, vengono nutrite di meno rispetto ai loro coetanei maschi, anche
se sono loro che aiutano le madri a preparare il cibo e a procurare l’acqua che
serve a dissetare la famiglia.

Gli studi dell’Ifad (il Fondo internazionale per lo
sviluppo agricolo delle Nazioni unite) dimostrano che negli ultimi venti anni
la partecipazione delle donne al lavoro agricolo – anche a causa dei conflitti
e delle migrazioni maschili – è aumentata di un terzo.

In
Africa il 30% delle piccole attività agricole è condotto da donne che producono
l’80% del cibo per auto consumo, ma non hanno titoli di proprietà, né hanno
accesso al credito e alla formazione.

Combattere la fame, assicurare il diritto universale a
un’alimentazione sana e sufficiente passa dal superamento della disuguaglianza
di genere.

Queste sono le ragioni per cui l’Expò di Milano,
che si intitola «Nutrire il pianeta, energia per la vita», intende riconoscere
un particolare rilievo al nesso tra donne e nutrizione.

Il
tema sarà trasversale ai vari eventi e momenti: se ne occuperanno le
organizzazioni della società civile, presenti nel padiglione Cascina Triulza.
Verrà affrontato dalle istituzioni inteazionali, in particolare dalle agenzie
dell’Onu dedicate. Verrà incluso nelle iniziative promosse dai governi, in
primis quello italiano. Allo scopo il ministero degli Affari esteri (Mae) ha
lanciato, già nel 2013 a Torino, We Expo (Women for Expo), un progetto
che mira a tenere accesi i riflettori sulla condizione femminile, arricchendo
il dibattito, ma anche avanzando proposte che possano essere tradotte in azioni
concrete. In un documento del Mae si legge: «chiediamo di rafforzare il potere
delle donne in agricoltura, attraverso l’impiego di tecnologie che rendano meno
usurante il lavoro, assicurando loro pari accesso alla proprietà della terra,
al credito, alla formazione e ai servizi nelle aree rurali, nel caso di lavoro
salariato garantendo loro le stesse paghe degli uomini, applicando norme e
tutele che le proteggano dalla violenza e dallo sfruttamento, garantendo la
loro educazione sia primaria che professionale».

We Expo si propone come uno strumento culturale che
interpella decine di donne chiedendo loro di raccontare un piatto o un alimento
che ha un particolare valore; così donne di paesi, culture, professione, età
diverse stanno mobilitandosi attorno alle grandi questioni al centro
dell’agenda di Milano, attraverso un loro personale racconto di vita. Tra di esse alcune famose come Shirin Ebadi,
l’avvocata iraniana Nobel per la Pace e Vandana Shiva, l’ambientalista indiana
che si oppone alle multinazionali dell’agro industria, la scrittrice Simonetta
Agnello Hoby e l’attrice Lella Costa.

Tutte
si esprimono sul nutrimento, non solo del corpo, ma anche della libertà e della
mente, dimostrando come la sostenibilità del pianeta passi attraverso lo
sguardo, l’intelligenza e le mani delle donne.

Le donne possono realizzare un modo diverso di produrre
e distribuire il cibo, perché fa parte della loro natura considerare il cibo
non tanto una merce o un prodotto, quanto la fonte della vita, per questo se ne
preoccupano in prima persona. Indipendentemente dalla loro estrazione sociale,
culturale, religiosa, le donne sono nutrici, foiscono il cibo alle persone
che vivono loro accanto. Hanno il senso del bene comune e del futuro, sanno
che, per poter continuare a vivere, bisogna aver cura degli altri: dei propri
famigliari, ma anche della comunità, del territorio, delle risorse naturali,
delle generazioni future.

Nelle
aree povere del mondo, dove il cibo scarseggia, l’azione delle donne è il primo
argine, il vero baluardo contro la fame dei più deboli, per questo dovrebbero
essere loro le prime destinatarie degli aiuti.

Nei
paesi ricchi, le donne possono essere le abili avversarie degli sprechi
alimentari, ingiustificati e inaccettabili: in un mondo dove 800 milioni di
persone soffrono di fame cronica un terzo di tutto il cibo, circa 1,3 miliardi
di tonnellate l’anno, viene sprecato o va perso.

Tags: Donne, lavoro, alimentazione, cibo

Sabina Siniscalchi




L’uomo, Dio e la natura

Incontro con il
popolo Nasa e la sua filosofia di vita
Nel villaggio di
Toribío la popolazione resiste da decenni alla guerra. Lo fa in modo pacifico e
recuperando la sapienza ancestrale del popolo Nasa. La spiritualità indigena
che dà un senso a ogni cosa e mette al centro la relazione uomo-natura-Dio. I
Nasa fanno la proposta del Buen vivir
al mondo. Valida per tutti, in ogni contesto.

Non
molto alti, un po’ tarchiati. Volti dai lineamenti indigeni. Uno di loro ha un
cappello di paglia sempre in testa e baffetti radi. Parla con un filo di voce e
si esprime soprattutto nella sua lingua, il
nasayuwe. L’altro, più giovane, spigliato, ha un’ottima parlantina in
spagnolo.

Elicerio Vitonas Talaga e Diego Feando Yatacue Ortega
provengono da Toribío, nel Sud Ovest della Colombia, dipartimento del Cauca.
Entrambi fanno parte del popolo indigeno Nasa, che rappresenta il 96% della
popolazione cittadina (circa 26.000 abitanti). Dagli anni ‘80 la zona è
divenuta uno dei principali scenari del conflitto armato tra i gruppi
guerriglieri, Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) e milizie
paramilitari. Il popolo Nasa ha deciso di non abbandonare il territorio,
rafforzando la propria organizzazione e cercando di opporsi alle violenze e
alle intimidazioni attraverso una modalità di resistenza pacifica e negoziata
alla guerra.

Elicerio è un «Mayor», cioè un Maestro, un saggio,
custode delle tradizioni spirituali Nasa.In Colombia i popoli originari hanno sviluppato, nel
corso di migliaia di anni, una relazione profonda con la natura, imparando a
conoscee i segreti e a vivere in armonia con gli esseri viventi che ne fanno
parte.

Diego è direttore generale del Cecidic, il Centro di Educazione, Formazione e Ricerca per lo Sviluppo
Integrale della Comunità di ToribÍo. Ha ricoperto vari ruoli nei tre «cabildos
indigenas» (comunità indigene) di Toribío, Tacueyo, San Francisco, e a
beneficio del «Plan de vida» del popolo Nasa. Dopo aver diretto la Scuola
agroecologica indigena del Cecidic, da nove anni è il primo responsabile del
centro.

Li abbiamo incontrati durante una loro visita in Italia.
Il viaggio si è svolto nell’ambito del «Progetto Nasa» in appoggio alla scuola
agricola del Cecidic. Il progetto, che ha come obiettivo l’autonomia alimentare
ed economica della popolazione Nasa, vede coinvolta anche Missioni Consolata
Onlus, in partenariato con le Ong Cisv (Comunità impegno servizio volontariato)
e Msp (Movimento sviluppo e pace) di Torino. In effetti dal 1985 la parrocchia
di Toribío è gestita dai missionari della Consolata, i quali accompagnano il
popolo Nasa.

Abbiamo parlato con loro di Buen vivir.

Che relazione c’è tra
l’agroecologia e il Buen vivir?

«L’agroecologia, indipendentemente da dove abbia avuto
origine, ci sembra un approccio alla vita importante, interessante. Essa
coniuga non solo lo sviluppo umano con quello economico, ma anche con il
rispetto della natura. Sono i tre aspetti della politica agroecologica, che
raggruppa una serie di proposte e strategie e accomuna esperienze di svariati
popoli nel mondo.

