Africa, terra di martiri

’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi
i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II,
e scriveva: «Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è
il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi
a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi modei, uomini di poca fede,
pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri
Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di
contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata
dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano
gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e
redenta».

Erano gli anni Sessanta, tempi di grande ottimismo. L’Africa si era
appena affacciata all’indipendenza. E quel «Dio voglia che siano gli ultimi» esprimeva
una grande speranza di pace, dialogo, tolleranza e libertà, non solo per i
cristiani, ma per ogni uomo.

Cinquant’anni dopo, quel grido, rimasto purtroppo inascoltato, risuona
ancora con forza. L’Africa di oggi è terra di martiri. Dall’Egitto alla Libia,
dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra
Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di
cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio
misericordioso e Padre di tutti, rivelato dall’incarnazione, passione, morte e
risurrezione di Gesù, il Cristo. Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione
dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese che speriamo libera nel
momento in cui voi leggete queste righe, o quelli dei due missionari rapiti e
liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia)
di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o
dell’indifferenza generalizzata.

Per anni l’Africa è stata timida a
parlare dei suoi martiri. Chi ha mai sentito parlare dei 149 «martiri di
Mombasa», uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli
cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati
in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi
dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi
tra il 1975 e il 1992)? E oggi? Ogni giorno sentiamo di violenze sui cristiani.
Il martirologio della grande Chiesa d’Africa continua ad arricchirsi di
splendide stelle. «Il sangue dei martiri è seme di Cristiani», diceva
Tertulliano (Cartagine, 155 ca. – 230). Paolo VI si augurava un’Africa risorta,
libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di
violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e
donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di
pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa.

P.S. Mentre pubblichiamo sul web questa pagina, Meriam è stata liberata dalla prigione in cui era, ma si trova ancora confinata nell’ambasciata americana di Khartoum.

Gigi Anataloni




Dal karkadè, il Bagamoyo wine 

Tra fiori e un tocco di pili pili


A Bagamoyo, località tanzaniana sull’Oceano Indiano il cui
nome significa «deponi il tuo cuore», per ricordare gli schiavi che da lì partivano
verso i paesi arabi fino alla fine del XIX secolo, una donna, Teddy Davis,
compie la sua lotta quotidiana per l’emancipazione: ha fondato una piccola
attività agroalimentare. I suoi prodotti sono una miscela di fiori, creatività
e impegno sociale.

Teddy Davis, è originaria di Moshi, nel Nord del Tanzania, si è
trasferita a Bagamoyo dove ha inaugurato la Smoke House Store: una
piccola azienda a gestione familiare. Fino a qualche anno prima dirigeva un
piccolo fast food, ma gli affari non andavano bene e, complice la
necessità di cercare nuovi stimoli, ha deciso di creare qualcosa di originale:
il vino di choya.

Vino dai petali di un
fiore

Rimboccatasi
le maniche, si è dedicata a coltivare la terra. Teddy è determinata e
ottimista, senza falsa modestia ammette di non essere una brava contadina:
sopperisce con l’impegno. In origine coltivava ananas, ma i ripetuti furti
nottui l’hanno presto scoraggiata, e la necessità di trovare in fretta una
soluzione le ha acceso la lampadina: «A nessuno verrebbe in mente di rubare un
fiore!». La pianta di choya cresce spontanea e selvaggia in molte zone
del Tanzania. Gli inglesi la chiamano roselle o red sorrel, il
suo nome scientifico è hibiscus sabdariffa, ai più è nota semplicemente
come karkadè. Inutile al ladruncolo di tuo, redditizia e gustosa dopo
un’adeguata lavorazione. Il succo di karkadè è apprezzato come bevanda da
gustare fredda o come tisana calda. Fonti storiche ricordano che in Italia,
durante il periodo fascista, nonostante vigesse l’obbligo di consumare solo
prodotti italiani, l’uso di karkadè era abituale in quanto prodotto delle
colonie italiane d’Etiopia ed Eritrea (karkadè deriva da karkadeb,
termine dialettale etiope che indica la pianta dell’ibisco).

Fin
qui nulla di nuovo quindi, se non fosse che Teddy, dai petali di questo fiore,
ha iniziato a produrre vino e marmellate.

Un vulcano di gusto

Nel
tentativo di evitare l’afa, di buon’ora passeggiamo verso l’azienda agricola
poco lontana dalla sua abitazione. Il terreno, circa tre ettari, permette a
Teddy un paio di raccolti all’anno che integra con acquisti presso altri
coltivatori. Il suo sogno è di prendere in gestione altri terreni fino a
coltivae nove ettari. Coglie alcuni fiori di hibiscus, con un punteruolo
separa il bulbo dai petali caosi che sono la parte più peculiare del fiore.
Essi possono essere utilizzati freschi per preparare la marmellata, oppure
lasciati essiccare su una grata, esposti alla luce diretta del sole, per gli
infusi. La bevanda dal colore rosso rubino ha preziose proprietà terapeutiche:
lenitiva, digestiva, antinfiammatoria. Utilizzata come antisettico urinario ed
efficace anche contro la stipsi cronica per l’elevata presenza in essa di acidi
organici.

Dall’infuso
al vino il passaggio non è così breve: i petali freschi vengono lasciati
fermentare sei mesi in botti con lievito, acqua e zucchero. La cantina di Teddy
è alquanto artigianale, ma funzionale: produce un vino di karkadè con una
gradazione alcolica pari al 14%.

Alla Smoke
House Store
si produce anche una salsa piccante di hibiscus con il pili
pili
, peperoncino che tanto piace ai tanzaniani per condire pollo e
patatine. Teddy ha rivisitato la ricetta classica arricchendo la salsa con
aglio e zenzero. Ci racconta il simpatico aneddoto di quando ha dovuto ritirare
la salsa dai mercati della zona dopo aver ricevuto una chiamata allarmata: «La
salsa inizia a scoppiare». Il prodotto era infatti stato preparato senza
conservanti. Dopo quell’episodio Teddy ha dovuto accantonare le sue lodevoli
intenzioni di mantenere il prodotto genuino e, per poterlo commercializzare, si
è dovuta adeguare alle norme. Oggi ogni prodotto della Smoke House Store
possiede etichetta e informazioni su ingredienti, data di preparazione e
scadenza.

Fare il vino è
un’arte

Non
ci si improvvisa produttori di vino da un giorno all’altro. Teddy ha seguito un
corso presso il Sido (Small Industries Development Organization),
un’organizzazione parastatale sotto il diretto controllo del ministero del
Commercio, Industria e Marketing. Fra gli obiettivi del Sido c’è, per
l’appunto, quello di incentivare la creazione di piccole e medie imprese in
zone rurali, e vengono quindi organizzati periodicamente dei corsi di formazione
per gli interessati al settore agricolo alimentare. Teddy ci tiene a precisare:
«Al Sido ho imparato le tecniche per fare il vino con l’uva, ma io volevo
creare il mio vino di hibiscus. Fare il vino è un’arte!». Una scelta
coraggiosa. Esperienza e volontà fanno il resto. La produzione è ufficialmente
partita nel febbraio del 2011, in pochi anni di attività i risultati sono stati
più che soddisfacenti: Teddy ha ottenuto l’approvazione del Tfda (Tanzania
Food and Drugs Authority
) per commercializzare il prodotto, e la qualità
delle materie prime è stata certificata dai laboratori del Tbs (Tanzania
Bureau of Standards
). Ma c’è ancora tanta strada da fare: pur essendo il
vino di hibiscus ben diverso da quello conosciuto al grande pubblico, non può
ancora competere con quello di Dodoma o con quello d’importazione dal
Sudafrica. In più, il contesto di riferimento è povero: per la maggior parte
delle persone è impossibile permettersi un bene considerato di lusso. Teddy
spera di ampliare il bacino di utenza, strizza l’occhio alla metropoli Dar es
Salaam e alle città più vivaci del Tanzania. Questa piccola azienda dà lavoro a
quattro dipendenti impegnati nelle diverse fasi della produzione, ed è in grado
di rifornire il mercato locale. I prodotti, in zona, diventano sempre più
popolari: si possono reperire presso mercati, bar e resort turistici con
il marchio Bagamoyo Wine.

L’impegno
sociale

Ma le
sorprese non sono finite: il fiore all’occhiello di questa dinamica realtà è
l’impegno di Teddy nella promozione dell’imprenditoria e nell’emancipazione
femminile. Ha fondato un gruppo dal nome più che eloquente: Wake up women
group
(Gruppo «Svegliatevi donne»). Il progetto prevede l’apertura di uno showroom
al mercato cittadino, dove tutte le socie possano avere uno spazio per esporre
la propria mercanzia di prodotti artigianali e handmade (fatti a mano).
Parte dei profitti (20%) vengono reinvestiti in un fondo comune da utilizzare
per le esigenze del gruppo, compresi eventuali prestiti a socie in difficoltà:
una forma di microcredito mirato e strategico. Teddy mostra orgogliosa la lista
delle donne che hanno già aderito all’iniziativa e hanno versato una quota per
aprire un conto comune.

La
nostra interlocutrice non ha timore di esprimere giudizi, anche critici e
contrari al cliché della donna africana laboriosa sempre e comunque: «Tante
ragazze sono pigre e svogliate» o, ammette, «troppo succubi ai voleri dell’uomo».
E auspica un miglioramento economico delle sue «colleghe», migliori condizioni
di vita, nonché l’acquisizione di consapevolezza del determinante ruolo delle
donne come veri e propri pilastri di famiglia e società.

Francesco Cosentini*

*Nato a Novara nel 1984, ha
vissuto a Baronissi (Sa) fino a 19 anni. Trasferitosi a Roma per l’università
(Scienze Geografiche per la Salute e l’Ambiente), dal 2008 al 2012 ha abitato
in Tanzania. Durante questo periodo ha collaborato con Cesc Project di Roma per
il Servizio Civile all’Estero, ha cornordinato un progetto di microcredito con
Sicomoro Onlus di Milano e, insieme a Pamoja Onlus di Malonno (Bs), si è
occupato dell’amministrazione dell’ospedale Saint Joseph di Ikelu, nella
regione di Iringa. Durante il soggiorno in Tanzania, tra febbraio e giugno
2011, ha compiuto un viaggio in bicicletta da cui è nato il libro Pole Pole.
Pedalando in Tanzania e Malawi
(reperibile via web o nelle librerie
Feltrinelli). Attualmente lavora come operatore sociale in un centro per
persone senza fissa dimora a Napoli e, a novembre, è partito per l’Australia
con il working holiday visa.

Francesco Cosentini




Storie africane di un chirurgo atipico 

Il ricordo emozionato di un uomo che realizzava i suoi sogni


La storia di un medico con il sogno di curare i più poveri
ed esclusi. La storia di quel sogno che si realizza oltre le aspettative tra
Eritrea, Kenya e Tanzania. E del sogno di chi gli è stato accanto fino
all’ultimo. Il dottor Giorgio Giaccaglia raccontato con passione da sua moglie,
compagna di una vita dedicata agli altri.

«All’età di sei anni volevo fare il dottore». Giorgio mi
raccontava spesso di quel sogno che piano piano era diventato realtà. Frequentò
l’università di Bologna e nel 1967 si laureò in medicina e chirurgia. Poi si
specializzò in anestesia e in chirurgia vascolare. Aveva sempre avuto la sana
ambizione di diventare un bravo medico, ma non era solo una questione di
lavoro. Era un modo etico di intendere la professione e anche la propria vita.
E non a caso guardava a modelli di grandi medici come i pionieri Albert
Schweitzer (1985-1965) a Lambaréné in Gabon e Giorgio Ambrosoli (1923-1987) in
Uganda.

L’Africa in ospedale

Ma fu solo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e
l’inizio degli anni Ottanta, quando Giorgio lavorava nel grande centro
ospedaliero Malpighi di Bologna, che l’Africa fece irruzione con forza nella
sua vita. In quel tempo molti eritrei arrivavano a Roma e in Emilia Romagna per
farsi curare. Erano profughi in fuga dalla lunga guerra con l’Etiopia. Al
Malpighi, Giorgio ebbe l’opportunità di confrontarsi a lungo con loro, e si
appassionò alla loro causa. Una causa che lasciava molti morti e feriti dietro
di sé. E così accettò la proposta di partire per quella terra: un luogo
lontano, sconosciuto e in guerra che non aveva ancora istituzioni statali.

Partì verso un continente pieno di difficoltà, l’Africa,
con quel coraggio che lo ha sempre contraddistinto e con il desiderio di
aiutare gli altri.

Le ferite insanabili di
un bombardamento

Delle tante esperienze vissute durante quei viaggi che
portavano speranza e sollievo a molte persone, ce n’è una che più di altre
rimase nel cuore di Giorgio, e che lo accompagnò per tutta la sua vita. Una
mattina alcuni aerei bombardarono una scuola. Tante vite innocenti furono
spezzate: bambini devastati dalle schegge, corpi straziati che, in alcuni casi,
fu impossibile curare. Quelle bombe lasciarono una ferita profonda nell’animo
di Giorgio.

Dopo quell’episodio, ritoò ancora in Eritrea per qualche
missione, ma poi smise, e per lungo tempo lasciò l’Africa riprendendo il suo
lavoro in Italia. Per anni non pensò più di partire. Nel frattempo era
diventato primario all’Ospedale di Comacchio e poi del Delta, sempre nel
ferrarese.

Dove è facile toccare
il nulla

Nel 1997 qualcosa riprese ad agitarsi di nuovo nel suo cuore:
aveva bisogno di nuove risposte, sentiva di dover trovare qualcosa che ancora
mancava alla sua vita. Aiutato da don Tullio Contiero, un amico sacerdote a
Bologna, ebbe l’occasione di incontrare monsignor Ambrogio Ravasi, vescovo di
Marsabit. L’Africa quindi era tornata a bussare alla sua porta. E Giorgio
decise di aprirla. I sogni che aveva accarezzato da bambino e da ragazzo non
erano scomparsi. Rinati, con un animo nuovo, quei sogni erano pronti per essere
realizzati. Decise così di partire per il Kenya, destinazione Sololo, un posto
molto lontano da Nairobi, al confine con l’Etiopia. Là dove si entra in un
mondo diverso, nel quale è facile toccare il nulla e dove quel nulla è realtà.
Un luogo sperduto, dove solo il coraggio dei missionari aveva permesso alla
gente locale di cullare la speranza di una vita migliore. Giorgio si preparò al
meglio perché sapeva che avrebbe dovuto fare di tutto: l’anestesista, il
rianimatore, il chirurgo, il ginecologo, l’urologo. La gente arrivava da
lontano, di giorno e di notte, e portava i malati come poteva. Con carriole,
barelle fatte a mano, in braccio. Giorgio era sempre pronto a prestare
soccorso. E se la stanchezza si faceva sentire, ritrovava il vigore nella gioia
di aver salvato un’altra vita.

Realizzando un sogno

Un
giorno, andando verso Nord, Giorgio passò da Archer’s Post dove ero io,
missionaria laica. Era molto di fretta, prese un caffè e un bicchiere d’acqua.
Ci salutò e sparì dalla nostra vista. Lo aspettavano a Sololo dove non c’era
nessun altro medico in ospedale, e Giorgio sentiva su di sé tutta la
responsabilità di tanti malati che lo attendevano. In quel periodo decise che
si sarebbe fermato a Sololo per sei mesi. E solo l’asma lo costrinse a lasciare
il continente.

L’esperienza
africana, vissuta tra i più poveri, fu intensa. A ingenerare pensieri e
riflessioni contribuirono anche i grandi spazi, le notti silenziose, il cielo
tanto vicino alla terra da poter contemplare le miriadi di stelle che lo
popolano. Ma furono i lunghi momenti trascorsi insieme a parlare che gli
diedero l’opportunità di guardarsi dentro, di ascoltare il suo cuore, di
pensare alla sua vita. Scoprendo un tesoro nascosto da tanti anni dentro di sé.