L’agroecologia ha molte relazioni con le proposte del Buen vivir del
popolo Nasa. Innanzitutto perché l’agroecologia riprende il concetto di
conservazione (dell’ambiente in senso globale) molto forte nel popolo indigeno.
Ma, dato che la visione indigena è fortemente spirituale, il popolo Nasa rileva
nell’agroecologia proprio una prospettiva di spiritualità. Attenzione, con
spiritualità non intendiamo religione. Per noi la spiritualità consiste in una
profonda relazione con la natura.

Il Buen
vivir, nascendo dalla spiritualità indigena, si basa
su tre principi: il primo è che tutto ha uno spirito, che ci sono spiriti che
ci aiutano e che l’uomo deve relazionarsi anche con essi; un secondo principio è
l’importanza del rispetto per la natura, per la Madre Terra; un terzo punto è
la sovranità alimentare, la produzione di cibo per la gente.

Nella realtà di oggi, si viene ad aggiungere la necessità
di disporre di risorse economiche, ma nel rispetto di questi principi.

L’agroecologia è una parte della proposta politica del
popolo Nasa.

In ambito sociale è molto importante la relazione con
gli altri popoli, non solo indigeni, ma afro, contadini e società civile in
genere».

 
Il Buen vivir che proposta è?

«Più che una politica il Buen vivir è un
modo di vivere, che vuole dare una risposta non solo ai bisogni materiali
dell’uomo, ma anche a quelli spirituali. Se diamo risposte solo alle questioni
umane sviluppiamo unicamente il concetto di economia. Associare all’economia la
prospettiva spirituale, dà un senso più ampio al Buen vivir, che
non si basa sugli aspetti materiali, ma parte dal fatto che noi non siamo i
padroni del mondo, siamo parte del mondo. Inoltre non è una proposta politica
per un solo popolo, ma è piuttosto una proposta condivisa con altri popoli, per
questo tollera e rispetta la differenza. Condividiamo alcuni principi
fondamentali con molti popoli originari e organizzazioni della società civile,
che stanno cercando un’alternativa al modello di sviluppo dominante.

Direi che fa parte della proposta l’idea di “non andare
avanti”, almeno non come ci hanno abituati. Non come l’Occidente vede lo
scorrere del tempo, ovvero in modo lineare. Il Buen vivir ci impone di
fermarci nel cammino, o di andare avanti senza tanta fretta, per poter pensare oggi,
sognare il futuro, sempre ricordando e dando uno sguardo al passato. Quando
parliamo di spiritualità, in pratica stiamo richiamando il passato. Spiritualità
è anche chiamare gli spiriti della natura, i nostri antenati, i nostri
famigliari. Il Buen vivir ha una differenza con l’approccio occidentale: non
bisogna correre. Forse perché c’è una differenza di ideali di vita».

 

Una proposta
alternativa, ma come realizzarla?

«Anche tra la nostra gente c’è varietà di modi di
pensare. Si può dire un modo diverso per ogni persona. Ci sono due questioni
storiche di cui tenere conto. Da un lato l’esistenza del cattolicesimo, che ha
formato la maggioranza del nostro popolo, e dall’altro la modeità. I nostri
giovani sono molto coinvolti dalla tecnologia, dai mezzi di comunicazione.

Per questo per noi è fondamentale quello che chiamiamo
“fare coscienza”. Non è obbligare, perché altrimenti si ottiene il contrario,
ovvero una insensibilità a questa realtà. Si tratta di una costruzione
collettiva, nella quale insieme pensiamo, riflettiamo, e, sopra questo pensare
insieme, “facciamo coscienza” sull’importanza del Buen vivir. È
quindi un lavoro lento, dispendioso, e non convince in modo immediato tutti.
Per questo dico che c’è differenza di pensiero. Ma è importante la coscienza
collettiva, ovvero avere un gruppo di persone che rendono dinamico il Buen vivir.
Grazie a questo, molte altre persone si avvicineranno alla proposta. Comprese
alcune che sono di religione cattolica o evangelica.

Ci sono poi anche le appartenenze politiche. Noi siamo
apolitici come gruppo, ma possiamo affermare che ci sono compagni indigeni che
hanno posizioni politiche distinte. Quando parliamo del collettivo del Buen vivir,
sogniamo come ci vediamo nel futuro, come comunità, e penso che non ci sia
distinzione di colore politico o posizione religiosa. Diventa molto importante
la proposta filosofica che fa il popolo Nasa».

 

La vostra
organizzazione come fa per «fare coscienza»?

«Nei 30 anni in cui la comunità si è organizzata, si è
sempre parlato della coscienza della gente a partire dall’aspetto comunitario.
Voglio dire che abbiamo sempre fatto uno sforzo rivolto all’essere umano, alla
persona, che forma un collettivo. La missione del Cecidic si è concentrata
sull’educazione. Sviluppare proposte che generino questa coscienza collettiva,
da differenti punti di vista. Parlare dell’aspetto comunitario, vuol dire
parlare dello sviluppo dell’essere umano, del pensiero politico, delle
tradizioni. Per questo il Cecidic realizza corsi, spazi di formazione per i
giovani. Un corso importante è quello di agroecologia, nel quale abbiamo un
progetto con Cisv, Msp e Missioni Consolata onlus. Poi c’è il corso artistico e
culturale, quello di comunicazione, formazione politica, educazione e
pedagogia. Sono cinque componenti molto importanti per sviluppare il “Piano di
vita”. Anche se nello sviluppo del Piano di vita del Buen vivir ci
sono altre componenti necessarie oltre alle cinque elencate.

C’è molta partecipazione ai nostri corsi. Se avessimo
maggiori risorse economiche, riusciremmo a formare ancora più persone.
Annualmente accompagniamo più di 1.000 giovani in modo diretto. Invece
indirettamente il Cecidic ha un impatto ogni anno su 5.000 persone nel
territorio».

 

Quali contatti ci
sono tra il Buen vivir e la religione
cattolica? In particolare, un cattolico può perseguire questo cammino? In
America Latina esiste una teologia (cattolica) indigena, che promuove proprio
il Buen vivir?

«Nella nostra comunità ci sono indigeni che seguono la
spiritualità cristiana sia dei cattolici sia degli evangelici. Ma penso che la
riflessione da fare sia più profonda, ovvero tornare a principi che non pongano
l’uomo al di sopra di tutto. L’uomo in relazione con Dio e con la natura e non
unicamente in relazione con Dio. Come abbiamo detto è fondamentale nel Buen vivir
riconoscere l’esistenza della natura e di tutto quello che abbiamo intorno. E
vedere che tutto ha una spiritualità. Molti compagni indigeni lo fanno. È
quello che vive la maggioranza dei Nasa, come essere umano in relazione con la
natura. C’è poi il sincretismo con la religione cattolica, che si esprime con
la celebrazione di riti, come il battesimo o la comunione».

 

I Cristiani si
interessano della natura, parlano di salvaguardia del creato. Non solo l’uomo e
Dio, ma tutto l’ecosistema nel suo insieme.

«Per il popolo Nasa occorre andare in profondità:
studiare una proposta a partire da un’epistemologia indigena del pensiero
indigeno originario. Non si può negare che sia presente anche un pensiero
parzialmente non indigeno, formato da principi religiosi (occidentali, ndr), ma è importante
capire che esistono queste due concezioni. Ci sono fratelli indigeni che
praticano molti rituali, vivono la “comunitarietà” (vivere in comune, ndr) e il Buen vivir. I cui
principi non sono nella religione cattolica. Quello che stiamo proponendo nel
movimento indigeno è la ricerca dei principi del popolo Nasa.

Ad esempio: abbiamo subìto 500 anni di conquista
europea. Noi ci chiediamo come saremmo oggi se avessimo avuto 500 anni di
sviluppo non interrotto come popolo Nasa, senza religione cattolica. È una
riflessione molto profonda, e c’è spazio per ricercare e approfondire.

Alcune persone lavorano su questo tema, chiamandolo
“indigenismo”, ovvero prendere dalle origini la proposta indigena, in vari
settori. Ad esempio nell’ambito giuridico, quella che si chiama “giustizia
propria”, poi la “educazione propria”, la concezione della salute, ecc.

Si lavora molto con i “saggi ancestrali”, come don
Elicerio, che hanno esperienza con le questioni spirituali, e hanno una
profondità maggiore di quella degli indigeni cattolici. I guardiani della
“spiritualità propria” sono coloro che, nonostante i 500 anni di conquista,
sono riusciti a tenere tutte le conoscenze e la saggezza (saviduria)
ancestrale, trasmettendola di padre in figlio. È un’eredità che non abbiamo
perso.

Io ad esempio lavoro nell’educazione cercando di
realizzare pratiche pedagogiche e didattiche in direzione della cosiddetta
educazione propria. Io parto dalla conoscenza ancestrale».

Cosa intende per
educazione propria?

«È una proposta del popolo Nasa e di altri popoli
originari in America Latina. Sosteniamo che prima del sistema educativo dello
stato colombiano, prima della conquista europea, noi avevamo un’educazione
derivante dalla nostra maniera di vedere il mondo, la nostra “cosmovisione”.
Facciamo ricerca su come fosse questa educazione prima della conquista, grazie
a elementi che i saggi e le guide spirituali conservano, per partire da lì e
confezionare una proposta educativa nella realtà di oggi, per scuole, collegi,
università. Dal nostro punto di vista possiamo fare una proposta distinta e
focalizzata sui popoli indigeni.

Per fare un esempio: cambiare l’aula o i docenti, per
fare un corso non tra le mura ma nella natura. Chi insegna non è solo la
maestra, ma anche la natura stessa. Leggere in un’altra maniera.

L’educazione superiore che per gli occidentali è
l’università, per noi è un saggio della comunità. Per i parametri occidentali
don Elicerio non ha studiato, ha fatto la seconda elementare. Ma per noi ha una
conoscenza che va oltre a quella che ha un docente universitario. E la sua
sapienza giunge da molta esperienza e conoscenza. Non li possiamo confrontare,
ma vale la pena vedere la differenza».

Un europeo che vive
in Europa può cercare di vivere seguendo il Buen
vivir
? Per non indigeni che si ritrovano in quei principi, è possibile?

«Concretamente penso di sì. Perché se i popoli indigeni
sviluppano una proposta del Buen
vivir, altri popoli la sviluppano a partire dalla
loro visione. Non è una proposta per soli popoli originari americani nel loro
contesto. Il Buen vivir lo può ricercare ognuno di noi a partire da quello che è
e dai mezzi che ha.

Credo che popoli come gli europei che hanno camminato
molto nel mondo con il tempo lineare, dovrebbero iniziare a vedere il tempo in
modo diverso. Noi lo vediamo come una spirale, cioè stiamo andando avanti ma
sempre guardiamo ai nostri principi. Gli europei, inoltre, devono iniziare a
vedere il tempo con più lentezza, perché ricostruire una spiritualità richiede
di fermarsi a pensare. Così potrebbero imparare alcune cose da altri popoli,
come quelli indigeni. Ma è una costruzione che devono fare nel proprio popolo,
non copiando un modello, ma riflettendo. Come hanno fatto i Nasa e come io
faccio il mio Buen vivir, nel mio contesto, con il mio popolo, i miei costumi e
i miei principi. È fondamentale capire che ci sono differenze.

Il popolo indigeno non vuole influenzare tutti i popoli
e farli diventare uguali a sè, o fare sì che gli altri pensino come indigeni.
Ognuno parta dal suo contesto, ma che lo faccia considerando i principi
fondamentali. Come quello di non abbandonare la natura. Durante migliaia di
anni l’uomo ha cercato di uscire dalla natura, utilizzarla. Credo che debba
tornare un po’ verso di essa».

Marco Bello
______________

MC ha già pubblicato più volte sul Buen
vivir
, in particolare in MC 3/2012, p. 55 e nel dossier di MC 10/2014.

Tags: Buen Vivir, Popoli indigeni, agroecologia, spiritualità, Nasa

 

Marco Bello




Un grande paese, in cerca di sé

Dalla primavera araba
alla guerra al terrorismo
Grazie alla Primavera
araba, in Egitto aveva preso il potere un gruppo confessionale. La nuova
Costituzione si ispirava alla legge islamica. Ma gran parte della popolazione
si è ritrovata in disaccordo. E un nuovo golpe ha destituito il presidente. Altre
elezioni, un nuovo capo di stato. Con l’esercito sempre molto presente. Ma
l’economia stenta a risollevarsi.

Indice box:

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Egitto, Cronologia minima
Tutti i personaggi

È stato uno dei paesi protagonisti della stagione delle «Primavere arabe».
Oggi l’Egitto è quasi scomparso dai grandi media ed è poco presente sulla scena
politica internazionale. La caduta del presidente Mohamed Morsi e l’ascesa al
potere del generale Abdel Fattah al-Sisi sembra aver fatto calare una cappa di
silenzio sul paese. Ma qual è la situazione dell’Egitto? Quale direzione
politica ha imboccato? Qual è l’andamento dell’economia?

Momenti di svolta

Se guardiamo alla recente storia egiziana
sono stati tre i punti di svolta politica del paese: l’11 febbraio 2011, che
segna la caduta di Hosni Mubarak, al potere dal 1981; il 24 giugno 2012, con
l’elezione di Mohamed Morsi, primo presidente espressione della Fratellanza
musulmana; il 3 luglio 2013, con la caduta di Morsi. È intorno a queste tre
date che si delinea la parabola politica e istituzionale egiziana. «Per
comprendere le trasformazioni in atto – ci spiega un esponente della comunità
cristiana copta che chiede l’anonimato – bisogna fare un salto indietro. Negli
ultimi tempi della presidenza Mubarak esistevano solo due grandi formazioni
politiche: il Partito nazionale democratico (Pnd), legato al presidente, e la
Fratellanza musulmana, movimento nato nel 1928 in Egitto con l’intento di
promuovere i valori tradizionali islamici nella società. Con la caduta di
Mubarak, il suo partito è stato sciolto. Sulla scena è rimasta quindi un’unica
formazione: la Fratellanza. Non è un caso che nel 2012 sia stato eletto un
esponente di questo movimento alla presidenza. Ma l’Egitto, pur avendo
conosciuto una progressiva islamizzazione della società, non è mai stato
compatto dietro la Fratellanza. Molti musulmani non si riconoscono affatto
nelle posizioni del movimento e anzi guardano con sospetto alla svolta
confessionale. Se non si capisce questo, difficilmente si può comprendere
l’evoluzione successiva».

Ne è convinto anche Massimo Campanini,
storico del Medio oriente arabo e della filosofia islamica, secondo il quale la
Fratellanza ha commesso alcuni errori fondamentali. Il più grave è aver creduto
di poter accelerare l’islamizzazione della società impadronendosi del potere e
tenendo sotto controllo la magistratura. Nonostante questi tentativi
autocratici, va però detto che non ha avuto il tempo di impostare una politica
efficace. Morsi è stato proclamato presidente il 24 giugno 2012, quasi subito
sono scoppiate le rivolte anti presidenziali organizzate da un’opposizione
laica che non ha mai riconosciuto la regolare, legittima e democratica vittoria
elettorale dei Fratelli musulmani.