Era
tempo di grandi decisioni. Ricordo che una volta, alla fine degli anni Novanta,
mentre lo accompagnavo a Isiolo, mi disse: «Voglio costruire un ospedale della
gioia e dell’amore, un ospedale per i bambini. Vederli curati e sorridenti.
Voglio curare tutti con le medicine giuste, usare tecniche d’avanguardia e fare
tutti i tipi di operazioni. Che ne pensi?», mi domandò, e io gli risposi che
era un bellissimo sogno. «Questo è ciò che hai nel tuo cuore, e sono contenta.
Ti penserò in questo tuo progetto».

Ma
non fu solo il suo progetto: ebbi infatti la possibilità e la gioia di
condividerlo con lui. E non solo il suo progetto ospedaliero, ma, in seguito,
anche la sua vita.

Il Tharaka hospital

Era il 1999 quando Giorgio incontrò padre Livio Tessari,
il missionario della Consolata, che gli propose di costruire un ospedale nel
Tharaka, in Kenya. Nella missione di Matiri c’era una piccola mateità diretta
da un’infermiera missionaria, Rita Drago, che si trovava in quella località da
diversi anni. Quando arrivavano i casi gravi, la regola era di correre con la
jeep per strade dissestate o distrutte dalla pioggia allo scopo di raggiungere
un ospedale. Ma non sempre si arrivava in tempo. Ecco perché padre Orazio
Mazzucchi, missionario a Matiri, chiese al confratello padre Tessari di
aiutarlo a risolvere il problema che lo angustiava. In quella difficile realtà
Giorgio si mise subito all’opera. Bisognava trovare i fondi per costruire un
grande ospedale e lui iniziò a coinvolgere amici, conoscenti e tanta gente che
voleva dare il proprio contributo. Ben presto altre associazioni si unirono al
progetto. E così nel 2001 iniziarono i lavori di costruzione. Tempo due anni, e
il 5 ottobre 2003 la struttura fu aperta. Due sale operatorie, sala parto, sala
raggi, ecografia, laboratorio analisi, reparti di degenza, farmacia, cucina, acqua
potabile per tutto l’ospedale, lavanderia. E più tardi anche la pediatria e
un’ambulanza. All’ospedale il personale era quello del posto, dall’Italia
venivano molti volontari e medici specialisti. A lavorare vennero anche le
suore Orsoline. Rita, l’infermiera missionaria, continuava la sua
evangelizzazione collaborando con Giorgio. Instancabile e grande organizzatore,
egli dava tutto se stesso, e la gente lo stimava molto. Si era preparato fin
dai tempi di Sololo a svolgere quel servizio. Non lasciava niente al caso,
conosceva bene le necessità della gente: malattie, operazioni, cesarei, morsi
di serpente. Prima di allora avevo visto molte persone morire per un morso di
serpente, nonostante l’uso del siero. Con Giorgio, invece, nessuno moriva,
perché lui aveva una tecnica tutta sua, che funzionava. Instancabile, giorno e
notte andava in ospedale. E quando mancava l’anestesista, faceva lui: metteva
un infermiere a controllare il paziente, operava e risvegliava. E dopo ore di
sala operatoria, visitava i malati gravi.

Miele, frutta,
galline per dire grazie

Al
Tharaka hospital Giorgio portò anche il progetto «Dream», della comunità di
Sant’Egidio, per la prevenzione e cura dei malati di Aids. Aprì una scuola per
i bambini ricoverati e per le neo mamme in difficoltà con latte e biberon.
Grazie all’ospedale nel villaggio aumentò il lavoro: tanti i chioschi nati, gli
alberghetti per accogliere i parenti, e i pulmini (matatu) che
trasportavano la gente. Ogni giorno file lunghissime di persone venivano
all’ospedale certe di poter trovare cure. E capitava che, per ringraziarlo,
portassero a Giorgio del miele, della frutta o una gallina. C’era tanta
gratitudine.

Lasciare ad altri e
ricominciare

Giorgio maturò un po’ per volta la consapevolezza che a
un certo punto sarebbe stato giusto «lasciare ad altri il compito di continuare»,
così mi disse, e insieme, nel 2006, decidemmo di lasciare l’ospedale di Matiri.
Andammo in Tanzania, a Mbweni, a vedere un health centre che funzionava
poco: bisognava risistemare tutto, pochi credevano che quella struttura potesse
riprendere vita. La sfida era grande e bisognava rimboccarsi le maniche, ma le
motivazioni che portavamo nel cuore erano ancora più grandi della sfida. I
lavori iniziarono a luglio, e il 5 ottobre 2006 aprimmo: in meno di un mese la
struttura era già piena. L’ospedale era attrezzato con macchinari per la
diagnostica e per le operazioni. Di nuovo capitava che Giorgio facesse
l’anestesista durante un parto: operava, risvegliava la paziente e rianimava il
neonato. Una situazione difficile che lo spinse ad assumere medici locali che
lo aiutassero, ma anche del personale specializzato, oltre alle suore presenti.
I pazienti aumentarono così tanto che decidemmo di avviare una seconda sala
operatoria.

«Sei musulmano?»

Spesso
andavo in ospedale da Giorgio. In genere era lui a cercarmi, e io sapevo che
quando erano le suore a chiamarmi era perché lui aveva nuovamente dato il
proprio sangue, in emergenza, prima di operare.

Lui
era così, sempre pronto a donare.

Ricordo
di un giorno in cui doveva operare un uomo appena conosciuto, di religione
musulmana. Sarebbe stata un’operazione difficile. Prima di farlo accomodare sul
tavolo operatorio, Giorgio chiese al paziente: «Sei musulmano?». E lui rispose
di sì. Lui allora gli disse: «Io sono cattolico. Tu prega il tuo Dio e io prego
il mio, in modo che guidi le mie mani». Insieme si fermarono a pregare.
L’operazione andò bene.

Tutti
avevano rispetto, stima, gratitudine per il «dottor George». Anche in questo
caso il villaggio trasse vantaggio dall’ospedale per il molto lavoro che si era
creato. C’erano molti «dala dala» che venivano e andavano, sempre carichi di
persone.

Storie africane di un
chirurgo atipico

A un
certo punto Giorgio e io capimmo quanto fosse cruciale insegnare quello che
sapevamo. Lo scopo era di rendere tutti capaci nel proprio lavoro, in modo che
sapessero svolgerlo bene. In primis i medici che dovevano operare, ma anche gli
altri, e per il personale analfabeta Giorgio pensò a una scuola.

Giorgio,
negli ultimi mesi prima di lasciarci nell’aprile del 2011, ha scritto un libro
dal titolo «Storie africane di un chirurgo atipico». Lo ha scritto perché in
quelle pagine ognuno possa ritrovare la sua presenza, il suo spirito, la sua
persona. E anche per incoraggiare chi, come lui, vuole aiutare i poveri della
terra. Ha anche voluto che la sua opera continuasse, e a tale scopo ha fondato
l’associazione che porta il suo nome («Giorgio Giaccaglia Stegagnini») per lo
sviluppo dell’urologia in Africa.

Lui
di talenti ne aveva ricevuti tanti. Sapeva di essere stato mandato in Africa da
qualcuno con la «Q» maiuscola, e voleva restituire i doni ricevuti con opere di
carità e con una grande fiducia nei tanti ai quali insegnava a lavorare in
ospedale e che desideravano, come lui, dedicarsi a curare gli ultimi.

Angela Trebeschi

Angela Trebeschi




Rádio Monte Roraima, Microfoni Liberi

Storie e volti di radio / 4


Nata nel 2002, Rádio Monte Roraima è un’emittente di Boa
Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima. Il suo obiettivo è di
informare con qualità, etica e imparzialità. E avendo un’attenzione particolare
verso i meno fortunati, i diritti umani e l’ambiente. Come dimostra il suo
appoggio alla lotta contro «Bem Querer», la centrale idroelettrica che dovrebbe
sorgere sul Rio Branco.

Boa Vista. Sarà per il cielo terso o per il fatto di essere all’equatore, ma la
luce del giorno è intensissima. Il sole scalda, però risulta ancora piacevole.
Siamo a pochi passi dal Rio Branco e a lato della chiesa Madre (igreja Matriz) della città. Su un muretto di cinta sono disegnati, a tinte pastello,
il logo e il nome di Rádio Monte Roraima. Mentre una targa in tre lingue
ricorda ai visitatori che l’edificio in cui stanno per entrare è stato
costruito nel 1920 ed è dedicato a Giovanni XXIII.

L’entrata, ariosa e semplice, ha pareti color azzurro
intenso. Di lato un piccolo busto ricorda il beato Giuseppe Allamano, fondatore
dei missionari della Consolata. Poco più in là, appesi uno accanto all’altro,
ci sono due quadretti in cui la radio si presenta. Costituiscono una sorta di
biglietto da visita e una dichiarazione d’intenti, chiara e completa. In uno si
raccontano visione e missione, nell’altro si elenca, punto per punto, la linea
editoriale che l’emittente si è data.

Rádio Monte Roraima vuole – si legge – «essere un
riferimento per una comunicazione di qualità nello stato di Roraima.
Contribuire alla trasformazione sociale attraverso una programmazione
credibile, aperta, diversificata e partecipativa, in difesa della giustizia
sociale, dell’ambiente, dei diritti umani e della fede cattolica. Privilegiare
il servizio in favore della vita e della cittadinanza. Dare voce ai meno
favoriti. Produrre e diffondere informazione, formazione e intrattenimento con
qualità, etica e imparzialità. Contribuire al progresso sociale, culturale,
artistico e religioso della società».

La creazione di RádioMonte Roraima non è stata né facile
né rapida. Sulla necessità di disporre di un mezzo d’informazione aveva infatti
iniziato a ragionare mons. Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.

«Negli ultimi anni a Roraima – scrive Mongiano nella sua
autobiografia -, pensai che una radio sarebbe stata utile per la Diocesi,
affinché costituisse un’alternativa ai mezzi di comunicazione locali,
totalmente nelle mani del potere politico. Parlai con persone competenti che mi
suggerirono di costituire una fondazione culturale educativa, che sarebbe stata
responsabile della radio, senza esporre la Diocesi ed il vescovo agli attacchi
degli ascoltatori»1.

Nel febbraio del 1991 la diocesi di Roraima costituisce
la «Fondazione educativa culturale Giuseppe Allamano», che tra i suoi obiettivi
ha anche la radiodiffusione. Finalmente, 12 anni dopo, il 29 dicembre del 2002,
nasce «Rádio Monte Roraima Fm 107,9».

Oggi l’emittente è una realtà consolidata forte di un
numero crescente di ascoltatori. Il suo direttore è una giovane giornalista di
nome Janaina Souza. «Nella radio la maggioranza dei collaboratori sono uomini e
dunque avere un direttore donna è una sfida ancora maggiore», ci dice con un
sorriso.

Non soltanto
informazione

Con la formazione e l’intrattenimento, l’informazione è
uno dei tre pilastri della programmazione di Rádio Monte Roraima. Ci sono due
radiogiornali al giorno – Joal
da manhã e Joal da tarde – prodotti da un piccolo
gruppo di giornalisti. Inoltre, l’emittente trasmette un notiziario nazionale (Joal Brasil hoje) in
collegamento con Rádio Aparecida, un’emittente di San Paolo che lo produce per la Rede Católica de Rádio, un
network di radio cattoliche brasiliane.

«Oltre ai radiogiornali – spiega Janaina -, abbiamo
programmi educativi e culturali, ma anche di intrattenimento. Siamo inoltre
l’unica radio dello stato che ha un programma per bambini, Cantinho da criança
(L’angolo dei bambini), trasmesso il sabato. Il lunedì abbiamo invece un
programma, A voz dos povos indígenas (La voce dei popoli indigeni), dedicato agli indigeni».

Dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, ha un programma
di 5 minuti ogni mattina dal lunedì al venerdì: Palavra de vida (Parola
di vita). Padre Gianfranco Graziola affronta invece le tematiche sociali nel
programma Justiça e paz (Giustizia e pace).

La diga «Bem Querer»

Da tempo a Roraima si discute della costruzione sul Rio
Branco della centrale idroelettrica denominata Bem Querer, che
significa «Ben Volere», un nome che suona ironico, considerando la grande
opposizione che l’opera sta incontrando tra la popolazione locale. La centrale
rientra nel Pac2 (Plano de Aceleração
do Crescimento, Piano di accelerazione
della crescita) del governo brasiliano e dovrebbe sorgere a Caracaraí, 125
chilometri da Boa Vista, in prossimità delle rapide (Corredeiras do Bem Querer)
dichiarate sito archeologico dall’«Istituto del patrimonio storico e artistico
nazionale» (Iphan)2. La sua costruzione avrebbe effetti pesanti su
popolazioni, ambiente e clima.

Poiché Rádio Monte Roraima ha tra i suoi obiettivi
dichiarati la difesa dell’ambiente, chiediamo un parere a Janaina. «Il Rio
Branco – spiega la direttrice – è il nostro fiume, quello dove tutti noi
facciamo il bagno. Oggi il progetto della diga lo pone in un pericolo serio.
Per questo moltissimi si stanno unendo per cercare di fermare quest’opera, a
cominciare dal movimento Puraké3, che è
anche il nome di una nostra trasmissione. Noi contestiamo che tutto sia stato
fatto in segreto, senza un coinvolgimento delle persone che saranno colpite
dalla sua costruzione. Chiediamo trasparenza».

Facciamo notare a Janaina che opporsi alla diga è una
scelta politica. «Rientra nei nostri compiti dare voce ai meno favoriti. E chi
sono i meno favoriti dalla costruzione della centrale? Sono i ribeirinhos, i
pescatori, gli indigeni, cioè tutti coloro ai quali la radio vuole dare voce»4.

La libertà fa
«audience»

Credibilità, imparzialità, indipendenza.
Praticamente ogni media afferma di possedere queste caratteristiche.

Chiediamo a Janaina se la radio abbia mai
avuto problemi con il potere politico, che a Roraima non ha mai brillato né per
onestà né per vicinanza ai più deboli. Lei tentenna. Forse preferirebbe evitare
di rispondere. Alla fine dice: «Sì, abbiamo avuto problemi, soprattutto durante
gli anni dell’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol. Ci
minacciavano. Non volevano parlare con i nostri inviati».

La direttrice si riferisce agli eventi accaduti prima e
dopo il 2005, quando l’allora presidente Lula firmò il decreto di omologazione
di Raposa, ben 12 anni dopo l’identificazione dell’area, abitata dalle etnie
macuxi, wapixana, ingarikó, taurepang e patamona.

«Non è facile – conclude Janaina – essere una radio
slegata dal potere politico. Noi rispondiamo soltanto alla Fondazione Giuseppe
Allamano. Il pubblico è con noi e ci sta premiando con un ascolto sempre
maggiore».

A Rádio Monte Roraima la libertà costa, ma fa «audience».

Paolo Moiola*

Paolo Moiola




Senza la poesia di Chagall

Ai confini dell’Europa (4): la Bielorussia


Indipendente dal 1991, la Bielorussia ha finora avuto un
solo presidente: Aljaksandr Lukašenka, da molti considerato «l’ultimo dittatore
d’Europa». L’economia del paese si sostiene grazie a un forte intervento
statale e ai rubli di Mosca. Alla quale Minks guarda con deferenza.

Marat fa
l’archeologo. O qualcosa del genere. Scava buche quadrate in campi di grano a
perdita d’occhio. Scava un quadrato di quattro metri di lato per 20 centimetri
di profondità, poi passa a un quadrato a fianco. Quando tutti i quadrati sono
allo stesso livello ricomincia dal primo scendendo di altri 20 centimetri. La
terra è nera come la pece, e morbida. Non è un lavoro poi così duro. Marat
scava le sue buche nella speranza di trovare qualche reperto che provi la
presenza di popolazioni stanziali in questa regione già nell’età del bronzo.
Non è una cosa da poco, perché dimostrerebbe che la civiltà bielorussa è antica
almeno quanto quella baltica. Marat e i suoi studenti volontari scavano già da
un paio di settimane, ma tutto quello che hanno trovato è un chiodo
arrugginito, difficilmente appartenente all’età del bronzo.