Un esercito molto
presente

Scomparso il Pnd, l’unica istituzione
organizzata che si è rivelata in grado di fronteggiare la Fratellanza musulmana
è stata l’esercito. A dire la verità gli uomini in grigioverde non avevano mai
abbandonato la scena politica. Militari erano Gamal Abdel Nasser, Anwar Sadat e
Hosni Mubarak. Militare era Mohammed Hoseyn Tantawi, il generale che, prese le
distanze da Hosni Mubarak, aveva rifiutato di reprimere le rivolte della
Primavera araba e aveva guidato la transizione fino alle elezioni che avevano
portato alle elezioni di Morsi.

I militari non sono solo un’istituzione
fondamentale dell’Egitto, ma hanno anche un peso determinante nell’economia del
paese. Secondo alcuni analisti, un quarto (ma qualcuno parla addirittura di un
terzo) dell’economia egiziana
è controllata dalle forze armate. Gennaro Gervasio, docente di
Politiche del Medio Oriente alla British University del Cairo, in un rapporto recente ha parlato del conflitto tra la
casta militare e un gruppo di imprenditori neoliberisti, guidati da Gamal,
figlio di Hosni Mubarak. Un conflitto che sarebbe stato tra le ragioni che
hanno scatenato la Primavera araba e che, per il momento, si sarebbe risolto a
favore degli ufficiali dell’esercito. Anche se gli imprenditori hanno ancora
una forte presa sull’economia egiziana.

Il nuovo presidente

È stato al-Sisi a farsi interprete del
malcontento della maggioranza della popolazione egiziana. Ma chi è al-Sisi? «al-Sisi
è tanti personaggi in uno solo – spiega Giuseppe Dentice, ricercatore Ispi,
Istituto per gli studi di politica internazionale, esperto di Egitto -. È
sicuramente un militare e, per questo motivo, ha un approccio pragmatico e
decisionista. Pensiamo al pugno di ferro imposto al paese per riportare
l’ordine. Al tempo stesso, però, si presenta come l’“uomo della Provvidenza”,
riprendendo cliché tipici della retorica nasseriana. al-Sisi quindi gioca su
due piani, anche emotivi, proponendosi come la figura di riferimento del paese.
È un uomo che si adegua alle situazioni, pur partendo da posizioni chiare e decise
che fanno parte del suo retroterra militare. Certo se noi guardiamo la
situazione politica egiziana dal punto di vista dei diritti umani non possiamo
dire che
l’Egitto sia un paese democratico. Ma adottare questa visione sarebbe limitante
perché non terrebbe presente le esigenze di sicurezza che l’Egitto deve
affrontare».

I piani di politica intea ed estera
dell’Egitto in questo periodo storico sono sovrapposti. Il minimo comune
denominatore tra le due situazioni è l’attenzione all’ordine pubblico e alla
sicurezza. al-Sisi sta perseguendo una politica puntata su un controllo
territoriale ferreo della Valle del Nilo e del distretto della capitale. In
queste regioni è più semplice anche perché in esse la situazione politica è
stabile. Sta invece incontrando difficoltà nel Sinai dove il controllo dello
stato è quasi completamente assente (vedi box).

Dal punto di vista della politica estera, la
Libia viene considerata «stretto vicinato» e, in quanto tale, questione di «sicurezza
intea dell’Egitto». I motivi sono facili da comprendere. Tra Egitto e Libia
corre un lunghissimo confine comune, attraverso cui c’è un continuo passaggio
di uomini, mezzi, armi. Spesso tra questi soggetti ci sono personalità legate a
vario titolo alla Fratellanza musulmana e anche terroristi. La scorsa estate
l’Egitto ha subito una serie di attentati su quella frontiera e quindi vede la
Libia come un pericolo sempre più concreto che potrebbe addirittura estendere
la propria crisi a territori egiziani. Per evitare questo, ha militarizzato il
confine occidentale. Sta poi cercando di attivarsi con interventi non ufficiali
nel paese vicino. I raid aerei della scorsa estate sulla Libia sono stati
condotti, secondo alcune ricostruzioni, da aviatori emiratini o libici che
hanno pilotato aerei egiziani partendo da basi egiziane. Il Cairo sostiene
apertamente il governo libico con sede a Tobruk e combatte gli islamisti che
dominano il governo di Tripoli. «Questo – continua Dentice – è giustificato
all’interno della logica di contenimento della minaccia islamista. In questo
senso per al-Sisi non c’è differenza tra Fratellanza e gruppi jihadisti. Per
lui chiunque faccia riferimento alla sfera islamista è un terrorista e, come
tale, deve essere eliminato o comunque contenuto. Per questo la politica estera
e quella intea si sovrappongono e si influenzano soprattutto in tema di
sicurezza e ordine pubblico».

In Siria e in Iraq, invece, l’Egitto, pur
facendo parte della coalizione dei volenterosi contro lo Stato islamico, non
fornisce uomini o mezzi per combattere
al Baghdadi, ma rimane in una posizione più defilata e attendista.

Diritti umani

La repressione intea è stata molto dura
nell’ultimo anno e mezzo. Le associazioni per la difesa dei diritti umani hanno
denunciato che, solo negli ultimi sei mesi del 2014, 40mila persone sono state
incarcerate per motivi politici (tra esse tre giornalisti di Al Jazeera, l’emittente del Qatar, accusati di sostenere la Fratellanza
musulmana) e 20mila civili sono stati giudicati da tribunali militari. Nel 2014
un centinaio di detenuti sono morti per le violenze subite in carcere. I
vertici della Fratellanza musulmana sono stati incarcerati. Chi è sfuggito alle
maglie della polizia, vive esule all’estero, principalmente in Turchia e in
Qatar, paesi da sempre alleati del movimento. «al-Sisi – commenta la nostra
fonte anonima – è riuscito a reprimere la Fratellanza perché godeva del
consenso di gran parte del paese. Sostenuto non solo dalla comunità cristiana,
che si era sentita emarginata dalla Fratellanza, ma anche dalla maggioranza dei
musulmani. Senza questo appoggio, al-Sisi non sarebbe stato in grado neanche di
dichiarare la Fratellanza “gruppo terroristico”». Per le future elezioni, al
partito della Fratellanza, Libertà e Giustizia, come ad altre formazioni
simili, sarà impedito candidarsi. «Dal punto di vista politico – osserva
Dentice – la Fratellanza è alle corde. Bisogna capire in che modo essa potrà
giocare un ruolo attivo in campo politico nel futuro. Attualmente non ci sono
spazi che facciano pensare a un ritorno alla legalità del movimento. Credo che
il dialogo dipenda non tanto dalla Fratellanza quanto dai militari dietro al
presidente. Sono loro che possono e devono ricreare le condizioni favorevoli a
un confronto».

Il ruolo dei
cristiani

In questo contesto, la comunità cristiana
(in maggioranza copto ortodossa) non ha alcun peso politico, nonostante conti
almeno un 10% della popolazione. Dopo aver subito il rischio di venire
progressivamente emarginata dalla Fratellanza musulmana, ha sostenuto al-Sisi.
Non è un caso che la sera in cui il generale ha annunciato la deposizione di
Morsi, al suo fianco c’erano Ahmed al Tayeb, l’imam di al Azhar (università,
massima istituzione del mondo islamico sunnita), e Tawadros II, il Papa copto. «Tawadros
– spiega Awad Baseet, giornalista cristiano e attento osservatore delle
dinamiche politiche egiziane – sostiene l’attuale regime ed è ricambiato. Tanto
è vero che la nuova Costituzione assicura alcuni posti ai cristiani. Temo però
che ciò non cambi la sostanza delle cose: ormai i copti non hanno più una forte
influenza sulla politica».

al-Sisi sta portando avanti la sua battaglia
anche in campo teologico. In un discorso tenuto all’università al Azhar nel
giorno della nascita del profeta Maometto, il presidente ha chiesto ai leader
religiosi musulmani «una rivoluzione per estirpare il jihad (la guerra santa, ndr)». E ha aggiunto: «La genesi del problema è in un pensiero che si
origina dal corpo di testi e idee che abbiamo consacrato negli anni, fino a
considerare impossibile distanziarsi da esse, con il risultato di provocare
l’ostilità del mondo […]. Non è possibile che 1,6 miliardi di musulmani
vogliano uccidere gli altri 6 miliardi di abitanti della Terra».

Ma al-Sisi non si sta muovendo solo su un
piano politico-militare. Conscio che le rivolte della Primavera araba erano
nate anche dalla crisi economica che aveva investito il paese, il generale ha
progettato ampi interventi per favorire la ripresa. In particolare ha
annunciato l’avvio di grandi opere pubbliche, tra le quali il raddoppio di una
parte del canale di Suez e la costruzione di centrali elettriche (molte delle
quali dovrebbero sfruttare le potenzialità del solare). Parallelamente ha
iniziato a ridurre i sussidi su carburanti, pane, zucchero, tè, ecc., che
drenavano circa l’8% del Pil nazionale. «Questo non basta – sostiene Baseet -,
servono riforme di più ampio respiro che permettano non solo a un mercato
bloccato di aprirsi, ma di garantire l’ingresso di attori stranieri. In questo
senso è allo studio un progetto di legge per cambiare l’attuale normativa sulla
proprietà. Le nuove norme dovrebbero permettere l’ingresso degli stranieri
nelle società egiziane come soci di maggioranza. Questo potrebbe essere utile,
ma è chiaro che rischia di essere un discorso fine a se stesso se il controllo
del territorio e dell’economia viene mantenuto dal blocco militare».

La stabilità assicurata da al-Sisi insieme
ai fondi che arrivano dai paesi del Golfo (30 miliardi di dollari l’anno per i
prossimi quattro anni) hanno però già portato alcuni risultati. Nel primo
trimestre 2014 il Pil è cresciuto del 2,5%, nel secondo trimestre di circa il
4%. «La produzione industriale – continua Baseet – sta riprendendo. Questo è un
dato positivo. Anche lo scambio con l’estero sta migliorando: nel 2014 si è
attestato intorno ai 17 miliardi di dollari contro i 15 del 2012. Ma ancora
lontano dai 36 del 2011. Il turismo sta lentamente risalendo la china. Nelle
località sul Mar Rosso e sul Mediterraneo le presenze stanno aumentando. Purtroppo
mancano all’appello i turisti nei luoghi storici. In questo senso paghiamo
ancora l’instabilità della Primavera araba».

Enrico Casale
______________

MC sull’Egitto:
Il gigante ha i piedi di sabbia (10/2010);
Sangue e orgoglio (3/2012);
La religione del potere (4/2012)
Prima e dopo la Primavera (6/2013);
Una primavera solo all’inizio
(7/2014).

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Intervista
all’esperto di terrorismo e fondamentalismo islamico

Per
l’Egitto il Sinai è una ferita aperta. Nella regione, terra di traffici
illegali e di basi di fondamentalisti islamici, il governo del Cairo fatica a
riportare l’ordine. Quando e perché la penisola è sfuggita al controllo? Ne
abbiamo parlato con Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo e fondamentalismo
islamico. «Il Sinai è una zona ad alta concentrazione tribale. Rispetto al
resto dell’Egitto l’importanza dei clan è molto forte. A ciò va aggiunto che la
Penisola è da sempre stata maltrattata e marginalizzata dalle istituzioni egiziane.
Il risultato è che il Sinai è molto povero e vive di commerci e traffici
clandestini. Nel tempo si è creato quindi un humus di disagio e un sentimento
di avversione nei confronti delle forze armate egiziane e dello stato centrale.
Negli ultimi anni, è il fondamentalismo islamico a essersi fatto interprete di
questo astio. Ansar Beit al Maqdis («Partigiani di Gerusalemme»), il
gruppo più forte e più conosciuto del fondamentalismo islamico nel Sinai,
professa un jihadismo globale ma, allo stesso tempo, si caratterizza per un
forte legame con il territorio e porta quindi avanti istanze locali di
contrapposizione al Cairo».

Il governo come ha contrastato
questo fenomeno?

«Durante il periodo in cui l’Egitto
è stato in preda al caos post Mubarak, il Sinai è stato abbandonato a uno stato
di anarchia quasi totale. In seguito, Mohamed Morsi, un po’ per incompetenza,
un po’ per una certa simpatia ideologica, ha tollerato molto la crescita del
movimento islamista. Quando è caduto Morsi, la situazione, che era già critica,
è degenerata con attacchi sanguinosi a stazioni di polizia, caserme, posti di
blocco, colonne delle forze armate. L’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi
ha dichiarato guerra al fondamentalismo, imponendo il coprifuoco per settimane
e lanciando operazioni militari. A questo il governo ha associato annunci di
politiche di sviluppo della regione per migliorare le condizioni di vita della
popolazione locale e per ridurre il bacino di malcontento dal quale pesca il
fondamentalismo. Anche se lo stato, avendo pochi fondi, difficilmente darà
seguito agli annunci».

Nel Sinai, oltre allo Stato
islamico, opera anche al Qaida?

«La componente egiziana di al Qaida è sempre
stata molto forte e si è rafforzata ulteriormente dopo che l’egiziano Ayman al
Zawahiri ne ha preso il controllo. Alcuni esponenti di Ansar Beit al Maqdis
sono storicamente vicini al movimento fondato da Osama bin Laden. Anche il
governo egiziano ha sempre cercato di associare il fondamentalismo del Sinai
all’estremismo di al Qaida (benché non sia sempre possibile verificare
quanto pesi la propaganda politica). In questi ultimi mesi, però, Ansar Beit
al Maqdis
ha scelto di aderire allo Stato islamico».

Chi sostiene questi gruppi
terroristici?

«Si sostengono da soli con proprie attività illegali. In
particolare con il racket (taglieggiando la popolazione locale), il
traffico di immigrati che provengono dall’Africa, il contrabbando verso la
striscia di Gaza, ecc.».

Oltre al Sinai, i gruppi jihadisti
potrebbero prendere il controllo anche delle regioni
occidentali?

«Attualmente le regioni libiche al confine con l’Egitto
sono controllate dal governo laico di Tobruk e quindi sono relativamente
sicure. L’esecutivo è però molto debole e, nel breve periodo, può correre il
rischio di essere abbattuto. In questa eventualità il Cairo potrebbe trovarsi a
fronteggiare milizie islamiche lungo un confine di migliaia di chilometri dai
quali possono facilmente infiltrarsi miliziani e armi. Già ora armi, munizioni
e uomini passano la frontiera, ma il pericolo è che la situazione degeneri».

E.C.
_________________

Per un ulteriore approfondimento
rimandiamo
al dossier Sventola bandiera nera, MC 1-2/2015.

 
Egitto
Cronologia minima
25 gennaio 2011 – Opposizioni e società civile proclamano la
«giornata della collera» contro la carenza di lavoro e le misure repressive del
governo. Le manifestazioni si protraggono per giorni.

11 febbraio 2011 – Sotto la pressione della piazza, Mubarak
si dimette. Il potere passa a una giunta militare presieduta dal
feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi.

23-24 maggio e 16-17 giugno 2012 – Elezioni presidenziali.
Mohamed Morsi viene eletto presidente.