Marat ha meno di trent’anni. Insegna all’università a
Minsk, ma il suo campo archeologico è in un villaggio a nord, quasi al confine
con la Russia. Vive con 150 euro al mese e sogna città sepolte. «I professori
universitari guadagnano meno di tutti in Bielorussia», dice. «Sembra che di noi
qui non abbia più bisogno nessuno. Valgo meno di un cellulare o un computer».
Si infervora quando descrive ai suoi studenti la versione sovietica
dell’evoluzionismo (una teoria pseudoscientifica che rigetta il darwinismo) e
alla sera alza un po’ il gomito. Ecco, Marat è un po’ come il paese in cui
vive. Giovane e squattrinato, e costretto in un isolamento culturale che non è
mai venuto meno dalla caduta dell’impero sovietico. La Bielorussia guarda al
futuro, ma nello stesso tempo è appesantita dalla forza gravitazionale di un
passato di cui non si è mai del tutto liberata.

Lukašenko, padre e
padrone

La Bielorussia indipendente ha una storia di poco più di
vent’anni. Nata col crollo dell’Unione Sovietica non si è però mai distinta, a
differenza dei vicini paesi baltici, per una particolare voglia di indipendenza
da Mosca. Le ragioni sono molteplici e sicuramente legate alla vicinanza
storico culturale tra il popolo bielorusso e quello russo. Ma determinante è
stata la guida autoritaria assunta dal suo primo e tuttora unico presidente,
Aljaksandr Lukašenka (Aleksandr Lukašenko, nella traslitterazione dal russo)
che ha sin da subito impedito un’apertura della società civile all’Occidente.
Bene o male che sia, sembra che un torpore lungo due decenni affligga la
Bielorussia castrandone gran parte delle potenzialità.

Il regime di Lukašenka, che ama farsi chiamare batka, padre, ha
annullato sin da subito ogni opposizione politica, ridotto a zero la libertà di
stampa e soppresso sul nascere con la forza qualunque contestazione al suo
potere. Tutto in Bielorussia è accentrato nelle sue mani. Nonostante l’immagine
di uomo semplice e del popolo, a cui tiene tanto, è – secondo molte fonti –
l’uomo più ricco del paese. Un cablogramma dell’ambasciata americana a Minsk,
diffuso da Wikileaks, stima il suo patrimonio in 9 miliardi di dollari.

Covoni di paglia, boschi, isbe dai comignoli sbilenchi,
vacche per strada. Sono i paesaggi dipinti da Chagall, che proprio in questa
regione nacque e trascorse la sua infanzia. Paesaggi in cui gli amanti volano
tenendosi per mano e i violinisti suonano sui tetti. Ma non c’è più niente di
poetico, ora qui. Il villaggio dove scava Marat è a un tiro di schioppo da
Navapolatsk. Navapolatsk è una città artificiale. Fu fondata nel 1958 per dare
alloggio alle migliaia di lavoratori della raffineria che stava sorgendo tra i
campi di grano. Nata in un battibaleno grazie ai prefabbricati dell’edilizia
sovietica che si tiravano su come i Lego, oggi è una città di quasi 100mila
abitanti con ospedali, università e teatri. Ma la Naftan, il complesso
industriale che dà da vivere ai suoi abitanti, è persino più grande. Oltre alla
raffineria comprende una centrale elettrica e diversi stabilimenti dove
lavorano migliaia di persone. Come tutte le industrie bielorusse, la Naftan è
di proprietà dello stato. Così come la stragrande maggioranza delle terre
coltivate (secondo alcune fonti, oltre il 90%), ancora organizzata secondo un
sistema di collettivizzazione che non è cambiato dai tempi dell’Urss. Lo stato
in Bielorussia è tutto, e lo stato è batka.

Lukašenka è spesso definito l’ultimo dittatore d’Europa.
Alle ultime elezioni presidenziali del 2010 l’80% dei votanti ha scritto il suo
nome sulla scheda, relegando a un misero 2% il secondo candidato più votato,
Andrej Sannikov. L’esperienza è costata a Sannikov un anno di prigione, prima
di ricevere la grazia da Lukašenka. Ad ogni modo, batka può affrontare
serenamente le prossime elezioni del 2015 perché, anche se Sannikov è libero,
numerosi altri esponenti dell’opposizione riempiono le galere bielorusse. Le
elezioni che lo hanno confermato al potere per la quarta volta consecutiva, non
diversamente dalle precedenti, sono state giudicate dall’Osce lontane dagli
standard inteazionali. Per questo motivo, per aver azzerato l’opposizione
politica e per presunte gravi violazioni dei diritti umani, la Bielorussia di
Lukašenka è andata incontro alle sanzioni dell’Europa, che hanno colpito il
sistema di potere del presidente.

Un’economia di
miracoli e misteri

Un pulmino della Naftan porta Marat e i suoi studenti in
città per il giorno libero. È sgangherato e dimostra più anni di quelli che ha.
Forse è perché anche la Naftan è entrata nella lista delle sanzioni europee per
gli stretti legami con Lukašenka. Si va alla banja, la sauna russa.
Anche la banja è della Naftan, come gran parte delle strutture
ricreative di Navapolatsk. Potrebbe sembrare claustrofobica una città che vive
in funzione di uno stabilimento e in cui quasi tutto appartiene alla fabbrica, «ma
almeno qui tutti hanno un lavoro», dice Marat. È uno dei «miracoli» di batka, un tasso di
disoccupazione ufficiale che non arriva all’1%. Ma sono in molti, compresi
oppositori e critici al governo, a ritenere che la cifra reale sia molto più
alta. Comunque, andando in giro per il paese, la sensazione è quella di un
elevatissimo tasso di occupazione, soprattutto tra i giovani che, non appena
finiscono gli studi, ricevono spesso offerte di lavoro da enti pubblici. Lungi
dall’essere sintomo di una situazione florida, questa condizione è piuttosto
l’effetto di salari tra i più bassi d’Europa e di un’economia drogata, per
certi versi pianificata, che non si è mai realmente aperta al mercato. La
Bielorussia è, insieme al Kazakistan, parte della neonata «Unione economica
eurasiatica», guidata da Mosca. Dalla Russia Minsk dipende per un terzo delle
proprie esportazioni, per la metà degli investimenti esteri e per il 99% di
foiture di gas a un prezzo pari a quello praticato da Gazprom nel mercato
interno. Praticamente un regalo. Senza i rubli di Mosca, che oltre a finanziare
di fatto il mercato bielorusso ha recentemente iniettato liquidità per un
valore stimato in 3 miliardi di dollari sotto forma di prestito, il paese
guidato con pugno duro da Lukašenka rischierebbe il default.

In cambio, Lukašenka è da sempre il più fedele alleato di
Putin. Il primo a intravedere una forma di riunificazione con la Russia, il più
volenteroso a concedere suolo per le basi militari di Mosca, il più solerte a
favorire un’exit strategy dalla crisi in Ucraina offrendosi come mediatore tra il
Cremlino, Kiev e i separatisti del Donbass. E anche se, recentemente, ha fatto
un po’ la voce grossa con il suo mentore, criticando l’annessione della Crimea
e rifiutandosi di riconoscere l’autonomia delle regioni separatiste nell’Est
dell’Ucraina, il totale appiattimento sulla politica russa non è mai stato
messo in discussione.

Dopo le pianure, ecco
Minsk

L’autostrada che attraversa il paese da est a ovest è
noiosa come un mare in calma piatta. Pianure, pianure, pianure. E poi, dopo
ore, c’è Minsk. La capitale si staglia come una cattedrale sull’orizzonte
bielorusso. Una cattedrale laica fatta di asfalto e semafori. Minsk non è come
te l’aspetti. Non è come qualsiasi altra grande città ex sovietica a cui i
soldi hanno cambiato il volto: colori, insegne luminose, cartelloni
pubblicitari. Non è, per intenderci, una piccola Mosca. È piuttosto una
versione rimodeata di quella che è stata per decenni, dopo essere risorta
dalle macerie della Seconda guerra mondiale, la capitale della repubblica
socialista sovietica di Bielorussia. Edifici magniloquenti, larghi viali tesi
come rette, piazze d’armi.

Le insegne al neon ci sono, ma sono perlopiù stelle rosse
o medaglie al valore militare. I cartelloni pubblicitari inneggiano alla gloria
della patria e gli striscioni alla vittoria della Grande guerra patriottica
contro il nazifascismo. Lenin è lì, saldamente al suo posto e l’emblema
nazionale, presente su edifici pubblici e non, non è altro che lo stemma
sovietico cui è stata aggiunta la sagoma dei confini nazionali. E poi di tanto
in tanto sorge un edificio in vetro e cemento, tra il kitsch e il postmoderno,
come la biblioteca nazionale, un dodecarnedro ricoperto di led colorati che di
notte s’illumina come la cassarmonica alla festa di San Rocco. E ancora
scheletri di edifici nascosti dalle gru e progetti riprodotti in gigantografie
che danno a Minsk l’immagine di una città rampante e in evoluzione. E forse lo è.

Super ricchi, ma non
oligarchi

Il fatto che il News Café sia su via Karl Marx non
sembra impensierire nessuno dei suoi clienti. È quel tipo di locale che si
definisce esclusivo solo perché per entrare bisogna avere il portafogli ben
ripieno. Tutti gli altri sono esclusi. Un uomo in abito scuro e occhiali da
sole, seduto all’interno del locale, scherza con due ragazze belle come delle
veline. Loro lo adulano e ridono alle sue battute, e forse non è solo merito
della bottiglia di Moët & Chandon nel secchiello. Se un insegnante come Marat guadagna 150
euro al mese qui a Minsk c’è una sparuta ma solida élite che ne guadagna
150mila o forse più. La cosa non sarebbe né strana né di per sé disdicevole – e
anche comune a tutte le grandi città dell’ex Urss – se non fosse per il fatto
che gran parte della ricchezza è in mani pubbliche e che Lukašenka ha sempre
fatto della lotta ai super ricchi una sua bandiera. In questo la Bielorussia
non fa alcuna differenza con altri stati post sovietici come la Russia stessa o
l’Ucraina. Benché, però, una cerchia di miliardari ruoti attorno al capo del
paese, non si può propriamente parlare di oligarchi. Gli oligarchi russi e
ucraini hanno soldi e potere, i super ricchi bielorussi hanno tanti soldi, ma
il potere è saldo nelle mani di batka.

Davanti al palazzo del presidente, sotto un Lenin che non
sembra particolarmente a disagio, sorge uno dei più grandi centri commerciali
sotterranei d’Europa. Con tre piani di negozi e ristoranti lo Stolitsa shopping mall è
il posto più amato dai consumatori compulsivi di Minsk. Ma è un posto a modo
suo democratico, perché non ti chiede un rublo per ammirare le sue vetrine, i
suoi pavimenti di marmo, i suoi ascensori di vetro e i suoi bagni con la musica
di sottofondo. Tre piani più sopra, in superficie, la vita vera scorre sotto
forma di un ingorgo di macchine e anziane signore che gettano molliche di pane
ai colombi, come a ricordare che ci sono due città e due mondi, uno sotterraneo
e uno che si sforza di vivere ogni giorno alla luce del sole.

Eppur si muove

Non sono solo un paio di palazzi stravaganti e qualche
grattacielo a fare della Bielorussia un paese che guarda al futuro. Nonostante
tutto, nonostante la profonda crisi, un’economia rigida e poco competitiva, gli
ostacoli posti all’impresa privata e l’arretratezza dell’industria, c’è una
Bielorussia tecnologica che cerca di venire fuori come un germoglio
dall’asfalto. Non lontano dal dodecarnedro luminescente della biblioteca sorge un
complesso molto più sobrio ma decisamente più all’avanguardia. Il Belarus Hi-Tech Park ambisce
a essere una specie di Silicon Valley bielorussa, un incubatore di giovani menti informatiche
che lì hanno la possibilità di sviluppare le proprie idee. Qualcosa come 140
imprese ad alto contenuto tecnologico sfoano software e servizi informatici
per clienti sparsi in 50 paesi. E attirano persino soldi dall’estero. Il merito
del Belarus Hi-Tech
Park non è solo di un guizzo di lungimiranza dei
consiglieri di Lukašenka, ma anche e soprattutto di una generazione di giovani
che assorbe il meglio di un sistema d’istruzione (con molte pecche) e che si dà
da fare per essere al passo con i coetanei dei paesi più avanzati.

Visto da qui, il mondo di Marat sembra lontano anni luce,
e forse lui lo sa. Per questo alla sera, quando alza un po’ il gomito, va fuori
sotto un cielo stellato e lancia il suo grido ai satelliti artificiali: «Sputnik!».

Danilo Elia

Danili Elia




Pazzia: l’ultimo muro

Guarire di malattie mentali si può


I medici tendono a considerare la pazzia inguaribile. Da
tenere sotto controllo con la chimica. Forti sono le pressioni delle
multinazionali del farmaco. Ma guarire si può. Come dimostrano alcuni
psichiatri e le storie che hanno raccolto. Cosa vuol dire guarire da una
malattia psichiatrica? E quali sono i fattori determinanti per uscie? Alcune
risposte in questo servizio.

«La prima
volta che sentii le voci avevo 18 anni, ero da poco andata via di casa e vivevo
sola. L’episodio durò una settimana e non lo dissi a nessuno. Dopo varie
vicissitudini, quando avevo 42 anni mia madre morì; da allora le voci non mi
hanno più abbandonata per diversi anni». A parlare è Lia Govers, classe ’52, di
origine olandese ma residente in Italia dall’età di 20 anni. Settima di 11
figli, da piccola Lia assiste allo sfacelo familiare legato alla morte di un
fratellino: la mamma finisce per tre mesi in uno Spdc, Servizi psichiatrici di
diagnosi e cura (i cosiddetti «repartini», nda), il padre – dopo aver tentato di dissotterrare
il figlioletto al cimitero – si dà all’alcol. Lia e i suoi fratelli sono
trascurati e costretti a una vita di sacrifici. Lei, forse più fragile, patisce
fin da piccola un senso di abbandono, non sentendosi amata e accettata dalla
madre.

Una volta morta la mamma, e con lei la speranza di
ricucire il loro rapporto, si scatena la follia. «Le voci esistevano solo nella
mia testa ma per me erano reali, e in qualche modo mi tenevano compagnia. Con
il passare del tempo però perdevo sempre più il contatto con la realtà,
arrivando a separarmi da mio marito e da mio figlio 13enne, e a restare
disoccupata» racconta Lia, a cui verrà poi diagnosticata una schizofrenia paranoide.
«Mi sentivo perseguitata, ero convinta che tutti ce l’avessero con me, nei miei
deliri e allucinazioni mi vedevo rapita, stuprata, lasciata senza cibo…». A un
certo punto Lia si convince di essere la principessa russa Anastasia e, rimasta
senza lavoro, non ne cerca un altro perché crede che presto potrà riavere la
sua identità e le sue ricchezze. Inoltre non paga e non ritira più le bollette,
persuasa che nella cassetta postale ci sia una bomba pronta a esploderle in
mano. Vedendo ovunque nemici e ingiustizie, Lia presenta alla Procura ben 160
esposti, per cui il tribunale di Torino decide di affidare il suo caso allo
psichiatra Giuseppe Tibaldi.

«In un certo senso è da lì che è partita la mia “storia
di guarigione”» racconta Lia. «Il giorno dello sfratto (perché non pagavo
l’affitto), è arrivato Tibaldi proponendomi un ricovero in ospedale. Sono
scappata e lui mi ha inseguita per la città ma sono riuscita a seminarlo.
Fatica sprecata, perché l’indomani lui e due carabinieri mi hanno ritrovata e costretta
al Tso» (Trattamento sanitario obbligatorio, che prevede il ricovero coatto in
repartino psichiatrico, nda). Sono iniziate così le cure farmacologiche, seguite da
un lungo ricovero in comunità psichiatrica e da una psicoterapia durata 10
anni. «Nel 2002, d’accordo con il medico, ho smesso di prendere i farmaci, e
nel 2009 ho terminato anche la psicoterapia. Adesso non sento più le voci e mi
sono liberata completamente dai miei deliri. Un fattore importante è stato
esaminare ed elaborare dentro di me il rapporto irrisolto con mia madre, e in
seguito le difficoltà di relazione con mio marito e una mia sorella».

L’illusione del
clinico

Oggi Lia conduce una vita normale, è tornata con il
marito e fa volontariato come facilitatrice in un gruppo di auto mutuo aiuto.
Inoltre scrive e partecipa a convegni per sensibilizzare l’opinione pubblica
sulla possibilità di superamento della malattia mentale. Qualche anno fa ha
anche pubblicato la sua autobiografia su stimolo del dottor Tibaldi, impegnato
dal 2002 nel raccogliere le «Storie di guarigione»: questo il titolo del
concorso letterario da lui promosso, che dal 2008 a oggi ha raccolto quasi un
migliaio di testimonianze da tutta Italia (vedi box).

Ma perché questa ostinazione nel collezionare i casi
riusciti? «Ci ho messo un po’ ma, a un certo punto del mio percorso
professionale, ho capito che considerare i pazienti psichiatrici come persone
senza scampo è un grave errore, da combattere con ogni mezzo» spiega Tibaldi,
che cornordina il Centro Studi e Ricerche in Psichiatria dell’Asl To2 di Torino. «Gli
studi scientifici più accreditati degli ultimi 20 anni dimostrano infatti che
le percentuali di guarigione nei pazienti psicotici superano il 50% dei casi;
anche se per arrivarci possono occorrere diversi anni».

Dove nasce allora l’idea che la follia sia un «carcere a
vita»? «I motivi sono diversi» spiega Tibaldi, «uno di questi è il pessimismo
prognostico, cioè l’atteggiamento che si forma tra psichiatri e operatori
lavorando nei «repartini»: qui i malati arrivano nel momento dell’acuzie,
quando sono più scompensati, spesso in regime di Tso.

I clinici hanno continuamente sotto gli occhi i malati
vittime di ricadute o cronici, e tendono a estendere questa percezione a tutti
i pazienti con un disturbo psichiatrico: l’illusione del clinico – smentita
dalle evidenze scientifiche – è perciò che tutti i pazienti psichiatrici
restino tali a vita. Mentre le persone come Lia, ricoverate solo una volta o
due, spariscono dalla vista dei servizi e vengono dimenticate in fretta». «L’illusione
del clinico» è così radicata che, quando sentono di schizofrenici guariti,
molti operatori replicano contestando la diagnosi: «Se è guarito, vuol dire che
non era davvero schizofrenico».

Sostenere la guaribilità della malattia mentale, precisa
Tibaldi, non significa affermare che tutti i pazienti psichiatrici guariscano,
ma che le probabilità positive superano quelle negative. Si tratta di una «ragionevole
speranza», che oltre tutto può stimolare i pazienti (e le loro famiglie) a
impegnarsi maggiormente nei percorsi di riabilitazione. Come ha mostrato lo
psichiatra svizzero Luc Ciompi, le aspettative favorevoli condivise da
operatori, familiari e pazienti favoriscono un’evoluzione positiva della
malattia. Vale a dire: se la persona sofferente e quanti se ne prendono cura
hanno fiducia nella possibilità della guarigione, è più probabile che questa si
realizzi.

Interessi delle
multinazionali

Dietro l’idea che le malattie psichiatriche siano
condanne a vita sta anche la «vergognosa contaminazione delle multinazionali
del farmaco», come spiega Ugo Zamburru, psichiatra responsabile del Centro
Diuo Leoncavallo dell’Asl Torino 2, attivo promotore dei reinserimenti socio
lavorativi di pazienti ed ex pazienti. Le case farmaceutiche, ci dice, hanno interesse
a far si che la malattia mentale sia ritenuta cronica, così da poter continuare
a vendere i loro prodotti ai pazienti per tutta la vita, con la promessa non di
guarirli ma di aiutarli a tenere sotto controllo i sintomi più gravi e
disturbanti. «Le aziende sovvenzionano università e convegni, offrono viaggi,
cene e regali ai medici per spingerli a pubblicizzare e prescrivere i propri
farmaci». Il guaio è, come sottolinea anche Tibaldi, «che i ricercatori
finanziati da queste aziende finiscono per sostenere che l’unica causa della
malattia psichica sia da cercare nella biologia – sbandierando perciò come
unico trattamento valido quello farmacologico – ignorandone invece le
componenti psicologiche e sociali il cui peso è fondamentale».

Come ha rivelato il libro inchiesta di Robert Whitaker «Indagine
su un’epidemia» (vedi box), si assiste oggi a un inquietante paradosso. Se da
50 anni a questa parte si spende sempre più in psicofarmaci – in Usa oltre 25
miliardi di dollari l’anno vanno in antidepressivi e antipsicotici, cifra
superiore al Pil del Camerun – non si è però verificata, come ci si poteva
aspettare, una parallela riduzione di queste patologie. Al contrario, è in atto
una vera e propria «epidemia» di pazienti psichiatrici, da cui le aziende traggono
lauti guadagni.

Un esempio fra tutti la Eli Lilly: nel 1987 aveva un
giro d’affari di 2,3 miliardi di dollari, ottenuti dalla vendita di antibiotici
e medicine cardiovascolari; poi nell’88 iniziò la vendita di fluoxetina (un
antidepressivo) e nel ’96 di olanzapina (un antipsicotico, commerciato in
Italia con il nome Zyprexa): a fine 2000 questi due farmaci da soli garantivano
metà delle entrate dell’azienda, arrivate a 10,8 miliardi di dollari.

Il farmaco, un
salvagente

Ma quale nesso esiste tra farmaco e guarigione? «Il
farmaco da solo non guarisce nessuno» dichiara convinto Roberto Rolli. Lui,
oggi 65enne, ha combattuto per 25 anni contro una psicosi maniaco-depressiva
che l’ha portato a ben 16 ricoveri tra ospedali e strutture psichiatriche, in
una delle quali negli anni ’70 è stato anche sottoposto a elettrochoc senza
anestesia. «Il farmaco secondo me serve solo come stampella» dice Roberto, che
per sua scelta continua ad assumere uno stabilizzatore dell’umore anche se dal
’98 non ha più avuto quelle crisi e quei deliri maniacali che lo portavano a
gesti estremi, come entrare in casa sfondando la porta con la motosega o
buttarsi nel Po per ripescare i documenti gettati un attimo prima. «Ma la
guarigione dipende da altro, non dalle medicine. Nel mio caso, è stato
importante aver trovato un bravo psicoterapeuta (il dottor Zamburru, nda) e mettermi a
frequentare i gruppi di auto mutuo aiuto».

«Il farmaco funziona come un salvagente: se non lo usi,
rischi di affogare, ma se lo usi sempre, non impari a nuotare» spiega Tibaldi. «Guarire
è imparare a nuotare: quello che dovremmo fare noi specialisti sarebbe offrire
il corso di nuoto (e non solo il salvagente)». Ed è importante che gli iscritti
al corso, finché non sanno nuotare da soli, si attengano alle istruzioni di un
buon allenatore. «Fuor di metafora, succede spesso che i pazienti, quando
iniziano a sentirsi meglio, decidano di sospendere di colpo l’uso dei farmaci,
senza consultare nessuno: questa è una scelta controproducente, perché aumenta
il rischio delle ricadute. Il salvagente bisogna sgonfiarlo poco alla volta».

I fattori che aiutano
a guarire

Ma cosa significa guarire per un malato psichico? «La
guarigione è un percorso in cui la persona riprende in mano il controllo della
propria vita, acquisendo la chiara consapevolezza della propria esperienza
psicotica: Lia oggi sa che quelle erano “voci” e non sue doti telepatiche, come
credeva all’epoca» spiega Tibaldi. «Non è detto che scompaiano tutti gli
aspetti problematici di sé, ma l’esperienza passata (pensieri, ricordi,
sintomi) perde d’invasività, non è più lei a dominare la persona, come si vede
bene nel finale del film A beautiful mind». In un certo senso, non ci si libera mai della propria
depressione o della propria psicosi, ma la si integra in maniera «sana» entro
il proprio modo di esistere. «Non è un tumore che si toglie, ma una parte che
perde di peso e virulenza nella vita mentale della persona, acquistando un
diverso significato».

«Toando all’esperienza di Roberto, secondo i
protocolli inteazionali non lo si può dire “davvero” guarito perché continua
a usare farmaci, anche se per sua scelta» chiarisce Zamburru. «Ma più che di
guarigione – che in psichiatria è un concetto labile e sfumato, come quello di
malattia – interessa parlare di “qualità della vita”. Da questo punto di vista
Roberto sta decisamente bene: ha smesso di bere, non ha più le crisi, esercita
la sua professione di avvocato in maniera efficace, ha ripreso la vita
familiare con moglie e figli, ed è anche impegnato nel promuovere i diritti dei
malati». Ma quali sono i fattori che aiutano a guarire, o comunque a recuperare
una vita serena e dignitosa? «Intanto è di grande aiuto avere una famiglia che
ti sostiene, disposta a partecipare al percorso di cura, e avere degli amici:
uno studio degli anni ’90 ha mostrato che il rischio di ricadute è minore se si
ha una rete sociale di almeno sette persone di riferimento, contro il rischio
di isolamento» spiega Zamburru.

È poi importante stabilire una buona relazione tra il
malato e i medici che se ne prendono cura (la cosiddetta «alleanza terapeutica»).
Ed è utile poter contare sulle capacità e le competenze preesistenti nel paziente
prima della malattia. «Anche una situazione economica decente aiuta. Viceversa
la povertà, la crisi del lavoro ecc. possono essere fattori di rischio per la
salute mentale» dice Zamburru. Per questo nel 2008 ha deciso di fondare il Caffè
Basaglia, un circolo culturale e ricreativo che dà lavoro a ragazzi con
problemi psichici, impiegati in attività di cucina, servizio ai tavoli, ecc.
(www.caffebasaglia.org). «In base alla nostra esperienza la malattia è
superabile con l’accettazione sociale, dando alle persone dignità e
riconoscendo loro un ruolo, non solo episodico».

Per questo è importante «concedere delle seconde
possibilità e, se occorre, delle terze e delle quarte, anche ai pazienti malati
da tempo e per i quali si sono già tentati percorsi riabilitativi o
d’inserimento lavorativo» sostiene Tibaldi. «Non bisogna arrendersi, neanche
davanti alle situazioni che sembrano più disperate. Esistono casi come quello
di Ken Steele, un americano malato di schizofrenia dall’età di 14 anni, che è
guarito dopo 32 anni». Mai darsi per vinti, dunque. Come dice Tibaldi, «l’idea
dell’inguaribilità è l’ultimo muro del manicomio che ci resta da abbattere»

Stefania Garini

Stefania Garini




Duvalier: scomparso nell’impunità totale

Il presidente a vita è morto

Baby Doc è morto. Improvvisamente. Di morte naturale. Pochi
uomini hanno causato tanta sofferenza. E lui ha trascorso la sua vita nello
sfarzo. In totale impunità. L’uomo che, insieme al padre, ha più contribuito
alla dannazione di Haiti. La società civile lottava per procurargli un giudizio
terreno. E lui aveva in tasca un passaporto diplomatico. Restano il dovere di
memoria e il processo ai suoi complici.

Quattro ottobre 2014, il dittatore Jean-Claude Duvalier muore a 63
anni di attacco cardiaco. A casa sua, a Port-au-Prince.

Ma
facciamo un passo indietro.

Il 16 gennaio 2011, a un anno dal terremoto, Duvalier
atterra ad Haiti dopo un esilio (più che dorato) di 25 anni. È un duro colpo
per gli attivisti del movimento sociale haitiano e per famigliari e vittime
della dittatura duvalierista. Le associazioni di difesa dei diritti umani, il
movimento femminista, quello contadino, le organizzazioni ecclesiali di base,
gli intellettuali militanti nei partiti politici clandestini, avevano fatto un
fronte unico per cacciare Jean-Claude quello storico 7 febbraio del 1986.

Il
dittatore e i suoi collaboratori, protetti da Usa e Francia, riuscirono a
fuggire.

Il
movimento sociale a quel tempo aveva impiegato vent’anni a formarsi e
consolidarsi, ma restava comunque poco organizzato e non aveva una struttura e
un programma politico. Perseguiva un obiettivo: farla finita con ventinove anni
di terrore.

Jean-Claude, all’età di 19 anni, era succeduto al padre
François Duvalier, che aveva «regnato» nel terrore dal 1957 alla morte nel
1971. Le vittime del regime dei Duvalier sono almeno 30.000, ma alcune fonti
parlano del doppio, senza contare chi moriva sui barconi tentando di fuggire
dal paese (i boat people). Oltre alla scia di sangue che Jean-Claude aveva
lasciato dietro di sè, fuggendo aveva svuotato le casse dello stato: si parla
di un miliardo e mezzo di dollari. Emorragia di risorse che aveva trascinato
nel baratro la già debole economia haitiana e che ha pesanti conseguenze ancora
oggi sulla vita della popolazione.

Il
ritorno di Duvalier ad Haiti «è un disastro per le vittime e i loro famigliari,
per tutti coloro che hanno lottato contro la dittatura» ci confida nel gennaio
2011 padre Jean-Yves Urifié, un missionario francese in prima linea nella lotta
per la democrazia.

Le vittime denunciano

Passato lo sbigottimento
iniziale, le prime vittime sporgono denuncia contro il dittatore. Michèle
Montas, giornalista e già portavoce del segretario generale delle Nazioni unite
Ban Ki Moon, è tra le prime. «Occorre che la gente testimoni, per non
dimenticare» dichiara all’agenzia AlterPresse, mettendo l’accento sul dovere di memoria. Il 19 gennaio la
Montas sporge denuncia per crimini contro l’umanità, detenzione arbitraria,
esilio, distruzione di proprietà privata, tortura, violazione dei diritti
civili e politici. Moglie del noto giornalista Jean Dominique (assassinato il 3
aprile del 2000) sottolinea anche gli assalti del regime Duvalier alla libertà
di espressione e le violazioni al diritto dell’informazione. Radio Haiti Inter, di Dominique e Montas il 28
novembre 1980 era stata distrutta dalle milizie di Duvalier e dall’esercito e i
giornalisti arrestati, torturati ed esiliati.

Alcune
organizzazioni di difesa dei diritti umani si uniscono alle vittime e, nel
febbraio del 2011 fondano il «Collettivo contro l’impunità». Oltre a protestare
contro il ritorno del dittatore, l’obiettivo del Collettivo è fare in modo che
Duvalier sia giudicato per crimini contro l’umanità e crimini economici.

La storica associazione
femminista Kay Fanm cornordina il Collettivo, composto anche dal movimento donne
haitiane per l’educazione e lo sviluppo (Moufhed), il Centro ecumenico dei
diritti umani (Cedh) e la Rete nazionale di difesa dei diritti umani (Rnddh),
oltre che da 22 vittime che hanno presentato denuncia.

Lotta contro
l’impunità

Danièle Magloire, sociologa
di fama internazionale, membro di Kay Fanm, è la cornordinatrice del Collettivo.