12 agosto 2012 – Mohammed Hoseyn Tantawi viene rimosso dalla
carica di ministro della Difesa e della Produzione militare. Gli subentra il generale
Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente Morsi annuncia che la nuova Costituzione
favorirà l’adozione di norme ispirate alla Legge islamica. L’annuncio scatena
la reazione delle opposizioni, esasperate anche dalle crescenti difficoltà
economiche.

18 novembre 2012 – Si insedia

Tawadros II, il nuovo patriarca della Chiesa copta. Alla
cerimonia non prende parte Morsi.

30 giugno 2013 – A un anno dall’elezione di Morsi, Tamarrude
che è un movimento di opposizione, annuncia di aver raccolto oltre ventidue milioni
di firme per chiedere la destituzione del presidente e per ottenere elezioni
anticipate.

3 luglio 2013 – Morsi viene rimosso dalla carica da un golpe
messo in atto da Abdel Fattah al-Sisi. La sua destituzione da parte delle forze
armate è sancita con il parere favorevole del leader dell’opposizione laica
Mohamed el Baradei, dall’imam di al-Azhar, Ahmad al-Ayyib e dal papa copto
Tawadros II. Le proteste dei Fratelli musulmani vengono duramente represse.

28 maggio 2014 – Al-Sisi viene eletto presidente della
Repubblica ed entra in carica l’8 giugno.

E.C.
Tutti i personaggi

L’ingegnere, i
militari, il mufti e il patriarca

Mohamed Morsi – 63 anni, si laurea in Ingegneria chimica
all’università del Cairo e consegue un master e un dottorato di ricerca alla University
of Southe Califoia
. In Califoia lavora anche alla Califoia State
University
dal 1982 al 1985. Esponente di punta del partito Libertà e
Giustizia (formazione legata alla Fratellanza musulmana), è eletto presidente
nel 2012 ed è il primo ad assumere tale carica con elezioni democratiche. Il 3
luglio 2013 viene deposto da un colpo di stato militare ed è incarcerato.

Hosni Mubarak – 86 anni, dopo una brillante carriera militare
(durante la quale si distingue nella guerra del Kippur del 1973), si impegna in
politica. Alla morte di Anwar Sadat è eletto presidente dell’Egitto, carica che
ricopre per quasi trent’anni, a partire dal 14 ottobre 1981 fino all’11
febbraio 2011. Dopo la deposizione, viene arrestato e, nel 2012, è condannato
all’ergastolo. Il 29 novembre 2014 la Corte di Cassazione lo proscioglie dalle
accuse di omicidio e lo assolve da quelle di corruzione. Mubarak può essere
dunque scarcerato.

Abdel Fattah al-Sisi – 60 anni, frequenta l’Accademia militare egiziana e
poi corsi di specializzazione in patria, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Pur essendo affascinato dall’ideologia panarabista e laica di Gamal Nasser, non
fa mistero di essere un musulmano devoto. Forse è proprio per questo motivo che
la Fratellanza musulmana lo sceglie come Capo di Stato maggiore della Difesa.
Nel 2013 però si contrappone al presidente Morsi fino a rovesciarlo. Le
elezioni dell’8 giugno 2014 lo consacrano sesto presidente della Repubblica
egiziana.

Tawadros II – 62 anni, si laurea in Farmacia e lavora per alcuni
anni in un’azienda statale prima di entrare nel monastero di San Bishoy a Wadi
Natrun. Ordinato sacerdote nel 1989, è consacrato vescovo nel 1997. Come tale
guida la diocesi di Beheira, a Sud Ovest di Alessandria. Il 4 novembre 2012 è
eletto 118º papa della Chiesa copta ortodossa e patriarca di Alessandria. Il 10
maggio 2013 si reca in visita ufficiale in Vaticano, con una delegazione di
vescovi, accolti da papa Francesco.

Ahmad Muhammad al-Tayyeb – 68 anni, studia e insegna nelle università della
Sorbona (Francia) e di Friburgo. Successivamente diventa professore di
Filosofia e Teologia nelle università di al-Azhar (Il Cairo), Qena e Assuan, in
Egitto, e di Islamabad, in Pakistan. Dal marzo al settembre 2003, ricopre la
carica di Gran Mufti d’Egitto e nel 2010 diventa Imam di al Azhar, nominato da
Hosni Mubarak. Non sostiene le sommosse che portano alla destituzione del
presidente e si contrappone alla Fratellanza musulmana quando questa prende il
potere. Considerato un moderato, sostiene il colpo di stato che porta alla
caduta di Mohamed Morsi.

E.C.
 

Enrico Casale




Cari Missionari

Calendario di Suor Irene

Caro padre,
scrivo da Roraima, in Brasile. Complimenti a te e a tutti per Missioni
Consolata N. 11. Tutto molto, molto «buonissimo»! Ma per quel calendario di
suor Irene non basta il 10 e lode! Fantastico per le foto e per le
sottolineature dei temi. Anche il tuo editoriale, Una voce in meno, la
dice lunga sulla solidarietà che ha un sapore ben diverso dalla competizione!
Che ne dici: non c’è posto per tutti in questo mondo? Buone le domande, le
statistiche, gli interrogativi che fanno pensare… Non mollate. Un giornale è
sempre un’opera d’arte.

Leta
Botta, missionaria della Consolata
Roraima, 15/12/2014

San Domenico Savio

Spettabile Redazione,
sono un lettore – magari un po’ discontinuo – della vostra rivista. Noto con
piacere che davvero non vi mancano notizie, messaggi, riflessioni utili; ciò è
dimostrato anche dal carattere piuttosto piccolo che prevale nelle pagine della
vostra MC.

Nel Congresso Eucaristico Diocesano che si è svolto a
Castelnuovo Don Bosco circa mezzo secolo fa, ho cantato anch’io l’inno: «Ritorna,
o Signore, è questa la terra da te prediletta, la terra dei Santi (…). In
mezzo a noi, Signor, scegli i tuoi Santi; scegli i tuoi Santi ancor, in mezzo a
noi, Signor!» (Parole di José Cottino e musica di Camillo Milano).

Nell’articolo di pagina 32, a metà della seconda colonna,
leggo: «… anche se dovrebbe essere battezzato Castelnuovo dei Santi perché
ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì
hanno avuto i loro natali…». Condivido con voi tutto il contenuto
dell’articolo, ma vorrei precisare che Domenico Savio è nato a Riva presso
Chieri e non a Castelnuovo. È però verissimo che ha vissuto la massima parte
della sua vita nel comune di Castelnuovo.

Il Signore vi aiuti a fare sempre del bene, soprattutto
nei «luoghi di frontiera», nei quali vi siete già distinti in molte occasioni.
Grazie di tutto! Cordiali saluti ed auguri di ogni bene da

Antonio
Caron
email, 06/12/2014

Ridateci i libri

Ricevo
la bella rivista da un cinquantennio e prima ancora la stessa era presente
nella mia famiglia di origine. Il suo arrivo è sempre una gioia per ricchezza
di contenuti, profondità degli argomenti trattati e pregevolezza della veste
editoriale. Mi permetto di proporre alla redazione il ripristino di due
antiche, per me e penso per altri lettori, utili e interessanti rubriche: la
presentazione bibliografica di nuovi libri e la rubrica filatelica che fu
presente per moltissimi anni. Due arricchimenti certamente utili specie per i
lettori più anziani o per chi risiede in luoghi decentrati.

Ringrazio per l’attenzione e unisco, per tutti i
missionari, un cordialissimo saluto.