L’incontriamo a
Port-au-Prince alcuni mesi prima della morte di Duvalier: «Ad Haiti le denunce
possono solo essere individuali, ma il Collettivo serve a essere più forti per
portare avanti i dossier e, in parallelo, continuare un lavoro di memoria, per
ricordare, soprattutto ai giovani che non l’hanno conosciuta, cosa ha fatto la
dittatura. E quindi per combattere i revisionisti. Per questo facciamo
commemorazioni: quest’anno per il 7 febbraio abbiamo lanciato un sito web:
“Haiti lotta contro l’impunità” (www.haitiluttecontre-impunite.org).

Abbiamo collaborato al film
del regista haitiano Aold Antonin, insieme a una cinquantina di vittime: Haiti le règne de l’impunité (Haiti il regno
dell’impunità)». «Il film presenta una serie di testimonianze di parenti delle
vittime, di vittime sopravvissute alla repressione e alle torture durante la
dittatura dei Duvalier» scriveva l’agenzia haitiana AlterPresse. «Queste testimonianze presentano
l’orrore generale di 29 anni di un regime feroce e pongono la questione
dell’impunità come uno dei mali più attuali della Repubblica di Haiti.
Contadini crocifissi sulla piazza pubblica, famiglie intere represse e
decimate, e che per anni hanno atteso o cercato parenti scomparsi, giornalisti
torturati, uccisi, esiliati».

Le attività del Collettivo
hanno dato origine a un altro gruppo, il «Comitato del dovere di memoria»,
composto da ex vittime e famigliari di vittime, che si dedica espressamente al
lavoro di memoria. C’era una collaborazione tra i due comitati, anche se il
primo si occupa maggiormente dell’aspetto giuridico.

Un lungo percorso

Il Collettivo ha subito
sollecitato la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh)
dell’Organizzazione degli stati americani, con sede a Washington, e ha ottenuto
un’udienza il 28 marzo del 2011. «All’epoca ad Haiti c’era il governo di René
Préval, che mandò un delegato. Quel governo era d’accordo sul fatto che lo
stato haitiano dovesse fare un’inchiesta sui delitti della dittatura. Fu
preparato un documento di accusa per crimini contro l’umanità e crimini
finanziari».

Gli avvocati di Duvalier si
sono fatti scudo a colpi di retorica, sostenendo che i «crimini contro l’umanità»
non esistono nel diritto haitiano. Danièle Magloire: «Effettivamente questo
termine non c’è, perché sono codici vecchi del XIX secolo. Ma occorre ricordare
che per il processo di Norimberga contro i nazisti, la Carta di Norimberga che
per la prima volta definiva, tra gli altri, i crimini contro l’umanità, fu
ratificata da 19 paesi tra i quali c’era Haiti. Alla creazione delle Nazioni
unite, e Haiti è paese fondatore, la Carta di Norimberga fu allegata alla
Dichiarazione universale dei diritti umani. I crimini contro l’umanità dunque
ci riguardano». Continua la sociologa, «Haiti è nata da una ricerca di umanità,
con la rivoluzione anti schiavista, contro il codice nero, la legge dei
francesi che ci relegava al ruolo di beni mobili e non di persone».

In seguito al documento di
accusa il giudice d’istruzione Carvés Jean ha fatto un’inchiesta molto leggera,
«ha sentito una volta Duvalier, ha ascoltato solo alcune vittime, non si è
mosso dall’ufficio», sostiene Magloire. «Questo giudice non è un duvalierista –
continua – ma era sotto pressione. Il contesto politico è cambiato». Nel 2011 è
stato eletto presidente Michel Martelly (si veda MC gennaio 2012) con una
grande spinta del governo degli Stati Uniti. «Martelly simpatizza apertamente
con i duvalieristi. Ha dichiarato pubblicamente che si dovesse amnistiare
Duvalier e voleva prenderlo nel suo gabinetto come consigliere politico. Ha poi
optato per suo figlio François
Nicolas Duvalier, il nipote di Papa Doc. In un paese che ha conosciuto una
feroce repressione, il capo di stato visita l’ex dittatore e lo invita alle
cerimonie ufficiali. È comprensibile la paura della gente verso il sistema».

Nel
gennaio 2012 il giudice d’istruzione di primo grado ha eliminato dall’accusa i
crimini contro l’umanità e derubricato i crimini finanziari a semplici delitti.
Il Collettivo ha contestato la decisione, lo stato invece no. A contestare il
risultato dell’istruttoria di primo grado c’era anche un altro gruppo di
vittime che ha presentato denuncia, ma non era parte del Collettivo.

Jean-Claude Duvalier ha
dichiarato che era un insulto verso la sua persona osare dire che abbia preso
un po’ di soldi.

I fondi scomparsi

Il governo Préval aveva
chiesto alla Svizzera di recuperare i 6 milioni di dollari residui dal
saccheggio perpetrato dai Duvalier. Ma il nuovo governo non ha più dato seguito
alla richiesta. Il Collettivo, invece, ha continuato a spingere il dossier in
collaborazione con associazioni svizzere fino ad ottenere il blocco dei fondi.
Nel dicembre 2013 la Svizzera, che ha fatto un’inchiesta molto precisa, ha
stabilito l’origine illecita dei fondi e deciso di toglierli a Duvalier per
restituirli allo stato haitiano, in quanto legittimo proprietario.

«Stiamo discutendo con le
autorità svizzere su come i fondi saranno trasmessi ad Haiti. Abbiamo fondati
timori sul loro utilizzo, perché ci sono molti duvalieristi nel governo. Lo
stesso ministro dell’Inteo, David Basile, è il capo del partito duvalierista
(Parti de l’Unité national). Un posto strategico, molto importante anche
per le future elezioni. Abbiamo fatto proposte che orientano l’uso dei fondi
verso il rafforzamento dei diritti umani, l’uguaglianza di genere, le prigioni.
Queste ultime non sono cambiate dai tempi della dittatura».

In appello

Il secondo passaggio è stato
in Corte d’appello. In questo grado di giudizio le udienze sono pubbliche, al
contrario del primo grado. Il Collettivo si è battuto per far comparire
Jean-Claude Duvalier davanti al giudice. «È stato difficile ma ci siamo
riusciti. Simbolicamente è stato molto importante, per la lotta contro
l’impunità: mostrare alla gente che un capo di stato poteva venire a rispondere
davanti alla giustizia. Inoltre le vittime hanno potuto testimoniare. Questo ci
ha fatto vedere una diversità di persone che hanno subito le persecuzioni:
professionisti, cittadini, contadini. Molti abitanti della zona rurale di La
Tremblay, a Croix-de-Bouquet, che ha sofferto enormemente, dove centinaia di
loro furono massacrati. Alcuni furono imprigionati sotto François e restarono
in carcere sotto Jean-Claude. È stato importante registrare tutte le
testimonianze».

Duvalierismo senza
Duvalier

«I
Duvalier hanno marcato Haiti a ferro e fuoco durante trent’anni di sistema
totalitario, e hanno messo un macoute (qui inteso
come duvalierista, nda) nella testa di ogni haitiano» ha scritto
l’esperto Christophe Wargny. Si tratta forse di un’estremizzazione, ma la
corrente duvalierista esiste e i duvalieristi sono ancora forti. Dalla sua fuga
nel 1986 i diversi governi haitiani non hanno mai voluto fare un processo al
regime. Le strutture messe in piedi dal suo governo sono rimaste, per questo si
parla di duvalierismo senza Duvalier. «La figura simbolica non era presente, ma
la struttura era dormiente e tutto si è riattivato con il suo ritorno. E c’è
poi il revisionismo: “Non era una dittatura, non era così terribile, guardate
ora in che situazione si trova Haiti, sotto Duvalier non era così, era tutto
perfetto”. Si fabbricano delle contro verità: si fa credere che le vittime
fossero solo terroristi, che attaccavano lo stato, destabilizzavano il paese.
Invece tutti i documenti dimostrano il contrario. Senza dimenticare i boat people (fuga con i barconi verso gli Usa e le Bahamas, nda). Oppure i braceros in Repubblica Dominicana: Duvalier
guadagnava un tanto per ogni haitiano che andava a lavorare in semi schiavitù
per il taglio della canna da zucchero nei bateys. Ha
fatto sterminare tutti i maiali creoli distruggendo l’economia rurale. Ha fatto
commercio di cadaveri di sangue. I crimini sono molti».

Il 20 febbraio scorso, dopo
mesi d’inchiesta, la Corte d’appello ha rovesciato la sentenza del giudice di
primo grado: Duvalier è accusato di crimini contro l’umanità, occorre
approfondire le inchieste. Ha nominato un nuovo giudice d’istruzione, Durin
Duret, che deve interrogare le vittime e anche i collaboratori di Duvalier,
tutti quelli citati nel documento accusatorio. Sottolinea che questi crimini
non vanno in prescrizione.

«Jean-Claude Duvalier ha
contestato che esistiamo, che il Collettivo possa essere parte civile. Vuole
che si cambino i giudici, ma non dice perché. Il grosso lavoro lo facciamo noi
del Collettivo, perché il tribunale non è attrezzato. I giudici sono soli, non
possono fare le inchieste, poi ci sono tutti i problemi di corruzione e
incompetenze. Il Collettivo costituisce il dossier e cerca gli elementi per il
giudice, perché vogliamo che l’istruttoria vada avanti. Inoltre facciamo molta informazione, comunicati in quattro lingue. Ed è
tutto lavoro volontario. Anche gli avvocati che lavorano con noi. Abbiamo
un’assistenza giuridica e tecnica importante da parte dell’associazione
Avvocati senza frontiere Canada. Fokal (Fondazione conoscenza e libertà) ci ha
appoggiato a livello finanziario».

Molte vittime, poche
denunce

Nonostante
l’enormità del numero di vittime del regime, poche decine sono a oggi le
denunce ufficiali. «Sono pochi coloro che hanno denunciato perché la gente non
ha fiducia nel sistema della giustizia. Inoltre si sente che il governo non è
dalla parte delle vittime. Occorre essere coraggiosi e non ci sono neanche
tanti avvocati disponibili a difenderti. Ma il fatto di essere riusciti a far
presentare Duvalier in tribunale e che ci sia stata una decisione della Corte
spinge la gente a pensare che abbia senso denunciare. O almeno testimoniare
pubblicamente, il che è estremamente importante. È sempre così: c’è un nocciolo
duro all’inizio, poi altri si aggregano. Per me non è il numero che conta.

Alla fine dell’istruzione il
tribunale dovrà decidere se ci sarà un processo oppure no. Penso che a quel
punto altre persone si decideranno, perché vedranno che c’è una possibilità».

La comunità
internazionale

A livello internazionale non
c’è una volontà politica a giudicare Duvalier e non c’è neppure tanto aiuto per
questo. Ci sono state dichiarazioni di buone intenzioni. Ma il Collettivo ha
fatto una campagna, rispetto alla comunità internazionale, chiamando in causa
diversi paesi. Cosa che ha spinto alcune ambasciate a delegare delle persone per
seguire alcune udienze. «Bill Clinton era nelle braccia di Duvalier, gli Usa
non hanno detto nulla, la Francia non ha preso posizione. Solo dichiarazioni
dell’Onu. Ma tutti questi paesi potrebbero appoggiare il tribunale haitiano a
portare avanti l’inchiesta. E qualche dossier a livello dell’Alto commissariato
e della Minustah. Perché a livello internazionale si parla tutto il tempo di
democrazia mentre i paesi campioni di democrazia non si sono indignati per
questa situazione? Se parliamo di crimini contro l’umanità, il peso non può
essere su un individuo».

Le organizzazioni
inteazionali di difesa dei diritti umani non hanno aiutato il Collettivo.
Human Rights Watch e Amnesty Inteational hanno fatto le loro inchieste ma non
hanno messo risorse per l’istruttoria. Hanno mandato le loro delegazioni a
seguire le udienze, «ma questo non basta» sottolinea Danièle Magloire. «Gli Usa
hanno della documentazione, ma non ne consentono l’accesso. Abbiamo bisogno che
si faccia pressione. Noi, come Collettivo, abbiamo preso da soli il rischio di
denunciare. Ma non abbiamo alcuna protezione. I fans di Duvalier ci
aggrediscono al tribunale, più ci avviciniamo al processo, più sono nervosi e
aggressivi, la polizia non reagisce».

Muore l’ex presidente
a vita

La morte del dittatore
scatena il dibattito: funerali di stato oppure no? Una coalizione della società
civile si ribella all’idea di un oltraggio simile, e alla fine la cerimonia è
organizzata in forma privata, ma numerosi sono i suoi partigiani presenti.

«[…] Giudicare Jean-Claude
vorrebbe anche dire chiedere conto al regime duvalierista stesso, e una volta
arrivati alla “riconciliazione”, indicare anche le cosiddette “grandi famiglie”
haitiane che hanno partecipato a quel festino macabro. Come continuano a fare oggi.
Giudicare Jean-Claude Duvalier significherebbe mettere sotto processo le classi
dominanti globalmente. Meglio, significherebbe spiegare il ruolo degli
imperialisti. Dell’epoca … e di oggi» scrive l’organizzazione sindacale Batay
Ouvriye.

«La morte di Jean-Claude
Duvalier non mette fine al processo giudiziario contro il suo regime, le
vittime del quale hanno denunciato anche gli accoliti dell’ex dittatore»
dichiara Pierre Espéreance, direttore esecutivo della Rnddh e segretario
generale della Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo
(Fidh).

Muore
l’uomo, ma non la storia. E le decine di migliaia di vittime di un regime che
ha segnato Haiti e ha contribuito a renderlo un paese tra i più poveri del
mondo, chiedono ancora verità e giustizia.

Marco Bello

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Marco bello




Cari Missionari

Ancora tasse

Precedenti
puntate:
MC 7/2014 pag. 5 e
MC 10/2014 pag. 6.

1. Mi
riferisco al «pagare le tasse» del mese di luglio per una brevissima
osservazione. Il Vangelo riporta «Date a Cesare quello che è di Cesare» e non
(tutto) quello che egli pretende! Questo perché poi mi chiedo: «Come vengono
impiegati i nostri soldi?».

Saverio
Compostella
email, 18/07/2014

2. Ritengo che
un’ottima replica ai mugugni di Giovanni Besana sia la prolusione letta dal
cardinal Angelo Bagnasco, in qualità di Presidente della Conferenza Episcopale
Italiana, lo scorso 22 settembre al Consiglio permanente della Conferenza
stessa.

«L’occupazione difficile e il fisco predatorio, la
burocrazia asfissiante e la paura di fare passi sbagliati, tutto concorre a non
creare lavoro nei vari settori del pubblico e del privato, non stimola
l’inventiva, non trattiene i giovani nel paese».

Ritengo che l’aggettivo usato dal Cardinale, cioè «predatorio»,
calzi a pennello per il fisco locale, a cominciare da quello che riscuote tasse
come la Tasi sulla prima casa: questa nuova imposta infatti ha confermato il
peggio dell’Ici di Amato e dell’Imu di
Monti, togliendo in più quel pochissimo di buono che avevano, ossia la
detrazione, che consentiva almeno ai possessori di case più modeste – ovvero
quelle dalla rendita catastale più bassa – e a chi ha figli a carico, di
limitare e, in non pochi casi, di annullare l’importo dovuto al Comune di
residenza.

Consapevoli della porcheria fatta dal Goveo nazionale,
alcuni sindaci (i primi sono stati quelli di Ragusa, Positano e Olbia…) hanno
deciso l’azzeramento totale della Tasi sulla prima casa. Spero che, magari dopo
aver letto le parole del Presidente dei Vescovi Italiani – che certo non è un
estremista né uno che ha mai incitato chicchessia alla rivolta fiscale – gli
altri sindaci optino per questa soluzione invece di continuare a fare i Robin
Hood alla rovescia (togliere a chi ha di meno per dare a chi ha già tanto…).

Grazie per l’attenzione.

Mario
Pace
email, 26/09/2014

3.Caro padre
Gigi,
noto che la mia provocazione produce riflessioni condivise oppure critiche e mi
fa un immenso piacere.