Luigi
Bisignano
15/12/2014

Grazie di averci scritto. La rubrica dedicata
ai libri, rinnovata, torna proprio in questo numero, a pag. 2, mentre per
quella filatelica… non potrà più essere come una volta. Dovesse ritornare,
son sicuro che rimarrà piacevolmente sorpreso. Ogni bene a lei.

Batik

Ho avuto l’occasione di visitare la mostra missionaria
dell’Immacolata a Torino in favore dell’ospedale di Neisu in Congo e vi ho
potuto ammirare e acquistare alcuni batik provenienti dal Kenya. Confesso la
mia
ignoranza in materia e pertanto mi permetto di suggerire per la vostra rivista
di dedicare un articolo a questa forma artistica. Non mi pare, salvo
distrazioni, di ricordae sull’argomento. Potrebbe anche essere una buona
pubblicità per suscitare interesse a decorare la propria casa in questa forma.
Se ci fosse sufficiente varietà potreste anche pensare ad esporli
fotograficamente sul vostro sito web. Magari lo avete già fatto!

Claudio
Solavagione
email, 19/12/2014

DI bambini e missionari

Caro Padre Gigi,
ancora una volta ringrazio per l’editoriale,
oltre che per tutti i contenuti del mensile. Mi riferisco a Un sogno da
bambini
. Ringrazia per me la scuola dell’infanzia che ha organizzato il
presepio vivente descritto perché le insegnanti, nonostante l’impegno
richiesto, hanno affrontato tale evento per far vivere a piccoli e grandi «qualche
cosa» del mistero del S. Natale. Mi permetto di sottolineare, come pedagogista,
che non si tratta né di una recita e né di un teatrino. Se non c’è l’assillo
della parola esatta o del gesto perfetto o del movimento sempre identico, i
bambini interpretano i ruoli in modo spontaneo e giornioso, così come sono stati
descritti, e fanno sul serio, non recitano, sono veri nelle loro espressioni!

Quanto all’affermazione conclusiva dell’articolo citato e
pubblicato su La Stampa del 23 ottobre dell’anno scorso, che cosa dire?
Purtroppo l’ignoranza è molto diffusa ed è trasversale. Non c’è conoscenza
relativa al tipo di lavoro, agli obiettivi e grado di impegno dei missionari,
per cui chi ha scritto non si è reso conto della contraddizione in cui è
incappato. Se in
Africa c’è bisogno della giustizia sociale, in Italia c’è bisogno sia della
stessa che della cultura, oltre che della formazione e dell’educazione.

Auguro che Missioni Consolata trovi, nel 2015, sempre più
lettori e lettori critici e propositivi!

Milva
Capoia
Collegno, 02/01/2015

Bambini Salvadoregni, E
adozioni illegali

Dopo aver letto il dossier di MC di luglio 2014 ci
permettiamo di scrivere su questo importante argomento.

Quanti bambini salvadoregni sono stati adottati in Italia
negli anni ’80?

È una domanda senza risposta. La
sparizione di persone fu una pratica sistematica durante il conflitto armato
nel Salvador fra il 1980 e il 1992. Di più: infame fu la sparizione di bambine
e bambini, una pratica impiegata come strategia militare controrivoluzionaria.

Nei suoi 20 anni di esistenza, Pro Búsqueda ha
registrato 934 casi di separazione forzata di bambini dai loro genitori durante
la guerra del Salvador. A tutt’oggi è riuscita a trovare 392 di loro. Il lavoro
di
Pro Búsqueda si riferisce a quei bambini che furono fatti sparire dalle
loro famiglie, rivendicando i loro diritti violati e servendo da tramite fra le
famiglie biologiche e quelle adottive.

I bambini furono considerati un bottino di guerra che
generò sostanziosi benefici economici a favore di coloro che ne fecero motivo
di commercio. Durante la guerra del Salvador si creò una rete di adozioni
illegali con la complicità di militari, funzionari pubblici, avvocati,
responsabili di orfanotrofi e addirittura di volontarie della Croce Rossa del
Salvador.

Il nostro paese fu tra quelli che realizzarono più
adozioni inteazionali negli anni ’80. In quel periodo gli Stati Uniti emisero
più di 2.300 visti di adozioni per bambini del Salvador. Furono adottati
numerosi bambini anche in Europa, specialmente in Italia.

Pro Búsqueda
non possiede dati esatti sul numero di adozioni di bambini salvadoregni in
Italia durante la decade degli anni ’80. Tuttavia in Italia sono stati risolti
già 39 casi. La collaborazione delle autorità italiane per conoscere il numero
esatto di adozioni nel paese sarebbe di vitale importanza per capire la
dimensione del fenomeno dell’infanzia scomparsa in El Salvador.

La sparizione di questi bambini e la loro successiva
adozione fraudolenta ha violato i loro diritti fondamentali e anche quelli dei
loro genitori biologici e adottivi. Si è strappato ai genitori biologici la
cosa più preziosa della loro vita e ai bambini si è negato il diritto alla loro
identità, a rimanere con la loro famiglia e, oggi, a sapere quali sono le loro
origini. Si è abusato anche della fiducia e della buona volontà di molti
genitori adottivi che non erano a conoscenza delle irregolarità che venivano
commesse in El Salvador.

L’aiuto delle autorità italiane permetterebbe di avanzare
nella risoluzione di molti casi che rimangono irrisolti. Non sarebbe solo un
gesto di umanità verso le vittime salvadoregne di questo orribile crimine, ma
anche di responsabilità verso i suoi obblighi inteazionali, come quelli
contenuti nella Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, ratificata
dall’Italia e da El Salvador.

Inoltre sarebbe un sanare un debito verso tutti quei
cittadini italiani di origine salvadoregna che vogliono ricostruire il loro
passato e la loro identità. E diventerebbe meno pesante il fardello di tutti
quei genitori che continuano a cercare i loro figli scomparsi.

Asociación
Pro Búsqueda de niñas y niños
 desaparecidos
www.probusqueda.org.sv
email, 21/11/2014

CHE senso ha la Missione, oggi?

(N.B.:
i titoletti nel testo sono redazionali)

Rev. Padre,
lasci che un quasi settantenne utilizzi ancora anche lui una lettera cartacea
vista la mia poca dimestichezza con il computer (che, tuttavia, sia chiaro, non
demonizzo!). Scrivo in merito al suo editoriale apparso sul numero di novembre
del 2014, che un mio caro riceve e che poi mi passa. Concordo circa il dolore
nell’apprendere della cessazione di una pubblicazione missionaria, né è mia
intenzione fare analisi socio-economiche sul continuo decrescere dell’amore
alla lettura o – quanto meno – nei confronti della carta stampata.

Mi conceda alcune riflessioni in cui, le assicuro, non vi
è la più piccola parte di polemica.

La missione, un tempo

Quando ero giovane, e anche desideroso di farmi
missionario, lo scopo delle missioni e della vocazione missionaria, era
chiarissimo a tutti: portare il cristianesimo (il cattolicesimo) a popoli che
ancora non avevano avuto la gioia di conoscerlo. In parole povere, anche se
oggi il termine non è politically correct: convertire. Alle foto di
allora, con il padre missionario con la sua veste bianca, il casco coloniale,
una bella lunga barba, facevano seguito resoconti del tipo, quanti villaggi
visitati, quante cappelle aperte, quanti battesimi celebrati, quanti matrimoni.
In altri termini tutta una relazione circa l’apostolato del convertire. Forse,
anzi, toglierei anche il forse, in quelle relazioni emergeva una dose di
trionfalismo, ma il lettore almeno aveva le idee chiare, forse troppo semplicistiche,
ma chiare.

La missione oggi

Poi venne il Vaticano II (e qui, prima di andare avanti
vorrei precisare che considero quel concilio un vero dono di Dio) e le grandi
attese: seminari pieni e vocazioni a valanga. Ma per motivi che non so
spiegarmi, poco per volta avvenne l’esatto contrario.

Too all’aspetto delle missioni e dei missionari. Si
cominciò col dire che lo scopo delle missioni non era quello di convertire,
bensì «testimoniare», e qui la chiarezza dei concetti incominciò ad
annebbiarsi. Poi un sempre e crescente impegno del missionario nel creare
pozzi, forme nuove di agricoltura, sviluppare artigianato, occuparsi della
promozione della donna, prendersi cura della gioventù e tante altre belle cose
che sicuramente ogni missionario curava anche prima, ma che erano secondarie
all’evangelizzazione.

Poi tutta un’altra serie di messaggi belli, sì, ma forse
non ben spiegati al popolo cristiano. Anch’io mi sono commosso a vedere le foto
delle grandi preghiere ecumeniche ad Assisi, ma il messaggio che è giunto è
stato che tutte le religioni sono nobili e degne allo stesso modo, e che ognuna
è una strada per giungere a Dio.

A questo punto diventava ineludibile la domanda: e
allora, se Dio ha dato a quei popoli una loro forma di espressione religiosa,
dato che Dio non lascia orfano nessun popolo, in base a quale principio io devo
andare là per convincerlo a lasciare i suoi culti e divenire cattolico?

Mi ricordo che in un’intervista letta anni or sono, ad un
certo punto, il giovane missionario che partiva, alla domanda se andava per
convertire, rispose: «No, vado per essere convertito». Probabilmente intendeva
dire che quanto di buono avrebbe trovato in terra di missione lo avrebbe
spronato a diventare un miglior cattolico, ma letta così, tout court, la
frase spiazzava.

Siamo giunti a tal punto che oggi il missionario per
eccellenza è quello che è stato a Korogocho (pron. Corogocio, ndr)
e che guida cortei per la tutela dell’acqua
pubblica.

Qual è l’essenza della missione

Belle e sante cose, ma torniamo alla base: qual è l’essenza dell’essere missionario? E a questa domanda ne
segue un’altra. Tutte le riviste missionarie, compresa la sua, non fanno altro
che riportare inchieste interessantissime e quasi sempre molto equilibrate,
inchieste sociali, politiche, storiche, il
tutto – ripeto – molto bello. Ma quante volte compare il nome di Gesù Cristo? È tutto un resoconto di sopraffazioni di stati su
stati, di etnie su etnie, di caste su altre caste. Ma cosa serve studiare
teologia e tutte le materie a essa connesse se poi offrite un prodotto per il
quale sarebbe sufficiente un esperto di politica internazionale o uno storico
equilibrato?

Se prima, a mio parere, l’essenza della missione era
quella di predicare il cristianesimo a popolazioni che avevano altre forme
religiose a nostro avviso belle, nobili, ovviamente da rispettare, per certi
aspetti anche da prendere ad esempio, ma comunque non equiparabili al messaggio
di Cristo, oggi quale è questa essenza?

Avviene quello che succede ad ogni aggregazione umana, ad
esempio tra partiti politici che si fondono: la perdita della propria identità
e specificità annulla anche il movente interiore, lo stimolo che prima c’era a
voler partire missionari.

Se un giovane che dovesse avere la vocazione riflette un
po’, se va per costruire pozzi, case, ponti, impiantare aziende, creare
movimenti di sindacalizzazione, creare scuole (tutte cose bellissime, sia
chiaro) non gli basterebbe essere un buon geometra, un buon ingegnere, un buon
manager, un buon professore? Poi, se è anche un buon cristiano, meglio ancora!

Concludendo
Due questioni aperte.

1. Un tempo il missionario portava Cristo e il Vangelo,
di conseguenza tutta la sua azione si completava anche, visto che l’uomo è
corpo e anima, con opere umane di promozione sociale dei popoli ai quali era
inviato. Ma l’essenziale era ben distinto dal secondario. Oggi il secondario ha
preso il posto di ciò che prima era ritenuto essere l’essenziale della
missione. Capovolgendo i valori la missione non poteva che soffrie.

2. Il secondo punto è la necessità di spiegare con
chiarezza il significato di certi gesti in sé bellissimi, compiuti ad esempio
dai papi, ma che possono prestarsi a equivoci o a volute distorsioni da parte
della stampa laicista. Lo si è visto con la frase di papa Francesco «Chi sono
io per giudicare» che, sulla stampa nazionale è diventata una sorta di
sdoganamento dell’omosessualità. Anche recentemente, l’inchino verso il primate
degli ortodossi, la preghiera nella moschea rivolto alla Mecca. Se tutto ciò
non viene spiegato, altro non porta che alla solita conclusione. Ogni religione
è strada verso Dio, di conseguenza una forma missionaria della chiesa cattolica
altro non può essere vista che come una forma di sopraffazione nei confronti di
altri culti.

La saluto con stima e affetto, spero di essere stato
sufficientemente chiaro nell’esposizione dei miei pensieri, cordialmente suo,

Alfredo
Garianol
Genova, 16/12/2014

Caro
Sig. Alfredo,

è stato più che chiaro. Sull’ultimo punto, avesse scritto dopo il viaggio del
Papa in Sri Lanka, avrebbe potuto aggiungere altri argomenti al dibattito. La
ringrazio della sua lettera che tocca il tema scottante della missione della
Chiesa oggi. Non ho una risposta precisa da darle. Le assicuro che quanto lei
ha esposto costituisce il cuore del dibattito sulla missione e la nuova
evangelizzazione.

È vero, in
questi anni, per noi giornalisti missionari è stato più facile raccontare di
sviluppo, di giustizia e di pace che dell’esperienza di fede che vivono i
missionari. Questi ultimi spesso hanno pudore a raccontare della vera forza che
li anima dentro, l’amore per Gesù Cristo. In più anche noi abbiamo forse
un’eccessiva preoccupazione di voler essere accettati/letti da tutti senza
apparire integralisti o impegnati a fare proselitismo.

Ricordo
che io stesso ho criticato con forza la redazione di MC nel 2002, quando, in
occasione del centenario dell’arrivo dei missionari della Consolata in Kenya,
aveva preparato un bellissimo numero speciale dove però si era scritto di
tutto, eccetto che degli incredibili risultati di cento anni di
evangelizzazione: una comunità cristiana vibrante, una Chiesa locale quasi
autosufficiente e soprattutto una Chiesa diventata missionaria.

Noi
siamo profondamente convinti che l’unica ragione della missione è Gesù Cristo e
l’annuncio della Buona Notizia (Vangelo) che è Lui. È Lui che dà la forza ai
missionari di resistere anche nelle situazioni più dure, fino a dare la vita.
Papa Francesco, nonostante possa confondere qualcuno con i suoi gesti di
apertura, dialogo e rispetto per le altre religioni, è molto chiaro in questo.
La sua Evangelii gaudium non lascia dubbi.

Il
problema per noi di MC si presenta di mese in mese quando veniamo alla scelta
concreta degli articoli. Non sempre riusciamo ad avere materiale che ci
permetta un buon bilanciamento dei testi, ce ne rendiamo conto. Corriamo così
il rischio di dare prevalenza ad articoli che potrebbero apparire benissimo in
riviste di socio-politica ed economia internazionale.

Le
assicuriamo comunque che, come è stato detto al Convegno missionario di
Sacrofano (cfr pag. 10), è nostro grande desiderio «Rimettere Cristo al
centro», perché è solo in Lui che, come persone e come cristiani, troviamo le
motivazioni vere per dare la vita per un mondo nuovo, giusto, fraterno, a norma
«divina».

risponde il Direttore