L’affermazione era: «Il confessore non chieda più dei
peccati di sesso, ma che faccia una domanda secca: “paghi le tasse oppure
frodi?”» e mi è venuta dopo aver affrontato con un prete il discorso della
confessione. La sua tesi è stata: «Caro Giovanni, nella tua Brianza non c’è
nessun penitente che confessi un peccato di sesso e tanto meno di altre cose
molto importanti, tipo sul come si fanno i soldi; siamo tornati al punto delle
prime confessioni: “Ho rubato la marmellata alla mamma”». Questa è una cosa
molto seria che tutta la Chiesa deve approfondire.

Non mi sono permesso di affermare che la coscienza del
penitente debba rifiutare e non confessare i suoi pruriti sessuali, ma che è il
confessore oppure il padre spirituale che deve far capire l’importanza per un
cristiano della lealtà nei confronti dello stato e non nascondersi in
dietrologie senza costrutto in difesa dei propri egoismi. Mi sembra che se si
approfondissero seriamente questi concetti non avrei da rimproverarmi nessuna
deficienza al mio pensiero verso i più bisognosi delle nostre comunità
credenti.

Chi si appella alla Chiesa dando del «ladro» a chi è impegnato
sacrificando tempo e denaro per una società più giusta, con quale «misericordia»
si approccia al suo essere cristiano? Non tutti (quelli che si impegnano
nella politica
) hanno le mani nel sacco. Questi sono discorsi da bar.

Se ci sono tanti, troppi poveri nella nostra bella Italia
e nel mondo, la colpa non può essere data solo ai 150mila super ricchi che
detengono un patrimonio che equivale a quanto possiede la restante popolazione
mondiale. Ciascuno si deve prendere le sue responsabilità. Sono le nostre
azioni che ci renderanno colpevoli al di là di ogni giustificazione. Contano i
nostri comportamenti: dobbiamo saldare un debito e non ci facciamo fare la
fattura e paghiamo in nero perché soltanto così possiamo avere uno sconto e non
pagare l’Iva… Succede con il dentista, l’imbianchino, l’idraulico, il
carrozziere, il garagista e tanti altri professionisti e artigiani, che ci
prestiamo ad arricchire, pur di risparmiare.

E allora tutti siamo colpevoli! Essere cristiani è, come
dice Papa Francesco, credere al «valore della povertà», il che certamente non è
facile come non è facile accettare la frase evangelica: «è più facile che un cammello entri
nella cruna di un ago che un ricco in paradiso». Chi ha orecchi da intendere,
intenda.

Un caro saluto,

Giovanni
Besana
email, 4/10/2014

4.Alla luce
dei nuovi interventi letti sulla rivista di ottobre sottolineo che si tratta di
quanto chiede Cesare, non se ha diritto di chiedere. Anche gli schiavi davano
il lavoro a Cesare, ma molti hanno pensato che fosse troppo! Ultima
osservazione: quando vengono scoperti i grandi evasori (cantanti, corridori,
industriali…) lo stato si accorda sul 20% del dovuto. Che sia questo quanto
lo stesso stato pensa sia il giusto da pagare? Grazie dell’attenzione e
cordiali saluti.

Saverio
Compostella
email, 15/10/2014

Cari
amici,
credo che potremmo continuare all’infinito a parlare di tasse, ciascuno con le
sue buone ragioni, perché la situazione italiana è davvero complicata, con
situazioni di palese ingiustizia e corruzione diffusa. Non entro nei
particolari, penso basti già quanto ricordato dai nostri lettori. Due punti
vanno però salvati: non tutti gli italiani sono evasori, anche se la tentazione
di farlo è grande; e non tutti gli amministratori pubblici o i politici sono
dei corrotti o corruttori. La complessità della situazione, e i perversi
meccanismi economici nazionali e inteazionali, non aiutano certo. Secondo
fonti autorevoli, la prima causa d’ingiustizia (e quindi della grande
tassazione) è il debito pubblico, diventato ingestibile non per l’ammontare dei
soldi effettivamente usati, ma per il diabolico sistema di calcolo degli
interessi manovrati da grandi speculatori fuori da ogni controllo. Fino a
quando tutta la politica non si darà una mossa per riportare la finanza sotto
il controllo dei governi, i governi stessi (e le nazioni che rappresentano)
resteranno alla mercé di questi sistemi economici ormai sovranazionali, mentre
i normali cittadini saranno dissanguati dalle tasse. Gli stessi politici, poi,
devono smetterla di legiferare tenendo più conto degli indici di gradimento che
del vero bene comune, soprattutto dei giovani e di chi (troppi!) ormai vive
sotto il livello di povertà.

Grazie
per la partecipazione a questo dibattito, che, per ora, finisce qui.

 
Prostata

Posso dire la mia? Sono un lettore antico di MC, da
trent’anni con l’Associazione «S.O.S. Tanzania» che riunisce un centinaio di
famiglie e offre qualche aiuto con l’invio di farmaci e prodotti medicali
all’ospedale di Ikonda ed alla missione di Iringa. Fatta questa premessa che
nulla ha a che vedere con il tema in oggetto vorrei innanzi tutto
complimentarmi con la D.sa Rosanna Novara Topino per la professionalità, la
dotta, sintetica e chiara esposizione nel trattare la patologia in questione.

Sono anche il responsabile dell’Associazione «Missione
Vita» che opera presso l’Ospedale di Rivoli nel reparto di urologia diretto dal
Dott. Maurizio Bellina. Offriamo sostegno umano e psicologico, coadiuvati dalla
psicologa D.sa Piera Rosso, ai pazienti che, colpiti da neoplasia, sono
sottoposti a prostatectomia radicale. Sento in modo particolare il tema della
sofferenza e nel caso specifico il problema della prevenzione.

Quanti sono abbonati e leggono le riviste di medicina? Le
nostre Asl quanto investono nella prevenzione?

Ho la profonda convinzione che ogni atto, ogni mezzo
d’informazione, ogni pubblicazione laica o cattolica che abbia come obiettivo
la salute delle persone sia legittimo e non deve scandalizzare nessuno.

Mi pare di ricordare che Gesù proprio attraverso le
guarigioni del corpo arrivava a convertire i cuori. Forse che il primo pensiero
dei nostri missionari è limitato alla sola Parola di Dio? Non mi risulta. Per
quel poco che conosco, li ho visti impegnati a curare e alleviare prima di ogni
cosa le sofferenze umane. Lasciamo quindi che questa nostra rivista, letta da
migliaia di persone, offra questa opportunità e se qualche lettore è in
disaccordo pazienza, sicuramente ci saranno molti consensi a partire dal
sottoscritto.

Vincenzo
Misitano
email, 13/10/2014

La risposta alla lettera riguardo il servizio sulla
Prostata pubblicata sulla rivista Missioni Consolata di ottobre 2014 a pag. 5
mi induce al seguente commento: «Caro Direttore, la Sua risposta è
assolutamente condivisibile e azzeccata. Complimenti!».

Egizia
Angheben
email, 17/10/2014

Unità dei Cristiani

(Che onore) ricevere una risposta ampia e articolata da
un dotto biblista, che, in base allo stile, potrebbe addirittura essere il
mitico Don Farinella (vedi MC 8-9/2014, p. 5, L’eterno riposo). Allora,
siccome l’appetito vien mangiando, mi permetto di sottoporre altri due dubbi da
dilettante, senza alcuna fretta per la risposta.

Unità dei cristiani: il processo, più che lento, mi sembra cerimoniale, perché
obiettivamente penso sia dura parlare di unità con chi, in via preventiva, si è
proclamato infallibile. E poi, è sacrosanto chiedere il reciproco rispetto dove
si convive da secoli, superando rapporti tempestosi (per esempio Calvino a
Ginevra non era tenero né coi cattolici né con gli altri protestanti, e aveva
sempre il fiammifero in mano, che neanche l’inquisizione…). Mi sembra poco
gentile lanciarsi in «missioni» in terre dove non ci sono cattolici ma ci sono
chiese di cui accettiamo i sacramenti, come quella ortodossa. Insomma, Giovanni
Paolo II, lanciando la missione in Russia, mi è sembrato più polacco che
papa…

Un dubbio fantascientifico: guardando il cielo stellato, uno dubita che sia un po’
presuntuoso pensare che tutta questa meraviglia sia stata creata per dare un
panorama ai rissosi abitanti di un piccolo pianeta, e che da qualche parte
dovrebbero esserci degli altri esseri raziocinanti. Se è così, anche loro hanno
fatto la trafila del peccato originale? E hanno avuto un Salvatore? E come la
mettiamo con la Trinità e l’unigenito figlio di Dio del nostro Credo?

Claudio
Bellavista
email, 20/08/2014

Onorato
di essere paragonato all’impareggiabile Don Farinella. Per la breve risposta è
bastato l’aiuto di un solido dizionario biblico. Quanto alle altre due
questioni, provo solo ad accennare dei punti di riflessione.

Unità dei cristiani

L’esperienza
della divisione è antica quanto la Chiesa, come documentano le lettere di s.
Paolo e i testi attribuiti a s. Giovanni. Probabilmente il capitolo 17 del
Vangelo di Giovanni, dove Gesù prega per l’unità, è già una rilettura che la
Chiesa, ferita dalle divisioni che esistevano nel suo seno verso la fine del
primo secolo, ha fatto della Parola del Signore per ricordarsi che l’unità non è
frutto semplicemente degli sforzi umani ma è dono di Dio e risposta a una
precisa volontà del Signore.

Nella
situazione attuale la preghiera per l’unità non è fatta perché tutti entrino a
far parte della Chiesa cattolica e le altre Chiese spariscano. Si prega invece
perché tutti ci si converta al progetto di unità come è voluto da Dio.

Non
c’è qualcuno che sia a posto e qualcun altro che debba tornare nell’ovile
(gestito da chi si sente nel giusto). Bene o male un po’ tutti siamo ancora
fuori dell’ovile di Cristo o siamo in viaggio per raggiungerlo in modo definitivo.
L’unità, che è dono di Gesù, è molto di più di quanto si possa realizzare in
questo mondo e richiede conversione da tutti, noi cattolici compresi.

Allo
stesso tempo è importante già qui e ora che tutte le Chiese compiano passi
insieme verso l’unità. Benvenute allora tutte le iniziative di preghiera, di
dialogo e di collaborazione che aiutano a conoscersi meglio, a chiarire vecchi
pregiudizi, ad abbattere incomprensioni accumulate negli anni, ad aumentare il
rispetto reciproco, a lottare insieme per un mondo più giusto, per la pace e la
riconciliazione, e a testimoniare con più verità e umiltà il Vangelo.

L’unità
non è unificazione e appiattimento, ma conversione a Dio, apertura al suo
Regno. Grazie a Dio, nessuna Chiesa, neanche la nostra Cattolica, può dire di
essere al 100% la perfetta realizzazione in terra del progetto di Dio. In
questo cammino ha senso il rispetto e l’accoglienza reciproca delle varie
Chiese anche nelle nazioni dove una Chiesa per secoli ha creduto di avere un
quasi-monopolio. Nessuna Chiesa dovrebbe dire: «Questo pezzo di mondo
appartiene in esclusiva a me». Come in
Italia la Chiesa cattolica accoglie oggi – grazie al nuovo spirito del Concilio
Vaticano II – la presenza della Chiesa ortodossa russa o di altre Chiese, così
anche in Russia c’è ampio spazio per l’azione pastorale e missionaria dei
Cattolici. Questo perché ci sono significative minoranze cattoliche nel paese,
e poi non tutti i russi sono Ortodossi e l’eredità di quasi un secolo di
ateismo comunista ha lasciato ampio spazio per l’annuncio missionario.

Extraterrestri

Dubbio
fantascientifico o fantareligioso. A dir la verità mi sono trovato anch’io a
riflettere su quello che lei scrive, vista l’immensità dell’universo, il numero
delle galassie e la possibilità di tantissimi altri pianeti abitabili come la
Terra (secondo la Nasa sarebbero almeno 40 miliardi solo nella nostra
galassia). Ma, considerate le distanze in milioni di anni luce, dubito che
avremo mai la possibilità di verificare se esistano o meno altri «uomini» o
esseri «razionali». Il mio fantasticare mi ha fatto considerare che, se
esistono, devono essere anche loro «a immagine e somiglianza» di Dio, se
davvero si accetta che Dio è creatore dell’universo. Dovrebbero quindi avere
delle caratteristiche molto simili alle nostre, se non dal punto di vista
fisico, almeno dal punto di vista spirituale: capaci di intendere e volere, di
pensare e creare, di amare e fare scelte nella libertà, di gustare la bellezza
e di giornire, ridere e stare insieme. In ogni caso, non potrebbero essere più «mostri»
di quanto non siamo già noi con i nostri simili! Se poi abbiano fatto o no
l’esperienza del peccato come ribellione a Dio e quella della redenzione per
tornare a Lui… è davvero una pura speculazione che non porta da alcuna parte.

Probabilmente
la risposta a queste domande sarà
una delle sorprese che ci attendono in Paradiso.

Dio e Mammona

Mi permetto una domanda su cui forse avrà già detto,
ridetto e stradetto: «Ma la Chiesa nel corso dei secoli non si è resa complice
di un sistema immorale d’economia, mentre Cristo aveva detto “o Dio o mammona”?».
Probabilmente un san Francesco resta un mito che in pochi sono in grado di
imitare. Anche ai suoi tempi c’è stato chi nella Chiesa ha preferito stare con
il mondo.

Emanuela
email, 15/08/2014

Provo
a essere telegrafico. Molti uomini e donne che si dicono «di chiesa», e anche
ecclesiastici, si sono lasciati corrompere dal denaro nei secoli, a cominciare
dal famoso
Anania degli Atti degli Apostoli (5,1-11). Anche oggi ci sono Cristiani solo di
battesimo che in realtà sono servi del denaro e della ricchezza. Un esempio per
tutti, visto che lo citiamo più avanti (p. 78), è il re Leopoldo II del Belgio,
«buon cattolico», che non si fece scrupolo di sfruttare ignobilmente i
Congolesi. Non è raro poi che uomini di Chiesa, religiosi, preti e vescovi,
siano coinvolti in scandali economici. Il punto è: cosa si intende per Chiesa?
Mi pare troppo facile dire Chiesa e intendere Vaticano o Gerarchia (vescovi),
come se tutti i mali venissero da là, dimenticando che la Chiesa siamo tutti
noi, uomini e donne battezzati. Noi che con le nostre mille contraddizioni,
peccati e fatiche cerchiamo di camminare verso il Cielo, più o meno coscienti
di aver continuamente bisogno di conversione e spesso incapaci di vincere la
tentazione del denaro.

Risponde il Direttore




L’universo visto dal Cern

Visita al Centro di ricerca di Ginevra.



Nei laboratori del Ce.


Scienza e religione in conflitto?

 
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Il Ce è probabilmente il più prestigioso laboratorio di
fisica delle particelle al mondo. È un’istituzione in cui la ricerca raggiunge
i più alti livelli, ma anche un luogo dove scienziati di tutto il mondo
lavorano in cooperazione. Lo abbiamo visitato in occasione del suo 60.mo
compleanno cercando risposte a una domanda antica e controversa: scienza e
religione sono in conflitto? Al Ce la risposta (unanime) è stata «no». Ma
fuori dai laboratori non tutti concordano.

Il 2015 sarà un anno importante per
la fisica almeno per due motivi: il primo è la celebrazione dell’«Anno
internazionale della luce» indetto dall’Unesco; il secondo riguarderà il Ce,
l’«Organizzazione europea per la ricerca nucleare», il centro di ricerca sulle
particelle che ha sede poco lontano da Ginevra e che nel 2014 ha compiuto 60
anni. Qui, dopo tre anni di manutenzione, ripartirà l’Lhc, il Large Hadron
Collider
(«Grande collisore adronico»), il ciclopico anello dalla
circonferenza di 27 chilometri in cui protoni e ioni pesanti collidono per
dividersi nelle loro particelle elementari: i quark (riquadri a pagg. 42-43).

Sono stati gli esperimenti
effettuati all’Lhc che hanno permesso di verificare nel 2012 l’esistenza di ciò
che i fisici teorici avevano solo ipotizzato sin dagli anni Sessanta: il «bosone
di Higgs» (quella che dai media è stata ribattezzata «la particella di Dio»).

I prossimi anni saranno dedicati
alla ricerca di aspetti della materia che, se confermati dalle sperimentazioni,
rivoluzioneranno totalmente il Modello standard, lo schema matematico che
descrive le particelle fondamentali con le loro interazioni e, quindi, la
nostra visione del mondo.

«L’idea di tutti gli esperimenti
che vengono effettuati dai laboratori dell’Lhc, Alice, Atlas, Cms e Lhcb è
quella di ricercare segnali di fisica che non siano previsti dall’attuale
Modello standard» afferma Monica Pepe-Altarelli, fisica che lavora
all’esperimento Lhcb del Ce.

I fisici, specialmente quelli
teorici, oltre ad essere dei grandi conoscitori della materia, sono anche un
po’ burloni, poeti, filosofi e la caccia a queste particelle ha scatenato la
fervida fantasia dei ricercatori i quali hanno chiamato i corpuscoli con nomi
bizzarri: materia oscura, energia oscura o, ancora, Susy (dalle iniziali di Super
Symmetry
), proprio come una sirenetta a cui piaccia nascondersi tra i
flutti del mare cosmico. 

La scienza, la fede e l’originedell’universo

Frequentare il Ce e i suoi
laboratori è come essere sul set di Guerre Stellari, con la grande differenza
che qui la fantascienza non esiste e la battaglia che si combatte non è quella
per la sopravvivenza, ma per la conoscenza.

«Il Ce è molto più che un luogo
di semplice ricerca. È un centro per l’educazione e la formazione di studenti e
di insegnanti» ribadisce Monica Pepe-Altarelli. «Qui, a differenza di altre
istituzioni, si comunica. E parlo di comunicazione non solo tecnologica, ma
anche culturale e umana. Il Ce è un retaggio di cooperazione pacifica ed
efficiente tra popoli e paesi».

Con il potenziamento dell’Lhc i
ricercatori sperano di riprodurre lo stato di materia che si formò 10-35 secondi1 dopo il Big Bang, il momento in
cui l’universo cominciò ad essere visibile anche ad un ipotetico uomo che lo
avesse potuto guardare, dato che raggiunse la grandezza di una mela, pur
mantenendo una temperatura di 1030 gradi centigradi2. Fu, quella, l’Era dell’inflazione, quando la forza
elettronucleare si separò in due componenti, la forza elettrodebole e la forza
forte dando origine alle coppie di particelle e antiparticelle che si
annichilirono a vicenda.

L’umanità, quindi, farà un
ulteriore passo in avanti (o, se vogliamo, indietro, visto che il nastro degli
accadimenti verrà riavvolto verso l’inizio di tutto), giungendo molto vicina a
quella che fu la nostra nascita galattica, il Big Bang appunto.

«Sarà un viaggio incredibilmente
affascinante che ci permetterà di scoprire nuove frontiere restando comodamente
seduti davanti ai nostri computer» afferma Giulio Aielli, dell’Università di
Tor Vergata di Roma e ricercatore al detector Atlas, uno dei due laboratori del
Ce (l’altro è il Cms) in cui è stata dimostrata l’esistenza del bosone di
Higgs.

In questa Atene della Fisica (non
la sola al mondo) è inevitabile che si concentrino le attenzioni di numerose
istituzioni non solo scientifiche, ma anche umanistiche e, soprattutto,
religiose.

Lo studio dell’imperscrutabile e
dell’essenza di ciò che siamo è, da sempre, stato campo di scontro tra scienza
e teologia. Ma se dalla parte della fisica (il campo di cui ci stiamo
occupando) si riscontra una maggiore apertura verso il dialogo, in alcuni
ambienti teologici sussiste un atteggiamento di diffidenza (se non addirittura
di ostilità) verso la scienza.

Sergio Bertolucci, direttore della
ricerca e calcolo scientifico al Ce di Ginevra (cfr. intervista a pagg.
46-49
) smussa i toni affermando che «Il conflitto tra scienza e religione
non esiste più nella cultura occidentale da almeno trecento anni, dal momento
in cui la gente ha deciso che la fisica ha a che fare con lo spazio e il tempo
e la religione ha a che fare con quello che esiste al di fuori dallo spazio e
dal tempo. Ci sono ambiti come la medicina, in cui questa disputa è ancora
presente perché i confini sono meno separati gli uni dagli altri, ma nel caso
della fisica l’etica non viene modificata».

Eppure ancora oggi c’è chi contesta
questa distinzione: la laicità del Ce è stata oggetto di speculazioni e di
critiche da parte di chi vorrebbe la scienza asservita ai dogmi religiosi.
Durante un recente convegno di creazionisti evangelici americani, un oratore ha
contestato il fatto che al centro di ricerca europeo vi sia solo un simbolo
religioso, per di più non cristiano. Si tratta della statua di Shiva Nataraja,
il Signore della Danza, donata dal governo indiano nel 2004, che simboleggia la
danza della creazione e della distruzione cosmica di Shiva.

«Personalmente avrei preferito un
luogo meno pubblico, più appartato, ma non vi è stata alcuna polemica tra i
fisici per la scelta fatta. La fede è un problema personale, la scienza è un
problema all’interno di una costruzione della conoscenza. Il mio rapporto con
Dio è un problema personale perché nella conoscenza questo rapporto non esiste
dato che non lo posso verificare: o ci credo o non ci credo» spiega ancora
Sergio Bertolucci.


Alla ricerca del «tempo zero»

Per lefebvriani, creazionisti,
Testimoni di Geova e alcuni (per fortuna pochi) ambienti cattolici
integralisti, l’interpretazione della Bibbia viene fatta in modo letterale
dimenticando che è un libro scritto a più mani e redatto in funzione di una
riflessione teologica. Il versetto «Sapienza è riflesso della luce perenne, uno
specchio senza macchia dell’attività di Dio» (Sap 7, 26) viene così
interpretato in modo fondamentalista accettando solo quel tipo di ricerca della
conoscenza che viene fatta in nome di un fine teologico. Tutto quanto viene
proposto in alternativa a questa visione è visto come fumo negli occhi. Una
tesi molto diversa da quella formulata da agostiniani e francescani ancora nel
XIV secolo, che attribuisce una doppia proprietà alla luce parlando di luce
divina (lux divina) e luce contratta (lux contracta) considerano
la prima come la firma permanente di Dio del cosmo e la seconda come
partecipazione limitata della conoscenza di quello stesso Dio tramite la
ricerca scientifica. La luce sarebbe l’entità fisica mediatrice tra uomo e Dio,
secondo la tesi di Nicola Cusano, teologo e scienziato del XV secolo.

L’uomo riuscirà mai a raggiungere
il fatidico «Tempo zero», l’istante esatto da cui tutto ha avuto inizio? «Per
essere pragmatici stiamo parlando di qualcosa che difficilmente potrà accadere
nei prossimi milioni di anni» chiarisce Michelangelo Mangano (la sua
intervista sarà in un prossimo numero di MC, ndr
), uno dei massimi fisici
teorici che ha dedicato la sua vita allo studio delle particelle derivanti
dalle collisioni che avvengono all’interno dell’Lhc. «L’ umanità potrebbe anche
non avere tempo di raggiungere un tale traguardo: la comprensione di cosa sia
successo a T=0 (il punto esatto in cui si è manifestato il Big Bang, ndr);
qualora anche potesse raggiungere questo punto, non vedo uno scenario in cui la
scienza possa dimostrare che non vi sia alcun intervento divino».

In altre parole il versetto biblico
«La tua scienza ricoprì la terra, riempiendola di sentenze difficili» (Sir
47,15) mette alla prova scienziati e ricercatori a cui spetta il compito di «intuire»
queste sentenze difficili. 

Da Einstein a Pierre Teilhard de Chardin

Proprio come affermava Albert
Einstein, Dio, a differenza dell’uomo, non gioca a dadi, perché tutto è
prestabilito e fissato. Paradossalmente è stato proprio questo sottile
ragionamento a far rifiutare al grande scienziato ebreo il modello proposto dal
Big Bang di un universo in continua evoluzione e lo stesso «principio di
indeterminazione» di Heisenberg, secondo cui ogni oggetto è sia particella che
onda e, dunque, non è possibile determinare al tempo stesso posizione e velocità.

Einstein rifiutava l’idea che possa
esistere qualcosa di indeterminato nell’universo: Dio non può aver creato
qualcosa di cui neppure lui può determinare con assoluta certezza tutte le
caratteristiche. «Non posso credere nemmeno per un attimo che Dio giochi a dadi»
scriveva Einstein. «Piantala di dire a Dio che cosa deve fare con i suoi dadi»
gli rispondeva Niels Bohr, altra mente eccelsa della fisica modea.

Paradossalmente, però, è stata
proprio la meccanica quantistica a creare uno squarcio nel materialismo,
ridando vigore a chi crede nell’esistenza di Dio. Eugene Wigner, premio Nobel
per la fisica, ha detto che il materialismo non è una dottrina che regge dopo
l’introduzione della meccanica quantistica e la sua dottrina probabilistica.

«Il mondo, lungi dall’essere originato
dal caos, somiglia a un libro ordinato. Nonostante elementi irrazionali,
caotici e distruttivi intervenuti nel corso della sua trasformazione, resta
leggibile alla mente umana» ha specificato papa Benedetto XVI in un convegno
tenutosi nel 2008. È stato per merito di questo papa, fine teologo e scienziato
della mente umana, il cui pontificato è stato ingiustamente poco apprezzato,
che scienza e fede si sono riavvicinate scatenando le ire di chi si ostina a
vedere la scienza come eterno nemico della fede sino ad arrivare a negare anche
lo stesso Big Bang adducendo questioni puramente ideologiche o dogmatiche.

Una bella svolta rispetto all’Humani
generis
di Pio XII, che nel 1950 criticava la «temerarietà [di coloro che]
sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua
evoluzione».

Era, quello, un attacco neppure
troppo velato verso il gesuita e scienziato Pierre Teilhard de Chardin, che
qualche anno prima aveva cercato di conciliare scienza e religione con la
teoria di una Coscienza suprema, il Punto Omega, che vedeva unire le coscienze
attraverso l’evoluzione. Il Punto Omega altri non è che Cristo («Dio è dunque
l’esito finale dell’evoluzione») che, tramite una forza attrattiva (metafora
della forza gravitazionale), curva le pulsioni dell’uomo (spazio-tempo) sino a
farle convergere in se stesso. Una sorta di Big Crunch
teologico-scientifico.

La Noosfera di Teilhard è il luogo
in cui l’uomo condivide i sentimenti e i desideri con tutto il creato, il
vertice piramidale verso cui convergono tutte le strutture dell’universo. Una
sorta di Dna del cosmo in cui ogni atomo, ogni cellula, è consapevole del
proprio insieme e del Tutto. Teilhard afferma che «spostare un oggetto
all’indietro nel passato equivale a ridurlo nei suoi elementi più semplici. (…)
le ultime fibre del composto umano si confondono con la stoffa stessa
dell’universo».

La stoffa dell’universo sono le
particelle elementari. Insomma, il gesuita fu un precursore degli scienziati
del Ce.


Il dibattito sul Big Bang:


Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Lemaître

«La conoscenza della fisica
progredisce in maniera talmente immensa che, se guardiamo alla scienza di soli
cento anni fa, essa oggi ci sembra primitiva» ricorda Michelangelo Mangano, il
quale continua: «Questo non è vero per la religione. Il sistema religioso può
essere più o meno affinato e raffinato nella maniera in cui si descrivono e si
pongono i concetti. Però i concetti base sono rimasti sempre quelli: non c’è
all’interno del pensiero religioso uno spazio epistemologico. Se, fra qualche
miliardo di anni la scienza avrà fatto dei progressi tali da potersi porre un
problema di questo tipo, non vedo perché questa conoscenza debba, o non debba,
riflettere il concetto di Dio o entità superiore».

Naturalmente la ricerca
scientifica, in quanto ricerca, deve possedere quella che Sergio Bertolucci
definisce «onestà intellettuale, che non è solo prerogativa del Ce, ma deve
essere comune a tutta la scienza. Onestà intellettuale significa che bisogna
evitare i pregiudizi, le scorciatornie, riconoscere costantemente la propria
inadeguatezza nel fatto che non si capisce, ma al tempo stesso non bisogna
perdere l’ottimismo. Se un esperimento non procede nel verso previsto, non
bisogna desistere».

È un concetto, questo, che può essere
espresso con chiarezza dalle parole di papa Giovanni Paolo II al congresso di
cosmologia avvenuto in Vaticano nel 1981 e a cui era stato invitato anche lo
scienziato Stephen Hawking. Durante quel convegno il papa ribadì che la scienza
poteva indagare su quello che era successo dopo il Bing Bang, ma quello che era
successo prima apparteneva a Dio.

Stephen Hawking aveva invece
formulato una teoria per cui il tempo si muoveva in maniera circolare
escludendo, dunque, la necessità di un Dio. Il concetto, poi, è stato ribadito
nel libro Il grande disegno: «Poiché esiste la legge di gravità,
l’universo può crearsi e si crea dal nulla. La creazione spontanea è il motivo
per cui c’è qualcosa anziché nulla, per cui l’universo esiste, per cui noi
esistiamo! Non è necessario invocare Dio».

Questa diversità di vedute non ha
impedito alla Pontificia Accademia delle Scienze di nominare Hawking proprio
membro nel 1986. Una dimostrazione in più, se vogliamo, dei tentativi di
conciliazione post-galileana da parte della Chiesa cattolica.

Ne è passata di acqua dopo il
Concilio e se la religiosa Radio Vaticana, in piena contestazione studentesca
mandava in onda canzoni come Dio è morto di Guccini o Il Testamento
di Tit
o di Fabrizio De André censurate invece dalla vecchia Rai,
altrettanta strada è stata fatta in campo scientifico.

È stato ancora papa Benedetto XVI a
riabilitare Theilhard de Chardin, facendo propria la «visione che poi ha avuto
anche Theilhard de Chardin: alla fine avremo una vera liturgia cosmica, dove il
cosmo diventi ostia vivente».

Naturalmente questa visione è
duramente confutata dai creazionisti, la cui popolarità negli Stati Uniti è
approdata anche nelle serie televisive. In The Big Bang Theory, Sheldon
contesta alla madre, fervente religiosa e creazionista che «L’evoluzione non è
mai stata una opinione, ma un dato di fatto», per poi sentirsi rispondere dalla
stessa madre: «E questa è esclusivamente una tua opinione».

Eppure le prime speculazioni sul
Big Bang sono state sviluppate da due rappresentanti di istituzioni dalle idee
opposte tra loro: un fisico sovietico, Aleksandr Aleksandrovi Friedman
(1888-1925) e da uno scienziato cattolico belga, il gesuita Georges Edouard
Lemaître (1894-1966). Entrambe, sebbene in termini diversi ed in modo
indipendente l’uno dall’altro, elaborarono una teoria rivoluzionaria:
l’universo non è statico e immutabile, bensì in continua evoluzione. Il
sovietico Friedman, pur non arrivando alla conclusione che l’universo fosse in
continua espansione, scrisse che nel tempo passato tutto ebbe inizio da un
singolarità di volume pari a zero. Il gesuita Lemaître invece, basandosi sulla
legge di gravità di Einstein pubblicata nel 1915, postulò l’idea di un universo
in evoluzione che si dilatava in tutte le direzioni con una velocità di recessione
direttamente proporzionale alla distanza delle galassie.

Le congetture di Friedman e Lemaître
vennero considerate con scetticismo dal mondo scientifico fino a quando Edwin
Hubble, nel 1929, all’osservatorio astronomico del Monte Wilson in Califoia,
dimostrò che le galassie si allontanano le une dalle altre ad altissima velocità,
confermando l’ipotesi che Lemaître aveva fatto due anni prima.

Il gesuita, confortato dalla
scoperta di Hubble, si spinse a proporre un modello di creazione dell’universo
veramente rivoluzionario: se le galassie si allontanano, allora riavvolgendone
il corso temporale è possibile risalire ad un punto di inizio in cui tutta la
massa dell’universo attuale era concentrata in un unico atomo, che chiamò atomo
primigenio, o atomo primitivo, contenente tutta la materia di cui è composto
l’intero universo.

Fu questa visione di Lemaître,
espressa il 9 maggio 1931 in un articolo su Nature, che Einstein rigettò.
In seguito lo scienziato ebreo si ravvide definendo questo rifiuto come uno dei
più grandi errori della sua vita.

L’idea dell’uovo cosmico, metafora
attribuita, forse erroneamente, allo stesso Lemaître piuttosto che dell’atomo,
si avvicinava meglio al postulato del prete belga: l’esplosione sarebbe
avvenuta non partendo da una singolarità, come aveva scritto Friedman, ma da un
punto leggermente spostato in avanti nel tempo. In questo modo l’abate
rispettava anche il principio di San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa,
che nella Summa Teologica affermava che l’inizio del mondo è
esclusivamente oggetto di fede e nessuna dimostrazione scientifica potrà mai
arrivare a tanto.

Ma Lemaître si spinse oltre: espose
il concetto che l’intero universo fosse permeato da una radiazione di fondo
generata dall’esplosione primordiale. Se si fosse dimostrata l’esistenza di
quella radiazione, si sarebbe avuta la conferma definitiva della creazione da
un unico punto.

Fino agli anni Sessanta Lemaître si
riferiva al suo modello chiamandolo, a seconda dei casi, modello dell’atomo
primitivo o modello dei fuochi artificiali, una metafora che rende
comprensibile, anche a chi è a digiuno di fisica e di astronomia, la nascita
improvvisa ed espansiva dell’universo.

Un universo eterno e immutabile

In alternativa all’archetipo del gesuita
belga, nel 1948 gli scienziati Fred Hoyle, Hermann Bondi e Thomas Gold
proposero la teoria dello stato stazionario.

La legge da cui i tre ricercatori
partivano per confermare i loro assunti, era il Principio cosmologico perfetto
secondo cui l’universo è immutabile e identico in ogni punto e in ogni epoca. A
prima vista l’idea di un mondo invariato avrebbe potuto far pensare a un
rimando dogmatico di stampo religioso (ed è per questo che venne accolta con
favore dagli ambienti conservatori cristiani), ma essa era proprio la tesi che
i tre scienziati volevano confutare. Secondo loro l’idea di Lemaître collimava
troppo con la creazione biblica e occorreva riportare la scienza nel suo alveo
neutrale.

La teoria dello stato stazionario
andava a conciliarsi con la Legge di Hubble grazie all’idea di una continua
creazione di materia. In questo modo la densità energetica totale si sarebbe
mantenuta costante. Considerando la grandezza dell’universo e la sua espansione
secondo la costante di Hubble, la creazione di materia necessaria a compensare
la perdita di densità sarebbe stata bassissima: un atomo di idrogeno per ogni
metro cubo di spazio in un miliardo di anni.

Fu durante questa iniziale
controversia che il 28 marzo del 1949 Fred Hoyle, durante un programma
radiofonico alla BBC contestò «l’ipotesi che tutta la materia dell’universo sia
stata creata durante un big bang in un tempo preciso del passato remoto».
L’idea di un improvviso big bang fu talmente efficace che il neologismo,
originariamente creato per screditare il modello di Lemaître, venne adottato
dal mondo scientifico e non. Nel 1993 la rivista astronomica Sky and
Telescope
avviò un concorso mondiale per trovare un nuovo nome alla teoria
del Big Bang. La giuria composta da astronomi, presentatori televisivi e
scrittori di fama mondiale decise che nessuna delle 13.099 proposte pervenute
fosse migliore di Big Bang.

Il modello di Lemaître non
spiegava, però, cosa fosse in realtà l’atomo primigenio, limitandosi a dire che
in quella limitata sfera era racchiusa tutta la massa che avrebbe poi composto
l’universo così come oggi lo vediamo.

Nel 1948 fu Ralph Alpher il primo a
suggerire l’idea di un «brodo primordiale» di fotoni e particelle nucleari da
cui si sarebbe evoluto l’universo. Il 24 aprile 1948 Science News Letter
pubblicò un articolo in cui, parlando della bomba atomica, citò un passo di una
relazione di Alpher, secondo cui «All’inizio di tutto, l’universo aveva densità
infinita concentrata in un singolo punto zero. Poi, appena 300 secondi – cinque
minuti – dopo l’inizio di tutto, ci fu una rapida espansione e raffreddamento
della materia primordiale. I neutroni – le particelle che innescano la bomba
atomica – iniziarono a decadere in protoni costruendo i mattoni per gli
elementi più pesanti (…) Questo atto di creazione degli elementi chimici durò
un tempo sorprendentemente corto, appena un’ora». La Bibbia indica in circa 6
giorni l’atto della creazione.

Teorie e dibattiti

La teoria del Big Bang fu
contrastata dall’Unione Sovietica, che la considerava troppo legata alla
religione e al mito biblico della creazione. Nel 1948 gli scienziati sovietici
si riunirono a Leningrado per cercare una soluzione alternativa e più
materialistica al redshift, o spostamento verso il rosso, il fenomeno
secondo cui la velocità di allontanamento delle galassie comporta uno
spostamento della luce da loro emessa verso il rosso cosa che dimostra la
veridicità della Legge di Hubble.

Nel 1951, durante la Conferenza di
Cosmogonia, il rifiuto del Big Bang si fece più determinato, ma non si
trovarono alternative sufficientemente supportate dalla scienza per contrastare
l’idea dell’origine dell’universo. Solo dopo la morte di Stalin la cosmologia,
l’astrofisica e l’astronomia sovietica cominciarono ufficialmente ad accettare
l’idea del Big Bang. La questione scientifica tenne banco fino al 1965 quando
Ao Penzias e Robert Wilson scoprirono che le loro ricerche erano
continuamente disturbate da un «rumore» di fondo. Da tre anni i due astronomi
avevano notato che un segnale uniforme inquinava il segnale captato dal loro
telescopio. Escludendo un difetto tecnico, interferenze urbane o
extraterrestri, scoprirono che la radiazione si manteneva costante anche
durante le stagioni, eliminando dunque anche la possibilità che fosse originata
da qualche sorgente del sistema solare.

La loro scoperta fu associata al
Big Bang da Robert Dicke e James Peebles dell’Università di Princeton, i quali,
nell’Astrophysical Joual del luglio 1965 scrissero che la «palla di
fuoco primordiale» in cui la materia cessò di essere in equilibrio termico (i
due scienziati non parlarono né di Big Bang, né di creazione o di origine
dell’universo) aveva ora la conferma scientifica preconizzata da Georges
Edouard Lemaître: la radiazione di fondo.

Il Vaticano appoggiò con estrema
cautela la tesi del Big Bang sin dall’inizio, anche se, proprio come diceva
Lemaître, non è una conferma biblica perché, nelle parole di padre José Funes,
direttore della Specola Vaticana «Il Big Bang è, sino ad oggi, la migliore
spiegazione che abbiamo sulla nascita dell’universo: è comprovata
scientificamente da numerose osservazioni e non è in contrasto con la fede. La
Bibbia non è una spiegazione scientifica del mondo: è stata scritta da uomini
ispirati da Dio, migliaia di anni fa».

«La vita ha un orologio?»

L’interesse per il dialogo tra
religione e scienza è aumentato negli ultimi decenni con gran soddisfazione
anche delle case editrici, che hanno visto moltiplicare le vendite di libri che
trattano, direttamente o indirettamente, temi metafisici come Il Codice da
Vinci, Harry Potter, Angeli e Demoni
, quest’ultimo parzialmente ambientato
al Ce, ma come afferma Sergio Bertolucci «anche se la prima parte del film è
sostanzialmente inserita al Ce, non un singolo fotogramma è stato girato al centro
di ricerca».

E quando l’argomento trattato è
troppo specifico e professionale per essere dato in pasto al grande pubblico,
ecco che si trovano furbescamente soprannomi fuorvianti, il cui unico scopo è
quello di fare immediata presa sui mass media e pubblicizzare un prodotto
altrimenti troppo di nicchia. La vicenda del bosone di Higgs – il cui
appellativo è stato cambiato dalla casa editrice Houghton Mifflin Company di
Boston dall’originale Goddam Particle («la particella dannata) a God
Particle
(«la particella di Dio») – è un classico esempio di una maldestra
manipolazione della ricerca scientifica che rischia di increspare ulteriormente
le acque tra scienza e religione.

Come ha giustamente scritto il
fisico Vivek Sharma, uno dei protagonisti della ricerca del bosone di Higgs: «Detesto
il nome “particella di Dio”. Non sono particolarmente religioso, ma trovo il
termine offensivo verso coloro che lo sono. Io sperimento la fisica, non Dio».

Ma mettere d’accordo profitto e
verità, si sa, è un po’ come ritirarsi in Texas a insegnare evoluzionismo ai
creazionisti, come si era provocatoriamente prefisso di fare Sheldon Cooper il
protagonista della serie The Big Bang Theory.

Il Ce resta comunque una preziosa
testimonianza di convivenza pacifica tra i vari popoli e, anche chi non è
particolarmente interessato alla fisica, rimane colpito dalla varietà di
culture, lingue, religioni, stili di vita che si intrecciano quotidianamente al
centro.

Si può affermare, in questo caso,
che la scienza è riuscita a compiere ciò che la religione non ha mai fatto:
unire le persone di così tante e varie culture. È pur vero che si parla di
persone particolarmente mature dal punto di vista culturale e motivate
professionalmente, ma le differenze culturali, religiose, politiche se le
portano comunque appresso ed il fatto che vengano smussate è un traguardo
comunque notevole.

«Questo perché la scienza non si
basa sulla fede acquisita, ma su dati di fatto concreti sui quali si è chiamati
a confrontarsi e su cui tutti convergono». spiega Michelangelo Mangano. «Un
esempio sono gli studenti palestinesi che lavorano al Ce, i quali sono pagati
da borse di studio di fondazioni israeliane. Inoltre ai vari esperimenti
lavorano assieme americani e iraniani, musulmani e ebrei, cattolici e ortodossi».

Un centro non solo di fisica,
quindi, ma anche di sviluppo di cultura umana per cercare di rispondere
all’eterna domanda senza risposta: che cosa è la vita? Una risposta l’ha
tentata la poetessa Raquel Lanseros una dei sei poeti dell’Accademia mondiale
di poesia invitati al Ce per comporre opere ispirate all’infinitamente
piccolo e all’infinitamente grande: «Un giorno nel futuro, in un posto
qualsiasi, un uomo solitario guarderà verso i cieli. Proprio come migliaia e
milioni di anni prima (se “prima” e “dopo” esistono veramente). La vita ha un
orologio? O è la vita il motore dell’orologio?».

Piergiorgio
Pescali


Piergiorgio Pescali




Un sogno da bambini

Ho visto una recita. Una storia di
Natale, interpretata da bambini di un asilo multietnico.
C’è Giuseppe, il falegname che mette tutto il suo impegno a martellare un
chiodo ostinato a non entrare. Un Giuseppe pieno di attenzioni, con un bastone
in mano, troppo lungo per lui, alla guida di un asino bambino, troppo piccolo
per portare qualcuno. Giuseppe accompagna la moglie incinta tra il rifiuto
gridato degli osti e lo sguardo cipiglioso di soldatini altrimenti sorridenti
nelle loro scintillanti uniformi.

Maria è una bambina bellissima, piena di dignità, cosciente del suo
ruolo nei bei vestiti di seta e con il velo azzurro splendente. Certo, Maria
deve essere bellissima.

In un angolo, attorno a un fuoco di carta rossa, fanno finta di
dormire i pastori e anche gli agnelli bambino, mentre entrano gli angeli,
saltellanti come passeri, le alucce posticce, per annunciare loro la nascita
del piccolo Gesù a Betlemme.

E subito Gesù entra in scena, correndo leggero nella sua bella
tunichetta di seta bianca e con una corona dorata sul capo. Un Gesù un po’
birichino, che sorride a tutti mentre affettuosamente gratta le orecchie della
pecora bambino che ha abbandonato il suo capo su di lui.

Di colpo la musica cambia. Arrivano tre carovane: una dall’Africa, una
dall’Asia, una dall’Europa. Tre re e la loro scorta. Bambini d’ogni popolo e
nazione portano doni al piccolo Gesù. Offrono frutta, dolci, cibo, tamburi e
musica e tanti sorrisi di innocenza.

E accade il miracolo. Gli osti aprono il cuore. I soldati depongono le
armi. I pastori offrono la loro buona volontà. I re s’inginocchiano davanti a
un bambino, re del mondo, in un pellegrinaggio di pace. Sono davvero di paesi,
razze e lingue diversi, uniti da un unico cuore, semplice, giornioso e innocente.
Bambini capaci di rendere vero un sogno d’amore.

Era solo una recita di Natale, solo un teatrino dei piccoli.
Ho desiderato fosse il teatro dei grandi.
Ho sperato fosse la storia di oggi.
Ho sognato tanto che gli adulti diventino di nuovo bambini.
Buon Natale!

In cauda venenum.
Il 23 ottobre scorso, su La Stampa a pag. 22, un articolo a tutta pagina
conclude così: «In Africa oggi non c’è bisogno di missionari ma di giustizia
sociale». Tale frase ha fatto saltare la mosca al naso a un vecchio missionario
che mi ha segnalato la perla. Ho cercato l’articolo, l’ho letto e l’ho trovato
buono. Quasi tutto, eccetto il finale. Che l’Africa abbia bisogno di giustizia
sociale è verissimo, ma affermare – anche solo implicitamente – che i
missionari sono l’opposto di essa, è una grande ingiustizia e un’offesa
gratuita. Da molto tempo ormai i missionari sono tutt’altro dal buonismo
consolatore che insega alla gente a sopportare anche le violenze più grandi con
rassegnazione. Anzi, questo l’hanno fatto solo nella letteratura faziosa di un
certo laicismo di moda. Ché? I missionari si farebbero ammazzare in nome di una
carità pelosa? «L’impegno per l’Africa non va visto come carità pelosa:
si tratta di semplice restituzione», è scritto nella penultima frase
dell’articolo. L’ultima è quella già citata. In cauda venenum. Così
dicevano gli antichi, «il veleno (è) nella coda».

Dispiace che per promuovere le proprie iniziative qualcuno ceda alla
tentazione di denigrare quelle degli altri. Se scegliere di vivere in mezzo ai
più poveri del mondo condividendo con loro l’insicurezza, i pericoli, le
malattie, il cibo e anche il cimitero è carità pelosa, lo lascio giudicare a
voi.

Benvengano imprenditori, finanzieri, industriali e politici che si
impegnano in Africa coscienti di dover «restituire» a un continente derubato da
tempi immemorabili (Indiani, Arabi, Egiziani e Romani derubavano il Continente
nero ben prima di Cristo!). Sarebbe solo giustizia. Per questo non c’è bisogno
di opporre giustizia e missionari. Anzi, forse sarebbe il caso di andare a
leggere quanto i missionari, da un paio di secoli in qua, hanno scritto e
continuano a scrivere sulla dignità dell’Africa, i diritti dei popoli,
l’esigenza di giustizia e il dovere di riparazione.

Ancora Buon Natale a tutti voi e grazie di cuore
per il vostro affetto e sostegno alle nostre missioni.

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Gigi Anataloni